Recensione di Angela Guidotti, “Manzoni teatrale. Le tragedie di Manzoni tra dibattito europeo e fortuna italiana”

Author di Massimo Colella

Il percorso delineato da Angela Guidotti nel suo volume dedicato al teatro manzoniano è un percorso di attento riavvicinamento alla specificità del rapporto di Alessandro Manzoni con la questione del tragico nel doppio versante della theorésis e della práxis. Un percorso di rilettura della genesi delle tragedie manzoniane avvertita e indagata in un ambito ben più vasto di quello di un’interiorità in cammino “conversionale”, quell’ambito che già il sottotitolo ben individua e identifica nel «dibattito europeo» (alla «fortuna italiana» è dedicata, invece, l’ultima sezione del contributo). Un percorso di cui, guardando al panorama bibliografico pregresso, si avvertiva tutta la necessità e l’urgenza per una ridefinizione, finalmente scevra di pregiudizi anche ad esempio relativi al genere, dei caratteri dei testi tragici manzoniani.

Come illustra l’autrice nella Premessa (pp. 5-12), lo studio si pone in netta antitesi con quella tipologia di lavori critici, pur «recenti e autorevoli», che insistono esclusivamente sulla dimensione “cristiana” della tragedia manzoniana, il cui protagonista non sarebbe che una figura Christi connotata dalla rassegnazione nei confronti del proprio sacrificio a seguito dell’ineluttabile e provvido tradimento. Questi studi, oggetto della pars destruens del ragionamento dell’autrice, individuano in altri termini «l’elemento chiave per un’analisi della produzione drammaturgica manzoniana nel suo complesso» nella conversione dello scrittore al cattolicesimo, realizzatasi, com’è noto, poco prima della stesura della prima tragedia; non riescono a intravedere altre finalità dell’operazione manzoniana oltre a quella religiosa; e addirittura pensano a un Manzoni «completamente disinteressato all’aspetto drammaturgico se non in quanto luogo della propria visione cristiana dell’esistenza».

Di contro a queste ricerche, che vedono tra l’altro lo scrittore come «rassegnato ad abbandonare il suo interesse per un genere, la tragedia, destinato comunque ad essere soppiantato da altre forme sceniche, prima fra tutte il dramma borghese» e tendono a considerare i testi tragici come semplici tappe di avvicinamento al romanzo, testi in cui Manzoni, inteso come «epigono del genere tragico», si distanzierebbe da questo genere mediante il «distacco dall’eroico» e l’avvicinamento a una «misura del quotidiano» (pp. 5-6), il volume vuole essere, sulla base di un’ipotesi che nasce dal contatto ravvicinato con i testi e dalla ricostruzione del contesto storico-culturale in cui quei testi sono stati concepiti e realizzati, una splendida smentita di questo approccio che, ad un tempo, semplifica e distorce il complesso significato attribuito dallo scrittore alla propria produzione drammatica; vuole essere, ed è, una splendida smentita perché la costruzione del lavoro di ricerca – la pars construens, per l’appunto – è incentrata su una ri-costruzione raffinata e riuscitissima del clima europeo in cui si inscrive e si colloca (e che in larga parte “giustifica”) la genesi della produzione drammaturgica manzoniana; tutt’altro che racchiuse nello stretto ambito della storia idiosincratica di un’anima convertita, le tragedie, tradotte, discusse, ammirate (si pensi ad esempio a Goethe), si rivelano essere immerse in un ampio dibattito di respiro internazionale. Esse, ben lontane dal poter essere appiattite su una lettura esclusivamente cristologica, mostrano in questo modo le loro complesse radici, in cui si intersecano «la giovanile formazione sui classici» e «la conoscenza delle idee illuministe», oltre che «l’incontro con le nuove istanze romantiche», senza contare poi l’attenzione manzoniana nei confronti degli eventi contemporanei, italiani ed europei (soprattutto in riferimento alla «condizione in continuo mutamento della Francia post-rivoluzionaria» e ai «fermenti patriottici della penisola»). È in questa prospettiva che si riesce finalmente a ben comprendere l’interesse dello scrittore per le discussioni inerenti al problema del tragico che infiammavano i circoli culturali francesi e tedeschi, per la funzione patriottico-divulgativa assunta dal teatro “recitato” all’indomani della Rivoluzione Francese, per il problema della ricezione della messinscena da parte del pubblico e per quello, ad esso intimamente connesso, della moralità delle opere tragiche (pp. 6-7).

