Vuoto e pieno in Bruce Chatwin. Morfologia del nomade collezionista

Author di Sebastiano Triulzi

Bruce Chatwin iniziò ad essere lo scrittore che tutti conosciamo non durante i sei mesi passati in Patagonia tra la fine del 1974 e i primi mesi del 1975 (cui seguì la pubblicazione, nel 1977, dell’omonimo romanzo), ma più di tre lustri addietro, nel 1958, quando, per quelle circostanze abbastanza occasionali che accadono di solito nella vita, andò a fare un colloquio di lavoro alla casa d’aste Sotheby’s grazie a una raccomandazione o meglio a una segnalazione di un amico del padre, che lo avvisò che lì stavano cercando del personale.

Chatwin era indeciso se iscriversi all’università e il padre gli aveva fatto capire che, nonostante l’alto costo della retta, la famiglia poteva aiutarlo a patto che le sue intenzioni fossero serie riguardo all’impegno nello studio. Chatwin era nato in una clinica di Sheffield il 13 maggio del 1940: tutte le testimonianze dicono che era bellissimo fin da piccolo e nelle Vie dei Canti dirà, come una sorta di autocelebrazione a rebours del gusto che poi circonderà la sua vita, che le prime immagini che vide da neonato furono «un capezzolo dondolante e una cascata d’oro»1. Quando andava a casa della nonna paterna, Isobe, la quale abitava in un sobborgo di Birmingham, poteva rimanere ore a contemplare una vetrinetta che si trovava nella camera da pranzo e che conteneva quello che poi chiamò «il museo di famiglia», cioè piccoli oggetti tramandati di generazione in generazione, ciascuno con una targhetta accanto che ne indicava contenuto e provenienza. Chatwin non proveniva da una famiglia agiata e nobile, ma dal ceto medio, e, forse non avvertendo grandi possibilità con una laurea in mano, rinunciò all’Università e si presentò da Sotheby’s. Nel 1958 aveva poco meno di diciotto anni: il colloquio di lavoro riguardava un impiego come garzone; non stavano cercando un esperto di un settore e d’altronde la sua preparazione sul mondo dell’arte era limitata agli studi compiuti nelle scuole, anche se si capiva subito che o la filosofia o la letteratura o l’arte potevano essere le sue passioni: avere la chance di entrare in quel mondo non gli dispiaceva certo, visto anche i suoi continui atteggiamenti da patrizio o giovane principe, per i quali veniva spesso preso in giro da amici e parenti. Oltretutto, in quel preciso momento storico, le case d’asta, in primis Sotheby’s e Christies, stavano conoscendo un forte sviluppo economico, in una sorta di concorrenza spietata tra loro, né disdegnavano operazioni moralmente dubbie nell’acquisizione delle opere da vendere (la più innocente era presentarsi in chiesa o al cimitero quando moriva un collezionista, per fare le condoglianze alla moglie e ai famigliari durante il funerale, in modo da stabilire dei contatti per la futura, e certa, dismissione del patrimonio artistico: il collezionismo è una passione che muore con il collezionista, di solito). A quel tempo ci si muoveva all’interno del mercato dell’arte con operazioni ai limiti della pirateria, senza disturbarsi eccessivamente, ad esempio, di conoscere l’esatta provenienza della merce o delle collezioni di cui ci si impossessava. Inoltre, di lì a poco si assistette al boom dell’impressionismo e soprattutto dell’arte preistorica, africana, nomade, antropologica, paleontologica, di cui divenne massimo esperto proprio Chatwin2.

I motivi per cui l’astutissimo presidente della Sotheby’s, Peter Wilson, lo assunse alla prima occhiata, Chatwin li intuì solo qualche anno dopo. In un primo tempo il suo lavoro era quello di “spazzappartamenti”, anche se di giorno in giorno imparava sempre più a osservare gli oggetti e a descriverli, a tenerli in mano, a tastarli, a guardarli intensamente, affinando la proprio memoria fotografica: restava ore a studiare un oggetto, da diverse angolature, col risultato che non aveva bisogno di prendere le misure, come gli altri suoi colleghi, conservando tutto in mente.

Anche le stesse segretarie venivano scelte da Wilson secondo misteriosi criteri; con l’esperienza comprese che erano tutte nipoti o cugine o parenti di primo o di secondo grado, di famiglie potentissime cui appartenevano collezioni stratosferiche: grazie al loro lignaggio e ai rapporti parentali, erano in possesso di informazioni preziosissime, di prima mano, sul grande mondo del collezionismo. La prima caratteristica era, dunque, quella del lignaggio: le donne, le ragazze assunte nella casa d’aste, rappresentavano il tramite per poter accedere a informazioni dirette su chi compra e chi vende (ed è un criterio che permane ancora oggi, così si dice). Elizabeth apparteneva, e questo elemento fece presa su Chatwin, a una famiglia americana di collezionisti3, anche se un po’ in decadenza, cosa che lui ignorava: donna straordinaria, intelligente, anche ideale per lui abituato a viaggiare da solo (e ad avere molti e molte amanti), Elizabeth rinunciò fin da subito a qualsiasi idea di matrimonio tradizionale, conservando sempre la memoria del marito dopo la sua morte.

