Quella di Rocco Scotellaro (1923-1953) è stata una delle più interessanti figure intellettuali del nostro Novecento. Scrittore meridionale e meridionalista, nonché giovane sindaco socialista di Tricarico (MT), nella sua breve vita è riuscito a unire letteratura, politica e indagine sociologica, offrendoci una lucida e preziosa analisi della realtà della sua terra natale e, più in generale, di tutto il Sud Italia. Uno scrittore che ha fatto della letteratura (mai slegata dall’impegno politico) uno strumento di lotta e di denuncia a favore delle classi subalterne, ma che per troppo tempo è stato sottovalutato, messo da parte o relegato a riduttive e fuorvianti etichette come quella di “poeta contadino”.
Nel 2019 l’uscita dell’attesa edizione di Tutte le opere di Rocco Scotellaro – pubblicata da Mondadori, a cura di Franco Vitelli, Giulia Dell’Aquila e Sebastiano Martelli – ha reso finalmente fruibile in un unico volume e in un’edizione criticamente fondata la sua intera opera, circolata a lungo in edizioni parziali, rimaneggiate o di difficile reperibilità.
Oggi, invece, nel doppio anniversario dei cento anni dalla sua nascita e dei settanta dalla morte, una nuova e aggiornata interpretazione dell’intera opera dello scrittore lucano ci viene offerta da questo eccellente saggio di Marco Gatto che, come ha scritto Goffredo Fofi nella sua prefazione (pp. 11-14), «rende giustizia alla complessità e soprattutto e nonostante tutto all’attualità di una figura come quella di Scotellaro» (p. 11).
Il volume, di per sé breve (poco più di 150 pagine) ma molto denso, si articola in cinque ampi capitoli che ripercorrono accuratamente l’intera breve vita di Scotellaro e analizzano tutte le sue opere, che vengono costantemente poste in relazione alle sue idee e alla sua attività politica. L’esperienza letteraria di Scotellaro, infatti, non viene mai scissa dalla sua militanza politica, anzi, è letta e interpretata proprio in rapporto a tale militanza. Intellettuale gramsciano, il suo impegno meridionalistico non venne mai disgiunto da un progetto pedagogico di emancipazione culturale che lo scrittore portò avanti con gli strumenti della mediazione e della mimesi, passando dalla poesia alla narrazione, dalla drammaturgia alla ricerca sociale.
Nel primo capitolo (pp. 15-45), l’autore sottolinea la necessità di ripoliticizzare Rocco Scotellaro, in quanto «una prima e sostanziale lettura politica dell’opera di Scotellaro e del suo lascito si è data in anni fin troppo lontani dai nostri […] prima che si arrestasse, non senza qualche sporadica ripresa di interesse, nei decenni successivi» (p. 15). L’autore intende presentare lo scrittore lucano quale interprete di un’esigenza universalistica che vede il «Sud come campo unitario d’azione e non come congerie di particolarismi o di partizioni territoriali: un Meridione visto nella sua sistematicità organica» (p. 16). Inoltre, l’intera interpretazione dell’opera e della militanza di Scotellaro viene fatta alla luce della categoria della “mediazione” che, in opposizione al concetto di “autonomia”, «descrive una forma di impegno culturale e politico fondato sull’esperienza diretta dei conflitti e sulla necessaria ricerca di una sintesi provvisoria» (ibidem). Come spiega l’autore, «mediare tra opposte tensioni […] significa afferrare il movimento della realtà considerando tutti gli elementi in campo […] e vietarsi di assumere il privilegio dell’inappartenenza (culturale o di classe), o, per meglio dire, assumersi il carico di demistificarlo, allontanando da sé il rischio delle identità precostituite» (ibidem). Come accennato, sotto questa lente, quindi, Scotellaro non deve essere considerato un “poeta contadino”, ma un vero e proprio intellettuale della mediazione in senso gramsciano. Si tratta di una