L’obiettivo dello studio è, dunque, quello di inquadrare la questione del tragico manzoniano nell’ampio scenario della storia nazionale e internazionale perché «soltanto attraverso un ripensamento forte anche a quanto accade intorno a lui e non solo dentro di lui si può spiegare la tensione che accompagna la stagione compositiva a ridosso del romanzo» (pp. 7-8, corsivo nel testo); in questo senso, la questione risorgimentale è fondamentale: la tragedia non è da Manzoni intesa soltanto come luogo di rinnovamento letterario di un genere, ma anche come spazio di una complessa elaborazione ideologica; pertanto, se il teatro giacobino, muovendosi nel solco, talora anche stravolto, della tragedia alfieriana, era connotato da un’esaltazione della lotta alla tirannide che però si risolveva in un coinvolgimento emotivo generico, incapace di costituire per lo spettatore uno stimolo di riflessione sulla propria identità e sull’unificazione del popolo italiano, la tragedia manzoniana, chiamandosi fuori dalla retorica astratta e dai toni alti della declamazione, punta a un pubblico che, giudice della messinscena, può essere condotto a un’auto-chiarificazione in merito al proprio ruolo sociale e al proprio destino storico e politico (p. 8).

Il rapporto instaurato da Manzoni con la tragedia si scopre essere, dunque, altamente significativo nel fuoco incrociato della «riflessione teorica» e delle «prove concrete»: un rapporto significativo anche nel momento del distacco, se è vero che l’abbozzo di Spartaco dimostra sin dalla scelta dell’argomento una sua importanza; un rapporto significativo che travalica di molto «l’indubbio valore poetico» tradizionalmente riconosciuto al teatro manzoniano in quanto vede lo scrittore nient’affatto «estraneo alla complessità del genere drammaturgico in quanto tale» e nient’affatto «dedito ad una scrittura esclusivamente letteraria», ma anzi molto impegnato sul fronte delle riflessioni teoriche «sul teatro come genere, sulla sua funzione, sulla sua stessa configurazione»; di particolare interesse in questo senso sono i cosiddetti Materiali estetici, che comprendono anche quanto poi è organicamente confluito nella Prefazione al Conte di Carmagnola e nella Lettre à M. C*** (pp. 8-9).

È impossibile pensare, spiega l’autrice, che la scelta manzoniana di scrivere tragedie sia ascrivibile a una consuetudine letteraria e alla volontà di segnare la fine di un genere per poi dedicarsi ad altri interessi maggiormente connessi alla propria poetica; non è plausibile ritenere che lo scrittore pensasse ai testi tragici, nella cui composizione e stesura si impegnò invece così intensamente, come a puri esercizi letterari, destinati, nel complesso dei generi drammaturgici, all’estinzione; in realtà, il lavoro teorico manzoniano testimonia l’«interesse vivo per il genere teatrale e tragico in particolare», l’interesse per un dibattito internazionale e per un contesto storico-culturale in cui la grande fioritura europea di testi tragici dimostra che il teatro tragico era considerato un genere tutt’altro che secondario (pp. 10-11).

La fine del Manzoni “teatrale” non va ascritta, pertanto, alle motivazioni individuate dalla storia degli studi (tra cui, ad esempio, il suo presunto disinteresse per il genere), ma al desiderio, inteso come dovere, di inserirsi in un contesto tutto italiano per contribuire alla fondazione della nuova Italia, libera, cattolica e sovrana. Manzoni sceglie di proseguire lungo la via del romanzo e di abbandonare il terzo soggetto tragico, dopo aver espresso alcuni dubbi all’amico Fauriel sull’opzione da compiere (si veda la lettera del 3 ottobre 1821: «après je me mettrai à mon roman, où à une tragédie de Spartacus, selon que je me trouverai plus disposé à l’un de deux travaux»; A. Manzoni, Tutte le lettere, a cura di Cesare Arieti, con un’aggiunta di lettere inedite o disperse a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 1986, p. 249), perché sceglie di rinunciare alla veste di autore internazionale che lo aveva contraddistinto sino a quel momento e di assumere, invece, quella di un autore impegnato nel processo di formazione del nuovo stato unitario italiano. Il «grande spirito europeo» (la definizione è continiana: G. Contini, Alessandro Manzoni, in Id., Letteratura italiana del Risorgimento [1986], Milano, Rizzoli, 2011, p. 633) diviene quindi uno «scrittore italiano» «a pieno titolo» (scriveva Contini: «scrittore popolare»: ibidem), che comprende che il progetto politico e culturale dei tempi necessita di mezzi culturali meno elitari della tragedia, anche di quella basata sull’exemplum di una romanità in cui si preannuncia l’anelito dei popoli alla liberazione e all’auto-determinazione (pp. 11-12).