Wilson concedette subito al giovane Chatwin un certo potere nel reparto delle antichità, perché sapeva che i collezionisti più importanti con cui intratteneva rapporti di lavoro o che aspirava ad avere come clienti di Sotheby’s appartenevano al mondo gay, e uno come Bruce, bello e pieno di fascino, era perfetto per i suoi scopi. Il suo aiuto veniva anche richiesto nei momenti di crisi e di indecisione del collezionista: una volta, quando un collezionista innamorato adombrò la possibilità di ritirare le proprie opere a catalogo ormai chiuso, Chatwin venne prontamente mandato a casa sua e invitato a non sottilizzare troppo se gli fosse stato chiesto di rimanere la notte, cosa che puntualmente accadde. Chatwin era bisessuale e, come sappiamo tutti, morì poi di aids. Dunque, almeno all’inizio, la sua prima qualità risiedeva nel suo eccezionale sex appeal, che lo aiutava a “intortare” donne e uomini ricchissimi, sedotti dalla sua parlantina, dai suoi modi, dalla sua disinvoltura: come scrive il suo biografo, Nicholas Shakespeare, Bruce «si interessava al proprietario quanto all’oggetto».

La seconda qualità per cui venne scelto è che per nascita aveva un occhio infallibile, un occhio d’oro: il che significava che, se entrava in un magazzino dove erano poggiati quattrocento oggetti, quello che prendeva in mano era sempre l’oggetto migliore. Iniziò subito a scoprire capolavori e a stanare i falsi: a un certo punto, mentre stavano impacchettando un Renoir per una vendita decisa da tempo, disse: «quello è un falso». Il suo capo pensò a quanto fosse saccente, e gli rispose che era uno sbarbatello ventenne che credeva di sapere tutto, ma dopo poco si venne a scoprire che quel quadro era davvero falso e l’asta venne bloccata. Nell’arco di un solo anno Chatwin divenne potentissimo, con tutte le malevolenze che intanto cominciavano a circolare sul rapporto tra lui e Wilson: a soli ventidue anni, lavorando ai reparti dell’antichità e dell’Impressionismo, iniziò a viaggiare per tutto il mondo per vedere le collezioni e fare le perizie delle opere; veniva invitato alle cene, ai cocktail, alle feste, e accompagnato in limousine, mentre davanti ai suoi occhi passavano miliardi di denaro in oggetti che doveva selezionare e mettere all’asta. In pratica, l’esperienza alla Sothebys lo corruppe in maniera così profonda che divenne un drogato di oggetti di lusso, accentuando ancor di più la sua vena di esteta assoluto. E Chatwin lo era senza pari: quando si fidanzò con Elizabeth, le regalò un anello di fidanzamento del terzo secolo avanti Cristo con impresso un leopardo che si girava per togliersi una freccia; era un pezzo da novanta per stile e bellezza4.

Il suo era un livello altissimo anche per gli standard dei più raffinati dandy: i collezionisti gli cadevano ai piedi, e si fidavano ciecamente, nonostante fossero inizialmente e naturalmente insospettiti dalla giovane età, dubitando della sua competenza, per venire smentiti un attimo dopo. Gli venivano affidate le missioni più delicate: durante la guerra dei sei giorni contro Israele, gli egiziani decisero di vendere sotto banco dei pezzi del museo egizio del Cairo per comprare dei mig: dalla Sotheby’s giunse Chatwin, il quale però si accorse subito che, in un clima così drammatico, con gli allarmi e i bombardamenti aerei, qualcuno in alto loco ci aveva ripensato e così gli proposero solo cianfrusaglia, per cui il progetto andò a monte. Nei tanti viaggi che fece per lavoro5, visitò opere al Cairo, in Afghanistan, in Sud Africa, soprattutto arte antica, che magari riportava sotto banco alla Sotheby’s: ogni tanto capitava che alcuni oggetti li portasse a casa sua prima della vendita, solo per poterli contemplare, per poterli avere, anche se per poco, con sé. Come tanti altri, anche Bruce cominciò a fare un po’ la cresta o a comprare dei pezzi, privatamente, di nascosto, che poi rivendeva: trovò un oggetto che, però, sarebbe costato tantissimo se lo avesse portato da Sotheby’s, per cui durante il tragitto verso l’ufficio gli staccò le colonnine; in questo modo divenne bello ma difettoso; all’asta se lo aggiudicò a un prezzo basso, poi a casa rimise al proprio posto la parte tolta, ritrovandolo intergo. Fu così che guadagnò i soldi con cui finanziò i suoi primi grandi viaggi: per certi versi, dal desiderare una vita di lusso era passato al potersela permettere.

