Un singolare fenomeno psichico: “Profumo” di Luigi Capuana

Author di Dario Stazzone

Nel 1892 Capuana ha pubblicato, per i tipi di Pedone-Lauriel, il suo secondo romanzo, Profumo, già apparso a puntate su «Nuova Antologia». Si tratta di un’opera originale nei contenuti, per quanto ancora incerta nell’organizzazione narrativa[1].

Anche questo romanzo, come Giacinta, tratta di un caso psicologico, ma, mentre l’opera esordiale era incentrata sulla violenza subita dalla protagonista ancora bambina e, di conseguenza, sull’interdetto sociale che l’aveva colpita, qui lo scrittore indaga i complessi rapporti intercorrenti fra tre personaggi, due sposi e la madre del protagonista maschile. Pur tenendo conto delle differenze contenutistiche, stilistiche e strutturali, va messo in evidenza che la ricerca psicologica accomuna le principali opere narrative capuaniane, dal romanzo esordiale all’opera del 1892, fino all’esito più maturo, Il marchese di Roccaverdina, dato alle stampe nel 1901, agli albori del nuovo secolo.

Già gli anni Ottanta dell’Ottocento, seppure caratterizzati dalla pubblicazione dei maggiori capolavori naturalisti, veristi e verghiani, erano attraversati da istanze e inquietudini che investivano il panorama letterario europeo. Questa temperie era percepita con vibratile intelligenza da Capuana. Delle proposizioni naturaliste, del resto, l’autore, impegnato a percorrere la via che avrebbe dovuto dare all’Italia un nuovo romanzo, aveva assimilato ciò che sentiva più vicino: del realismo zoliano aveva posto ai margini la questione sociale, facendo suo lo scavo psicologico; dell’opera di Balzac aveva assimilato l’indagine della passione amorosa.

Lo scrittore si era sempre tenuto lontano dal determinismo tainiano che rappresentava l’individuo come l’esito necessario del condizionamento ambientale. Del metodo positivo Capuana aveva, invece, valorizzato l’inclinazione all’analitica psicologica, senza rinunciare alle ambientazioni mondane che si adattavano bene all’orizzonte d’attesa dell’epoca.

Proprio negli anni Ottanta dell’Ottocento, accanto a indiscussi capolavori del Naturalismo come Nanà, Germinal e Le roman expérimental di Zola, Philosophie de l’art di Taine o Une vie di Maupassant, poeti, narratori o filosofi come Verlaine, Nietzsche e D’Annunzio pubblicavano alcune delle loro opere più note. Nel 1884, peraltro, veniva dato alle stampe À rebours di Joris Karl Huysmans con la sua analisi della nevrosi e della psicosi, e soprattutto, nel 1883, gli Essais de psycologie contemporaine di Paul Bourget. Queste opere contribuivano a determinare il superamento del determinismo positivista e trovavano una chiara eco nella ricerca di Capuana che, allontanandosi dalle posizioni espresse nella raccolta di saggi Per l’arte[2], si dedicava al nuovo romanzo Profumo, in cui viene rappresentata un’anomalia psicologica che evolve in singolari esiti patologici. Ripensando la triangolazione del romanzo borghese, lo scrittore è riuscito a trasformare il consueto dramma della gelosia in un dramma dell’interiorità, non esente da implicazioni edipiche, descrivendone gli effetti sul rapporto di coppia e tracciando, con singolare capacità introspettiva, la figura di una madre castrante. È questo un aspetto dell’opera del 1892 da mettere in evidenza anche per i tratti precorritori e le intuizioni che anticipano i postulati della psicoanalisi freudiana.

Una singolare triangolazione

In Profumo Capuana rimodula con originalità lo schema della triangolazione borghese, incentrata sul tradimento adulterino. È questa la fabula del capolavoro flaubertiano, Madame Bovary. Moeurs de province, un romanzo che nelle pagine conclusive giunge a descrivere la “morte impura” della protagonista, suicidatasi ingerendo l’arsenico, una triste conclusione, antitetica alla “bella morte” romantica, che viene rappresentata attraverso le potenzialità distanzianti del discorso indiretto libero. Capuana sottrae la sua opera all’esito tragico e ripensa con radicalità lo schema triangolare. In Profumo non vi è spazio per amanti come Léon Dupuis o Rodolphe Boulanger. Lo scrittore mantiene, invece, l’ambientazione provinciale dell’opera e l’estrazione piccolo borghese dei suoi personaggi. Solo per qualche momento si affaccia una minaccia esterna alla coppia, il giovane Ruggiero coi suoi tentativi seduttivi destinati a fallire. L’interesse di Capuana è essenzialmente introspettivo e concentrato sul rapporto coniugale.

Questo, in sintesi, è il contenuto di Profumo: Patrizio Moro-Lanza è sposato con la giovane Eugenia, ma la loro vita matrimoniale è complicata dalla presenza ossessiva e ingombrante di Gertrude, la madre di Patrizio che è morbosamente legata al figlio. La causa delle sofferenze della coppia non è, dunque, da ricondurre a una presenza “esterna”, ma alle sottili implicazioni che distorcono le relazioni fra i tre: gli aspetti edipici che legano Patrizio a Gertrude, la funzione castrante della madre che rifiuta Eugenia con sconcertante determinazione e le sofferenze nervose della giovane donna, una condizione patologica che rinvia circolarmente a quella del marito.

Capuana pone grande attenzione nel tracciare i moventi psicologici di ogni personaggio e le cause dei loro comportamenti. Patrizio è divenuto precocemente orfano di padre, ed è stato dunque privato di un riferimento maschile positivo, ma soprattutto l’improvviso lutto ha travolto l’economia familiare, causando ulteriori sofferenze alla madre. Il narratore si sofferma sull’opera crudele degli uomini che eseguono il pignoramento dei beni attraverso la rimemorazione del protagonista, riproponendo le inquietudini e gli interrogativi del fanciullo. Date queste premesse, si capisce bene perché Gertrude, rimasta sola, priva di aiuto parentale, provata dalla vita e dalla necessità economica, ormai anziana e malata, si sia legata morbosamente al figlio, e si comprende come la raggiunta serenità economica assuma per Patrizio il significato di una rivalsa sociale. Anche Eugenia ha scelto per sposo un impiegato statale costretto ai continui cambiamenti di sede: ha dunque lasciato la famiglia d’origine e le precedenti amicizie dandosi totalmente all’uomo amato, nonostante le perplessità dei genitori. Di conseguenza, le incomprensioni coniugali determinano in lei un radicale e angoscioso senso di solitudine. Capuana, nel suo scavo psicologico, delinea tre personalità sofferenti e, almeno fino alla risoluzione del romanzo, forme diverse di solitudine chiuse nella difficolta di comunicazione. L’implicito di questa puntuale conseguenzialità è la ricusazione, da parte dello scrittore, dell’ereditarietà zoliana: l’origine dei comportamenti patologici dei personaggi è ricondotta esclusivamente al loro vissuto.

La rimodulazione dello schema triangolare è preannunciata fin dal primo capitolo: Patrizio affronta coi suoi due unici affetti, la madre «sempre malaticcia e sofferente» e la giovane moglie, il viaggio da Avola a Marzallo, nuova sede del suo lavoro di Agente delle Tasse:

Il viaggio da Avola a Marzallo era stato difficilissimo. Mattinata nebbiosa e piovosa, da far apparire brutte anche le magnifiche campagne, per le quali serpeggiava la strada provinciale: freddo straordinariamente intenso che prostrava, in fondo alla carrozza mal difesa, la povera signora Gertrude avviluppata nella pelliccia e mezza sepolta sotto la coperta da viaggio e gli scialli pesanti; rumoroso e continuo sobbalzare del legno che produceva grave sconcerto a Eugenia, divenuta così smorta in viso, come se dovesse da un momento all’altro svenirsi. E lungo l’interminabile viaggio, soltanto poche parole scambiate a voce bassa, quasi che tutta quella tristezza del cielo e della terra impedisse di parlare anche a lui che non soffriva, e che avrebbe voluto diminuire con qualche motto allegro la noia e la stanchezza di tante ore di carrozza. Alla domanda: – Mamma come ti senti? – la signora Gertrude rispondeva con un lieve cenno degli occhi socchiusi, rendendo più dura l’espressione di quella ruga della fronte che l’inesplicabile diffidenza di lei verso la nuora pareva segnasse, da qualche settimana con inesplicabile energia[3].