Il complesso lavoro di Angela Guidotti si snoda, a partire dalla Premessa, in quattordici capitoli seguiti da alcune sintetiche Conclusioni e corredati di un utilissimo Indice dei nomi (pp. 215-219). I capitoli sviluppano con notevole acribia scientifica il tema del Manzoni “teatrale”, analizzato nella prospettiva di cui si è detto, slargandosi anche verso notazioni altrettanto preziose su una serie di questioni che travalicano l’assunto principale, pur essendo di fatto connesse intimamente ad esso («non sono fra le meno squisite» direi con il Contini delle Implicazioni leopardiane [1947], in Id., Varianti e altra linguistica, Milano, Einaudi, 1970, pp. 41-52: p. 41 le «osservazioni» che l’autrice «rifugge sottilmente in nota»).

In particolare, nel primo capitolo, Testo e messinscena. La concezione manzoniana del teatro (pp. 13-30), è notevole la riflessione relativa all’influsso sulle tragedie manzoniane, da un lato, della funzione pedagogica del teatro giacobino e dell’impegno, ad esempio, di Francesco Saverio Salfi alla costruzione di un teatro inteso come mezzo privilegiato di educazione popolare alla fede rivoluzionaria (un teatro da cui nondimeno Manzoni tende anche a distanziarsi in molteplici aspetti: in primis, come si accennava, il teatro manzoniano vuole essere un teatro non solo «didattico», ma anche «propositivo»); dall’altro, della «conoscenza diretta delle maggiori correnti culturali europee» resa possibile dai «soggiorni parigini» che consentono allo scrittore, in particolare, di conoscere ed apprezzare il dramma romantico, dalle radici shakespeariane, in opposizione alla tragedia classica e alle sue unità crono-spaziali aristotelicamente determinate. È notevole, altresì, l’indagine sull’«atteggiamento di Manzoni nei confronti del teatro nella sua complessità di esiti, l’uno di opera letteraria e l’altro di evento agìto», un’indagine che prosegue, per così dire, una linea argomentativa già avviata da Guidotti, ad esempio nell’Introduzione (pp. 7-18) del suo volume Scrittura, gestualità, immagine. La novella e le sue trasformazioni visive (Pisa, ETS, 2007), a proposito della doppia consistenza (testuale e spettacolare) del genere teatrale: per quanto concerne l’atteggiamento manzoniano, la ricerca, che si basa su un’attenta ricostruzione storica, in cui spicca la documentazione relativa al consenso dello scrittore alla recitazione dell’intero Adelchi da parte di un celebre attore iscritto alla Giovine Italia, Gustavo Modena, perviene ad esiti totalmente differenti dal giudizio tradizionale di disinteresse manzoniano nei confronti della messinscena e di non «teatrabilità» delle tragedie, giungendo alla comprensione profonda e non contraddittoria del fatto che «per Manzoni l’idea di “voler prescindere” dallo spettacolo non significa negarne l’opportunità, ma piuttosto considerare l’evento come verificabile ma non assolutamente necessario, svincolando così il concetto di messinscena dalla sua imprescindibilità senza per questo disconoscerne la valenza» (p. 29).

Il secondo capitolo, L’approdo ad un’idea di teatro dai Materiali estetici alla Lettre. Il ruolo di Shakespeare (pp. 31-53), analizza con finezza di dettagli e sguardo intelligente l’evoluzione del pensiero manzoniano relativo alla ridefinizione del tragico, che passa attraverso la lettura e la meditazione dei testi shakespeariani, connesse tra l’altro alla riflessione sulla questione della moralità dell’arte (altamente significativa l’individuazione dell’eliminazione di un esplicito riferimento al teatro inglese e a Shakespeare nel passaggio da un appunto dei Materiali estetici alla Prefazione al Carmagnola del 1820, e della parziale ricomparsa carsica di tale riferimento in una nota a piè di pagina dell’edizione del 1845). Nel capitolo, in continuità con il primo (il testo è segnato da numerose continuità che travalicano le suddivisioni testuali, caratterizzato com’è da una profonda unità d’ispirazione di ricerca), emerge ad esempio anche una puntualizzazione relativa all’attenzione manzoniana alla componente della messinscena («l’autore lascia emergere un punto di vista molto attento alla componente spettacolare sia che si tratti di giustificare la trasgressione di norme tutte dalla parte di chi scrive e poco o niente dalla parte di chi guarda, sia che si tratti di rifiutare la messinscena di un suo testo proprio per la paura di incorrere in un giudizio negativo non da parte di critici letterari ma di un pubblico eterogeneo», p. 50).

