Variazioni bibliche nella poesia femminile del Novecento e oltre

Author di Stefania Segatori

«In poesia il sacro è donna», sostiene Alessandro Zaccuri[1], in occasione della pubblicazione dell’antologia Mille anni di poesia religiosa in Italia[2], evidenziando come continui a perdurare, fin dai tempi del “bisturi crociano”, un pregiudizio acceso da parte della critica nei confronti della letteratura religiosa. Talvolta invisibili nei manuali scolastici e ingiustamente ignorati dalla critica che conta, a questi intellettuali sembra spesso non venir data altra possibilità di interpretazione se non quella dell’etichetta di “scrittori cattolici”[3]. Prendere in considerazione la produzione poetica nella sua dimensione spirituale, scevri da ogni preconcetto, anche fosse una sola parentesi all’interno di un percorso più ampio di uno scrittore, è sempre utile, perché permette di ricostruire un “tempo intero”, di ripercorrere biografie gravide di senso e di valutare fino a che punto l’incontro con la Parola abbia fatto da cassa di risonanza nelle vicende dell’io lirico.

Che sia venatio Dei o quaerere Deum, ricerca del fondamento o fede nella vita, morte o eclissi dell’Altissimo, alcuni poeti non temono il confronto con il mistero, ponendosi all’ascolto di un “volto” che ha la forza dirompente di rivelare la pienezza del tempo, sia essa distanza o alterità, o semplicemente la rappresentazione del sé stesso più autentico. Afferma Luzi che «la poesia agisce secondo una sua necessaria dinamica, che è quella di distruggere la lettera per ripristinare ed espandere lo spirito»[4].

Il medesimo concetto è ripreso da Enzo Bianchi[5]: la poesia è il linguaggio che più di ogni altro sa esprimere la verità, il più adatto a fissare ciò che sfugge al tempo e all’intelletto, ciò che scorre nelle vene e nelle emozioni; la scrittura poetica è atto che avvicina al mistero, è «respiro orante» che colloca le parole tra cielo e terra, rende eterna un’epifania; è il “varco” che fa intendere la morte come qualcosa che non chiude mai definitivamente il conto con la vita. Ed è proprio ciò che la lirica novecentesca, osserva Langella, sa raccontare: «a differenza di quanto era accaduto nella lunga tradizione che va da Dante al Manzoni innografo, il mistero, il dogma, gli articoli del credo, i sacramenti, la mediazione istituzionale, il culto e le pratiche devote […] vi hanno una parte assolutamente marginale, resistono a patto di essere fortemente personalizzate»[6].

Maria Corti tratteggiò la sensibilità di Antonia Pozzi[7], che conobbe negli anni dell’università a Milano, con queste efficaci parole: «Il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi»[8]. Le poetesse approfondite in questa sede, spinte da tensione conoscitiva e angoscia creativa, sono pienamente autentiche nella loro condizione di ricerca[9] e condividono la tenacia di fiorire «ai margini dei crepacci» e «sull’orlo degli abissi», intesi anche come soglia, limite, pertugio, precipizio, ferita, Spaltung[10]. Sono testimoni che abitano lo scarto tra la grandezza divina e la miseria della condizione umana, voci costantemente in ascolto e in attesa, sensibilità capaci di porsi in dialogo e di scandalizzarsi di fronte all’amore[11]. Il Dio cercato e invocato è un Dio tangibile: sa comprendere il tormento di un’umanità ormai sfigurata e smarrita e trascina per tutti il legno pesante dell’esistenza dell’uomo moderno. È un Dio umile e, proprio perché offeso, umiliato e lacerato, sa camminare al fianco delle umane angosce. In altre parole, è il Verbo divenuto corpo, il cielo sbarcato sulla Terra, il fiato impastato con la carne. È in questa condizione di disorientamento, nella peregrinatio, nella vertigine del manque à etre che l’io lirico si apre alla ferita e, quindi, all’incontro: perché la poesia, per dirla ancora con Luzi, finisce un attimo prima della preghiera.

«Bello cadere, quando nervi e carne, voglion farsi anima»: Antonia Pozzi e il profondo sorso nel vivere

I versi di Antonia Pozzi (1912-1938) furono raccolti e pubblicati solo dopo il suicidio. Il diario poetico uscì postumo con il titolo Parole[12], ma la vera fortuna fu sancita dall’edizione prefata da Montale[13]. La Pozzi attinse a piene mani al serbatoio dell’Antico Testamento e alla miniera sapienziale dei Salmi. Gli elementi naturali si caricano di evidenti connotazioni bibliche, come ad esempio l’immagine della montagna nelle liriche Distacco dalle montagne e Alpe. Quest’ultima riprende il motivo della vertigine e della caduta nel momento in cui si raggiunge il massimo dell’altezza; la poetessa, in occasione della sua prima scalata, scrisse il componimento Dolomiti, dal quale traspare il fascino per le vette e la solitudine dell’ascensione[14]:

Sulla parete strapiombante, ho scorto
una chiazza rossastra ed ho creduto
che fosse sangue: erano licheni
piatti ed innocui. Ma io ne ho tremato.
Eppure, folle lampo di tripudio
e saettante verità sarebbero
un volo e un urto ed un vermiglio spruzzo
di vero sangue. Sì, bello morire,
quando la nostra giovinezza arranca
su per la roccia, a conquistare l’alto.
Bello cadere, quando nervi e carne,
pazzi di forza, voglion farsi anima;
[…] allora bello
sopra un masso schiantarsi e luminosa,
certa vita la morte, se non mente
chi dice che qui Dio non è lontano. (Pp. 41-42)

La forza del soffio di vento e la fragilità dell’erba della lirica Prati rimandano a Is 37,27 e 2Re 19,26: «Forse la vita è davvero / quale la scopri nei giorni giovani: / un soffio eterno che cerca / di cielo in cielo / chissà che altezza. / Ma noi siamo come l’erba dei prati / che sente sopra sé passare il vento / e tutta canta nel vento / e sempre vive nel vento» (pp. 92-93). In Preghiera affiora la simbologia dell’acqua, fonte di vita in tutte le Scritture (Sal 42,2-3, Gv 4,10-14, Ap 21,6 e 22,17), rafforzata dal ritornello «Signore, per tutto il mio pianto, / ridammi una stilla di Te / ch’io riviva» (pp. 101-102). In Così sia è evidente il riferimento all’episodio del pellegrino citato in 1Re 13,21-26 (pp. 138-39). Un aggancio ai Vangeli si evidenzia in L’anticamera delle suore, dove il rimando è alla parabola delle dieci vergini (Mt 25,13).

La ricerca della vetta e della luce (ricorsiva la presenza del colore oro) è nella poetessa una domanda ardente e inquieta, la ricerca mai statica di un senso vitale che possa calmare il turbamento interiore; un’ansia di infinito, una tensione ascensionale praticata attraverso l’alpinismo; una sete di bellezza e di autenticità, a caccia di un Dio che non è poi così lontano[15].