proposta interpretativa che «muove dalla considerazione materialistica delle sue origini di classe e del particolare contesto, lucano e nazionale, nel quale, da intellettuale sia periferico che ramingo, si trovò ad operare» (ibidem). A parere dell’autore, insomma, l’originalità di Scotellaro sta «sì nel modo di interpretare le istanze provenienti dallo sfaccettato e composito mondo contadino e subalterno, di mediare la sua esperienza con la conoscenza diretta di quest’ultimo, di avvicinarsi con coerenza di intenti alla realtà sociale degli oppressi, ma anche e soprattutto nello stabilire i termini di quella interlocuzione. Originale, pertanto, fu la responsabile consapevolezza del fatto che, per ragioni di classe, si desse, tra intellettuale formatosi nei licei classici di Matera, Potenza e Trento, e gli strati sociali subalterni, uno iato inevitabile, e che il lavoro culturale di mediazione dovesse pertanto risiedere nel tentativo di accorciarlo, senza l’illusione buonista di eliminarlo, in un inesausto sforzo di approssimazione alle esigenze popolari, di identificazione con il punto di vista dei dimenticati e di interpretazione sintetica di un nuovo modo di rappresentarne il protagonismo politico. Insomma, la cifra distintiva del modello-Scotellaro […] sta nella coscienza realistica della regressione, vissuta tuttavia non come deminutio del proprio statuto culturale, ma come opportunità di allargamento dei confini ristretti dell’idea stessa di sapere e di letteratura» (pp. 16-17). Emerge, quindi, un’immagine di Scotellaro come interprete di un’esigenza politico-culturale, cioè quella di dimostrare la presenza sociale e culturale delle masse popolari, e la necessità che queste siano protagoniste di un processo storico più ampio.
Il capitolo prosegue con la trattazione della vita di Scotellaro e dei suoi anni di apprendistato, quale appartenente alla cosiddetta “generazione degli anni difficili”, formatasi sotto la cappa della dittatura fascista. Frequentò tre diversi licei, prima a Matera, poi a Potenza e infine a Trento e fu particolarmente incline allo studio del greco e dei classici. Sottolineare la matrice classica dei suoi studi si rivela particolarmente importante per allontanare da Scotellaro il pregiudizio di “poeta ingenuo”, quale può apparire a una lettura superficiale della sua opera, che si nutre invece della conoscenza profonda dei lirici e degli epigrammisti greci, ma anche della letteratura moderna, da Steinbeck, Dos Passos, Kafka fino agli italiani Montale e Sinisgalli, suo conterraneo.
I suoi numerosi scritti spaziano dalla lirica al teatro, dal racconto al romanzo-inchiesta, e al periodo trentino risalgono le sue prime prove letterarie. Troviamo in questa fase le prime poesie, come Danza o alcune opere teatrali di ispirazione modernista, e ancora alcuni racconti scritti fra il 1942 e il 1943, come Il paese, Il pellegrino della neve, Infanzia e il particolarmente significativo Ramorra, che viene ampiamente analizzato quale racconto di «indubbia importanza per la decifrazione dell’itinerario culturale di Scotellaro» (p. 35).
Un’importante svolta nella vita dello scrittore avviene nel dicembre del 1943, quando egli aderisce al Partito socialista italiano. Quello di Scotellaro fu «un socialismo non “bacato da corrente riformistica o peggio ancora accomodante”, ma, si potrebbe dire, eticamente rivoluzionario» (p. 41) e in tal senso l’azione amministrativa del futuro sindaco di Tricarico sarebbe stata concepita come “movimento di partecipazione popolare”. Particolarmente interessante fu la sua proposta, di stampo gramsciano, di costituire i “Consigli di borgo”, cioè «organi di consulta dei quartieri, finalizzati a una maggiore partecipazione popolare e alla costruzione, casa per casa, del consenso» (p. 42).