Leggendo con attenzione questa descrizione, si trovano già, in forma embrionale, i temi e i motivi fondamentali del romanzo: le sofferenze della madre; quelle di Eugenia, «smorta in viso» come apparirà spesso dopo le sue crisi nervose; i sentimenti ostili di Gertrude verso la nuora che si fanno evidenti nel dettaglio fisiognomico della ruga e, da ultimo, l’incapacità di parola di Patrizio, costretto ad assecondare il silenzio sofferente delle due donne. Si noti come in questo scorcio del romanzo Capuana usi una digressione fisiognomica, sospesa tra etopea e prosopografia, con fini introspettivi, imprimendo un’evoluzione alla vocazione descrittiva di marca naturalista, generalmente utile a rappresentare un’ambientazione sociale. Anche il silenzio di Patrizio, annunciato fin dall’incipit di Profumo, è eloquente, se è vero che la risoluzione dei nodi psichici descritti nel romanzo è affidata proprio alla parola, alla possibilità stessa di una parola vera e finalmente comunicativa fra i due sposi.

Il caso psicologico è isolato in un piccolo paese della provincia siciliana, Marzallo, toponimo di fantasia dietro al quale lo scrittore nasconde il comune ragusano di Ispica, allora Spaccaforno, visitato personalmente fin dal 1881[4]. Già nelle pagine iniziali Capuana testimonia la conoscenza dettagliata del luogo, ricco di chiese monumentali come Santa Maria Maggiore, ben nota per la presenza del vasto ciclo di affreschi di Olivio Sozzi e l’antistante loggiato del Sinatra, o l’Annunziata, nota per gli stucchi del Gianforma. Alcuni scorci descrittivi sembrano concedersi ai toni dell’idillio, ma, a ben guardare, sono sempre funzionali alla narrazione e non esenti da impliciti simbolici, tanto da giustificare l’interrogativo di Azzolini[5] sull’ambiguità del genere letterario di Profumo, sospeso tra dimensione idilliaca e tragedia naturalista:

Le tristi impressioni del viaggio gli s’erano dileguate rapidamente dall’animo a quell’apparizione luminosa che si levava dal cielo purissimo, col fascino d’un paese orientale per quei campanili, per quelle cupole disegnate sul fondo azzurro con netti contorni; per tutta quella bianchezza di case che contrastava col rossiccio delle rupi e il verde degli alberi e delle macchie. E gli parvero un’eternità le due ore e mezzo che la carrozza impiegò a strascinarsi con irritante lentezza, su per i continui serpeggiamenti della strada tagliata nel vivo masso. […] A ogni svoltata enormi grotte trogloditiche spalancavano le nere grotte […][6].

I tre personaggi sono costretti a vivere in un antico cenobio, rifunzionalizzato dopo l’Unità d’Italia. Qui Patrizio può abitare alcune camere comunicanti tra loro, nello stesso edificio in cui si trovano gli uffici a cui deve soprassedere. Capuana descrive effettivamente l’imponente monastero carmelitano di Ispica, limitrofo all’antica necropoli che nel romanzo è chiamata «cava», circondato da una «selva», caratterizzato da una terrazza che si apre su un vasto panorama, esteso fino a Pachino, al mare e, in lontananza, all’isola di Malta. Un luogo suggestivo che, tuttavia, diventa una prigione per i tre personaggi, affatto inclini a concedersi alla vita mondana del paese. Lo stesso Patrizio nutre perplessità sulle capacità della moglie di adattarsi all’edificio monastico: «Eugenia si sarebbe rassegnata a vivere da prigioniera in questo gran casamento deserto? Non era vecchia e inferma come la suocera; aveva altri gusti, altre abitudini, altri bisogni: immaginazione vivissima, nervi sensibilissimi, ahimè!»[7]. Il campo semantico che connota la dimensione claustrale, emblema della prigionia interiore e delle fissazioni patologiche dei personaggi, percorre l’intero romanzo con significative, reiterate occorrenze e poche variazioni nel rapporto tra sostantivi e aggettivi: «volontario prigioniero», «volontaria prigionia», «prigione volontaria». La stessa Eugenia, come si è visto, è definita «prigioniera» dal marito. È evidente la funzione a cui assolve il convento nell’economia simbolica del romanzo, e tuttavia alcuni cenni alla vita monastica che in esso si teneva prima dell’Unità d’Italia, con un improvviso abbassamento del registro lessicale determinato dal lessema «pappatoria», evocano le irriverenti descrizioni del cenobio benedettino catanese nei Vicerè di De Roberto:

Ecco il refettorio; allora vi si mangiava bene; il convento era ricco e i frati se n’intendevano di pappatoria. Quando veniva il provinciale per la visita, invitavano a pranzo tutti i signori del paese… Questa è l’infermeria; l’ultimo frate che vi ha lasciato la pelle è stato padre Anselmo di Adernò. Saputo che doveva andar via dal convento disse: – Io ne uscirò morto. – E infatti… Un santo! Lungo, lungo, magro magro; lo chiamavano padre Stendardo. Da qui si scende alla selva[8].

Il cenno alla morte di padre Anselmo di Adernò, oltre ad alludere alle leggi Siccardi e dunque allo sfondo storico in cui si colloca la vicenda, arricchisce la narrazione con un motivo caro a Capuana, quello delle presenze ultraterrene, del fantasma del «monaco» che turba le notti di Eugenia. Ma in senso più ampio l’evocazione di padre Stendardo s’inserisce nel contesto disforico del romanzo, in cui «malinconia» e «morte» sono parole chiave, ripetute con insistenza dalle pagine iniziali a quelle conclusive.

Lo stesso incipit di Profumo descrive sentimenti che presto si riveleranno illusori, rappresentando la speranza di Patrizio di poter iniziare una nuova vita, quel desiderio di un «rinovellamento» esistenziale che è un motivo spesso ripetuto delle narrazioni capuaniane:

Patrizio Moro-Lanza si sentiva da tre mesi così pienamente felice, che già cominciava a provare una superstiziosa paura, quasi presentisse che la sua cattiva sorte stesse in agguato a tramargli qualche crudele sorpresa. Gli pareva impossibile che la disdetta, da cui era stato perseguitato fin dalla fanciullezza, fosse ora cessata d’improvviso, appena entrata in casa di lui la bella e gentile persona divenuta da tre mesi la dolce compagna della sua vita. Aveva notato con grande meraviglia che dal giorno del suo matrimonio tutto gli era riuscito bene[9].

L’intero romanzo è percorso dalla superstiziosa paura del protagonista, il timore della «cattiva sorte», della «iettatura» e della «disdetta»[10], sostantivi che vengono ripetuti senza alcuna variazione sinonimica fino alle ultime pagine del libro. Proprio questa paura irrazionale spinge Patrizio a compiere uno strano atto propiziatorio, la distruzione di un vasetto di cristallo iridato che ricordava il lontano benessere familiare, un «cimelio» sopravvissuto al disastro economico venuto dopo la morte del padre. Distrutto il raffinato oggetto di gusto arabo, compiuto il rito propiziatorio come una «credula femminuccia», il protagonista si sente finalmente libero e spera di poter dare inizio alla sua «vita nova». Significativamente lo scrittore colloca il sintagma dantesco in posizione enfatica a conclusione del periodo e lo evidenzia ricorrendo al corsivo[11].