«Io vado dietro Colui che sempre cammina»: poesia e vocazione in Elena Bono

Tutta la vicenda personale e artistica di Elena Bono (1921-2014) nasce da una condizione personale d’interrogazione profonda della realtà e da un’intima religiosità[16]. È nel rapporto con il presente, ovvero l’attimo donato all’uomo, che la poetessa intraprende il proprio dialogo con il mistero della vita. Da questa consapevolezza nasce come ispirazione il verso posto ad esergo di tutta la sua produzione poetica, Chiudere gli occhi e guardare: è la discesa nella coscienza, l’ascesa verso il significato, dove riecheggia Gv 21,29. Il ritmo dei versi scorre con una musicalità sorprendente, rafforzata dalla tecnica iterativa; in Sopra un pensiero di Cechov il motivo del fluire del tempo è consolidato dal salmodico verso «passano i giorni» (Salmi 30 e 90). Alzati Orfeo[17] è una silloge che si compone di poesie annodate tra loro da un simbolismo di evidente derivazione biblica[18]. In Tempo è venuto la storia del Figlio di Dio è capace di far avvertire le contraddizioni della società contemporanea:

Tempo è venuto
di vendere la veste
e comprare la spada.
Tempo di fare in pezzi
il proprio cuore
e darne parte a tutti
senza fine […]
È tempo di ferire
ogni vivo nel cuore
e che ognuno si scavi la sua piaga.
E più la piaga grida
più v’è Dio. (P. 252)

La silloge raggiunge gli esiti più alti nella sezione Imitazione di Cristo, che raccoglie composizioni di intensa religiosità, dove vengono rivissute le tappe salienti della Passione, con l’appendice della dormitio Virginis e dell’assunzione in cielo di Maria[19]. La presenza necessaria di Cristo è esplicitata nella lirica Sopra un’imitazione di Cristo: «Anima mia, dove vai, dove vai per gli altissimi monti?» / «Io vado dietro Colui che sempre cammina / e lascia tracce di sangue sopra le nevi» (p. 227). I sentimenti umani della solitudine e dello smarrimento appartengono anche al Figlio di Dio: «Piange col viso nella terra / lacrime e sangue. / Solo» (p. 230). Forte della personale devozione mariana, la poetessa dedica a Maria versi caratterizzati da uno sguardo a infrarossi, da una capacità percettiva di illuminare l’invisibile, di evocare dubbi, rimorsi e ferite della madre di tutti gli uomini e di tutte le madri: «Ed ora è come / quelle lontane notti / che sorridente / dubitosa / ella dormiva ed ascoltava / se dalla stanza accanto / la chiamasse il bambino» (p. 241).

Il realismo autentico affiora nella simbologia cromatica (preminenza del rosso, colore del sacrificio totale[20]) e in alcune affermazioni dure e corporee, perché Cristo è sì un fatto storico, ma è soprattutto un fatto carnale[21]. I motivi portanti della religiosità boniana già vibravano in nuce nella sezione Piccola via crucis di famiglia (pp. 419-28), ricostruzione della propria genealogia privata, puntualmente costellata di riferimenti biblici. Nella sesta stazione la Bono si identifica con la Veronica per aver saputo riconoscere il volto «straziato e adorato»[22]. All’antico Testamento si rifanno le composizioni della sezione Tre profeti (Ultimo salmo di David, Preghiera di Giona nella balena, Canto di Daniele). In altre liriche, è lo stile stesso a ricordare le iterazioni tipiche della formulazione salmodica: così, ad esempio, in Io brucio e non ho tregua nel mio ardore (Es 3,2 e il «fuoco divorante» di Is 33,14) e in L’anima mia ha sete (Salmo 41). Il Pianto del Cristo di Maidanek appare come una dolorosa invocazione, e nell’anafora dell’autrice, «Volgi il viso Israele», rivive nell’immagine dell’agnello sacrificale la tragedia dello sterminio degli ebrei (p. 255).

Imponente è la frequentazione del sacro nella narrativa e nella drammaturgia[23], alle quali si accenna solamente, non essendo il genere letterario prescelto per il presente contributo. Morte di Adamo[24] è il testo dove è maggiormente accusata la presenza di personaggi, citazioni e istanze delle Scritture. Il volume reca l’epigrafe Non la pace, ma la spada (Mt 10,34) e la rappresentazione dei personaggi segue il modello proposto dai quattro Vangeli. Il racconto eponimo, che apre la serie, è l’unico ispirato all’Antico Testamento. Negli altri sette, la Bono amplia aneddoti evangelici e narra le vicende di testimoni minori, sorta di corale di conoscenti indiretti di Gesù[25]. Su accorgimenti minimi, meno noti e meno citati nei testi biblici, la poetessa intesse una trama, perché è nel silenzio della Storia che si può annidare l’invenzione dell’autore, secondo la definizione manzoniana tanto cara all’autrice.

«La Bibbia mi è rimasta dentro»: valori civili e cristiani in Margherita Guidacci

Margherita Guidacci (1921-1992) è stata fortemente legata al cattolicesimo progressista fiorentino degli anni Cinquanta. Ha esordito con La sabbia e l’Angelo, che apre una serie di opere con titolo a binomio (Paglia e polvere, Il vuoto e le forme, Brevi e lunghe, Il buio e lo splendore). La poetessa ha così definito il proprio rapporto con le Sacre Scritture: «La Bibbia è stata per me una delle letture fondamentali, l’ho fatta molto presto nella mia giovinezza e mi è rimasta dentro»[26].

Nell’opera guidacciana sono molteplici i riferimenti biblici, spesso coniugati con gli avvenimenti del quotidiano e le istanze civili a lei contemporanee (il golpe militare in Cile e i desaparecidos o l’attentato terroristico del 2 agosto 1980 a Bologna). La dimensione più profonda è quella che nasce dall’esperienza religiosa intima e soggettiva, «sempre concentrata in una voce che le “ditta dentro” e ch’essa non ha mai imparato a disattendere»[27]. Il motivo ossessivo della morte, dovuto alla scomparsa precoce del padre, e la partecipazione puntuale alle cerimonie religiose, in particolare quelle quaresimali, affiorano nei rimandi apocalittici e profetici, così come nel riuso simbolico delle immagini del cammino e della peregrinazione (l’homo viator classico e cristiano), messi in scena attraverso palesi elementi creaturali (l’acqua, la fiamma, il grido, il legno, la zolla, i solchi) come nella raccolta Giorno dei Santi («l’eternità delle tue acque / contiene il nostro tempo e l’oltrepassa», pp. 89-92). Morte del ricco è un oratorio ispirato alla celebre parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31): qui, come in altre liriche, la poetessa assume lo sguardo del più debole; l’ispirazione è al contempo evangelica e civile[28]. Tratti distintivi della poetica della Guidacci sono le meditazioni corali; il “Tu” allocutorio tipico del sermone profetico; il tema della risurrezione dei morti (titolo biblico ma anche elotiano); le iterazioni enfatiche (ad esempio, il racconto-testimonianza introdotto da «io vidi») che si modulano attorno a due motivi di evidente matrice sacra: l’acqua, intesa come fonte, sete dell’uomo o acqua del diluvio; e il sale con riferimento a Lot (Il sale) o all’elemento evangelico sapiente (A Pàdraig). In Canto dei prigionieri polacchi la poetessa ripropone la lamentatio dei Salmi; l’angelo annunciatore della liberazione appare nel finale della raccolta Il Buio e lo splendore (Giustizia e clemenza del dio); in All’ipotetico lettore l’inquietudine e l’abisso non rappresentano la lontananza da Dio, bensì l’ansia di ritornare a Lui:

Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino. (P. 491)

Nell’introduzione al poemetto civile-religioso L’orologio di Bologna, la Guidacci riferisce di aver seguito il modello dell’Uffizio delle Tenebre e rivela le fonti bibliche ispiratrici: le Lamentazioni e l’Orazione del profeta Geremia in Oratio Prophetae sine nomine; l’immagine di Cristo nell’Orto degli Ulivi e quella del «servo sofferente di Dio» (Is 53); l’episodio di Caino e Abele (Gen 4,1-15). Il motivo del primo fratricidio è riproposto come prima stazione della Via Crucis dell’Umanità. La raccolta, commissionata alla poetessa da padre Massimiliano Rosito, è un’alternanza di voci tragiche e di speranza (Kolbe, Gandhi, M. L. King, Kennedy) e ripercorre alcune delle stragi più cruente della storia dell’uomo: da Erode alla bomba atomica, non dimenticando i genocidi degli Incas, degli Indios e degli ebrei. A chiusura delle quattordici stazioni, ve ne è una aggiuntiva dedicata alla resurrezione di Cristo, l’unico che «morendo ha distrutto la morte» (p. 375).

«Fra pietra e pietra corre un filo di sangue»: il colloquio con l’Assente nell’interiorità redenta di Cristina Campo

L’ispirazione di Cristina Campo (1923-1977), pseudonimo di Vittoria Guerrini, affonda in radici classiche e bibliche e si nutre di segni, di simboli e di una quotidiana «liturgia del gesto». L’esperienza in prima persona della malattia (difetto cardiaco) ne segnò profondamente l’iter poetico e spirituale: l’amore per la vita includeva inevitabilmente per lei anche il patire e l’agonia. È nella pratica e nella poetica della traduzione che la poetessa allena il corpo a corpo con la parola, mot à mot, in un’affinità costante con gli autori tradotti che influenzarono non poco la sua produzione lirica (Simone Weil, John Donne, Hofmannsthal, Herbert, Juan de la Cruz e l’amato Thomas Eliot). Un realismo figurale, uno stile nudo, una parola caricata al massimo del suo significato: «ci occorre sempre un simbolo concreto per afferrare un’idea come si afferra un pezzo di pane ‒ ma non è mai il simbolo che potremmo supporre, quello calzante e perfetto ‒ ma un’altra cosa che indica obliquamente, a una cert’ora propizia», scrive la Campo in una lettera del 25 luglio 1956[29].

È nella sezione Poesie sparse di La Tigre Assenza che è possibile rinvenire riferimenti plurimi alle scritture. Nell’Elegia di Portland Road, la poetessa rievoca il roveto ardente dell’Esodo, tra i simboli più potenti ed enigmatici della manifestazione di Dio agli uomini, la fiamma che brucia ma non si riduce a cenere:

[…] Io vado sotto le nubi, tra ciliegi
così leggeri che già sono quasi assenti.
Che cosa non è quasi assente tranne me,
da così poco morta, fiamma libera?

(E al centro del roveto riavvampano i vivi
nel riso, nello splendore, come tu li ricordi
come tu ancora li implori) (P. 40)

L’immagine torna anche in Missa Romana, dove è il calice stesso a diventare rovente, perché «il Calvario teologale penetra nel roveto crepitante dei millenni» e i rimandi si fanno più fitti: le sacre piaghe, le palme trapassate, la radice di Jesse, la pietra angolare, i serpenti, il pasto mortale. Ma ardente nella poetica campiana è soprattutto il dialogo costante con Dio, caratterizzato da domande angosciose e radicali, interrogativi necessari per accedere al mistero. Nel testo eponimo della Tigre Assenza, l’io orante ricalca la modulazione salmodica di invocazione, sia grido che canto, dove il topos dell’assenza e della memoria dei genitori è reso con l’insolita personificazione di una tigre. Quello della Campo è un credere fermo alla parola, che tramuta «il sangue in lacrime» (p. 22). Le liriche sono disseminate di rimandi biblici: il vitello grasso, la lirica Emmaus, la piscina di Siloe, la via di Damasco, il «Calice che non è dato durante i cinquanta giorni», il monte Tabor, l’igùmeno Isacco, Ireneo e la Divina Veronica (pp. 28-53). Il binomio sangue-acqua è una delle costanti della poetica campiana. Nella Bibbia il sangue è vita (Lev 17,11) e il sangue di Cristo «è più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24) perché annuncia la venuta di Dio, sorgente inesauribile di nuova vita:

Poiché dove tu passi è Samarcanda,
e sciolgono i silenzi tappeti di respiri,
consumano i grani dell’ansia ‒

e attento: fra pietra e pietra corre un filo di sangue,
là dove giunge il tuo piede. (P. 26)

Ora è sparsa l’acqua della vita
e tutta la lunga scala
è da ricominciare.

T’ho barattato, amore, con parole.
Buio miele che odori
dentro diafani vasi
sotto mille e seicento anni di lava ‒

ti riconoscerò dall’immortale
silenzio. (P. 27)

In Ràdonitza la Campo rievoca con un linguaggio fortemente cromatico la Passione di Cristo e la memoria eterna della Pasqua. Negli ultimi anni la poetessa si dedicò allo studio dei mistici e della tradizione liturgica del cristianesimo, cattolico romano e orientale. La lirica Diario bizantino è intrisa di riferimenti ai riti della Chiesa cristiana d’Oriente, nello specifico la bizantina-slava. Dalla Weil aveva ripreso la forza dei silenzi, quel movimento di canto gregoriano ritmato da profonde pause e laceranti riprese. È negli interstizi di quei silenzi, negli «altari vuoti», nelle assenze che la Campo rinnova il proprio canto di addio (un addio che mai si compie in maniera definitiva secondo la Resurrezione) che si fa preghiera e rende immortale la relazione («Tu, Assente che bisogna amare… / termine che ci sfuggi e che c’insegui», p. 32). La ricerca continua del fondamento trasfigura l’assenza in presenza significativa; l’incontro ferisce e testimonia una presenza viva, salda una relazione che si manifesta attraverso i simboli eucaristici: «O Coppa dei Misteri che bolle e non trabocca, / come il tuo sangue» (p. 50). In Sindbad è biblica la certezza della venuta della mezzanotte (Mt 25,6), mentre, in epigrafe al saggio Attenzione e poesia, la poetessa cita il Vangelo di Filippo: «La verità non può venire al mondo nuda anzi è venuta nei simboli e nelle figure»[30].