Rispetto all’idea dello scrittore nomade, del viaggiatore con le scarpe consumate e lo zaino in spalla, che gelosamente e in modo romantico conserviamo di lui attraverso anche la seducente visione di un’alternativa al consumismo6, lo studio della sua biografia ci squaderna, invece, un altro Chatwin, un Chatwin che conservò sempre il desiderio spasmodico di fare denaro o di spenderlo, per contornarsi di oggetti bellissimi. Piano piano il suo intero sistema entrò, però, in crisi: disgustato dal mondo dell’arte, dalla lobby dei collezionisti, dalla marea di soldi che giravano e di splendori che andavano in mani private, cadde vittima di una specie di nevrosi che lo colpì agli occhi, e imputò il suo male proprio a questo disgusto. Wilson lo aveva spremuto come un limone, aveva ottenuto tutto ciò che poteva dal suo occhio e dal suo fascino: e certamente per lui fu come trovarsi gettato in un perenne mondo dalle mille e una notte, un mondo che lo aveva stordito, vezzeggiato, adulato. La malattia psicofisica, da stress da lavoro, che lo portò a rischiare la cecità conteneva in sé qualcosa di simbolico, e che possiamo leggere anche come una sorta di stanchezza nel guardare, nell’osservare, tanto che decise di liberarsi di tutto, di liberarsi anche di quel lavoro e della schiavitù degli occhi che dovevano sempre guardare gli oggetti per una valutazione di ordine sia estetico sia ovviamente monetario, e di compiere il suo primo grande viaggio.

Improvvisamente, dunque, in maniera inaspettata anche per chi lavorava con lui, si licenziò dalla Sotheby’s, stufo di essere usato come esca da Wilson e convinto che l’adesione a quel mondo dell’arte fosse equivalente a un prostituirsi: la sua carriera sarebbe stata di sicuro avvenire perché Wilson faceva capire a tutti, ma lui allora non se ne rendeva conto, che Bruce sarebbe diventato il nuovo direttore, una volta che lui fosse andato in pensione. La goccia che fece traboccare il vaso fu una sorta di raggiro che Wilson e un suo compare avevano messo in piedi ai danni di una vedova, con l’aiuto di Chatwin. La convinsero a vendere di nascosto dei pezzi da novanta di una collezione che per testamento sarebbe dovuta rimanere integra, avvalendosi di un escamotage che è quasi una tradizione nell’ambiente dell’arte: finsero di aver smarrito, durante un viaggio in treno, l’archivio della collezione e, mentre lo stilavano di nuovo, alcuni oggetti magicamente sparirono. A questa operazione truffaldina partecipò anche Chatwin, che però alla fine non “beccò” una lira: alla fine, gli affari sono sempre affari e a nulla vale essere “pappa e ciccia” col direttore in questi casi. Licenziarsi volle dire dare un colpo al cuore a Wilson, il quale lo considerava il suo pupillo, il suo ragazzo d’oro: di solito, le persone amavano Bruce o trovavano la sua spocchia, la sua strafottenza, veramente insopportabile, era uno che faceva andare in bestia facilmente, come possiamo immaginare.

Brillantissimo affabulatore e «conversatore compulsivo», come sottolineò Salman Rushdie, con relazioni altissime a livello sociale, pieno di amanti (e amanti di un certo mondo), era generoso con gli amici, nel senso che quando pensava a qualcuno questi se ne accorgeva: «Sapeva cosa regalare e rifletteva sui suoi regali. A Emma Tennant regalò un paio di orecchini d’oro con una testa di leone che venivano da Micene, del 3000 avanti Cristo»7. Dopo l’uscita dalla Sotheby’s, venne pagato clandestinamente dalla Christies per fare delle consulenze, ma non era andato via dal suo primo impiego per lavorare al soldo dei nemici. Fu a questo punto che scelse la strada del nomadismo, che si abbandonò, secondo alcuni, a un tipo di esistenza “inversamente proporzionale” rispetto a quella che aveva condotto fino a quel momento: non va, tuttavia, commesso l’errore di rubricare alla stregua di un gran rifiuto questa uscita dal mondo delle case d’aste fatto di lusso, di spreco, di oggetti sacri, di scialo di denaro, di eterna bellezza; sempre con Chatwin c’è il rischio di ridurlo a santino, di mal interpretare questa sua scelta. Conserverà sempre, al contrario, la sua eccezionale vena di esteta, tanto che acquisterà, nei numerosi viaggi che compirà, oggetti magnifici, e di alcuni vorrà contornarsi anche negli ultimi istanti della sua vita.

Si iscrisse all’università, pur essendo avanti con gli anni, tra i ventiquattro e i venticinque, optando per archeologia, perché sentiva che qualcosa gli mancava, anche se in realtà aveva un’immagine hollywoodiana, avventurosa dell’archeologo: la tipologia di studio classificatorio lo stancò presto e si mise a fare delle missioni, dettate anche dalla necessità di guadagnare qualcosa (Elizabeth poteva contare su una rendita che le permise di comprare una casa in campagna, non era milionaria) vendendo degli oggetti grazie a conoscenze acquisite col lavoro alla Sotheby’s e al nome che si era fatto nell’ambiente dell’arte: talvolta, riceveva una telefonata da un mercante che gli chiedeva di andare a Kabul perché erano stati ritrovati dei reperti e voleva una sua consulenza; e lui, a differenza di altri, prendeva l’aereo e partiva.