L’espediente capuaniano, il recupero di una credenza popolare e i continui cenni a una minaccia incombente sono utili a determinare un crescendo di tensione narrativa che esplode nei capitoli successivi: il terzo capitolo, in cui viene rappresentata la prima crisi nervosa di Eugenia, manifestatasi poco dopo che la suocera, parlando col figlio, l’aveva definita «isterica»; e il nono, incentrato sul crollo fisico di Gertrude, un colpo apoplettico che, di lì a poco, ne determina la morte. Capuana delinea, soprattutto nella prospettiva di Eugenia, una cumulazione di sensazioni malinconiche, inquietanti e perturbanti: l’antico convento si rivela pieno della «malinconia delle cose morte», il grande silenzio che lo circonda viene interrotto dal «malinconico stornello di un contadino dalla melodia monotona e strascicante», la tristezza del paesaggio si fa «solenne» al cader della sera. Le percezioni visive e uditive sono determinate dalla condizione disforica della protagonista. Ma è l’apparizione propriamente perturbante, nell’antica cappella del monastero carmelitano, delle figure di cera a grandezza naturale che venivano usate per la Settimana Santa a provocare in Eugenia un profondo sconvolgimento. Anche in questo caso lo scrittore si serve di un dato reale, la grande abilità dei ceroplasti siciliani nel definire figure e composizioni realistiche, come riusciva a fare nei suoi inquietanti teatri anatomici il siracusano Zummo, tanto ammirato dal marchese De Sade[12]. La forte vocazione dell’isola agli apparati decorativi di gusto secentista serve ad accrescere la tensione narrativa che preannuncia i cedimenti di Eugenia:

E aperse l’armadio. Alla vista di quelle teste di cera con occhi di vetro, di quelle mani e di quei piedi ammonticchiati là alla rinfusa, Eugenia gettò un grido. Tremava, come davanti a un carnaio, senza poter distogliere lo sguardo, ammaliata improvvisamente dal viso pallido dell’Addolorata, dalla faccia compunta di San Giovanni; da tutte quelle mani variamente atteggiate e come irrigidite dalla morte; dalle punte di piedi ignudi e di calcagna mescolate da cui scappavan fuori fiocchi di stoppa che parevano grumi di sangue sbianchito. […] – Scusi – disse – È vero, quelle teste staccate fanno un brutto effetto… anche a me. Ma bisognava vedere i personaggi belli e vestiti, atteggiati, aggruppati, tra i ceri accesi, i vasi di garofani e di basilico, e il gran parato di carta e velluti! Oh!… La Madonna Addolorata, con le sette spade conficcate nel petto, singhiozzava per via di fili di seta, tesi come corde di chitarra (un novizio, nascosto dietro il parato, li faceva scattare di tratto in tratto: zin! Zin! Singhiozzi da spezzare il cuore)[13].

Le membra ammonticchiate e diversamente atteggiate, immagini di corpi in frammenti simili al naturale, costituiscono il correlativo oggettivo della condizione scissa della protagonista. La loro potenzialità perturbante è simile a quella del crocifisso che perseguita il marchese di Roccaverdina nel romanzo eponimo: è interessante notare che, anche in quel caso, l’aristocratico intuisce la presenza della scultura per frammenti, grazie ai lacerti rivelati dal telo corroso dalle tignole. Lo scrittore usa abilmente certo immaginario barocco sia nei suoi romanzi che nelle sue novelle, esattamente come fa De Roberto nei Vicerè. Questo procedimento descrittivo trova l’apice nel nono capitolo di Profumo, incentrato sulla dettagliata rappresentazione della processione del Venerdì Santo a Marzallo. È questa una delle rare occasioni, per la piccola famiglia costituita da Patrizio, Eugenia e Gertrude, di uscire dal monastero-abitazione. Il fasto della celebrazione paesana è commentato ironicamente da Ruggiero, un «libero pensatore» come lo definisce il dottore del paese, un giovane liberale che si sente estraneo a quella ritualità: anche questo, un espediente attraverso cui lo scrittore allude al dibattito politico postunitario, vivace nel momento storico in cui la vicenda è ambientata. L’immaginario mortuario del Venerdì Santo fa da sfondo all’improvviso aggravarsi di Gertrude:

La folla, che s’era inginocchiata scoprendosi il capo al passaggio del baracchino di broccato, sotto cui il parroco portava solennemente la reliquia della croce, si levava subito in piedi, agitata dalla curiosità, con vasto mormorio. E su questa vasta marea di teste umane sorgevano qua e là braccia accennanti con la mano, e bambini levati in alto dai parenti perché vedessero anch’essi il Cristo morto e i flagellanti. Per alcuni minuti la processione fu interrotta. […] Al rumore secco della tràccola scossa dal sindaco, laggiù laggiù, la barella dorata del Cristo morto, a foggia di tumulo, barcollava con i lanternini che la circondavano, quasi sornuotante su quel fiume di teste; e non riusciva ad aprirsi un passaggio. Gran rumore, misto di voci urlanti e di scrosci, come di catene battute insieme, sboccava dalla cantonata dove la via faceva gomito… […] – I flagellanti! I flagellanti! Eccoli! Eccoli! […] – Che è accaduto? Donna Gertrude si sente male?[14]

Il nono capitolo di Profumo è incentrato sulla rappresentazione della processione e conferisce enfasi al campo semantico della visione. Anche il capitolo successivo, in cui viene descritta la morte di Gertrude che imprime una svolta alla narrazione, è sapientemente costruito sull’iterazione del sostantivo «occhio» con relative determinazioni aggettivali, ma restringe il campo visivo al contesto familiare. Capuana costruisce un dispositivo descrittivo opposto a una rasserenante cantica oculorum, rappresenta l’intrecciarsi degli sguardi che rivelano sofferenza, timore, odio, distorsione delle relazioni parentali. Ecco dunque la successione di sintagmi come «occhi smarriti», «occhi serrati», «occhi spalancati», «sguardi fissi e duri», «sguardi inchiodati», «grigia pupilla». La morte di Gertrude è osservata e descritta dalla prospettiva di Eugenia, terrorizzata dallo sguardo della suocera agonizzante, che viene percepito come persecutorio: «E quando Patrizio, chino sovra essa, le ripeteva: – Mamma, mi senti? E attendeva la risposta con gli occhi spalancati su quegli altri occhi che lo guardavano fisso fisso, ella si sentiva invadere da un terror folle…». Nell’immaginazione di Eugenia l’orrore della vista dei flagellanti si confonde col ricordo della portantina che conduceva a casa la suocera, costretta a procedere tra gli attorti vicoli del paese appena rischiarati dalla lanterna che la precede:

L’orrore della vista dei flagellanti le si confondeva, nella mente turbata, con l’orrore di quell’affannato ritorno a casa dietro la portantina preceduta dalla lanterna, lungo le buie viuzze dovute attraversare per evitare la folla. Appoggiata al braccio di Patrizio, che camminava muto e quasi barcollante, ella stentava a seguirlo. Piangeva, ma per lui. […] Ma le figure delle due persone sedute là dietro, una di rimpetto all’altra – la vecchia col suo viso sconvolto e gli occhi smarriti, abbandonata da un lato; il dottore, curvo, quasi piegato per lo scarso spazio, con tra le mani i polsi di quella – ora, ricordando o sognando (non lo capiva bene), le si confondevano nell’immaginazione con la figura del Cristo morto, steso su la barella dorata, dietro i larghi cristalli circondati dai fanaletti accesi. E le poche parole scambiate a voce bassa tra il dottore, Patrizio, lei, Ruggiero e i portatori, le si mutavano a poco a poco in quel mormorio tumultuoso della folla, in quel grido straziante: – Misericordia, Signore! Pietà, Signore! – che quella sera fatale l’aveva sbalordita[15].

La conclusione del capitolo insiste sulla disperazione di Patrizio, sul rimpianto per l’improvvisa morte della madre incapace di parlare, di pronunciare le tanto attese parole di riappacificazione. Capuana insiste un’ultima volta sugli occhi della defunta ormai impossibilitati a guardare: «I suoi sguardi eran rimasti inchiodati sul volto, immobile e senza vita neppure negli occhi, di colei che era stata la prima, la più grande, l’unica adorazione del suo cuore»[16].

Già prima della morte Gertrude era una presenza ingombrante e spesso inopportuna, capace di sorprendere gli sposi nei momenti d’intimità quando questi si appartavano nella terrazza o in qualche andito del monastero. Adesso la donna si trasforma in un «fantasma» persecutorio, una presenza in absentia che continua a turbare gli sposi, incidendo negativamente sul loro rapporto. È interessante notare l’invarianza, nel procedere del romanzo, del termine «fantasma» a lei riferito. Peraltro, attraverso il discorso indiretto libero, Capuana riferisce il pensiero di Eugenia, le pulsioni ostili rivolte alla suocera proprio in prossimità della sua morte: «Finalmente avrebbe potuto amare ed essere amata senza che quel fantasma si presentasse improvviso a interrompere i baci, a disturbare le carezze di Patrizio e di lei! Ondate di fiele le allargavano il cuore come non le era mai accaduto fin allora»[17].