Nel corso della sua esperienza politica e intellettuale, Scotellaro ebbe vicino alcune figure di grande rilievo che costituirono per lui punti di riferimento importanti: tra questi, l’economista Manlio Rossi-Doria e soprattutto lo scrittore Carlo Levi (autore del celebre “romanzo lucano” Cristo si è fermato a Eboli), oltre a Rocco Mazzarone, igienista ed epidemiologo attivo nella lotta alla malaria e alla tubercolosi, «per lungo tempo il punto di riferimento in Lucania di intellettuali, medici, artisti, sociologi e antropologi» (p. 45). Come testimonia l’epistolario, Scotellaro avviò un confronto interlocutorio mai passivo con Levi, mentre da Mazzarone «apprese la concretezza dell’azione politica e la conversione della conoscenza culturale in prassi, e forse anche un certo scetticismo nei confronti della militanza politica» (ibidem), alla quale però lo scrittore non poteva rinunciare.
Il secondo capitolo (pp. 47-73) si sofferma soprattutto sull’esperienza amministrativa di Scotellaro, che prende le mosse dalle elezioni amministrative del 20 ottobre 1946, quando lo scrittore fu eletto sindaco di Tricarico. La sua attività di amministratore fu caratterizzata dall’ampio coinvolgimento popolare e si concentrò su tre emergenze principali: la disoccupazione, l’analfabetismo e la sanità. In particolare, per far fronte a quest’ultima emergenza, Scotellaro si impegnò nella realizzazione di un ospedale a Tricarico che vide la diretta partecipazione della comunità tricaricese nella raccolta dei fondi. Un’amministrazione d’impronta chiaramente socialista, che vide inoltre la costruzione di cantieri di utilità comune, «strade, bagni pubblici, interventi mirati sulle aree più socialmente depresse e sui quartieri poveri, revisioni fiscali in senso progressivo, costruzione dell’edificio scolastico, alfabetizzazione popolare» (p. 51). Tuttavia, il percorso politico dello scrittore non fu privo di difficoltà: infatti, l’esito delle elezioni politiche del 18 aprile 1948, con la sconfitta del PSI, portò Scotellaro a dimettersi dalla sua carica, per poi essere rieletto sindaco nello stesso anno e ricoprendo l’incarico fino al suo arresto, con l’accusa di concussione, avvenuto l’8 marzo 1950. Fu una vicenda che tuttavia ebbe una chiara matrice politica, come peraltro confermò la Corte d’appello di Potenza, che il 25 marzo lo scagionò. Ma l’evento segnò profondamente la vita del sindaco-scrittore, che, dopo essere stato reintegrato nella sua carica, rassegnò le dimissioni.
Si dedicò, allora, a nuove esperienze di studio, di ricerca e di impegno: a questo periodo risale l’elaborazione delle sue due opere più note e importanti, il romanzo autobiografico L’uva puttanella e il racconto-inchiesta Contadini del Sud, entrambe rimaste incompiute a causa dell’improvvisa e prematura morte dell’autore. L’uva puttanella si colloca all’incrocio di diversi generi come il memoriale, il romanzo autobiografico e l’inchiesta, il che conferma la grande ricchezza dell’opera, che nella sua frammentarietà conserva una sostanziale unitarietà di fondo. Scotellaro ambisce a una rappresentazione polifonica di un’intera realtà sociale in presa diretta, e proprio per questo il desiderio di inserire una molteplicità di visioni e punti di vista trova «un correlativo dialettico nella frammentarietà funzionale del discorso narrativo» (p. 66) che tuttavia è alimentata, come si è detto, da una latente tensione unitaria. Lo statuto ibrido dell’opera rivela, inoltre, un tratto distintivo della scrittura di Scotellaro, e cioè l’idea dell’insufficienza della letteratura, confermata dal passaggio all’inchiesta sociale vera e propria, avvenuto con Contadini del Sud. Emerge un «tentativo di andare oltre l’ambito del ristretto del “letterario”, senza distruggerlo, e anzi verificandolo per mezzo di un suo allargamento» (p. 67). In questo senso, sia nell’Uva sia in Contadini del Sud è possibile scorgere «i prodromi di quell’approdo all’ibridazione del romanzo con le forme dell’inchiesta sociale, che caratterizzerà, nel secondo Novecento, le prove più convincenti delle letteratura d’impegno» (p. 68): si pensi a opere quali Africo di Corrado Stajano o alle più recenti prove narrative di Alessandro Leogrande, di cui si parla alla fine del volume.