Giramondo irrefrenabile, e fenomenale teorico del «camminare domandando», anche quando pubblicò i suoi cinque libri, il denaro ricavato lo usò ancora per viaggiare e per comprare opere o manufatti d’arte, per compiere dunque «viaggi di ricerca»8: raccontano che viaggiava come fosse Greta Garbo, pieno di enormi bauli e con tutte le comodità possibili, anche se poi poteva trovarsi in situazioni estreme o pericolose. Passarono più di quindici anni da quando lasciò la casa d’aste all’avvento del successo letterario; nel frattempo, si mise a viaggiare instancabilmente, sapendo di poter contare sul proprio occhio infallibile, eccezionale risorsa che usava soltanto per accumulare denari che gli servivano per progettare sempre nuovi itinerari, comprando oggetti di cui all’improvviso si innamorava in pieno nomadismo.

Trovare delle committenze divenne fondamentale, per cui si diede al giornalismo collaborando col «Sunday Times Magazine», che lo spedì in giro a fare delle interviste; e poi gli commissionò il libro antologico Un milione di anni di storia dell’arte, che lui, pur non possedendo un’istruzione accademica, poteva fare magistralmente proprio perché aveva una conoscenza infinita della storia dell’arte e degli stili (addirittura inserì alcune foto dei pezzi della sua collezione). In quegli anni tentò di scrivere un romanzo, ma non riusciva mai a finire ciò che cominciava, non sapeva tagliare o stare nei paletti che si era prefissato: bisogna, dunque, essere grati alla sua attività come giornalista, che gli ha consentito di acquisire un gusto e un ordine nel processo creativo, e di approdare a una «prosa freddamente distaccata e abbagliante»9.

La stessa casa di Chatwin costantemente passava dall’avere le pareti bianche e spoglie come quelle di un igloo al contenere quasi a fatica pezzi meravigliosi raccolti durante le sue spedizioni e che poi, a un certo punto, rivendeva tutti per potersi permettere un altro viaggio. Acquistava oggetti magnifici perché vittima di un incantamento, di un grande amore; poi, però, li lasciava andar via, letteralmente se ne liberava. La condizione è la stessa di chi vive prima uno stato di anoressia poi uno di bulimia, una staffetta perenne, una sorta di pendolo nella vita di Chatwin, la cui irrequietezza era solo una delle rappresentazioni visibili di questa incessante dicotomia: all’interno di quello che definiva come «Wonder Voyage», riferendosi in questo modo al senso e al motivo della sua scrittura, l’appropriazione e la raccolta di cose belle per poi inevitabilmente lasciarle rappresentavano uno degli aspetti più evidenti del nomadismo: come spiegò nel saggio La moralità delle cose10, la tendenza a muoversi e a cambiare fa parte di una determinazione primordiale, ed è inscritta nel destino stesso della nostra specie11.

L’unica cosa che conserverà sempre sarà una scatoletta con dei manufatti molto piccoli che gli ricordava la prima grande meraviglia dell’infanzia, la vetrinetta della nonna. È chiaro che questa scatola di cartone conteneva reperti da capogiro, con cui giocava come fossero degli scacchi: Rushdie scrisse che quella scatoletta assomigliava a una «scatola di caramelle», e che ogni tanto un pezzo prendeva il posto di un altro; erano oggetti semplici, sacri, piccoli che poteva tenere nel palmo di una mano, come, ad esempio, un alamaro esquimese, un coltello Ainu simbolo di lunga vita, una tabacchiera Ngoro di lacca rossa, un ornamento per il naso fatto con una conchiglia, una pedina di gioco egiziana, una scatola di lacca marrone del XVI secolo, oggetti costati centinaia di sterline al massimo. La cifra più alta pagata da Chatwin in trent’anni di caccia era stato 4000 sterline per un dipinto a olio intitolato Gli ambasciatori: nell’ultimo anno di vita, quando ormai sapeva che la morte si avvicinava, regalò questi oggetti agli amici più cari. Simbolo della stabilità, della casa, dello spazio psichico e del fantastico, anche se in miniatura, la scatoletta era il suo vero tesoro, un tesoro che aggiornava a ogni viaggio, e che era legato idealmente al possesso della nonna della vetrinetta vittoriana, che poi trasfigurerà negli scaffali di lastre di vetro di proprietà del sedentario, immobile collezionista Utz, protagonista dell’omonimo romanzo ed emblema della psicopatologia del collezionista irrefrenabile (oltre che suo doppio distorto).