Lo studio di Guidotti prosegue poi, nel terzo capitolo, La prima tragedia: ambientazione e debito con Alfieri (pp. 54-69), concentrandosi sull’influsso della tragedia alfieriana su quella manzoniana, riscontrato ad esempio nei caratteri della scenografia del Carmagnola: se nella prima stesura della tragedia le calli e i campielli della città lagunare erano proposti allo sguardo del pubblico come luogo degli incontri, nella versione definitiva essi scompaiono del tutto, cosicché di Venezia non resta la «fisica», ma la «metafisica» (Gilberto Lonardi, Il Carmagnola, Venezia e il «potere ingiusto», in Manzoni, Venezia e il Veneto, a cura di Vittore Branca, Ettore Caccia, Cesare Galimberti, Firenze, Olschki, 1976, pp. 19-41: p. 27). L’autrice giustamente nota: «Se il testo trascende sia il contesto storico che l’ambientazione geografica, esso diviene […] metafora del potere ingiusto. In questo atteggiamento nei confronti di una scenografia labile per non dire assente sembra potersi riconoscere un debito alla tragedia alfieriana piuttosto che a quella protoromantica. È in Alfieri infatti che la scena tende a rendere pretestuosa l’ambientazione per mettere in evidenza i conflitti del potere, qualunque esso sia, pubblico o privato, a siglare l’universalità del motivo dell’ingiustizia» (pp. 57-58).

L’affascinante processo di elaborazione della tipologia del Carmagnola inteso non tanto come innocente sacrificato quanto piuttosto come “eroe mezzano” è al centro del quarto capitolo, Il personaggio protagonista. La sua costruzione (pp. 70-81), in cui, a partire da una rilettura delle relazioni tra Manzoni e Goethe, anche biograficamente verificate (si pensi al particolare del dono manzoniano al grande tedesco di un esemplare di lusso dell’Adelchi con una dedica tratta dall’Egmont), l’autrice perviene alla sicura determinazione del quadro delle affinità tra l’Egmont dell’omonima tragedia goethiana e il Conte manzoniano («Entrambi […] vivono un forte conflitto fra Stato e individuo, sia esso rappresentato da un sovrano assoluto o invece da un potente signore. In entrambi i casi ci si trova di fronte ad un personaggio “mezzano”, non del tutto innocente né del tutto colpevole nel suo modo di comportarsi, secondo la definizione tecnica in ambito tragico. Nessuno dei due comprende a pieno la situazione e, fidandosi delle proprie capacità, entrambi finiscono per scontare il loro atteggiamento spavaldo», p. 75; entrambi, in definitiva, subiscono una metamorfosi in cui all’«eroe dell’azione» subentra il «protagonista di una sorta di catarsi interiore», p. 73) e al rifiuto di categorie cristologiche per l’interpretazione del personaggio («La remissività finale del Carmagnola è coerente con il personaggio: egli non pretende di essere figura Christi, ma rifiuta un tipo di morte infamante per un militare», p. 79). Da segnalare l’efficace originalità della connessione della «conversione» del Conte al sofferto percorso manzoniano verso la fede (si tratta di un ampliamento del quadro motivazionale della tragedia fissato da Lonardi alla sola «prospettiva di critica» dell’intera storia italiana e di «ogni potere che si fondi machiavellianamente […] sull’utile», Lonardi, Il Carmagnola, Venezia e il «potere ingiusto», art. cit., p. 34), con il suggestivo riferimento ad una comunanza psicologico-spirituale tra il profilo del Conte e quello che di sé il Manzoni tracciava in un sonetto giovanile del 1801 (senza dimenticare gli influssi delle Confessiones agostiniane, cap. VII, 2 e sgg., relativi al percorso dalla praesumptio e dall’orgoglio tipici della filosofia classica alla confessio e all’autoumiliazione connotanti la dimensione della conversione cristiana).

