Recensione di Marino Magliani, “Soggiorno a Zeewijk” e “Il canale bracco”

Author di Claudio Morandini

Il canale bracco, primo titolo di «Bassa stagione», la nuova collana letteraria dell’editore Fusta di Saluzzo, segue e anzi continua il precedente Soggiorno a Zeewijk (Amos edizioni, 2014); entrambi si collocano in quella sorta di enciclopedia erratica di spazi e momenti della vita che Marino Magliani sta componendo quando non si dedica alle traduzioni, alle riduzioni e ai romanzi veri e propri.

Il canale e Il soggiorno hanno diversi punti in comune, si illuminano e si completano a vicenda, ed è difficile parlare dell’uno senza far riferimento all’altro. In entrambi si viaggia molto, ci si perde, si ragiona, ci si imbambola, si osserva con attenzione, si è osservati come tipi bizzarri, si torna ogni volta che si può alla verticalità di una Liguria lontana dal mare (quella tutta rovi, polvere e vento raccontata anche da Biamonti, Bertolani e Grasso), e la si mette a confronto con l’orizzontalità dell’Olanda.

Zeewijk è un quartiere periferico di Amsterdam, che Magliani ha eletto sin dagli anni Ottanta a sua residenza nei Paesi Bassi. Alcune caratteristiche lo rendono singolare, lo caricano di significato allegorico, per chi crede nelle allegorie: per esempio, le vie e le piazze hanno i nomi di costellazioni, per cui ogni passeggiata diventa uno scorrazzare nella volta celeste; soprattutto, Zeewijk, sorta tra le dune in continuo movimento, obbedisce a un piano regolatore che impone, ogni trenta, quarant’anni al massimo, l’abbattimento e la ricostruzione degli edifici pubblici e privati, in ossequio al profilo sempre nuovo del territorio. La vita media dei residenti è più lunga di quella degli edifici: strano effetto deve fare sulla memoria, sui legami che in qualunque altra parte del mondo si stabiliscono con i luoghi, al punto da provocare una sorta di «sentimento di amputazione» (tra parentesi, immaginiamo a questo punto l’impressione che a Magliani, scrupoloso e amorevole traduttore dell’Amico del deserto di Pablo D’Ors per Quodlibet, hanno fatto nel romanzo del sacerdote spagnolo le dune dei deserti africani, quelle sì pericolose oltre che instabili).

Magliani è poeta di sguardi. Nei suoi libri tutti guardano altri che guardano (altri ancora che guardano a loro volta altri che guardano, se vogliamo insistere): il suo gusto dell’osservazione si esercita soprattutto lungo le vie di Zeewijk, grazie all’opportunità offerta dalle grandi vetrate prive di tende che fanno di ogni casa un tableau vivant a cui gli stessi abitanti si prestano, sia pure con qualche pudore; sono occhiate fugaci, clandestine, su cui però si può tornare a più riprese, su cui si può ragionare. Il carattere abitudinario, casalingo, anche pantofolaio, degli abitanti favorisce gli appostamenti, consente di fare calcoli e proiezioni, alimenta le ipotesi. «Zeewijk è un festival di vetrate, un mondo che attende di essere antologizzato», appunto. Magliani, spinto, oltre che da un’innata curiosità, da una certa sua propensione alla classificazione, si diverte a immaginare le visioni degli interni come acqueforti, e a catalogarle sulla base dell’ora, del giorno, della via (cioè della costellazione). A volte l’osservazione viene compiuta con maggiore agio dall’interno, cioè dalla stanza dell’amico Piet, l’alter ego di Magliani, con cui l’autore condivide pensieri e progetti, attraverso la cui grande finestra osserva il mondo. Come nella Lezione di anatomia di Rembrandt, oggetto di una pagina memorabile, il gioco degli sguardi attorno al cadavere anatomizzato porta alla conclusione che l’unico sguardo che si accorge dell’errore anatomico, della stranezza della situazione, delle posture improbabili, è quello dello spettatore, che ricalca quello di Rembrandt stesso. Ai personaggi sussiegosi e curiosi del dipinto quello stupore è negato – ci sono dentro, è tutto normale per loro.

Tutto filtrato dai vetri è anche l’amore, o per meglio dire l’abbozzo di storia d’amore, con Anneke, raccontato attraverso una serie di appostamenti, di occhiate e sorrisi, di pagine scritte (e tradotte da Piet in olandese) poste sul vetro della grande finestra della casa di lei. Amore gentile, impacciato, elegiaco, molto letterario, che senza quel vetro di mezzo sembra perdere il canale attraverso cui viaggiare, e che naturalmente si sgonfierà presto – ma che dà all’autore occasione di rievocare in pagine di scabro virtuosismo le cose della Liguria che gli sono care.

La Liguria del Soggiorno a Zeewijk è più volte raccontata come un intrico di rovi: e «essere nei rovi», «rientrare tra i rovi» è il modo con cui lo scrittore descrive i suoi viaggi in Liguria, nati da un bisogno diremmo animale di infrattarsi in una tana sicura, di tornare alle calde asprezze in cui farsi dimenticare, da cui nemmeno le telefonate nervose degli editori olandesi possono farlo emergere. Il suo stare in Liguria è davvero raccontato come un ferino scavare corridoi in mezzo agli sterpi, a colpi di ronca, un tentativo di riappropriarsi dei luoghi, delle cose, in piena solitudine, visto che il rapporto con i conoscenti di un tempo si è guastato ed egli stesso ormai è sentito come un estraneo. «Liguria-orti», «Zeewijk-interni» è la formula a cui si ispira – Magliani ne è cosciente – questo libro, come altri suoi. «Esule» in entrambi i luoghi, che ormai considera entrambi «colonie», Magliani vaga dall’uno all’altro e quando è nell’uno pensa all’altro – meglio: stare in un luogo lo aiuta a definire, a capire meglio l’altro.

