Recensione di Stéphanie Hochet, “Sangue nero”

Author di Claudio Morandini

Sangue nero (Sang d’encre nell’originale, Paris, Éditions des Busclats, 2013) è il secondo romanzo di Stéphanie Hochet pubblicato in Italia, dopo Le effemeridi edito da La Linea nel 2013, anch’esso tradotto dalla Capuani. Si perde un po’, ahimè, nella versione nostrana, il gioco di parole del titolo, che in francese significa alla lettera ‘Sangue d’inchiostro’ ma esprime anche, nell’espressione se faire un sang d’encre, un alto senso di inquietudine e angoscia. Ma certo il gioco era irrisolvibile – sulla difficoltà di tradurre non tanto calembour come questi, quanto lo stile della Hochet, diremo qualcosa più avanti.

Sangue nero è un romanzo breve, o un racconto lungo, classificabile come gotico per quella dose di mistero indecifrabile che si mescola alla narrazione di una contemporaneità riconoscibile ma non troppo definita. A colorarlo di gotico c’è il senso persistente di mistero, c’è una metamorfosi inspiegabile, ci sono forze oscure che agiscono sui corpi e sugli animi, c’è un antico motto in latino che parla di brevità della vita, di scorrere inesorabile del tempo e di ineluttabilità della morte; ci sono le parole «Vulnerant omnes», tatuate sul plesso solare dell’io narrante, le quali poco a poco vengono assorbite nella pelle, mentre resta ben visibile la minaccia rappresentata dalle parole «Ultima necat»… (con questo calligramma allusivo, che abita il corpo come se fosse vivo, siamo da qualche parte tra il fantastico e l’allegorico). C’è, non ultimo, il personaggio sfuggente eppure ingombrante di Dimitri, il tatuatore, a cui dedicheremo qualche riga.

Senza impazienza e senza nostalgie per certi effettacci tipici del genere, Stéphanie Hochet mescola con eleganza tutti questi elementi e li sfrutta per svolgere narrativamente certe sue feconde ossessioni, certi fantasmi di cui ha nutrito gli altri suoi romanzi.

Il protagonista e io-narrante di Sangue nero sembra provenire direttamente da Je ne connais pas ma force, altro romanzo breve pubblicato da Fayard nel 2007. In quest’ultimo, l’adolescente Karl Vogel, ricoverato per un tumore al cervello, per dominare la malattia decide di diventare il Führer del proprio corpo, e prende a vivere in una dimensione ingombra di feticci e precettistica nazista. Ecco, l’io narrante di Sangue nero sembra proprio quel ragazzo, cresciuto e guarito sia dal cancro sia dal contagio ideologico, ma sempre, come dire, in rapporto tormentato e irrisolto con la propria fisiologia. Un veloce riferimento a un ricovero subito da giovanissimo in una delle prime pagine di Sangue nero sembrerebbe confermarlo.

Il carattere ossessivo del protagonista è sempre lì, evidente: in Sangue nero, egli tenterà di temperare l’ossessione per il tatuaggio interessandosi alle donne del suo presente e del suo passato, ma finirà per sostituire un’ossessione con un’altra. Eppure avrebbe di che impensierirsi davvero per altro, ci diciamo quando scopriamo che soffre della «malattia che comincia per L», la leucemia.

La figura perturbante – ce n’è sempre almeno una, nei libri di Stéphanie Hochet, pronta a condizionare fino allo sconvolgimento le vite degli altri personaggi – è, per una volta, un adulto ben piantato e non una bambina o un adolescente (o il gatto di casa, come nel delizioso essai Éloge du chat, pubblicato nel 2014 da Léo Scheer e ancora inedito in Italia) in continua oscillazione tra demoniaco e chissà quali sottintesi angeologici, comunque una figura caricata di alterità, un alieno ambiguo con vocazione parassitaria a cui pare impossibile resistere, la cui funzione e le cui intenzioni restano misteriose. Qui, in Sangue nero, svolge questo ruolo il già nominato Dimitri, il tatuatore, il «seduttore», figura sfuggente, indefinibile proprio perché fatta di troppe facce. È stato avventuriero, marinaio (un tatuaggio a ogni porto), ora si è rinchiuso in un tattoo studio. Per lui il narrante si è ritagliato il singolare mestiere di disegnatore di nuovi tatuaggi e scovatore di sentenze da incidere. Molto virile secondo la descrizione che ne dà l’io narrante, Dimitri ha però una forte componente femminile, che si esplica nei gesti di affetto, nell’attenzione all’ascolto nel momento delle confidenze; la delicatezza muliebre con cui esegue i suoi lavori contrasta con il trasparente e dichiarato simbolismo della penetrazione dell’ago, della fecondazione (con l’inchiostro) del corpo altrui. Dimitri «sconvolge i suoi clienti tatuandoli», attraverso l’inchiostro riesce a esercitare un subdolo potere su di loro. Lo si incontra spesso, troppo spesso: diventa onnipresente (l’io narrante non è l’unico a pensarlo, anche altri personaggi ne sono ossessionati), al punto di infilarsi nei sogni, dove alimenta fantasie macabramente erotiche in cui egli stesso si dota di seni e dà vita a miscugli violenti di corpi segnati e feriti, contaminazioni di sessi come nei bianchi e neri di Hans Bellmer (Francis Bacon, che pure potrà venire in mente a questo proposito, tornerà più utile come riferimento obbligato per il Simon Black di Le effemeridi, il pittore malato di cancro che dipinge i propri urli).