Strettamente connesso al quarto è il quinto capitolo, Gli altri personaggi della tragedia (pp. 82-88), in cui continua la riflessione sulla costruzione manzoniana di una tragedia «moderna» in cui il personaggio è «destinato a compiere un percorso interiore che ne modifica l’atteggiamento nei confronti dell’esistenza senza tradire la sua anima di combattente, di eroe», p. 84 (se per Giulio Bollati – Le tragedie di Alessandro Manzoni. Prefazione ad A. Manzoni, Tragedie, Torino, Einaudi, 1965, pp. VII-XXIX: p. XXIV – Manzoni colloca «fin dal principio l’eroe nella schiera degli oppressi e degli sconfitti», per l’autrice il gesto del Carmagnola che «passa dalla ribellione alla necessità dell’abbandono alla sorte non come atto passivo, ma, al contrario, di forte impegno speculativo» non costituisce il ribaltamento della volontà combattiva dell’eroe classico e la sua violenta battaglia interiore è interpretabile non come «resa», ma come «presa di coscienza», pp. 86-87), e si fa forte il rilievo dell’assoluto protagonismo del Carmagnola che «concede agli altri uno spazio ristretto anche dal punto di vista scenico». Se Filippo Visconti è addirittura assente da ogni consistenza scenica, l’amico fidato Marco scompare a metà tragedia e l’antagonista Marino è portavoce convenzionale dell’esercizio del potere; tali personaggi, afferma l’autrice, «servono, come anche altre presenze ancora più evanescenti, a mostrare le sfaccettature caratteriali del Carmagnola, vivono dentro il suo percorso tragico» (p. 84, corsivo nel testo). In particolare Guidotti dimostra persuasivamente che la soluzione manzoniana relativa alla marginalità scenica degli «altri personaggi» deriva dalla volontà di indagare le ripercussioni del loro profilo e del loro operato nella meditazione del Conte e di “costruirli”; pertanto, in funzione dell’evoluzione interiore del Carmagnola. In altri termini, «Uomini e fatti finiscono filtrati dalle riflessioni del protagonista, confluiscono nell’elaborazione tipologica dello spessore interiore del personaggio» (p. 84): ad esempio, l’operato di Marco risulta al Conte incomprensibile, ed egli si convince che esso fa parte di un superiore disegno, individualmente inconoscibile; Visconti, poi, «ancor prima e ancor di più degli altri, appare emblema del Destino umano, della stessa incomprensibilità degli accadimenti, ciò che spesso costringe gli uomini a reagire con l’emotività piuttosto che con la ragione» (pp. 84-85).

La ricerca dell’autrice inizia a occuparsi specificamente della seconda tragedia nel sesto capitolo, La seconda prova tragica. Adelchi e il nuovo studio manzoniano sui personaggi (pp. 89-96): l’Adelchi è interpretata come una tragedia maggiormente articolata rispetto al Carmagnola («l’intera tragedia segna un arricchimento complessivo a tutti i livelli, dai personaggi alle tematiche e all’intreccio, cosa che dimostra il forte impegno manzoniano nella costruzione di una tragedia più articolata sotto diversi punti di vista rispetto alla precedente», p. 90), in cui il «dissidio» è «familiare oltre che istituzionale» (ibidem) e in cui, anzi, il rilievo concesso alle tensioni interne alla famiglia può essere interpretato come un’ulteriore connessione alla tragedia alfieriana («Alfieri aveva infatti esasperato proprio l’aspetto privato degli scontri fra personaggi, con un processo di sottrazione nei confronti dei loro ruoli pubblici. Manzoni, pur ponendosi come fine precipuo quello di ricollocare la Storia al centro dell’attenzione, finisce in questo caso per prediligere la messa a fuoco dei legami affettivi, talvolta armonici, più sovente conflittuali, per i quali il contesto storico costituisce solo il motivo scatenante», p. 91). Dopo essersi soffermato con lucidità e intelligenza critica sulle due varianti storiche anacronistiche dichiarate da Manzoni, il discorso si chiude su un significativo confronto (pp. 95-96) tra il personaggio del Carmagnola, inteso nella sua metamorfosi da uno stato di inquietudine all’accettazione del proprio destino, e quello di Adelchi, inteso non come vittima passiva (Bollati) o sacrificale (Lonardi), ma come l’«eroe che non si ribella né al padre né alla sorte» e il cui «fortissimo senso di responsabilità» determina la «sofferenza interna» (e non un’«ambiguità») di fronte alle scelte, come nel caso della scena in cui gli si prospetta l’ipotesi del suicidio.

Ed è sul tema del suicidio che si apre, con un procedimento caratterizzante il volume secondo una tecnica di scrittura che ricorda, potremmo dire, le provenzali coblas capfinidas (continuità testuali evidenti dal punto di vista della dispositio che si sommano a quelle che pertengono al piano dell’inventio, contribuendo, le une e le altre, all’articolazione di un discorso critico superbamente coerente in cui tout se tient), il settimo capitolo, Adelchi, Amleto e la Storia (pp. 97-114), in cui il monologo di Adelchi che accarezza l’idea del suicidio è sottilmente analizzato in relazione alla drammatizzazione del motivo nelle tragedie alfieriane e soprattutto alla celebre scena shakespeariana dell’Amleto, III, 1; rispetto al precedente shakespeariano sono rilevate soprattutto, più che talune affinità, le numerose divergenze (tra cui, ad esempio, le differenti motivazioni che conducono all’indugio sul suicidio, che per Amleto rappresenterebbe una strada di liberazione esistenziale e per Adelchi la risposta impulsiva di sdegno e di disprezzo nei confronti della dichiarazione di resa al nemico: se per il personaggio shakespeariano il timore della morte «rende codardi» e induce a non suicidarsi, per quello manzoniano l’atto vile che rende codardi è il suicidio percepito in opposizione al “naturale” utilizzo della spada da parte di un guerriero nella coraggiosa battaglia). La fitta analisi comparativa, estremamente interessante, che incrocia anche ad esempio il pensiero agostiniano ben noto al Manzoni, può condurre alla constatazione della ricchezza di modelli tenuti presenti, poi originalmente rifusa: «Il ripensamento manzoniano sulla figura dell’eroe tragico dunque sembra avvenire nell’ambito di una complessa riflessione che coinvolge in misura sensibile il pensiero di Sant’Agostino insieme alle letture specifiche di Shakespeare o dei grandi tragici francesi, per poi approdare ad una visione tutta personale che interpreta originalmente le varie istanze» (p. 110).