«Jesù che gridi. Jesù che scrivi»: variazioni bibliche nella poetica di Amelia Rosselli

Poetessa e notoriamente figlia dello storico e politico antifascista Carlo Rosselli, Amelia Rosselli (1930-1996) ebbe una formazione cosmopolita e plurilingue che la avvicinò alle esperienze europee (poesia anglosassone e surrealismo francese). Ebrea per parte di padre, cristiana e buddista per parte di madre, in lei convivono molte lingue e molte religioni. Gli studi musicali contribuirono a caratterizzare la sua scrittura, prosodicamente composta e ritmata su parole-contenitore che racchiudono sentimenti di vuoto, un manque-à-être che denota una profonda ricerca della parola perspicua e pregnante.

Nella raccolta Libellula. Panegirico della Libertà, il nome di Gesù è invocato in una supplica dolente e qui, come altrove, la poetessa si mette in dialogo con l’esistenza stessa: «Ed io non so cosa cerco […] Sento / gli angioli chiamarmi alla pietà, al suo lato / destro, dolce, rotta, stanca […] Jesù che gridi. Jesù /che scrivi. Jesù che maledici»[31]. In Variazioni Belliche (1964) il procedimento anaforico e iterativo di alcuni passi ricorda l’incedere salmodico, e si riscontrano alcune allusioni cristologiche («spine mortali», «ultimo sospiro», «veste di Sposo», «Unica Cena») e alla città di Gerusalemme («città vuota, città piena, città che blandisci i dolori»). Il rapporto rosselliano con Cristo è vissuto al di fuori di ogni ortodossia cattolica. La religiosità della poetessa si colloca nella dimensione della solitudine, in particolare in quella del Redentore che ha sofferto la Passione: «Il Cristo trainava (sotto della sua ombrella) (la sua croce) un / informe materiale […] Il Cristo deformava il mondo in mille maniere, catacombe delle lacrime […] le tue dita sporcate di terriccio» (p. 117). La condizione esistenziale si manifesta come una continua ricerca di «un alfabeto che non trovo», invoca un Dio che esca dalle sue mura di cinta, un contatto che vada oltre il risveglio mattutino (cfr. p. 101). Così anche in Documento, dove i sentimenti oscillano tra la confidenza e il dubbio: «Ho vinto solo il vizio / di strapparmi la fede / a contatto con il mio regno di improvvise / somministrazioni di dubbi / il mio senso di continuità a singhiozzo» (p. 338).

Nella poetica della Rosselli vi è una continua intertestualità, una dialettica tra testo citante e testo alluso. In Serie ospedaliera il Calvario è riproposto nella descrizione di «[settanta pezzenti e una camicia che si rompeva]», mentre le «serpi che correggono / quest’idillio nascente» rimandano all’Eden. Il dialogo con il Cristo della Passione si fa diretto e sfacciato nella lirica Il Cristo (Pasqua 1971): «Perché morendo ci fai venir a festa? Semmai / era l’altro lato che andava premiato / e tu non rifiutasti quel cibo acerbo / vinaigre di festa e botte sulle spalle» (p. 493). In Diario in tre lingue, infine, è possibile scorgere nella deformazione di alcuni nomi propri dei riferimenti all’onomastica biblica: «Marionlot» o Zio Nello trasformato in «sionel»[32].

«Io che l’ho seguito senza mai parlare»: Alda Merini discepola dell’attesa e del pianto

Poetessa dalla forte e intensa personalità, oscillante tra una carnalità tutta terrena e una tensione costante verso l’Assoluto, Alda Merini (1931-2009) ha guardato alle Sacre Scritture, lettura praticata con piacere e regolarità, come a un pozzo inesauribile di sapienza. Segnata profondamente dall’esperienza dell’internamento, la poetessa dei Navigli riunisce nella Terra Santa quaranta liriche intorno al tema del manicomio, che associa metaforicamente alla Terra Santa (per cui, ad esempio, le mura dell’ospedale psichiatrico evocano quelle di Gerico) e, in particolare, all’esodo del popolo eletto. La raccolta è costruita su un sistema preciso di confronti tra l’esperienza dei malati e quella degli ebrei in cammino nel deserto. La fitta rete di rimandi contempla, fra l’altro, il monte Sinai (od Oreb) e il fiume Giordano, il profeta Giona, la schiavitù in Egitto (Es 3,1-22), le tavole dei dieci comandamenti (Es 19; 20,1-21), Aronne consolatore e guida del popolo; né mancano proiezioni evangeliche al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, alla parabola della zizzania (Mt 13,24-30) e alla crocefissione, adombrata nella pratica costrittiva dell’elettrochoc. Anche dal punto di vista metrico, la raccolta riprende alcuni stilemi tipici del dettato biblico: la lingua realistica e piana, la carica analogica, il ritmo percussivo, la forte presenza di procedimenti iterativi e anaforici, l’uso del parallelismo dei membri che rievocano lo stile orale della scrittura biblica[33].

Nella trilogia Corpo d’amore. Un incontro con Gesù, Magnificat. Un incontro con Maria e Poema della croce, riunita ora nel volume Mistica d’amore[34], le Scritture e segnatamente i Vangeli vengono ampiamente rivisitati dallo sguardo passionale della poetessa. Il dialogo, a tratti dolce a tratti sofferto, con Cristo sorregge la prima raccolta («Io che l’ho seguito senza mai parlare / e sono diventata una discepola dell’attesa del pianto, / io ti posso parlare di Lui», p. 5), dove già si insiste sul motivo del sacrificio di Cristo. Corpo d’amore raccoglie i versi di un’innamorata alla ricerca del proprio amato, «un disegno astratto / uno che vola come un aquilone / uno che manda manciate di sale» (p. 9), riconducibile a Ct 4, 16. Il volto di Dio, ispirandosi al Salmo 27, è costantemente cercato e si rivela in quello «sudato», «battuto», «vilipeso» di un trentenne crocifisso, «volto spento che suda sangue e preghiere» su di un legno «che ha messo radici in tutto il mondo» (Mistica d’amore, p. 220).