In Dimitri coincidono gli opposti: è detto «angelo diabolicamente uomo e donna», è un uomo ben piazzato «che una paradossale femminilità rende stranamente flessuoso». Come una donna, anzi una femme fatale, suscita gelosie feroci, allucinatorie. In certi momenti l’amicizia che lo lega all’io narrante travalica l’affetto tra uomini, e la loro collaborazione sembra quasi rimandare a un ménage coniugale. Dimitri popola i pensieri e i sogni dell’io narrante come farebbe la figura di una fidanzata. In più, sottotraccia, vi è in lui qualcosa che sfugge alla dimensione umana – una forza intrattenibile, un potere oscuro, forse mefistofelico, il che sarebbe perfettamente in linea con l’allure gotica del racconto.

Sangue nero è un racconto gotico, d’accordo, ma dipanato con una sensibilità di oggi: dunque i nodi non vengono al pettine, la chiusa a effetto c’è ma suona come un ironico contentino, i temi evocati restano a fluttuare in un sistema molto allusivo e poco esplicito, i legami potrebbero sfilacciarsi da un momento all’altro, perché sembrano fondati sull’allusione analogica, più che sulla strutturazione logica. Facciamo qualche esempio. L’inchiostro del tatuaggio rimanda alla malattia (alla malattia del sangue «che comincia con L», sempre ignorata, sminuita, osservata di lontano, ma perché?), anzi ne è una sorta di premessa, di causa scatenante (ma perché? Sempre la domanda sbagliata), ergo (ma è un ergo ironico, che si smonta da sé) la cancellazione del tatuaggio porterà con sé l’eliminazione della malattia. Ma virus è detto anche il contagio delle mode, il cattivo gusto e la volgarità trash che contaminano il mondo dei tatuaggi. I disegni stessi hanno vita propria, si rivoltano contro i portatori, come malattie ne infestano le carni dopo averne corrotto la pelle. E si insinua che contagio sia anche quello del disegno, della parola, del disegno della parola – di cui l’io narrante è scopritore e Dimitri l’esecutore non si sa quanto consapevole. Disegno e scrittura come intrusione, immissione di agenti patogeni, mortifero lavorio interno, patologia che si autogestisce? Stéphanie forse non sarebbe d’accordo, ma i contorni vaghi del problema ci autorizzano a derive come queste. Alludere, imbastire, stemperare, lasciare ampi spazi vuoti nel tessuto della trama: ecco come Stéphanie Hochet si appropria degli stilemi di un genere e ne fa qualcosa di nuovo e di suo.

La scrittura di Stéphanie Hochet è strettamente legata alla lingua francese. Ritmata, ora si distende in tournures di registro alto e di sapore sette-ottocentesco, ora diventa irrequieta, nervosamente contemporanea, ellittica. Lessicalmente è complessa, stratificata, lavorata come da un gusto poetico. Tradurla mantenendo intatto il valore letterario diventa una sfida, significa riscriverla: farne una versione più o meno letterale può dar conto del senso di ciò che accade, ma conduce alla perdita di quel sovrappiù che è dato dall’eco letteraria (poetica) di quelle parole – talvolta, soprattutto nei momenti più freneticamente ellittici, conduce a uno sgradevole effetto di non senso, a un borbottìo ostico, da cui purtroppo non mi pare esente la presente edizione.

(fasc. 4, 25 agosto 2015)

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