Dopo la dipartita di Gertrude gli interrogativi della giovane moglie, oppressa dai sensi di colpa scaturiti dalle pulsioni ostili che aveva rivolto alla deuteragonista, si fanno ancora più angosciosi: «Come lottare contro l’invisibile nemica? Se la sentiva d’attorno tutti i momenti»[18].

L’impossibilità di vivere un rapporto coniugale pieno e sereno induce Eugenia a desiderare il giovane Ruggiero. I turbamenti della sposa e i tentativi seduttivi del ragazzo imprimono alla narrazione una svolta che l’avvicina decisamente ai contenuti statutari del romanzo borghese. Non è un caso che la prosopografia di Ruggiero, incentrata su dettagli fisiognomici che ne connotano la giovinezza come i baffetti che si curvano appena, sia costruita con sapienza contrastiva, in opposizione all’immagine di Patrizio:

Però quella florida figura di giovanotto, forte, dalle spalle larghe, dalla bruna tinta del volto, dai baffetti neri che si incurvavano appena, quantunque continuamente tormentati dalle dita ora dell’una ora dell’altra mano; quella figura, al cui confronto la figura di Patrizio si rimpicciniva e invecchiava, le rimase per alcuni istanti dinanzi agli occhi, quasi a velarle lo spettacolo della via[19].

Uno dei momenti in cui Eugenia si avvicina a Ruggiero per essere aiutata a superare gli ostacoli ed entrare nelle antiche grotte è la visita alla necropoli di Marzallo, l’odierna Cava d’Ispica, un luogo di forte suggestione che permette a Capuana una delle più belle e dettagliate aperture paesaggistiche del romanzo, non priva di scorci idilliaci ma, più sottilmente, della funerea inquietudine che viene dall’osservazione delle antiche sepolture. Eugenia è turbata dal contatto fisico con Ruggiero, ma riesce a reprimere i suoi sentimenti, a respingere il giovane, per quanto provata dal ricorrere di sogni che danno voce al suo inconscio e che costituiscono un’evidente allucinazione del desiderio interdetto. Capuana non ha alcun interesse per un’evoluzione poco originale dell’intreccio, il suo interesse è esclusivamente introspettivo: da questo deriva l’indubbio interesse contenutistico del romanzo. Non è un caso che la protagonista potrà guarire dalle crisi nervose solo quando riuscirà a guarire il marito, oppresso da una madre castrante in vita e ancor più in morte, condizionato dall’idealizzazione dell’oggetto sessuale a causa della sua fissazione edipica. Sarà il buon senso del dottor Mola, figura di medico assai vicina a quella dello psicanalista, a permettere ai due protagonisti di riacquisire finalmente una matura e distesa capacità di relazione.

L’invenzione osfresiologica

Pur nella rigorosa attenzione alla causalità psichica, Capuana introduce nel suo romanzo un’invenzione assai originale: le crisi nervose di Eugenia si manifestano attraverso l’emissione dell’odore di zagara. Questo spiega il titolo del libro, una soglia al testo di carattere tematico, secondo la classificazione proposta da Gérarde Genette[20], che assume tuttavia una connotazione sottilmente antifrastica alla vicenda narrata: il dolce profumo, evocativo delle coltivazioni di agrumi diffuse nelle campagne siciliane, diventa un sintomo patologico. Il richiamo a una sensazione piacevole, dunque, viene posto in relazione con la sofferenza psichica.

Anche in virtù di questo espediente il romanzo si allontana dagli statuti naturalisti, fa trascorrere i toni uniformi, pacati e introspettivi del racconto psicologico in un’inquieta dimensione di fantasia. Come si è già detto, nel terzo capitolo di Profumo viene descritta la prima crisi nervosa di Eugenia, mentre nel capitolo successivo si fa cenno all’apparizione della singolare manifestazione psicosomatica di carattere olfattivo. Il primo ad accorgersi del fenomeno è Patrizio, mentre bacia le mani della moglie convalescente: «È strano… – egli rispose. – Si direbbe che tu te le sia stropicciate con la zàgara…Ma non è la stagione. Hai forse un profumo di fiori d’arancio?»[21]. L’intero capitolo è incentrato sul succedersi dei dialoghi, quello tra Patrizio e il dottor Mola intervenuto dopo la crisi nervosa di Eugenia, quello tra Patrizio e la madre e in ultimo quello tra Patrizio e la consorte.

Gertrude, come sempre, agisce da deuteragonista definendo la nuora un «viluppo di nervi»[22] ed accusandola persino di vampirismo[23], ossia di consumare fisicamente il figlio: si arguisce che l’oggetto della sua ira è la presunta e smodata brama erotica della giovane donna. Nel capitolo successivo l’odore emesso dalla protagonista diviene stordente, come rivela Angelica, figlia del sindaco di Marzallo: «Si profuma? – domandò tutt’a tratto Angelica ad Eugenia. – Che odore di zàgara! Stordisce»[24]. Il fenomeno viene descritto dallo stesso Patrizio nel dialogo col medico: «Dopo quell’eccesso nervoso che lei sa, dalla pelle di tutto il corpo d’Eugenia, specialmente dalle punte delle dita, si spande un profumo di zàgara, che si attacca alla biancheria, alle vesti, e invade fin la camera durante la notte»[25].

L’intensità dell’odore emesso da Eugenia sembra crescere progressivamente nel corso della narrazione in rapporto al ripetersi delle sue crisi nervose. L’invenzione di Capuana è del tutto innovativa in campo letterario, ma la suggestione osfresiologica ha lontane origini ippocratee. L’idea di un rapporto stringente tra l’odore e la malattia, e l’ipotesi di una semiotica basata sugli odori allignava nella cultura medica ottocentesca. Come ha scritto Alain Corbin nel suo Storia sociale degli odori:

L’ambiguo tema dell’immoralità dei sentori penetranti e soffocanti, è reperibile in filigrana nel discorso medico quando questo si sforza di mettere in guarda le lettrici. All’alba della lezione pasteuriana, la diatriba assume una violenza inedita: l’attrazione per i profumi, la ricerca di «sensazioni di bassa lega», sintomi di un’educazione «molle e rilassata», accentuano l’irritabilità nervosa, conducono al «femminismo», favoriscono la deboscia. Gli «annusatori» di Tardieu vanno ad aggiungersi all’elenco sempre più lungo degli infelici «pervertiti». È il momento delle lozioni toniche disinfettanti. […] Codesta strategia psichiatrica, più moralizzatrice di quanto non fosse al tempo in cui la polemica contro i profumi grevi costituiva innanzitutto il riflesso del timore di infezione, contribuisce al rilancio dell’osfresiologia, un tantino trascurata al pari dell’uso dei profumi, in seguito alla pubblicazione dei ponderosi volumi di Hippolyte Cloquet. Ed è soprattutto la psicologia sperimentale che rivela allora un nuovo interesse per la sensazione olfattiva[26].

Corbin fa riferimento a un testo capitale dell’osfresiologia, l’Osphrésiologie, ou traité des odeurs di Cloquet pubblicato nel 1821[27], un trattato in sei libri che si occupava di olfatto e, nel senso più ampio, delle diverse malattie che possono colpire il naso, come le disfunzioni percettive e la deviazione del setto nasale. Si noti il nesso stabilito dall’Osphrésiologie tra alcuni comportamenti irregolari decisamente sconsigliati alle donne, l’attrazione eccessiva per la lettura, soprattutto se di carattere romanzesco o lirico, e l’attenzione rivolta agli odori, aspetti comportamentali da cui scaturirebbe l’irritabilità nervosa di alcuni soggetti inclini all’isteria. Anche Capuana lambisce il motivo della fantasticheria romantica indotta dalle letture, quando Eugenia immagina il convento-abitazione di Marzallo simile a un castello medievale in cui sarebbe potuta rimanere sola con Patrizio, finalmente libera dalla sorveglianza opprimente della suocera. La fantasia letteraria che distorce i comportamenti femminili è un motivo assai presente nella letteratura romantica, spesso ripreso dalla letteratura naturalista e verista, basterebbe pensare alle letture di Madame Bovary o di Teresa Duffredi Uzeda nell’Illusione di De Roberto. Ma Capuana è poco interessato a conferire simili connotazioni alla sua Eugenia: nessun abbaglio mondano, nessun eccesso idealizzante; semplicemente la giovane protagonista di Profumo vuole essere amata in modo pieno e sincero dal marito. Spesso, anzi, nel romanzo ella appare pienamente lucida nonostante il ripetersi delle crisi nervose, perfettamente in grado di leggere in profondità nell’animo di Patrizio, vero personaggio patologico.