Oggetto principale dell’ottavo capitolo, Dalla parola dei personaggi alla parola dell’autore (pp. 115-46), in cui pure sono da segnalare alcune pagine sul problema del “tassismo” manzoniano (pp. 116-21), oltre che su quello del rapporto con Racine, è la complessa questione della divaricazione tra il punto di vista dei personaggi e quello dell’autore nelle tragedie manzoniane, in connessione con l’obiettivo di un coinvolgimento non morale, ma emotivo del pubblico e con la funzione caratterizzante il Coro: ad esempio, al «concetto di “intervento divino” a favore di questo o quel contendente», «relegato da Manzoni all’interno del punto di vista dei personaggi» (Adelchi, III, 4, vv. 231-236), si oppone la posizione dell’autore, espressa nel coro, secondo cui «il corso degli eventi segue una sua logica non decifrabile per gli uomini» (primo Coro, vv. 31-33, 55-57, 61-66). E all’atteggiamento folle e disperato di Ermengarda si contrappone quello dell’autore, espresso ancora una volta nel coro, imperniato sulla fede nella «provvida sventura» (IV, Coro, vv. 85-88 e 103-106), concetto di cui Guidotti dimostra persuasivamente l’ascendenza agostiniana (con riferimento alla provvidenziale tempestas teorizzata, mediante la topica metafora nautica, nel De beata vita, cap. I, 2: «Saepe nonnulla in fluxis fortunis calamitas, quasi conatibus eorum adversa tempestas, in optatissimam vitam quietamque compellit»; Agostino, Dialoghi, a cura di Domenico Gentili, Roma, Città Nuova, 1970, pp. 184-85): una fede che, però, Manzoni non riesce a conservare di fronte alla morte della moglie Enrichetta, come argomenta finemente l’autrice mediante l’attenta lettura dell’incompiuta Il Natale del 1883 (1885); il capitolo si distingue anche per la lucida segnalazione di talune sovrapposizioni tra la voce dell’autore e quella del protagonista che fuoriescono, per così dire, dalla norma generale: «Non sempre il procedimento è limpido, così che risulta inevitabile talvolta che la voce dell’autore finisca per sovrapporsi a quella del protagonista, nel personaggio di Adelchi assai più frequentemente che in quello del Carmagnola. Questa sovrapposizione sembra emergere più chiaramente nei momenti di raccoglimento interiore dei due protagonisti, allorché le diversità caratteriali e sociali tendono ad annullarsi nello spazio di una più ampia riflessione sul destino umano in generale» (p. 132).

Dopo la precedente analisi del tema del suicidio, viene affrontato specificamente quello del tradimento nel nono capitolo, I vari aspetti di un tema ricorrente: il tradimento (pp. 147-54), con un’indagine relativa soprattutto alla seconda tragedia e in particolare alle due «figure cardinali» di Guntigi e Svarto, mentre il decimo capitolo, Per una nuova forma di tragedia (pp. 155-60), è volto a una puntualizzazione sul senso globale dell’operazione drammaturgica manzoniana: in particolare, con riferimento al «tragico cristiano» hegeliano analizzato da Peter Szondi (Saggio sul tragico, 1961) e alla nozione hegeliana dalle radici platoniche di «anima bella» (Lo spirito del cristianesimo e il suo destino), l’ipotesi forte è che «Manzoni costruisca un tipo di tragedia che […] si avvicina molto a quest’idea di “tragico cristiano”, che non vanifica […] il concetto di opera teatrale tragica, come si è pensato, per l’assunzione di un eroe passivo, una figura Christi che si arrende alla sorte e ripercorre il Calvario come iterazione e con una uguale precisa finalità, quanto piuttosto in virtù della originale costruzione di un eroe infelice (l’“anima bella”) e cosciente dello scorrere della sua esistenza, nella quale inserisce la morte non come momento di resa e di pacificazione, bensì di consapevolezza estrema di un destino stabilito da lui stesso con il suo comportamento, là dove ha obbedito coerentemente ad un suo ideale etico» (p. 159).