A unire la prima e l’ultima raccolta è specialmente il Vangelo di Giovanni. Gesù è «corpo» d’amore e il verbo “mangiare” sottolinea appunto che Dio è carne e che si giunge al mistero passando per il corpo: «la mia carne flagellata / diventerà un boccone per coloro / che hanno fame e sete di giustizia» (p. 224). Dio si è reso visibile; è stato visto, udito, «gustato» (Eb 6,5). In entrambe le sillogi, la Merini tratteggia, anche con la velocità di un verso, altre figure-chiave dei Vangeli (la Veronica, Pietro, Giuda). Ripresa quasi fedelmente anche l’immagine giovannea (19,26) delle figure che stanno ai piedi della croce: «Ti lascio Giovanni, Maria, / sarà il tuo figlio prediletto» (p. 224). La poetessa ripercorre tutti gli eventi salienti della vita di Cristo: dall’annunciazione alla visitazione; dall’infanzia all’adolescenza, sempre accostate alla tenerezza di Maria e Giuseppe («Era il mistero di quella casa / dove entravano clamorosamente il sole / la felicità e la sacra divina pazienza», p. 174); dal Battista, insidiato da Erodiade, ai dodici apostoli, fino alle ultime angosciose ore: «E piansi nell’orto del Getsemani tutta la passione della mia carne. Piansi lacrime e sangue sul genere umano» (p. 181).

Ma il filo conduttore che annoda tutte le meditazioni d’ispirazione religiosa della Merini è senza dubbio la figura di Maria, descritta nel Magnificat in tutta la sua umana fragilità di fronte al mistero. Maria è testimone obbediente del disegno di Dio, sa che quel Figlio non le appartiene, così come narrato da Luca nell’episodio di Gesù dodicenne al Tempio (nella Merini l’episodio è ricordato da Gesù stesso). La fanciulla scelta da Dio è la coprotagonista del mistero dell’incarnazione, è il sogno di Dio («e sei stata anche il sogno di un grande poeta, perché Dio, quando si è addormentato, ha sognato Maria», p. 120). La voce della Vergine si fa protagonista e la poetessa attua così un rovesciamento delle parti rispetto a Lc 1,51-54: «Io sono colei / che sconfiggerà la superbia, / l’ingiustizia […] Dio ha mandato me / come un agnello, / come manderà mio Figlio» (p. 80). È grazie al “sì” dell’ancilla Domini che si realizza il “sì” della croce. Il fiat di Maria, «piedistallo della croce», sancisce la morte del Salvatore: «E Maria disse il suo sì / e non capì che stava baciando / la bocca della morte» (p. 102). Sarà la croce a riunire i due prescelti dal Signore: «Madre e Figlio completamente sconosciuti a se stessi vennero in quel momento partoriti nell’alveo del Creatore» (Poema della croce, p. 104). Quella della Merini è una croce tutta materna e il dittico Cristo-Vergine è la chiave di lettura di tutta la sua poetica. Nell’ultimo volume della trilogia, il sacrificio del novello Isacco sul palcoscenico del Golgota è ripresentato sul calco dei passi evangelici: «Ed ecco il teatro magnifico della crocifissione, / in cui Dio crocifigge il Figlio / e lo dimostra a tutti» (p. 88). Riaffiora così la testimonianza di Gb 19,26. Il corpo esulta, nonostante lo strazio della croce. Questo insegna Maria: «Egli è vivo, / è vivo, / lo grida la mia carne di madre […] Cristo non è mai nato, / Cristo non è mai morto» (Magnificat, pp. 90-91).

Si ricordano, infine, le opere Tu sei Pietro, raccolta d’amore non corrisposto, ricca di richiami evangelici nella prima sezione, e il Cantico dei Vangeli (2006), dove la Merini rappresenta alcune delle figure centrali della vita di Cristo (Maria, Pietro, Giovanni, la Maddalena, Giuda), attraverso liriche che assumono il carattere di commenti, di note a margine ai passi evangelici posti a fronte.

«I buchi dei chiodi freschi me li fai toccare?». La poesia di Franca Grisoni tra canto e preghiera

Franca Grisoni (1945), lettrice attenta delle Sacre Scritture, scrive poesie nel dialetto di Sirmione, lingua della semplicità e dell’immediatezza che contribuisce significativamente a creare piccoli sacrari domestici, dove si scorgono i segni cifrati di una misteriosa presenza. Il canzoniere grisoniano è la storia di un’anima in ascolto e «la poesia diventa la forma di una segreta preghiera»[35]. La sua poesia nasce dalla lettura profonda del Libro sacro, dagli interrogativi che ne scaturiscono, dalla condizione quotidiana di un’anima in cerca che, nel tema dell’assenza dell’Amato, ricorda i versi della Campo («grande è ciò che arriva / senza chiamarsi», p. 105).

Seppur inizialmente celati, si intravedono alcuni riferimenti biblici nel motivo del lago e della riva («C’è da attraversare / Senza vedere la sponda», p. 392), che va necessariamente oltrepassata se si vuole saziare l’ansia di conoscere (Gs 3,8 ed Ez 47,12). In Ura è evocata l’immagine del padrone che ritorna («Ma quando viene / il mio padrone a prendere tutto?», p. 189). Nel piccolo Eden della Giardiniera, la Grisoni muove da una personale tensione conoscitiva, ma va alla ricerca di un mistero superiore. La raccolta si apre con un rimando al Cantico dei Cantici (8,6), testo biblico che permea l’intera poetica grisoniana (soprattutto nel motivo della “chiamata”, che si manifesta nell’utilizzo di un campo lessicale ben definito e ad esso collegato: il fiato, la voce, la bocca, il respiro)[36].

La conversione, nata dal dolore ma operata dalla poesia, è evidente nella raccolta Fiat, dove i versi rievocano il miracolo di Tabgha e il Venerdì santo. L’ouverture è affidata a Franco Loi («Ha un nome l’amore?») e la promessa della venuta anima la vigile attesa, mentre mani indaffarate si occupano di cose materiali (si avverte l’eco di Lc 10,38-42 e dell’episodio delle due sorelle di Lazzaro). Ma è in Passiù che la poetessa si pone davvero sotto la croce, ora nella figura di Maria di Magdala ora di Nicodemo ora del giovane ricco, e attinge alla fonte del Golgota come ispirazione per l’intero oratorio. La via crucis grisoniana si apre con la Vergine in attesa della nascita di Gesù, già consapevole della tragica fine e, quindi, compartecipe della sofferenza della croce. Ritroviamo anche Giuda, mentre riassapora il ricordo delle ceste: «Quante briciole di fame / ne faccio così tante… Mi ricordano le ceste / un giorno, sul lago: per quanti avevi abbondato… / perché Tu abbondi / Tu capace a dividere e a moltiplicare / e che buono quel giorno il tuo pane»[37]. In questa versione della Passione, accanto a Gesù non ci sono i due ladroni, ma un ladrone e una ladrona. L’esperienza della malattia, come accesso al mistero, e il dolore, come strumento conoscitivo, sono i motivi dell’Ös, dove ancora bruciano le piaghe del Figlio di Dio in croce: «i buchi dei chiodi freschi / me li fai toccare?»[38]. Di soggetto interamente cristologico e mariano sono, infine, le dodici liriche raccolte in Crus d’amur[39].