Il terzo capitolo (pp. 75-97) si apre con l’analisi del rapporto fra Scotellaro e uno dei principali modelli letterari con cui dovette confrontarsi, cioè quello di Verga, di cui lo scrittore riprende la tecnica della regressione. Verga, infatti, fu tra i primi a rigettare qualsiasi mitologia romantico-populista, mostrando invece la necessità di demitologizzare i subalterni. Ma, accanto al rifiuto del populismo paternalistico, in Scotellaro abbiamo un superamento del fatalismo e del pessimismo verghiano a favore di una fiducia nell’emancipazione delle masse popolari. Il “regresso” scotellariano, che sarebbe più opportuno intendere come “mediazione”, rappresenta la «costruzione di un rapporto nuovo, non falsato, tra intellettuali e popolo» (p. 80): ciò vuol dire mediare tra la propria identità di intellettuale e la realtà popolare, annullando la distanza attraverso la mimesi.
Una parte rilevante dell’esperienza letteraria di Scotellaro è costituita dalla sua attività poetica, che si può idealmente dividere in tre momenti: la prima fase (1940-1945) è caratterizzata inizialmente dalla tendenza al frammentismo lirico, da un gusto per il bozzetto paesano e dall’uso della lingua nazionale (con riferimento alle esperienze poetiche di Pavese, Montale o dei crepuscolari), per poi passare alla sostituzione dei motivi intimistici con l’osservazione dell’ambiente; la seconda fase (1945-1949) coincide con gli anni dell’impegno amministrativo ed è caratterizzata dall’immissione di dialettismi e dall’utilizzo di una sintassi popolare, sintomo testuale della regressione e della “mediazione mimetica”; infine, la terza fase (1949-1953) è quella della “poesia dell’esilio”, segnata dai temi della delusione, della rinuncia e della morte, mentre sul piano formale da una più accentuata tensione verso il parlato. A lungo si è cercato di incasellare la poesia di Scotellaro in un’etichetta: chi lo ha inserito nel solco della poesia crepuscolare, chi di quella neorealista. Si tratta di definizioni che certamente descrivono in parte l’esperienza di Scotellaro, ma che non sono sufficienti a rendere giustizia della sua complessità (che pur a lungo non è stata riconosciuta, banalizzando la sua lirica come “poesia ingenua”). In verità, ci troviamo «in una regione della poesia italiana difficilmente addomesticabile» (p. 89) che testimonia ancora una volta quell’ibridismo e quella varietà, tipici dello scrittore lucano, che lo rendono ancora oggi difficile da definire.
Il quarto capitolo (pp. 99-133) condensa in sé una densa trattazione di carattere socio-antropologico che si sofferma in particolare sulla complessa relazione fra Scotellaro e un altro grande intellettuale del Sud, l’antropologo napoletano Ernesto De Martino, che proprio in Basilicata condusse alcune delle sue indagini più celebri; ma anche con Gramsci e con Levi, di cui si sottolineano in particolar modo i punti di distanza dal pensiero gramsciano-scotellariano. Si ribadisce, inoltre, come Scotellaro fosse capace di accedere a una tradizione letteraria alta e aristocratica, com’era quella della poesia decadente contemporanea, di Montale o di Sinisgalli, ed è anche per questo che l’immagine del “poeta-contadino” appare come un’attribuzione indebita che rischia di omologare lo scrittore «a una visione ristretta o persino romantica del suo agire» (pp. 117). Il capitolo si chiude, poi, con un’analisi della questione dell’autorialità di alcuni canti popolari, di cui Scotellaro risulta autore, facendo venir meno quel carattere anonimo della tradizione popolare. Da qui prende le mosse un’indagine, in costante rapporto con gli studi di De Martino, sull’importanza che ebbe per Scotellaro la cooperazione fra individui, in un lavoro reciproco e co-autoriale di scrittura di questi testi poi rimasti nel solco della tradizione popolare.