L’importanza della questione risorgimentale nella genesi delle tragedie è evidenziata nell’undicesimo capitolo, Le poesie d’argomento politico come percorso parallelo alle tragedie (pp. 161-67), in cui l’analisi ben condotta della «continuità creativa» tra i testi tragici e le poesie politiche (Aprile 1814, Il proclama di Rimini, Marzo 1821, Il Cinque Maggio) è affiancata dall’evidenziazione del legame che unisce la constatazione manzoniana relativa all’impossibilità strutturale di un protagonismo della moltitudine nel genere tragico, protagonismo invece pienamente realizzato in Marzo 1821 («Così come tradizionalmente costruita […], [la tragedia] richiede la presenza di un individuo che assume su di sé il peso del dramma, schiacciando di fatto ogni possibile protagonismo della moltitudine», p. 165), alla scelta di dedicarsi contemporaneamente da una parte all’elaborazione di un nuovo soggetto tragico, Spartaco, in cui risalta «il tema della moltitudine oppressa che cerca il proprio riscatto attraverso una figura eccezionale uscita dai suoi stessi ranghi» (p. 167), e dall’altra alla prima stesura del romanzo.

Proprio all’abbozzo prosastico Spartaco (l’abbozzo in prosa, rammenta la Guidotti, è il primo atto compositivo del procedimento adottato dall’Alfieri) è consacrato il dodicesimo capitolo, Il commiato dal genere tragico. Il personaggio di Spartaco (pp. 168-84), fondamentale nello sviluppo della tesi dell’autrice: di contro alla storia scritta dalla parte degli eroi, quella di Livio, Sallustio, Plutarco e soprattutto di Charles De Brosses, Charles Rollin e Jean Baptiste Crevier, Manzoni intende attuare un rovesciamento di prospettiva attraverso un racconto visto per la prima volta dalla parte degli oppressi (tra l’altro, assai suggestivo segno di finezza critica, di attenzione al minimo dettaglio letto nell’ampia prospettiva dei percorsi manzoniani di scrittura, risulta essere, a mio avviso, il confronto instaurato tra la dialettica tra l’amore e la Storia quale emerge nell’abbozzo e quella che campeggia nel romanzo: se nella «tragedia in gestazione» il «motivo» dell’«unione affettiva» tra Sàdale e Areta pare voler costituire «un momento di tregua nel panorama dei numerosi scontri», nel romanzo «esso si dilaterà a sostenere, di contro, tutta la vicenda narrata, non più frattura nello spazio della Storia bensì espressione della stessa», pp. 175-76). Assai saggiamente l’opzione manzoniana di un distacco dalla realtà storica della crocifissione di Spartaco è ricondotta all’assenza di un quadro cristologico per i personaggi tragici («Spartaco […] fu crocifisso [corsivo nel testo] insieme ad una moltitudine di compagni. Quale migliore coincidenza dunque per fare del personaggio un’altra e più evidente figura Christi? Invece ecco di nuovo il combattente che per la libertà si sacrifica in battaglia», p. 177). Il capitolo si interroga sulla decisione manzoniana relativa all’abbandono del genere tragico e all’adozione di quello narrativo: il romanzo consente di «uscire dall’ottica del singolo individuo che, se pure appartenente alla classe degli schiavi, finisce ancora una volta per sublimarsi nella figura dell’eroe combattente» (p. 178); permette all’autore di «dilatare notevolmente il proprio ruolo» ben oltre i limiti del Coro e del punto di vista celato alternativamente dietro alcuni personaggi (pp. 178-179); risulta «terreno di sperimentazione più giovane e plasmabile» (p. 181) sotto molti punti di vista (Manzoni non avrebbe potuto modificare ulteriormente i caratteri del genere tragico, già da lui sottoposto al massimo della tensione: forzando oltre, si sarebbero oltrepassati «i confini che delimitano i caratteri essenziali perché un testo possa definirsi teatrale», p. 182); e facilita il recupero della vena ironica che aveva connotato le prime prove manzoniane (ibidem). Ma – ed è un punto focale dell’argomentazione della Guidotti –, se Manzoni chiude «individualmente» «il capitolo del teatro», ciò non significa che lo chiuda «quasi collettivamente per tutta un’epoca»; lo scrittore non è un «epigono» destinato a «siglare la fine della tragedia in senso lato». Anzi, «la produzione manzoniana si distingue più per trasgressione che per continuità con la tradizione precedente ed apre la strada a forme drammaturgiche di altro tipo sotto diversi aspetti, sia tematici che più strettamente tecnici»: caratteri del teatro successivo di evidente ispirazione manzoniana sono «l’assenza quasi totale di coinvolgimento, anche emotivo, da parte del pubblico», «la commistione continua fra sentimento ed eroismo dei personaggi», uno stile espressivo che supera sia lo stile ornato della tradizione che quello alfieriano, franto, scolpito e antiarcadico (ibidem).