«Prendimi e mangiami: questo è il mio corpo»: eros e lutto nella poetica di Patrizia Valduga

Patrizia Valduga (1953) è tra le voci poetiche femminili più originali della poesia italiana contemporanea. Muovendosi dentro perimetri metrici ben definiti, che spaziano dalla quartina all’ottava, dal sonetto al madrigale, la sua musa si contraddistingue per il manierismo erotico-luttuoso e per il ricorso ossessivo alle forme chiuse della tradizione lirica[40]. I motivi biblici ripresi dalla Valduga riguardano la figura di Cristo e la crocifissione[41]; la religiosità è sempre sensuale, carnale e costantemente sottesa.

Nella Tentazione la morte rappresenta una preziosa occasione per accedere a una dimensione di comunione con Dio. Compare un richiamo ai chiodi e alla corona di spine («e poi di vermi ti dipinge e spalma / li conficca come file di chiodi / tra spine e chiodi l’una e l’altra palma», p. 158). In Medicamenta e altri medicamenta la poetessa riporta celebri affermazioni di Gesù («In verità, in verità ti dico») e rielabora alcuni passaggi dell’Eucaristia («Mentre il tuo dio ti mangi e bevi vino»). Il richiamo all’ultima Cena è presente anche in Quartine. Seconda centuria: «Prendimi e mangiami: questo è il mio corpo. / Bevi tutto il mio sangue: sia il tuo vino» (p. 81). In Donna di dolori si riscontrano echi biblici nel gesto di lavarsi le mani, nel numero settantasette, nel «luogo detto cranio» (Prima antologia, p. 26). Il verso «Io sono l’uomo che… / non può restare» (p. 22) allude alla venuta del Dio fatto uomo. Ricorre, inoltre, il tema dell’eterna e vigile attesa, della «veglia di notte da venire» (p. 14). Nel Carteggio che accompagna la Prima antologia vengono nominati Judith e Oloferne, la cui vicenda è narrata nel libro di Giuditta, mentre in Corsia degli incurabili riecheggiano in apertura i primi versetti dell’Ave Maria e vi è un richiamo a Qoèlet («figli di vanità del tempo vano», p. 76). Si ricorda, infine, inserito in Cento quartine, il testo monologato Erodiade.

In Requiem, la Valduga si rivolge a Dio durante i giorni della malattia del padre affinché lo salvi. Le suppliche “gridate” nelle ottave XIV e XX rinviano al Pater noster e al Salmo 141: «Padre nostro liberalo dal male, / oh, fa’ presto, liberalo dal male!» (p. 18). Nell’ottava XXIII, il verso «la morte, si vince con la vita…» rimanda alla Resurrezione (p. 27), mentre l’ottava XXVI si apre con l’invocazione «O cantico dei cantici, ti canto» (p. 30). Nel Libro delle laudi, la poetessa implora frequentemente Dio e il suo potere onnipotente di guarigione, attraverso distici intervallati da ampi spazi bianchi che ricordano il tono dei versetti salmistici («Signore della morte e della vita», «Signore di ogni tempo di ogni vita», «Mio Dio, mio Dio, Signore dell’amore», «oh Dio della pietà, mostra pietà», «Risòrgilo, Signore dei risorti»). I versi «Ma, Signore, ti prego: la Parola! / Di’ la parola e lui sarà guarito» rimandano a Mt 8,5-9 (p. 20).