Nella narrazione capuaniana l’allegoricità delle emissioni odorose è sempre connessa alla sfera erotica, al desiderio più che logico di Eugenia di poter vivere pienamente la sua relazione coniugale. In questo senso lo scrittore appare molto vicino alle idee che Droz esprime nel suo romanzo Monsier, Madame et Bébé del 1866[28], in cui si affermava la possibilità e anzi la necessità del nesso tra amore coniugale, erotismo e felicità.

A comprendere l’origine delle sofferenze di Eugenia, e anzi la circolarità patologica del rapporto tra moglie e marito, è il dottor Mola, figura assolutamente positiva del romanzo in cui Capuana fonde psicologismo, acume introspettivo e un certo moralismo tradizionalista, attraverso il buon senso, la serena adesione alla vita, il credo religioso che ne fanno un confessore solido e sicuro. È proprio il dottor Mola a dare una spiegazione della malattia di Eugenia:

Con le malattie nervose non si sa mai. La scienza è bambina intorno ad esse; va a tastoni. […] Tornando al profumo, guardate come si comportano gli scienziati! Sono morti centinaia di santi e di sante, consumati da penitenze e da digiuni (ce n’è stati sempre al mondo, ce ne sono ancora e ce ne saranno, speriamo, fino alla fine dei secoli; parlo a modo mio, da credente: non conosco le vostre opinioni); dai loro cadaveri si è sparso attorno un odore delizioso, odore di paradiso, è proprio il caso di chiamarlo così: centinaia, migliaia di persone hanno potuto verificarlo; e quel profumo talvolta è servito come imbalsamatura, ritardando la putrefazione del cadavere… Ebbene… – Non è vero! – hanno detto gli scienziati: – imposture! Aberrazioni di gente superstiziosa e ignorante! – Bravi! La Chiesa proclama: Miracolo! Io sto con la Chiesa. Ed ecco, uno, due, tre scienziati di buona fede ci vengono a dire: – È vero! Verissimo! Chiamiamolo pure: odore di santità. […] Essi non hanno più potuto negare il fenomeno, ora che se n’è riscontrato uno simile in parecchi ipocondriaci e isterici. Il dottor Hammond, di Nuova York, ha curato un ipocondriaco la cui pelle spandeva odore di violetta; un altro che esalava odore di violetta; un altro che esalava odore di pane fresco; due isteriche che mandavano un odor d’iride, l’altra odore d’ananasso. Un dottore con un nome che pare uno sternuto, Ochorowicz, se non sbaglio, ha avuto una cliente isterica che esalava effluvi di vaniglia. E già – siamo fatti così, Dio benedetto! – e già si corre troppo innanzi, già si comincia a fare l’ipotesi che ad ogni nostro stato psicologico corrisponde la produzione di speciali odori; che fin ogni nostro pensiero si traduca continuamente in linguaggio degli odori… La mia poca scienza, per non chiamarla ignoranza, in questo momento non può dirvi altro[29].

La spiegazione offerta dal dottore descrive una varietà di percezioni olfattive connesse alle diverse patologie, spingendosi a ipotizzare che ogni pensiero possa emettere un odore. È significativo che il medico estenda il suo ragionamento anche agli ipocondriaci e agli isterici: si ricordi che la stessa Eugenia era stata definita «isterica» dalla suocera. Nonostante le citazioni di alcuni studiosi del periodo, Hammond e Ochorowicz, è evidente che la particolare declinazione letteraria dell’osfresiologia sia un’originale invenzione di Capuana, capace di recuperare persino la suggestione dell’«odore di santità», già presente in alcuni scorci anticotestamentari, negli autori classici e nella codificazione di mitologemi tendenti a sottrarre certe personalità straordinarie alla banalità della morte e della corruzione fisica. Nonostante l’andamento parascientifico del discorso, lo scrittore riattualizza l’antico mitologema e dà testimonianza della sua sfiducia nelle possibilità della scienza e del metodo positivo, incapaci di sondare i più profondi misteri umani. Più che un medico tradizionalmente inteso il dottor Mola è, infatti, un medico-confessore che incentra il suo metodo terapeutico sulla parola, sulla visione olistica del paziente. Ed è grazie alle sue intuizioni precorritrici, alla sua comprensione delle cause reali della patologia, che Eugenia e Patrizio potranno finalmente tornare a una serena vita relazionale.

Un medico-confessore o uno psicanalista ante litteram

L’improvvisa morte di Gertrude determina gravi sensi di colpa sia in Eugenia che in Patrizio: nell’una perché aveva desiderato la dipartita della suocera, nell’altro perché incapace di sanare il dissidio tra l’amore filiale e la consapevolezza delle colpe materne. L’incomprensione tra i due coniugi necessariamente si accresce: Eugenia vorrebbe essere amata pienamente da Patrizio che, associando l’amore carnale alla turpitudine, attribuisce i suoi desideri all’isterismo. Grazie alle conversazioni col dottore il protagonista accetta progressivamente l’idea di essere stato condizionato dall’amore castrante della madre. Esortato anche dai tentativi seduttivi di Ruggiero, egli comprende finalmente il suo errore, si confessa pienamente e riesce a recuperare il rapporto coniugale.

Il vero male di Patrizio sta dunque nel perdurante legame edipico. Fin da giovane la madre gli aveva vietato implicitamente l’amore ed egli aveva introiettato il suo divieto. Il ricordo dei rapporti venali della giovinezza aveva determinato in lui un raccapriccio riemerso anche nella relazione con Eugenia. Lo scavo psicologico del romanzo presuppone quei «movimenti» della psiche, quegli sbalzi analogici dal presente al passato cui Capuana è riuscito ad adattare con difficoltà la sua macchina narrativa. Come ha scritto Cappello: «Il romanzo capuaniano resta ancora sviluppato in linea retta da un “prima” ad un “poi” senza che questo percorso si complichi di una serie di oscillazioni della “memoria involontaria”, verso una recherche di un tempo interiore»[30]. Emblematico di questo modo di procedere è l’ampio costrutto analettico, rigido dal punto di vista diegetico ma certamente funzionale a connotare il personaggio maschile, dedicato all’amicizia di un Patrizio ancora bambino con una vicina di casa sua coetanea, di nome Giulietta.

La vicenda di Giulietta è caratterizzata da un certo patetismo incline alla moda larmoyante dell’epoca, come testimonia il ripetuto ricorso ai diminutivi, morfemi modificanti dall’implicito affettivo e simpatetico: la bambina era la compagna di giochi di Patrizio, lo abbracciava, sognava il futuro in cui sarebbero stati marito e moglie. I loro giochi erano costantemente sorvegliati dall’ostile sguardo materno. Improvvisamente la bambina muore cadendo dal balcone: il protagonista, già segnato dall’orfanità, è dunque costretto a confrontarsi con una nuova e più ravvicinata esperienza della morte. La rimemorazione dell’uomo che si confronta con questo nodo traumatico vibra di commozione, dovuta anche all’identificazione dell’antico amore con quello rivolto a Eugenia che tuttavia, per gelosia retrospettiva, rifiuta risolutamente la sovrapposizione. Lo scambio di battute tra i coniugi è icastico: «Ora Giuletta sei tu!», «No, io sono Eugenia»[31]. Non è un caso che la presenza ingombrante della madre e del suo fare censorio vengano associati da Patrizio al ricordo dei giochi infantili, determinando il regresso memoriale e lo scavo nell’archeologia prepuberale:

Che fate qui? Che fate? – Proprio come quando lo aveva trovato sul pianerottolo abbracciato con Giuletta! Allora però essi si erano rifugiati su per gli scalini del piano superiore, sicuri di non essere sorpresi; ora, invece, non si sentiva mai tranquillo ogni volta che Eugenia – Vieni! Vieni! – lo attirava qua e là pei diversi angoli del convento, con un pretesto o con un altro, quasi istintivamente cercasse di sottrarlo all’importuna sorveglianza dell’inevitabile: – Che fate? […] Ed egli, che pure aveva attinto dall’amore tanta forza da resistere alla misurata, sì, ma inesorabile opposizione al suo matrimonio, non riusciva intanto a ribellarsi contro quell’astio geloso; così profonda era l’impronta di venerazione per la madre lasciatagli nel carattere da quei lunghi solitari e tristi anni vissuti assieme senza intervallo; quando non aveva dovuto avere altra volontà che la volontà di lei, quando il più lieve movimento dell’animo suo era stato ripercussione, eco dei sentimenti materni, talvolta indovinati e intravisti assai prima che espressi[32].