A quella vetrinetta è legata anche la principale spinta nel compiere il celebre viaggio in Patagonia, perché all’interno vi era contenuta una pelle speciale, la storia del cui possesso la nonna gli raccontava sempre: era appartenuta a uno zio e tutti, in realtà, credevano fosse di un brontosauro. A condurlo in Argentina fu proprio la ricerca della verità su questa pelle («il più grande enigma della sua infanzia»12), per poi scoprire alla fine, all’interno di una grotta, che era appartenuta a un più comune bradipo gigante: così si concluse il suo viaggio (e di conseguenza, il romanzo). Tutto, dunque, era nato da una vetrina, che custodiva degli oggetti preziosi su cui da bambino fantasticava: in Chatwin il collezionismo fu sempre una sorta di camera delle meraviglie, e non bisogna credere che fosse attratto dal quadro impressionista o dall’opera di Picasso, ma soprattutto da un copricapo atzeco o da un mantello di pelli di pitone di una tribù africana, cioè da oggetti nomadi: quando collezionava piccoli oggetti nella scatoletta, in questa wundercamera classica, in un senso di stupefazione, raccoglieva e custodiva suppellettili anonime che testimoniano, però, di un’intera civiltà. Quando si era già licenziato da Sotheby’s e stava facendo lo studente di archeologia, a Londra organizzarono una grande mostra sull’arte nomade e africana: chiamarono Wilson per avere un consulente e lui rispose: «vi mando Chatwin», con il quale nel frattempo aveva ristabilito dei contatti. Questi studiosi, tutti esperti e professori di archeologia, si videro arrivare un ragazzetto con gli occhi azzurri, ben vestito e ripulito, e restarono basiti: «noi avremo bisogno veramente di sapere dove si trovano i pezzi più belli», gli dissero, con una dose di scetticismo e ironia; ma lui cominciò a indicare con precisione a chi rivolgersi, in quali musei andare, cosa in particolare richiedere. Utilizzò i propri contatti e le proprie conoscenze per mettere in piedi di fatto la mostra, andando lui direttamente nei paesi africani, in Afghanistan, India, Russia per scegliere uno a uno i manufatti: Chatwin scrisse anche il saggio introduttivo per il catalogo, che era per gli studiosi pura invenzione, pura fantasticheria; non c’era nulla di scientifico, però pretese e ottenne che nessuno ne toccasse neanche una riga. La sua memoria e la sua conoscenza delle opere facevano impressione: lo scrivere, che segna l’ultimo decennio della sua vita, è solo una parte rispetto a tutto questo, alla presenza del mondo dell’arte nella sua esistenza (il che ebbe un peso anche in quella sua ricerca o riappropriazione di un’estetica del sublime che ha, tra l’altro, apparentato una generazione di scrittori inglesi)13.

Come sappiamo, nel 1989 Chatwin morì di Aids, anche se fino agli ultimi mesi di vita non pronunciò mai questa parola in pubblico: sosteneva che si trattava di un fungo preso in una tribù africana, o di una rara malattia dell’Australia, o di sterco di pipistrello, o di un’infezione del sangue, non voleva che i genitori sapessero. Fu uno dei primi conclamati casi di Aids in un momento in cui si stava per scatenare una caccia alle streghe, col terrore assoluto per i «contagiati», in una Londra dove ammalarsi era motivo di vergogna e addirittura si pensava che l’infezione avvenisse al contatto, come se fosse una nuova peste. Oltretutto non confessò mai di essere bisessuale, e dunque, era comprensibile che vivesse malissimo questo suo orientamento.

C’è una sua ultima intervista, concessa ad Herzog, che aveva diretto Cobra verde tratto dal suo libro Il viceré di Ouidah, che profondamente scuote lo spettatore: alla fine la telecamera inquadra il regalo che gli ha fatto Chatwin prima di morire, il suo zaino: continuava ancora viaggiare con lo stesso zaino, sempre con questa mania degli oggetti, del feticcio. Presto si ritrovò sulla sedie a rotelle, ormai scheletrico, e alla moglie disperato disse: «se non posso camminare, non posso scrivere»14. Negli ultimi quattro o cinque mesi di vita, il virus, come una droga, andò a colpire degli elementi neurologici che portarono al parossismo le sue caratteristiche o le sue manie, senza compromettere «la sua scioltezza verbale e la sua capacità di incantare chi lo ascoltava»15; è come se, d’improvviso, fosse stato potenziato nell’io, fino a perdere i limiti della vita, del tempo, dello spazio. Chatwin entrò in una specie di delirio di collezionismo e di acquisti, quasi da romanzo, quasi da film: in un giorno firmò cambiali per circa quattro milioni di euro. Aveva deciso che prima di morire avrebbe costituito una collezione dedicata alla moglie Elizabeth con tutti gli oggetti che reputava delle concrete meraviglie e che potessero rappresentare tutte le religioni, o meglio, che fossero, la formalizzazione dell’incrocio di tutte le religioni. Per cui lui si recò nei migliori negozi di Londra, dove lo conoscevano tutti perché era il mitico consulente della Sotheby’s (e non il mitico scrittore di Viaggio in Patagonia): in una esaltazione totale andò a parlare con il direttore della National Gallery di Londra perché voleva donare la collezione dedicata a sua moglie, pretendendo in cambio la disponibilità di una stanza. Nel giro di poco tempo comprò di tutto, da un acquarello di Cezanne a un manufatto africano dell’VIII secolo: i suoi amici e la stessa Elizabeth organizzarono a quel punto un sistema di protezione, uno scudo, andando a parlare con commercianti e galleristi e chiedendo di avere pazienza un paio di mesi perché dopo la sua morte avrebbero restituito tutti gli oggetti, che comunque lui non era in grado di pagare. Visto che l’avidità non manca mai negli esseri umani, al pari della vanità, alcuni invece protestarono gli assegni e li presentarono postdatati, ma la stragrande maggioranza capì qual era il problema.