  1. Cfr. l’URL: https://www.avvenire.it/agora/pagine/sacr-f0191d7a046447559e5cd1114147383f.
  2. Cfr. D. Marcheschi, Mille anni di poesia religiosa in Italia, Bologna, EDB, 2017. Questa preziosa antologia va ad affiancarsi alla Poesia religiosa italiana allestita da F. Ulivi e M. Savini (Casale Monferrato, Piemme, 1994) e al più recente volume Poesia religiosa del Novecento, a cura di M. L. Doglio e C. Delcorno (Bologna, Il Mulino, 2016). Segnalo, infine, i contributi di N. De Giovanni sulla figura di Maria nella letteratura d’Italia e di Cristo nella letteratura d’Italia della Libreria Editrice Vaticana (rispettivamente 2009 e 2010). 
  3. Sulla poetica religiosa del Novecento, cfr. M. Uffreduzzi, Poeti italiani di ispirazione cristiana del No­vecento, Genova, Sabatelli, 1979; B. Forte, Dio nel Novecento, Brescia, Morcelliana, 1998; L. Pozzoli, Immagini di Dio nel Novecento: Gesù, lo Spirito e il Padre nella letteratura contemporanea, Milano, Paoline, 1999; E. Bianchi, Poesie di Dio. Itinerario spirituale nel Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1999.
  4. M. Luzi, Esperienza poetica ed esperienza religiosa, in Enciclopedia delle religioni, vol. IV, Firenze, Vallecchi, 1972, pp. 1675-76.
  5. Osserva Enzo Bianchi: «La ricerca del divino che attraversa la letteratura italiana in questo secolo, allora, è un quaerere Deum che ha mutato prospettiva, in cui lo sguardo non è più teso a un irraggiungibile cielo, bensì a quell’abisso che si è toccato e di cui si è forse raschiato il fondo. È in tale abisso che la santità di Dio ha preso dimora, anche nella testimonianza della poesia» (E. Bianchi, Poesie di Dio, op. cit., p. XIV).
  6. G. Langella (a cura di), Il nomade e il cielo. Un secolo di poesia religiosa, in «Poesia», 186, 2004, p. 47.
  7. «La poesia ‒ sosteneva Antonia Pozzi ‒ ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare»: A. Pozzi, L’età delle parole è finita, a cura di A. Cenni, O. Dino, Milano, Archinto, 2002, p. 127: lettera a Tullio Gadenz, Milano, 11 gennaio 1933.
  8. La citazione di Maria Corti è ripresa da G. De Marco, Dal portico della morte alle Parole come vita, in «Testo», a. XXI, n. 39, n. s., gennaio-giugno 2000, pp. 89-111.
  9. Il presente contributo nasce dall’idea di raggruppare le indagini effettuate per la stesura di alcune voci enciclopediche del Dizionario biblico della letteratura italiana (a cura di P. Frare, G. Frasso e G. Langella, Milano, ITL, 2018). L’opera, duecentosettanta voci e all’incirca centocinquanta redattori, mi ha visto impegnata nella stesura delle voci enciclopediche di alcune delle maggiori poetesse del Novecento: Elena Bono, Cristina Campo, Franca Grisoni, Margherita Guidacci, Alda Merini, Antonia Pozzi, Amelia Rosselli e Patrizia Valduga. Dopo pochi mesi, sono scaturite due importanti occasioni: un’intervista per la trasmissione TGR Petrarca (Rai3) con la giornalista Donatella Negri, registrata presso “Casa Merini” a Milano (puntata del 20 aprile 2019 disponibile su RaiPlay), e un intervento all’interno della manifestazione milanese di BookCity (Letteratura senza Parola? Echi della Sacra Scrittura in opere e autori con Marco Ballarini, Alessandro Zaccuri, Giuseppe Frasso e Stefania Segatori, moderatore Edoardo Buroni, Biblioteca Ambrosiana, Milano, 15 novembre 2019).
  10. La suggestione del termine viene da J. Moltmann, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Brescia, Queriniana, 1973 (2013).
  11. Vengono in mente ancora una volta le affermazioni del Priore della Comunità di Bose, secondo il quale «la poesia è Richtung, “direzione”, indicazione di libertà e di vita, perché il poeta è anzitutto un testimone della libertà radicale dell’uomo, dove radicale non significa assoluta, bensì dimorante nelle profondità più misteriose dell’intimo umano, nelle quali ha origine la capacità di pensare la vita e il suo opposto. Dove possono compiersi scelte più autentiche, ma anche insorgere i dubbi più insostenibili» (E. Bianchi, Introduzione, in Id., Poesie di Dio, op. cit., pp. V-XVI).
  12. A. Pozzi, Tutte le opere, a cura di A. Cenni, Milano, Garzanti, 2009. Si rimanda anche a: C. Annoni, Chiarismo e linea lombarda: “Parole” di Antonia Pozzi, in Id., Capitoli sul Novecento, Milano, Vita e Pensiero, 1990, pp. 200-19; C. Dobner, All’altra riva, ai prati del sole: l’immaginario di Dio in Antonia Pozzi, Genova-Milano, Marietti, 2008; G. Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Milano, Àncora, 2012; M. Vecchio, Perché la poesia ha questo compito sublime. Antonia Pozzi. Otto studi, Borgomanero (NO), Giuliano Ladolfi Editore, 2013.
  13. A. Pozzi, Parole: diario di poesia, Milano, Mondadori, 1948. Il volume è disponibile online su Liber Liber e le citazioni nel testo sono tratte da questa edizione.
  14. Cfr. M. Dalla Torre, Antonia Pozzi e la montagna, prefazione di O. Dino, Milano, Àncora, 2022.
  15. Cfr. T. Altea, Antonia Pozzi: se Dio non è lontano, disponibile online al seguente link: https://riviste.unimi.it/index.php/MdE/article/download/11239/10629.
  16. La raccolta I galli notturni inaugura la sua carriera e fissa già alcuni dei fulcri centrali della poetica della scrittrice ligure d’adozione: il motivo del tempo che passa; la poetica dello sguardo, strettamente correlata alla poetica dell’attimo; l’empatia con la natura; il ricordo e la memoria; la sacralità della parola. Cfr. E. Bono, I galli notturni, Milano, Garzanti, 1952. Si rimanda a E. Bono, Poesie. Opera Omnia, a cura di E. Gioanola, Recco, Le Mani, 2007 e alla recente antologia Chiudere gli occhi e guardare. Cento poesie per cento anni, scelta antologica e prefazione di S. Segatori, F. Marchitti e S. Guidi, Milano, Ares, 2021. Le citazioni nel testo sono tratte dal volume curato da Gioanola.
  17. E. Bono, Alzati Orfeo, Milano, Garzanti, 1958.
  18. Le poesie che più accusano riusi biblici sono Gesù mio scrigno d’oro, Gesù stanco viandante, Il giovane Re viene dal monte dei cedri, Lo schiavo negro è legato alla catena e Tempo è venuto.
  19. Le liriche sono La fine dell’ultima cena, Gesù entra nell’orto, Gesù nell’orto, E un angelo gli apparve dal cielo a confortarlo, Flagellazione e incoronazione, Maria Maddalena, Delirio e pianto di Maria, Corale all’alba di sabato santo, Cristo in Emmaus, Ecco già la fanciulla, Morte di Maria, Per l’assunzione di Maria.
  20. Cfr. A. Sciffo, Il cuore rosso, verde, oro: la lirica cardiaca di Elena Bono, in L. Casella, D. Cerrato (a cura di), “Le nevi del Fujiyama”. La via della catarsi. Studi critici su Elena Bono, Roma, Aracne, 2013, pp. 77-91.
  21. Così lo ritrae la poetessa nelle sue ultime ore di vita (si tratta della poesia Gesù entra nell’orto): «La carne è stanca. / Gli uomini non vegliano con me. / Voi grandi alberi / che sempre parlate col vento, / notturni uccelli / che non dormite, / notte che accogli nel grembo / tutte le cose / vegliate con me, / non mi lasciate. / Non lasciatemi solo col mio cuore» (E. Bono, Alzati Orfeo, op. cit., p. 118).
  22. La lirica più lunga della sezione è di fatto un mini-racconto; la scrittrice apre una parentesi sulla vita della Veronica, ne riporta i sentimenti più intimi, ne descrive meticolosamente la scena con un linguaggio che non risparmia le atrocità della situazione in fieri. Si sofferma, così come darà abilmente prova nei racconti evangelici, su un momento, su uno sguardo, su un’azione, capace di aprire una sincope dove è possibile respirare il mistero di ciò che accade («Rientrata in casa, lei svolge quel panno di lino e con sacro / terrore / vede quel volto continuare a versare lacrime e sangue», p. 422).