Capuana rappresenta con sorprendente capacità introspettiva la fissazione edipica di Patrizio e riesce, parimenti, a scardinare non pochi luoghi comuni relativi al desiderio erotico femminile che all’epoca veniva spesso ricondotto alla patologia isterica, grande malattia del secolo. Patrizio è simile a Pigmalione che, sdegnato dalle Propetidi, ha costruito il suo illusorio simulacro muliebre. A salvarlo non sarà un atto di pietas, ovvero la preghiera a Venere su cui si soffermano le Metamorfosi di Ovidio, ma la comprensione della necessità di agire un rapporto umano o, come afferma la clinica psicanalitica, la necessità di degradare l’oggetto d’amore sottraendosi alle proiezioni idealizzanti e, dunque, pietrificanti.

La salvezza di Patrizio e della coppia protagonista di Profumo è dovuta al medico del paese di Marzallo, che agisce da vero e proprio psicanalista avant la lettre. La forte presenza dei medici nelle opere di Capuana è perfettamente in asse con quelle tendenze che si affermano negli scorci più tardi del XIX secolo e che prediligono le malattie introspettive alle descrizioni corali delle malattie pandemiche, coi loro effetti disgregativi dell’ordine e delle regole sociali. Questo motivo statutario, così presente nella letteratura italiana, dall’archetipo del Decamerone al romanzo manzoniano e oltre, stando alle note critiche di Italo Calvino, avrebbe generato i migliori scrittori nazionali, veri e propri «pestigrafi»[33]. Nel corso dell’Ottocento, tuttavia, alla descrizione dell’epidemia si sostituisce l’attenzione rivolta alle “malattie dell’anima” e, in particolare, dell’isteria. Come ha scritto Tellini:

La malattia non è più un flagello storico che sconvolge le regole sociali, come la peste di Manzoni, dal narratore indagata, spiegata, razionalizzata con rigore etico e religioso, con fermezza investigativa. È un morbo solitario, che colpisce di sorpresa, invade e cattura un’esistenza come evento privato. […] anche da questo punto di vista si conferma il primato dell’Io[34].

Certamente la rappresentazione della malattia è necessaria a identificare il suo opposto, la condizione di sanità, anche attraverso una sottile dinamica dialettico-negativa o desiderativa. Sicuramente la condizione di malattia può contribuire a dare rilievo al personaggio e svelarne la personalità, determinando quella «scrittura di sangue e di vita» di cui parlava Deleuze[35]. È evidente che la patologia permette allo scrittore di sfruttare elementi che sottraggono la narrazione a una piatta normalità, arricchendola con elementi inquietanti e sorprendenti. Ma la peculiarità della nevrosi e la sua centralità nella letteratura del tardo Ottocento è data dalla molteplicità dei modi in cui essa si manifesta, dalla sua ricca sintomatologia che permette allo scrittore di dare sfogo alla sua fantasia. Le manifestazioni nevrotiche sono spesso investite di un valore simbolico, permettono la liberazione dalla rigida normatività del verbo scientifico e non di rado consentono il trascorrere della narrazione da presupposti naturalisti e deterministi a inquietudini decadenti[36]. Così ha scritto Edwige Comoy Fusaro:

La simbolicità delle nevrosi narrative è un dato basilare. Il desiderio di liberarsi dal materialismo e dal giogo dottrinario del verbo scientifico non entrava probabilmente per poco nel fascio di motivazioni che spinsero gli scrittori a inserire la malattia nelle loro opere. Molti di essi cercarono infatti di usare la nevrosi come una sonda, altri ne fecero un vettore pedagogico-moralistico, recuperando la sua presunta immoralità per conferirle, paradossalmente, il più delle volte, una funzione normativa[37].

In una letteratura sempre più «medicalizzata» come quella italiana del secondo Ottocento[38], diventa centrale il medico-terapeuta, che deve divincolarsi dalla sua figura tradizionale e confrontarsi con un nuovo tipo di personaggio, il paziente nevrotico, caratterizzato da un bagaglio di traumi, ricordi e rimozioni. Ed è grazie al sostrato scientifico della formazione di scrittori come Dossi, Boito e Capuana che la voce del personaggio medico può identificarsi con quella dell’autore. Sono ben note le letture mediche e scientifiche che hanno appassionato lo scrittore minenino, testimoniate dai testi custoditi presso il Fondo Capuana di Mineo. Si tratta di opere lette e spesso chiosate, che rispondono, ovviamente, a una sua propensione conoscitiva e che gli permettono di padroneggiare il lessico medico e scientifico. Capuana ha letto certamente Alessandro Anserini, Michelangelo Asson, Pierre Jean Cabanis, Giovanni Canestrini, Angelo Camillo De Meis, Cesare Lombroso, Angelo Martini e Cesare Vigna. Significativa è la presenza di Angelo Martini che, sulla scorta di un saggio di Cabanis, Rapporti del fisico e del morale dell’uomo, scrive due opere che il minenino deve aver sentito molto vicine, Fatti psichici e fatti fisiologici. Spirito e corpo[39] e Fatti psichici riviviscenti (studio psicologico)[40]. Si tratta di studi sulla fisiologia del cervello in cui Martini teorizza una nuova medicina olistica che non si fermi all’osservazione e alla determinazione tassonomica dei fatti clinici, ma che si evolva in scienza dei fatti psichici e delle loro origini, cioè in una scienza che possa tenere assieme fenomeni e sostanza. Scopo dei saggi di Martini è la dimostrazione dell’esistenza dell’anima e delle sue relazioni col corpo, in particolar modo col cervello. Intento ultimo è quello di fondare una costruzione etica e filosofica sull’analisi dei dati della coscienza e dei fatti psichici. Anche l’opera capuaniana testimonia il continuo sforzo di conciliare scienza positiva e morale, delineando la figura di un medico capace di provare empatia e agire per il bene del paziente. In questo senso è rivelatore il saggio che Tito Annio Milone ha regalato personalmente allo scrittore, Per i dolori dell’anima: frammenti tolti dal mio diario, un’opera in cui si delinea il ritratto di un medico capace di empatia, in grado di comprendere «dolori dell’anima gentile di chi ama e di chi soffre»[41].

Ben noto è anche il rapporto tra Capuana e Bourget, autore di opere celebri come gli Essais de psycologie contemporaine e i Nouveaux essais de psycologie comtemporaine, rispettivamente del 1883 e 1885, incentrati sull’indagine psicologica di alcuni grandi scrittori, protagonisti della scena letteraria ottocentesca, come Stendhal, Taine e Baudelaire. Capuana doveva sentire molto vicini questi saggi, che considerano la letteratura come “psicologia vivente” e permettono di analizzare gli scrittori realmente esistenti e i personaggi cui essi hanno dato vita nella fictio letteraria. Partendo da questi presupposti, lo scrittore immagina figure di medici che sembrano veri e propri psicologici, attenti, comprensivi, introspettivi, capaci di una visione complessiva del paziente. È emblematica, in questo senso, la figura del dottor Mola di Profumo.