Mise in piedi la collezione delle collezioni, che non era il frutto di una vita ma del delirio di giorni, firmando assegni da sei zeri, comprando oggetti che costavano uno sproposito; per cui, ad esempio, vide in un negozio la pelle di una tigre reale che era un mantello di un santone di una tribù il cui prezzo era ovviamente astronomico e telefonò al suo editore perché assicurasse il venditore che i soldi sarebbero arrivati. Spendeva cifre astronomiche che non possedeva, e tutto avveniva secondo i canoni di una scena quasi comica, quasi da Commedia dell’arte, per cui, mentre Chatwin usciva dalle gallerie, intanto gli amici avvertivano il gallerista che era come impazzito, e che però, essendo per lui motivo di felicità, in quel momento la felicità massima, chiedevano di lasciargli questa illusione; ed è bello che molti pensino in fondo che è coerente con ciò che Chatwin è stato: d’altronde, quando entrava in una casa o in una galleria, sceglieva sempre il pezzo migliore. Voleva che assurgesse a monumento commemorativo per Elizabeth, che erigeva anche a se stesso, al proprio gusto: era convinto di aver guadagnato moltissimo come scrittore e dalla vendita dei diritti cinematografici, credeva che il suo conto in banca straboccasse e che i soldi gli fossero arrivati come una benedizione, proprio quando era meno capace di usarli con criterio. Incredibilmente tutto questo non aveva intaccato il suo occhio, che funzionava ancora, terribilmente preciso, infallibile e, mentre Kevin Volans spingeva la sua carrozzina, lui comprava oggetti che appendeva sulle maniglie. Molti tra i più importanti galleristi al mondo si prestarono a questo gioco, e la sua stanza si trasformò in una scena delle Mille e una notte, con mercanti che venivano a proporre la merce. Morì nella sua casa circondato da tutti questi oggetti che poteva vedere e toccare, perché c’è anche una meraviglia tattile che è indissolubile in chi è avvinto dalla gioia della collezione, e il cui compito era di accompagnarlo incontro alla morte. Purtroppo, è una collezione invisibile, che si è volatilizzata una volta chiusi i suoi occhi: ci rimane una lista16 che comprende un bozzetto in cera del Nettuno del Giambologna; un bracciale dell’età del bronzo acquistata per 65mila sterline e una testa etrusca per 150mila; un coltello inglese di giada dell’epoca preistorica; un’ascia norvegese di selce; un copricapo delle Isole Aleutine; un’anatra assira di quarzo; una pezza di seta del XVIII secolo usa a ricoprire le sedie di una sala da pranzo; il tappeto in tigre tibetana; un’incisione di Giorgio Ghisi, XVI secolo, intitolata La malinconia di Michelangelo, che «mostrava una figura assorta sul ciglio di un enorme stagno circondato da mostri marini, leoni e uccelli», ventimila sterline il prezzo; una pagina larga un metro con due righe del principe Baysughur, il figlio di Tamerlano, valore all’epoca 45mila sterline; un pezzo del Forte Rosso, che è oggi un sito patrimonio dell’Unesco; un altare portatile del XII secolo proveniente da Losanna; un calamaio di tartaruga della dinastia Han; un’icona da 70mile sterline di San Paraskevi con un manto sgargiante color pomodoro; una collezione di abiti di Fortuny degli anni Venti; un arazzo medievale; l’ultimo acquerello di Cezanne del Mont Sainte-Victoire quasi tutto bianco; un completo ricamato di Chanel per Elizabeth simile a una corazza (e avrebbe desiderato aggiungervi anche i vestiti della duchessa di Windsor o una Bugatti da due milioni di sterline).

L’unico oggetto da cui non si separò mai era un tappeto che stava dietro alla sua stanza e che aveva comprato per Elizabeth: era bicolore, fatto tutto con penne di pappagallo, e risaliva alla civiltà Incas del II secolo a. C; l’aveva visto una volta in un negozio e, dopo essersi informato su quanto costasse, confessò al gallerista che in tasca aveva solo i 150 dollari che gli servivano per il suo matrimonio. Il gallerista gli rispose: «prendo i 150 dollari e come regalo di nozze ti do il tappeto». Qualche anno dopo gliene offrirono 25mila per quel pezzo, senza successo. Nei documentari su Chatwin in cui viene intervistata Elizabeth, lei compare sempre con alle spalle questo magnifico tappeto. Il suo primo editor troverà17, a ragione, delle assonanze tra il suo modo di scrivere e il tipo di lavoro che gli si chiedeva nella casa d’aste e nel quale primeggiava: eccezionale capacità di catalogazione da un lato, registrazione intuitiva di moltissimi dettagli dall’altro – dell’oggetto d’arte prima, della persona quando scriverà – e infine la ricerca e la scoperta di una storia, di un racconto (dietro l’uno e dietro l’altra). Nei momenti più felici del lavoro alla Sotheby’s tutto si trasformava in una caccia al tesoro e questa tecnica venne applicata successivamente, quando si trattò di passare alla descrizione di un paesaggio o a spiegare l’incontro con l’altro, la sua presenza in un determinato luogo o città.