  23. La drammaturgia boniana riattualizza la tragica fine di Giovanni Battista nel dramma in tre atti La testa del Profeta (Milano, Garzanti, 1965) e la parabola del figliol prodigo in Storia di un padre e di due figli. Sere in Emmaus (Recco, Le Mani, 2008).
  24. E. Bono, Morte di Adamo: racconti, Milano, Garzanti, 1956. Si ricordano le più recenti riedizioni: E. Bono, La moglie del Procuratore, prefazione di A. Torno, postfazione di S. Segatori, Genova, Marietti, 2015; E. Bono, Morte di Adamo e altri racconti, prefazione di A. Banfi, postfazione di S. Segatori e F. Marchitti, Genova, Marietti, 2016.
  25. Questi i titoli dei racconti: Morte di Adamo, Piccolo Abi, La figlia di Giairo, La suocera di Pietro, Il centurione, La moglie del Procuratore, Guardia al sepolcro, Una lettera dalla Giudea. La moglie del Procuratore, incentrato sul tormento interiore di Claudia Serena Procula, moglie di Ponzio Pilato, è il plot più lungo e complesso del capolavoro boniano. L’autrice allude al celebre sogno di Claudia e al messaggio che mandò al marito chiedendogli di non condannare a morte il Nazareno (Mt 27,19). L’evolversi di quel sogno è oggetto di confronto, in una notte romana stranamente innevata, tra la vedova di Pilato e Seneca. In un dialogo delicato e intimo, ma inevitabilmente tormentato, la domanda Quid est veritas? («c’è stata semplicemente una domanda lasciata in eredità», dice Claudia) è ripetuta come un ritornello, nitido e martellante, acuto ma sempre uguale, un «tarlo salutare che sbriciola dall’interno le grandi impalcature, le torri di Babele e gli intrighi dei politicanti che ‒ ancora oggi ‒ attraversano la storia» (G. Meiattini, La discrezione di Dio in un libro di Elena Bono, in Id., La discrezione di Dio. Spunti dal Novecento letterario, Noci, La Scala, 2011, pp. 132-64).
  26. M. Guidacci, Prose e interviste, a cura di I. Rabatti, Pistoia, C.R.T., 1999, pp. 126-31. Le citazioni nel testo sono tratte da M. Guidacci, Le poesie, a cura di M. Del Serra, Firenze, Le Lettere, 2010. Di seguito, la bibliografia visionata per la presente ricerca: M. Pieracci Harwell, L’opera di Margherita Guidacci, in Ead., Un cristiano senza Chiesa e altri saggi, Roma, Studium, 1991, pp. 151-96; G. Mazzanti, Tra pienezza e declino. L’esperienza poetica e religiosa di Margherita Guidacci, in G. Ladolfi, M. Merlin (a cura di), Il sacro nella poesia contemporanea, Novara, Interlinea, 2000, pp. 91-100; M. Del Serra, Le foglie della Sibilla. Scritti su Margherita Guidacci, Roma, Studium, 2005; Aa.Vv., M. Guidacci. Preghiere per la notte dell’anima, Panzano in Chianti, Edizioni Feeria ‒ Comunità di San Leolino, 2019.
  27. I. Alighiero Chiusano, L’umile anticonformismo, in «L’Osservatore Romano», 19 ottobre 1986.
  28. Si rimanda a G. Langella, Margherita Guidacci: poesia come profezia, disponibile online all’URL: https://it.pearson.com/aree-disciplinari/italiano/approfondimenti-disciplinari/margherita-guidacci-poesia-come-profezia.html.
  29. C. Campo, La Tigre Assenza, Milano, Adelphi, 1991, p. 284. Tutte le citazioni nel testo sono tratte da questa edizione. Il titolo di questa sezione richiama il corposo e prezioso volume dedicato alla poetessa edito dalla Comunità di San Leolino (Aa.Vv., Cristina Campo. La via dell’interiorità redenta, Panzano in Chianti, Edizioni Feeria, 2012). Si vedano anche: M. Farnetti, Cristina Campo, Ferrara, Tufani, 1996; C. De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Milano, Adelphi, 2002; M. Pieracci Harwell, Cristina Campo e i suoi amici, Roma, Studium, 2005; M. Marasso, In bianca maglia di ortiche. Per un ritratto di Cristina Campo, Milano, Marietti, 2010; G. Scarca, Nell’oro e nell’azzurro. Poesia della liturgia in Cristina Campo, Milano, Àncora, 2010.
  30. C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 165.
  31. A. Rosselli, L’opera poetica, Milano, Mondadori («I Meridiani»), 2012, p. 206. Le citazioni nel testo sono tratte da questa edizione.
  32. Per un approfondimento sulla vasta e intensa produzione poetica rosselliana, si rimanda a: A. Baldacci, Amelia Rosselli, Roma-Bari, Laterza, 2007; E. Tandello, Amelia Rosselli: la fanciulla e l’infinito, Roma, Donzelli, 2007; F. Carbognin, Le armoniose dissonanze. «Spazio metrico» e intertestualità nella poesia di Amelia Rosselli, Bologna, Gedit, 2008; C. Verbaro (a cura di), “Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo”. Per Amelia Rosselli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008; L. Barile, Avvicinamento alla poesia di Amelia Rosselli, Pisa, Pacini, 2015; S. Giovannuzzi, Amelia Rosselli: biografia e poesia, Novara, Interlinea, 2016.
  33. Si rimanda a S. Assenza, Alda Merini. E la carne si fece canto, in BLI, vol. II, pp. 453-69 e A. Colonnello, Alda Merini la Poetessa dei Navigli, Milano, Meravigli Edizioni, 2014.
  34. Cfr. A. Merini, Corpo d’amore, Milano, Frassinelli, 2001; A. Merini, Mistica d’amore, Milano, Frassinelli, 2009, p. 17; A. Merini, Poema della croce, Milano, Frassinelli, 2004, p. 55. Le citazioni nel testo sono tratte da queste edizioni.
  35. F. Grisoni, Poesie, Brescia, Morcelliana, 2009, p. 11. Le citazioni nel testo sono tratte da questa edizione.
  36. Si rimanda a: P. Carmignani, La poesia di Franca Grisoni. Appunti di lettura, in «Humanitas», LXII, 4, 2007, pp. 781-89; A. Borghesi, La lingua del cuore di Franca Grisoni, in «I Dieci Libri», a cura di A. Belardinelli, II, 2009, pp. 99-110; G. Canobbio, La poesia di Franca Grisoni, in La letteratura e il sacro, op. cit., pp. 281-88; G. Langella, La fiorita dei poeti teologi, in «Polifemo», XI, 2011, pp. 483-514.
  37. F. Grisoni, Passiù, Brescia, L’Obliquo, 2008, p. 35.
  38. F. Grisoni, L’ös, Brescia, L’Obliquo, 2013, p. 60.
  39. F. Grisoni, Croce d’amore: passione in versi ispirata dai capolavori del Romanino, presentazione di G. Langella e nota di F. Larovere, Novara, Interlinea, 2016.
  40. Sull’opera della Valduga, cfr.: L. Baldacci, La parola immedicata, in P. Valduga, Medicamenta e altri medicamenta, Torino, Einaudi, 1989, pp. V-VIII; A. Zorat, Il potere delle parole. Il desiderio e la morte nella poesia di Patrizia Valduga, in Ead., La poesia femminile italiana dagli anni Settanta a oggi. Percorsi di analisi testuale, Tesi di dottorato Université Paris IV Sorbonne-Università degli studi di Trieste, 2009, pp. 313-79; P. Montorfani, Patrizia Valduga, in Id. (a cura di), Canone inverso. Anthology of Contemporary Italian Poetry, Gradiva Publications, Stony Brook, 2014, pp. 305-306.
  41. Queste le opere indagate: P. Valduga, La tentazione, Milano, Crocetti, 1985; Medicamenta e altri medicamenta, op. cit.; Donna di dolori, Milano, Mondadori, 1991; Cento quartine, Torino, Einaudi, 1997; Prima antologia, Torino, Einaudi, 1998; Quartine. Seconda centuria, Torino, Einaudi, 2001; Requiem, Torino, Einaudi, 2002; Libro delle laudi, Torino, Einaudi, 2012. Tutte le citazioni nel testo sono tratte da queste edizioni.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. II)