Capuana, pur non conoscendo le teorie freudiane, offre alle sue eroine la possibilità di un dialogo catartico, una valvola di sfogo ai loro drammi psichici. Giacinta, protagonista del romanzo eponimo, istaura una relazione psuedoanalitica col dottor Follini e così Eugenia col dottor Mola. Lo scrittore crea dei “medici-filosofi” ben consapevoli dell’importanza della parola nel percorso terapeutico, ma non ancora in grado di ricostruire le cause dei malesseri permanenti delle loro pazienti. Il dottor Mola, tuttavia, aggiunge alla funzione di osservatore del caso psicologico, di testimone delle espressioni somatiche della patologia, una peculiare attitudine che non solo spiega l’insorgere della malattia ma anche consiglia, sprona e conforta. Alla fredda osservazione si sostituisce un atteggiamento più colloquiale, simile a quello teorizzato da Tito Annio Milone nel saggio dedicato ai dolori dell’anima. L’atteggiamento del medico descritto in Profumo è certamente meno rigoroso dal punto di vista scientifico, lontano anche da quel distacco che lo psicanalista dovrebbe avere secondo Freud, eppure è improntato ai sani principi di una morale paesana che conosce profondamente l’animo umano. Il nuovo personaggio creato da Capuana può essere considerato, per certi versi, uno psicoanalista in nuce, capace di suscitare un transfert positivo nei pazienti e, se necessario, di assecondarli, rivolgendo tuttavia un fecondo dubbio dianoetico alle loro parole:

Quantunque il dottor Mola, occorrendo, adoperasse facilmente coi malati le pietose bugie, pure allo scintillio di quegli occhi pieni di diffidenza e intenti a scrutare le parole che gli uscivano di bocca, aveva provato tale impaccio da sentir bisogno di una pausa. […] Ora – egli disse – dovreste confessarvi con questo vecchio confessore che è qui. Che cosa vi sentite? Fatevi animo; non abbiate ritegno. Commettereste un sacrilegio tacendo, come nella confessione; non si tratta soltanto della vostra salute ma di quella di un’altra creatura di Dio. Parlate, parlate![42]

Idealmente vicini Capuana e Freud lo sono anche nella descrizione dei sintomi isterici e nella visione della psicologia della relazione amorosa. Nel celebre articolo del 1888 intitolato Isteria, Freud confutava l’antico pregiudizio che collegava la nevrosi alle malattie dell’apparato genitale femminile, testimoniato dalla stessa etimologia del termine usato per designarle. Il fondatore della psicanalisi negava l’origine fisiologica della patologia isterica, confutava l’idea che un progressivo affinamento delle tecniche anatomiche potesse rivelarne l’eziologia, ne affermava la variegata fenomenologia e affermava: «L’isteria si fonda esclusivamente su modificazioni fisiologiche del sistema nervoso e se ne dovrebbe definire l’essenza con una formula che tenesse conto delle condizioni di eccitabilità delle diverse parti del sistema nervoso stesso»[43]. Nello stesso articolo Freud offre un’attenta descrizione delle tre fasi dell’attacco isterico che ineluttabilmente colpisce il paziente durante il decorso della malattia. La sintomatologia di Eugenia che rimprovera al marito di trascurarla e, quasi in preda a un attacco epilettico, perde i sensi o che, infatuata di Ruggiero, confonde sogno e veglia, allucina il suo desiderio e teme di tradirsi concependo paure persecutorie, ricorda la fase epilettoide e la fase allucinatoria dell’isteria descritte da Freud che, fondendosi, provocano nella donna irrigidimento del corpo, spasmi e conseguente perdita dei sensi.

Nel saggio freudiano Sulla più comune degradazione della vita amorosa, scritto nel 1912[44], si afferma che la vita amorosa esige la degradazione psichica dell’oggetto sessuale, mentre la sua sopravvalutazione spetta all’oggetto infantile. La memoria di tale sopravvalutazione e la necessità di degradazione dell’oggetto sono alla base di quella scissione tra tenerezza e sensualità che la letteratura ha adombrato tante volte, ricorrendo al mito dell’Amor sacro e dell’Amor profano, lo stesso che ha trovato un’alta rappresentazione figurativa nella pittura tonale di Tiziano, nella celebre tela del 1515 oggi custodita nelle sale della Galleria Borghese.

Il saggio freudiano guarda essenzialmente alla vita sessuale maschile e riserva appena un paragrafo al processo di degradazione dell’oggetto nella vita sessuale femminile. Secondo Freud le donne, educate severamente, si rivelano spesso incapaci di sciogliere il nesso tra attività sensuale e divieto, rischiando di divenire psichicamente impotenti proprio quando viene loro concesso di avere una normale vita sessuale in ambito coniugale. È notevole che la fantasia di Capuana, lambendo i problemi affrontati da Freud, li riferisca al protagonista maschile del romanzo. In Profumo è Patrizio a rivelarsi incapace di sciogliere il nesso tra vita sessuale e divieto, a causa dell’interdetto materno, di un’educazione particolarmente severa e di una vita relazionale troppo a lungo ristretta e sorvegliata. La fissazione edipica del protagonista è rivelata dal perdurante lutto per la morte della madre, che trova espressione nella quotidiana visita alla sua tomba. Il dottor Mola intuisce l’implicito patologico di quella ritualità cimiteriale che contribuisce ad allontanare Patrizio dalla moglie e ammonisce il giovane: «Dimenticare, e per un pezzo, questa via. I vivi coi vivi, i morti coi morti. Dio vuole così! Basta rammentarli nelle preghiere. Gli eccessi, anche nel bene, divengono biasimevoli. La salute dello spirito, come quella del corpo, consiste nella giusta misura. Un vecchio e medico vi dice questo, tenetelo a mente»[45]. Il buon senso incarnato dall’anziano medico induce Patrizio a riflettere e confessargli le sue inquietudini. L’inserto del discorso diretto costituisce un passaggio rivelatore della nevrosi che affligge l’uomo e determina la distorsione delle sue capacità relazionali:

Il mio passato mi opprime. In questo momento vorrei sfogarmi con lei, e un fanciullesco ritegno mi tronca le parole in gola. Così con Eugenia. Così!… Eppure l’amo. Darei la mia vita per farglielo intendere. E poi, quando mi stende le braccia e mi grida – Voglio essere amata! Voglio essere amata! – mi sento irrigidire, quasi quel grido offendesse qualcosa di sacro dentro di me: lei stessa! So, so da che proviene questo sentimento; ma saperlo non giova. Mi è rimasto un invincibile senso di avversione e di nausea dei primi e soli abbracci venali provati in gioventù. Oh quelle carezze, quei baci che simulavano l’amore, che profanavano l’amore! Non li ho potuti più dimenticare. E il convincimento che l’amore santo, di marito e moglie, dovrebbe essere tutt’altro…[46]

La condizione patologica di Patrizio investe sia la sfera sessuale che la possibilità di una parola in grado di raggiungere l’amata. Anche questa impossibilità è dettata dall’interdetto, dall’incapacità dell’uomo di riconoscere le colpe materne che pure hanno influito così profondamente sulla sua vita. La spinta continua del dottor Mola, la sua serena accettazione della vita e dei suoi misteri, inducono finalmente Patrizio ad aprirsi a Eugenia.

L’ultima pagina di Profumo è incentrata sulle descrizioni paesaggistiche che assumono un valore fin troppo scoperto[47]: la riconciliazione tra i due sposi è preceduta da un violento temporale, cui segue il trionfo di un paesaggio sereno rappresentato attraverso percezioni visive e olfattive, finalmente prive del tratto inquietante che avevano gli effluvi di zagara. Per ben due volte ricorre il sostantivo «profumo», soglia e parola tematica del romanzo che qui cambia connotazione, alludendo a una rigenerazione, a una rinascita:

Le siepi, le piante, le erbe brillavano, sorridevano, verdi, ripulite dalla polvere, rinnovate. E dagli alberi, dalle siepi, dalle piante, dal terreno imbevuto di acqua si sprigionava una frescura così soave, un profumo così acuto, una sensazione di colori così allegri e vivaci che Patrizio ed Eugenia rimasero a guardare muti, assorti come se quella frescura, quel profumo, quella gioconda vivacità di colori, più che percepirli coi sensi li godessero, spettacolo assai più bello, con un senso interiore dei loro due cuori già divenuti un solo cuore[48].