Contrario alla gerarchizzazione dell’arte, secondo l’impostazione di Ludwig Goldscheider, Chatwin possedeva la rara capacità di trovare una perla ovunque, anche nel deserto, che fosse un racconto, un manufatto antico, una situazione, un oggetto d’arte: perfino il suo nomadismo, col desiderio di vivere giovandosi solo di pochi beni ed evitando le trappole repressive della vita stanziale, apparteneva all’ambito dell’eccesso, in una costante oscillazione tra vuoto e pieno, pur prefigurandosi come anelito, come feroce critica della civiltà occidentale, forse anche come utopica anticipazione di un concreto cambiamento sociale18.

Viaggio in Patagonia fu un grande successo editoriale, anche perché mostrò un nuovo modo di fare letteratura di viaggio: la maggior parte delle recensioni furono positive; in quelle negative venivano evidenziate le parti in cui si era inventato una Patagonia che sulla carta non esisteva. Cominciarono subito a essere organizzati dei tour per turisti nella regione, sulle tracce del romanzo (Chatwin sosteneva che non gli piaceva stare negli scaffali della letteratura di viaggio, ma preferiva quelli della narrativa, perché nel primo caso sarebbe stato accanto alle Seychelles, mentre nel secondo avrebbe avuto come vicino Checov, e c’era una bella differenza).

In alcuni saggi che compongono Che ci faccio qui, si scagliò contro il feticismo; poi, però, scrisse uno dei più grandi romanzi sul feticismo, Utz, libro su un collezionista di ceramiche la cui vicenda gli fu ispirata da un collezionista conosciuto realmente ai tempi della Sotheby’s e che lo aveva molto impressionato. Nella sua ultima intervista alla BBC sostenne che l’amore trionfa sempre sull’arte, la quale peraltro «ti delude sempre»: eppure il sogno della collezione tornerà ossessivo fino all’ultimo.

Una delle sue caratteristiche, anche come viaggiatore, anche nel nomadismo, non solo nella scrittura, era quella di essere nell’eccesso, di vivere in un perenne stato tra l’insaziabile appetito e il ferreo digiuno, un specie di virus che aveva contratto alla Sotheby’s, quello della febbre e del contatto con gli oggetti, o meglio della forza degli oggetti, dei feticci: che poteva esecrare nei suoi libri, sostenendo la necessità di liberarsi dalla smania di possesso; però, poi trascorreva sei mesi a cercare la casa ideale dove scrivere, vagabondando da tutti gli amici e piazzandosi da uno in particolare perché lì c’era la stanza dove scriveva bene (chi ha compilato queste note ha avuto la fortuna di dormire nel letto di Chatwin, nella Torre proprietà della fondazione Von Rezzori).

In una lettera alla suocera, scrisse: «Ho invidiato la ricchezza e ho cercato di impossessarmene», ma ora «voglio liberarmene»; e un’altra volta: «Ho sempre pensato che più regali o butti al vento più ne hai»19. Ossessionato dalla bellezza degli oggetti, Chatwin si muoveva in una continua oscillazione tra il possesso e lo spogliarsi delle cose, dunque, e ancora, tra un elemento stanziale e un elemento nomade, dove il sentirsi attratto dalla leggerezza del viaggiatore si accompagnava alla smania del collezionista. Questa duplicità trovò la sua prima realizzazione in Viaggio in Patagonia, in cui non fa altro che collezionare incontri, collezionare persone, collezionare storie, puntualmente incredibili, eccezionali, come fossero, anche queste, delle pepite scovate nel nulla (forse per questo c’è chi ha parlato di aver letto, in realtà, una sequela di narrazioni di testi letterari e non la storia di un viaggio)20.

L’aver lavorato in una casa d’aste, per poi ritrovarsi a comprare e a disfarsi di tutto ogni volta, lo rendeva vittima di questa continua oscillazione di pieno e di vuoto. L’occhio d’oro che gli aveva permesso di stupire i suoi datori di lavoro è lo stesso che guiderà la sua mano nel momento della scrittura: anche come autore rimase sempre e comunque un collezionista che, però, era in grado di restituire il fascino degli incontri e delle storie che raccoglieva. Non era propriamente un accumulatore di soldi, ma di oggetti meravigliosi che diventavano icone, diventavano idoli, diventavano tesori; e dei quali si liberava una volta che aveva deciso di ripartire, per cui l’irrequietezza faceva parte di questa oscillazione.