Ed è proprio alla fortuna italiana della tragedia manzoniana, come si preannunciava in apertura, che è dedicata l’ultima sezione del volume, ossia il tredicesimo capitolo, Le tragedie manzoniane e il melodramma ottocentesco (pp. 185-97), e il quattordicesimo, La tragedia in Italia dopo Manzoni. Il lascito manzoniano fra teoria e prassi (pp. 198-210), in cui si discute con acutezza critica rispettivamente dell’influenza manzoniana sul melodramma ottocentesco (oltre che della possibile influenza inversa) e di quella sul teatro di prosa sul versante della prassi (il riferimento principale è a La Pia di Carlo Marenco, composta e messa in scena nel 1836, ricca di suggestioni adelchiane) e su quello della teoria (con lo studio dettagliato del saggio di Giuseppe Mazzini Del dramma storico, uscito in rivista nel 1830, che propone Manzoni non come epigono, ma come «capostipite della nuova tragedia», propositiva ed esortativa).

Le Conclusioni (pp. 211-13) indicano sinteticamente il carattere innovativo della produzione drammaturgica manzoniana: «Manzoni drammaturgo […], attento ai nuovi umori europei, sembra voler aprire, più che chiudere, una stagione: quella di una dimensione nuova, di rottura, del nostro teatro rispetto agli epigoni di Alfieri e insieme ai promotori del nuovo dramma borghese». Le tragedie manzoniane non siglano la fine del genere tragico, piuttosto segnalano la possibilità di una nuova tragedia che non consiste in una «reinterpretazione della Via Crucis riscritta da nuove figure chiamate a ripercorrere lo stesso cammino di Cristo, di passione e resurrezione», bensì in un «tragico» molto vicino al «tragico cristiano» che non nega, ma rinnova la precedente concezione di tragico: un «tragico» per la cui costruzione è necessaria la mobilitazione di una straordinaria ricchezza di modelli (la grande poesia latina, francese, shakespeariana e nazionale), difficilmente recuperabile per chi avesse voluto ispirarsi a quei testi tragici; un «tragico» in cui l’«ambiguità» imputata ai personaggi non è che la riscrittura moderna di conflitti pienamente tragici; un «tragico» difficile da mettere in scena sia sul piano della scenografia che su quello recitativo: le compagnie attoriali, infatti, non erano «abituate al livello raggiunto dallo stile manzoniano» (pp. 211-12). Le ultimissime battute del saggio ne riassumono il senso complessivo: le tragedie manzoniane «si propongono come fortemente innovative al momento della loro uscita perché il loro autore assorbe istanze europee che rifiutano ed insieme vanno oltre la stagnazione del panorama italiano di allora, tra suggestioni postrivoluzionarie e conservatorismo dell’ancien régime»; esse danno avvio a un processo trasformativo sia nel campo del teatro di prosa che in quello del melodramma perché «introducono istanze diverse e soprattutto referenti culturali nuovi per un ripensamento teorico del tragico nel suo complesso», e «questo dato – conclude molto opportunamente la Guidotti – non è cancellabile, anche se l’urgenza della storia e della politica spinsero Manzoni a cercare strumenti che gli garantissero un’efficacia più larga e sicura» (p. 213).

Il volume, dunque, va segnalato, per la lucidità dell’analisi puntuale e la portata della ricostruzione complessiva, come strumento di lavoro imprescindibile per chiunque voglia accostarsi con sguardo criticamente fondato alla produzione drammaturgica manzoniana: una produzione che finalmente è restituita alla sua centralità storica e artistica, nazionale ed europea, nel fuoco di un complesso scenario di relazioni, intersezioni e connessioni magistralmente ricostruito. Angela Guidotti ci insegna che, nonostante l’opzione finale per il romanzo, nelle tragedie manzoniane, nei movimenti dei loro eroi continua a vibrare sottilmente tutta la straordinaria avventura di un percorso interiore e ragionativo, che si intreccia originalmente da un lato con il sogno storico-politico risorgimentale e dall’altro con la dimensione europea di un ampio dibattito sul tragico e sulle sue potenzialità, nella prospettiva di un rinnovamento e di una rifondazione del genere. Nelle tragedie manzoniane, in definitiva, vive e si manifesta tutta la straordinaria complessità di un autore votato per definizione al moderno.

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

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