Tratteggiato con indubbia originalità il personaggio patologico di Patrizio accanto a quello di Eugenia, delineata una precisa sintomatologia del malessere femminile, acquisita e reinterpretare l’air du temps attraverso la lettura dei testi medici e scientifici, lambita la teoria freudiana dell’isteria[49], descritto il valore catartico della parola sollecitata dal medico-confessore, Capuana è pronto a conferire insicurezze e fobie a un personaggio maschile come il marchese di Roccaverdina, punto d’arrivo di un processo progressivo di rappresentazione dell’alienazione psichica. La nevrosi dei protagonisti di Profumo si trasforma in vera e propria alienazione nel Marchese di Roccaverdina. Tra i meriti di Capuana, così attento all’introspezione del mondo femminile che alligna nei romanzi e nelle novelle, ben testimoniata dalla raccolta Profili di donne[50], vi è anche quello di aver rappresentato con efficacia la patologia maschile, tanto a lungo negata.

  1. Quanto alle difficoltà strutturali di Profumo e al finale positivo, giudicato repentino e giustapposto, cfr. A. P. Cappello, Invito alla lettura di Capuana, Milano, Mursia, 1994, pp. 99-100. Scrive Cappello: «Il positivo esito della vicenda, che scioglie questa moderna “tragedia”, non la rende però un “idillio provinciale” (come recita il sottotitolo dell’edizione del 1896). Profumo resta, piuttosto, un “romanzo senza idillio” perché in esso l’autore ha involontariamente gettato per un attimo lo sguardo sul tema costante della tragedia contemporanea, l’“inconscio”». Della stessa opinione sono C. A. Madrignani, Capuana e il naturalismo, Bari, Laterza, 1970, p. 272, e D. Marchese, Descrizione e percezione. I sensi nella letteratura verista, Firenze, Le Monnier, 2011, pp. 64-65.
  2. L. Capuana, Per l’arte, Catania, Nicolò Giannotta Editore, 1885.
  3. L. Capuana, Profumo, op. cit., pp. 11-12.
  4. Le lettere di Capuana che testimoniano le visite ad Ispica, allora Spaccaforno, nel corso del 1881, utili a prendere degli appunti di carattere ambientale per il romanzo, sono state pubblicate in D. Pisana, Personaggi letterari degli Iblei 1839-1925. Profili critici e testi, Ragusa, Periferie Edizioni, 2018, pp. 22-27. In una lettera del 5 settembre 1881, inviata da Mineo a don Nenè Gennaro, Capuana scrive: «fra una decina di giorni io sarò a Spaccaforno. Vengo costì per prendermi degli appunti di località e di paesaggio, perché (mi pare di averglielo detto) ho messo costì l’azione del mio nuovo romanzo. Starò un paio di giorni e in uno di essi vorrò fare una piccola visita alla valle d’Ispica».
  5. P. Azzolini, Al lettore, in L. Capuana, Profumo, Milano, Mondadori, 1996, p. IX.
  6. L. Capuana, Profumo, op. cit., p. 14.
  7. Ivi, p. 17.
  8. Ivi, p. 19.
  9. Ivi, p. 11.
  10. Si noti che Disdetta è anche il titolo di una delle novelle della Sorte di Federico De Roberto, una silloge dov’è evidente la vicinanza ai nuclei tematici verghiani. Recentemente la novella è stata ripubblicata in F. De Roberto, La disdetta e altre novelle, a cura di G. Traina, Roma, Avagliano Editore, 2014.
  11. L. Capuana, Profumo, op. cit., p. 23.
  12. Cfr. D. A. F. De Sade, Viaggio in Italia, Roma, Newton Compton Editore, 1974, p. 64. De Sade osservò l’inquietante teatrino anatomico dello Zummo, rappresentante gli effetti della pestilenza, nelle collezioni di Cosimo I custodite a Firenze, nel corridoio vasariano.
  13. Ivi, p. 74.
  14. Ivi, pp. 103-104.
  15. Ivi, pp. 107-108.
  16. Ivi, p. 113.
  17. Ivi, p. 110.
  18. Ivi, p. 118.
  19. Ivi, p. 102.
  20. Secondo la definizione di G. Genette, I titoli, in Id., Soglie. I dintorni del testo, a cura di M. C. Cederna, Torino, Einaudi, 1989, pp. 55-101.
  21. Ivi, p. 52.
  22. Ivi, p. 49.
  23. Ivi, p. 47.
  24. Ivi, p. 60.
  25. Ivi, p. 62.
  26. A. Corbin, Storia sociale degli odori, introduzione di P. Camporesi, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Mondadori, p. 261.
  27. H. Cloquet, Osphrésiologie, ou traité des odeurs, Paris, Huschke, 1821.
  28. G. Droz, Monsier, Madame et Bébé, Paris, Viktor Havard, 1878.
  29. L. Capuana, Profumo, op. cit., p. 64.
  30. A. P. Cappello, Invito alla lettura di Capuana, op. cit., p. 101.
  31. L. Capuana, Profumo, op. cit., p. 31.
  32. Ivi, p. 35.
  33. I. Calvino, La compresenza dei sensi, in «Galleria», Anno XVII, N. 3-6, Maggio-Dicembre, 1967, pp. 237-40.
  34. G. Tellini, Il romanzo italiano dall’Ottocento al Novecento, Milano, Mondadori, 1998, p. 121.
  35. G. Deleuze, Critique et clinique, Paris, Editions de Minuit, 1996, p. 15.
  36. Quanto alla vasta letteratura critica dedicata alle rappresentazioni della nevrosi e dell’isteria cfr. almeno R. Galvagno, Capuana e la passione dell’isterica, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», LXXXV, 1989, pp. 169-83; A. Olive, De quelques cas romanesques d’hystérie et de névroses: Capuana, Tarchetti, Pirandello, in «Revue des Etudes italiennes», n. 47, 3-4, 2001; A. Panicali, Del secolo nevrotico, in «Critica Letteraria», n. 126, XXXIII, 2005, pp. 89-107.
  37. E. Comoy Fusaro, La nevrosi tra medicina e letteratura. Approccio epistemologico alle malattie nervose nella narrativa italiana (1865-1922), Firenze, Polistampa, 2007, p. 80.
  38. Ibidem.
  39. A. Martini, Fatti psichici e fatti fisiologici. Spirito e corpo, Ascoli Piceno, Tipografia Economica di Enrico Tassi, 1901-1908.
  40. A. Martini, Fatti psichici riviviscenti (studio psicologico), Catania, Francesco Battiato Editore, 1910.
  41. T. A. Milone, Per i dolori dell’anima: frammenti dal mio diario, Catania, Tipografia del Popolo, 1913, p. 1940.
  42. L. Capuana, Profumo, op. cit., p. 71.
  43. S. Freud, Isteria, in Id., Studi sull’isteria e altri scritti 1886-1895, in Id., Opere, I, Torino, Boringhieri, 1989, pp. 43.
  44. S. Freud, Sulla più comune degradazione della vita amorosa, in Id., Psicologia della vita amorosa, in Id., Opere, VI, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 421-32.
  45. L. Capuana, Profumo, op. cit., p. 183.
  46. Ivi, p. 182.
  47. Come ha messo in evidenza D. Marchese, Descrizione e percezione. I sensi nella letteratura verista, op. cit., pp. 64-65.
  48. Ivi, p. 221.
  49. Isteria su cui si sofferma V. Pappalardo, Capuana e Freud: un caso di contiguità tra letteratura e psicanalisi, in “…un dono in forma di parole”. Studi dedicati a Giuseppe Savoca, La Spezia, Agorà Edizioni, 2002, pp. 85-95. Cfr. anche E. Fusaro, Intuizioni prefreudiane nelle prime opere di Luigi Capuana (1879-1890), in «Versants. Rivista svizzera delle letterature romanze», n. 39, 2001, pp. 123-34.
  50. Per un’analisi di Profili di donne, attenta agli aspetti introspettivi e alle suggestioni iconiche che hanno influenzato la scrittura capuaniana, mi permetto di rinviare a D. Stazzone, Tra parola e immagine: Profili di donne di Luigi Capuana, in «Annali della Fondazione Verga», n. 8, 2015, pp. 101-109.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. II)