Non è facile da interpretare questa tipologia di rapporto col denaro e con le cose: nel momento in cui si mette in cammino (condizione che Chatwin reputava originaria dell’uomo nella sua teoria sul nomadismo, per cui l’uomo è nato che cammina e il bambino si addormenta non per il cullare ma il cullare è il movimento della madre che cammina), cerca di far rivivere quello che era il suo grande progetto poi mai realizzato, il ritorno alle civiltà nomadi; quando, invece, diventa stanziale, i muri del suo appartamento si riempiono di opere e le stanze di oggetti o di statue, e si ritrova circondato da questi tesori e feticci che testimoniano il viaggio, sempre scelti con grande gusto, e che poi rivenderà per rimettersi in cammino. Nell’attimo in cui si libera di tutti gli oggetti, è libero anche di viaggiare: ciò è molto bello perché dà una dimensione di oscillazione continua tra il possedere e l’essere liberi, dimensione che riflette, più fedelmente di tante altre considerazioni, la sua interiorità e indica anche uno dei motivi fondamentali della sua produzione.

In La via dei canti c’è il senso del possesso come il possedere dei canti, cioè il possedere un patrimonio di avventure, di immagini, di melodie; in Utz, in cui la dedica è rivolta al collezionismo, il collezionista di ceramiche attraversa il tempo, la storia, le dittature pur di conservare, di mantenere la propria collezione. Lo stesso scrivere significa mettere in mostra la propria collezione: questo è ciò che fa Chatwin nei suoi libri. Non esiste una separazione tra un primo periodo, in cui è un intenditore d’arte, e un secondo, in cui è un viaggiatore solitario; in realtà, oscilla in continuazione tra l’uno e l’altro status, tra il vuoto e il pieno, con la consapevolezza che il tuo vuoto comunque non puoi mai riempirlo con altri pieni.

  1. N. Shakespeare, Bruce Chatwin, trad. it. di Mariapaola Dettore e Sandro Melani, Collana «I saggi» n. 144, Milano, Baldini & Castoldi, 1999, I ed., p. 15.
  2. Cfr. E. White, Bruce Chatwin, in «Arts and Letters», 2004, p. 124.
  3. N. Shakespeare, Bruce Chatwin, op. cit., p. 26.
  4. Ivi, p. 39.
  5. Cfr. D. Taylor, Bruce Chatwin: Connoisseur of Exile, Exile as Connoisseur, in «Travel Writing and Empire: Postcolonial Theory in Transit», 1999, pp. 195-211.
  6. Cfr. M. Graves, Nowhere Left to Go? The Death and Renaissance of the Travel Book, in «World Literature Today», vol. 77, n. 3/4, Oct.-Dec. 2003, p. 54.
  7. N. Shakespeare, Bruce Chatwin, op. cit., p. 96.
  8. M. Mott, Nomads and Settlers in the Writing of Bruce Chatwin, in «The Sewanee Review», vol. 100, n. 3, pp. 480-84, Summer 1992.
  9. I. A. D. Stewart, The Sincerest form of Flattery: A Note on Bruce Chatwin’s «The Estate of Maximilian Tod» as an Imitation of Borges, in «The Modern Language Review», vol. 96, n. 3, luglio 2001, p. 731.
  10. B. Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza, Milano, Adelphi, 1966.
  11. Cfr. J. M. Merino, Anatomía de la inquietud by Bruce Chatwin, in «Revista de libros», n. 4, Apr. 1997, p. 50.
  12. C. M. Moreno, Bruce Chatwin, viajero indómito, in «El Ciervo», Año 43, n. 522/523, settembre-ottobre 1994, p. 27.
  13. Pensiamo, ad esempio, a Martin Amis, Julian Barnes, Jeanette Winterson, come sostiene Catherine Bernard in A Certain Hermeneutic Slant: Sublime Allegories in Contemporary English Fiction, Contemporary Literature, vol. 38, n. 1, Spring 1997, pp. 164-84.
  14. L’alternativa nomade. Lettere 1948-1989, trad. di Mariagrazia Ciani, «La Collana dei casi», Milano, Adelphi, 2013, p. 118.
  15. N. Shakespeare, Bruce Chatwin, op. cit., pp. 138 e sgg.
  16. Ivi, pp. 235-36 e sgg.
  17. Ivi, p. 84.
  18. Cfr. M. Williams, Escaping a Dystopian Present: Compensatory and Anticipatory Utopias in Bruce Chatwin’s «The Viceroy of Ouidah» and «The Songlines», in «Utopian Studies», vol. 14, n. 2, 2003, p. 99.
  19. N. Shakespeare, Bruce Chatwin, op. cit., pp. 156 e sgg.
  20. Cfr. K. Featherstone, Not just travel writing: an interdisciplinary reading of the work of Bruce Chatwin, PhD thesis, Nottingham Trent University, 2000, p. 39.

(fasc. 22, 25 agosto 2018)