Infine, il quinto e ultimo capitolo (pp. 135-153) si concentra sugli ultimi momenti della vita di Scotellaro e sulla sua morte improvvisa, avvenuta il 15 dicembre 1953 per infarto, a soli 30 anni. Lo scrittore si trovava a Portici, dove aveva accettato l’incarico affidatogli da Manlio Rossi-Doria presso l’Osservatorio Agrario. In quel periodo arrivò anche l’incarico da parte di Vito Laterza di scrivere un libro sui contadini del Sud e sulla loro cultura, che rimase incompiuto e sarebbe stato pubblicato postumo (come tutte le sue opere) con il titolo di Contadini del Sud, un libro “marcatamente gramsciano”, dove troviamo «in azione quell’intellettuale capace di mediare tra gli strati subalterni la cui fisionomia possiamo ritracciare nei Quaderni del carcere; ed è qui in azione anche l’intellettuale che si fa carico di un gesto mimetico: fondere, per ragioni di reciprocità, la sua voce con quella dell’altro, secondo i canoni, si è detto con una bella formula, dell’“osservazione partecipata”» (p. 140). Di nuovo mediazione e mimesi, in una dialettica serrata, appaiono come i termini più adatti a cogliere il senso dell’operazione scotellariana e prendono forma nella scelta della forma inchiesta-intervista, che si propone di dare diretta parola agli intervistati: qui la voce del contadino si colloca sullo stesso piano della voce dell’intervistatore. «Scotellaro rimase, fino alla fine dei suoi giorni, un intellettuale sensibile ai processi di trasformazione del suo territorio e ai mutamenti di scenario della questione meridionale, nell’ambito di cui riuscì a vedere, forse prima di altri, le contraddizioni, di lì a poco espresse dalla grande ondata migratoria e dal conseguente impoverimento umano e sociale del Sud» (p. 64).
L’improvvisa morte dello scrittore provocò una commozione generale negli ambienti della sinistra italiana: numerosi furono gli interventi pubblicati in occasione della sua scomparsa. Italo Calvino sull’«Unità» lo definì «un sindaco che era anche uno dei migliori giovani poeti italiani», un «“intellettuale di tipo nuovo”: insieme impegnato sul fronte più avanzato della lotta sociale e sul piano più qualificato della cultura letteraria nazionale», mentre Leonardo Sciascia pubblicava sulla sua rivista «Galleria» il racconto Il paese, seguito da un sentito ricordo costruito intorno al loro recente incontro in Sicilia. Di fondamentale importanza per il riconoscimento del lascito di Scotellaro fu il convegno organizzato a Matera il 6 febbraio 1955, che vide la partecipazione, tra gli altri, di Fortini, Levi, Muscetta, Alicata e Alberto M. Cirese, coordinati da Tommaso Fiore. Da qui ebbe inizio la “fortuna intermittente” dell’opera dello scrittore lucano, che tra momenti di forte interesse critico visse lunghi periodi di silenzio e oblio.
Il volume si conclude con l’individuazione di un erede di Scotellaro, che con lui condivide l’appartenenza meridionale, la vicinanza ai ceti subalterni e la scomparsa prematura: parliamo di Alessandro Leogrande (1977-2017), scrittore e giornalista pugliese che, raccogliendo la lezione di Scotellaro, soprattutto quella di Contadini del Sud, racconta le vicende dei nuovi sfruttati di oggi (si veda uno dei suoi libri migliori, Uomini e caporali del 2008), i braccianti stranieri soggetti al caporalato, a dimostrazione di quanto l’opera scotellariana sia ancora attuale e meriti di essere studiata e riscoperta anche come chiave interpretativa dei nostri tempi.
(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)