Le differenze tra i due paesi sono numerose e irriducibili. Ma a volte, di rado, il contrasto si illumina di improvvise e inaspettate analogie (uno sguardo di una persona incontrata lungo la strada, un odore, un rumore), e tanto basta a Magliani per sentirsi un po’ meno fuori posto. Quest’esigenza, di mettere accanto le due terre della sua vita e provocare così un attrito fecondo, è confermata anche nei tentativi di dare un titolo al libro più recente, che in un primo tempo si sarebbe potuto intitolare Cronache da uno stagnante Nord con il sottotitolo E da un Far West ligure.

Non è tutto. Grazie a Piet, Magliani scopre che tra Zeewijk e la provincia di Imperia esistono precise affinità geografiche: anzi, se ritagliati, i confini hanno «la stessa identica forma, la stessa curvatura, gli stessi spigoli»; e il gioco di sovrapposizioni continua, se anche Ijmuiden, prolungamento naturale di Zeewijk, coincide con il profilo delle altre province liguri. Piet ha proprio fatto questo, zitto zitto: ha preso forbici, ha ritagliato sagome, le ha accostate, ha scovato affinità definitive tra due luoghi tanto diversi. Addirittura lo ha fatto prima che l’amico italiano giungesse nei Paesi Bassi, prima di conoscerlo dunque, come per segnare un percorso, un destino.

Molte cose, dicevamo, tornano dal Soggiorno a Zeewijk al Canale bracco: temi, figure (anche Piet, naturalmente), gesti, momenti del primo si travasano naturalmente nel secondo.

Nel Canale bracco lo spunto iniziale è di seguire il Noordzeekanaal che dal porto di IJmuiden sul mare del Nord giunge ad Amsterdam. È amichevolmente citato più volte, anche in esergo, un riferimento importante, il Racconto del fiume Sangro di Paolo Morelli. Morelli, nel libro pubblicato da Quodlibet nel 2014, registrava il viaggio dalle sorgenti alla foce del Sangro, ostinato e solitario viaggio a piedi compiuto il più possibile vicino al letto del fiume; percorso di purificazione e decantazione personale, dialogo caparbio con la voce del fiume – anzi, con le mille voci del fiume –, tour de force poetico per rendere a parole questa vocalità sovrumana. Tra i due libri affascinanti vi sono certo alcuni punti di contatto, ma anche numerose differenze: intanto da una parte abbiamo un fiume, selvaggio per buona parte del suo percorso, dall’altra un canale fortemente segnato dalla presenza e dalle attività dell’uomo; poi, soprattutto, il progetto di Morelli è implacabilmente messo in atto, e la sua è una narrazione lineare di un tragitto che è anche la biografia di un fiume-organismo, mentre l’approccio di Magliani è divagante, continuamente interrotto e distratto, deviato da conversazioni e inaspettate fonti di interesse estemporaneo. Quello di Morelli è soprattutto un viaggio compiuto e raccontato tappa dopo tappa; quello di Magliani è innanzitutto pensato, vagheggiato, progettato, programmato (in Liguria), messo a punto, corretto da continue conversazioni con Piet, colorato da una certa inclinazione alla classificazione e alla mappatura, e parte in effetti solo verso la metà del libro, per interrompersi prima di giungere a compimento. Il viaggio vero e proprio, per Magliani, è prima di tutto interiore, volatile: le continue interruzioni, le digressioni, gli sconfinamenti, i canaletti laterali, le creaturine che vi vivono, gli olandesi silenziosi (non tutti, a dire il vero) e gentili diventano materia primaria della narrazione, sgomitano per togliere spazio al resto, all’avventura en plein air. «Cosa non si fa per impantanare un racconto», scrive a un certo punto. E poco oltre: «Uno parla, Piet, e il canale viene dopo. Prima o poi».

Accanto a entrambi, in ogni caso, si sente la presenza di amici comuni, esploratori senza fretta di spazi e di vite umane: Celati, certo, anche Cavazzoni, anche Ghirri (un Ghirri in bianco e nero, sembrano a volte le pagine di Magliani).

Resta il mistero sul titolo, su quel «bracco» detto di un canale. «L’acqua salmastra in olandese è brak water», spiega Magliani a un certo punto. E subito dopo: «Il segreto del canale bracco è nella vita che l’attraversa, qui abitano alghe e si riproducono specie di pesci che nell’acqua salata e in quella dolce morirebbero lentamente». Da questa italianizzazione fantasiosa viene il titolo, a designare una condizione a metà tra uno stato e un altro, tra mare e fiume, una contaminazione tra due nature, due mondi. Un po’ come quella vissuta dallo stesso Magliani, verrebbe da concludere, che libro dopo libro compone un affresco geografico instabile eppure di grande nitore, preciso e insieme fluttuante.

(fasc. 4, 25 agosto 2015)

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