Ho studiato per venticinque anni Benedetto Croce e il periodo del fascismo, e non mi è mai capitato d’imbattermi in un libro simile a Scrivere a destra: un tassello importante sia per gli storici della letteratura sia per gli studiosi di storia contemporanea, perché mette l’accento e ricostruisce alcuni snodi fondamentali di quel periodo che pochi hanno messo in evidenza, indagato, ricostruito finora[1].
In questo libro si troveranno citati, infatti, sia alcuni dei nomi più importanti e considerati del panorama letterario nazionale del Novecento sia alcuni scrittori che vengono, in fondo, stimati “di serie B”, forse perché non sono ancora stati indagati e osservati dalla giusta angolazione e con la dovuta attenzione alla loro qualità letteraria e alla loro personalità, alla loro vicenda esistenziale. E al riguardo trovo assai produttivo l’invito a una riconsiderazione dei minori e a una riformulazione della «categoria stessa di “minore”» (p. 175) ivi lanciato da Antonio Di Grado.
Il suo è un libro coraggioso, per una serie di ragioni, e in primo luogo perché si occupa anche di scrittori sui quali è ricaduto l’anatema della Storia, e soprattutto della storiografia a loro successiva, talora ingiustamente, come testimonia questo studio. E anche perché, in un certo senso, in queste dense 380 pagine si affacciano varie proposte di riconsiderazione critica di alcuni autori o di alcune opere e, dunque, fecondi spunti e utili suggerimenti per un ampliamento del Canone letterario, una sua revisione, alla luce delle nuove acquisizioni critiche: il che è sempre un bene, perché, come scriveva Croce, la storia è sempre storia contemporanea, e – aggiungerei – è giusto che lo sia. Di Grado stesso, sempre sostenitore e difensore dei diritti delle minoranze, lo fa notare: «Gran brutta cosa il “canone”, che si tratti di un pomposo altare o d’una bellicosa trincea: a smentirlo e irriderlo valgano dunque la festosa ridda delle eccezioni, la sfrontata insolenza degli irregolari, la disperata ostinazione degli infedeli; e sia pure la fioca apparizione, nelle pagine che seguono, di una pallida schiera di ombre» (pp. 12-13).
Un’ulteriore considerazione preliminare: mi è capitato di ascoltare, qualche settimana fa, una bellissima presentazione di questo stesso volume ad opera di uno dei miei più cari Maestri, ovvero Giulio Ferroni, profondo conoscitore della letteratura italiana (e non solo) del Novecento (e non solo), esattamente come Antonio Di Grado. Con la sua padronanza anche degli accessi più reconditi e oscuri della materia, Ferroni ha fornito un quadro esaustivo di questo ricchissimo volume e dell’ampio panorama letterario che squaderna, e anche un raffinato contributo critico alla lettura: credo ci sia poco da aggiungere a quanto già espresso da lui, ma cercherò comunque di delineare un rapido quadro del saggio a uso e beneficio di tutti i lettori che auguro a questo intelligente e innovativo sguardo su uno dei periodi storici più controversi ma anche più interessanti della nostra storia “recente”, anche perché ritengo che questo volume contenga – volutamente – tutta una serie di spunti e di provocazioni assai stimolanti anche in relazione al periodo cupo che stiamo vivendo.
Chi conosce Antonio Di Grado sa che è uno studioso “competente” (un aggettivo odioso sia a lui sia a me, ma calzante in questo caso) e un profondo conoscitore della nostra letteratura, e non soltanto di quella, essendo dichiaratamente convinto che non si possa studiare la produzione letteraria di un paese o di una lingua senza tener conto delle influenze che altri paesi, con la loro diversa cultura e la loro lingua, hanno avuto sul suo sviluppo. Forse, però, non tutti sanno che Di Grado è anche un intellettuale che non ha timore di esprimere opinioni, pareri, valutazioni fuori dal coro, sempre motivandole e argomentandole – ovviamente –, ma con il tenace coraggio delle proprie idee. Ed è forse una delle sue caratteristiche che più apprezzo, specie in un’epoca come questa, di diffuso conformismo e di allineamento a minestre preconfezionate anche da parte di persone colte, che dovrebbero essere depositarie del senso critico e della volontà di difendere le ragioni del dubbio, almeno fino a ragionevoli evidenze contrarie.
Occuparsi di alcuni scrittori vissuti nel periodo del “Ventennio nero”, come recita il titolo di questo saggio, non è una scelta scontata, ma richiede una dose di onestà intellettuale fuori dal comune e una capacità di discernimento critico e di valutazione lucida e spregiudicata. Il che non significa che in questo volume Di Grado avalli mai posizioni di compromesso con il regime: tutt’altro. Ma è il titolo stesso, secondo me, ad illuminare il particolare sguardo che lo studioso rivolge a tanti protagonisti di quell’epoca, cercando comunque di sviscerarne le ragioni e di comprenderne le scelte: il che non significa mai – lo ribadisco – giustificarle. Eppure, il tentativo di comprensione è, forse, l’atto più “umano” che possiamo compiere nei riguardi di un nostro simile: non con atteggiamento paternalistico (questo mai), ma magari con quella che mi piace definire una “rara disposizione all’ascolto” che tante vite è in grado di salvare nei contesti della cura, per esempio. Un atto, quindi, di profonda “pietà intellettuale”, nel senso di pietas, di «commossa e intensa partecipazione e di solidarietà che si prova nei confronti di chi soffre»[2]; una dimostrazione di profonda empatia, di intelligenza emotiva e mai fredda nell’approcciarsi alla vicenda esistenziale altrui, al punto da fare proprio uno dei più preziosi assunti che la letteratura di tutti i tempi ci abbia regalato: il terenziano «homo sum, humani nihil a me alienum puto», le notissime parole pronunciate nell’Heautontimorùmenos di Terenzio (I, 1, 25) dal vecchio Cremete, a giustificazione della propria curiosità, ma poi divenute proverbiali per alludere alla debolezza e alla fragilità di fondo della natura umana, alla difficoltà di evitare l’errore o la colpa; o anche per significare di essere aperti al mondo, di non rifuggire da nessuna esperienza. Il sottotitolo del volume allude, infatti, a Vite narrate e vite perdute nel Ventennio nero: e in quel “perdute”, a mio avviso, c’è tutta l’umana partecipazione del “fratello maggiore”, se così si può dire, ai casi disperati e alle scelte scellerate di altri esseri umani. In tal senso, posso testimoniare che non è stato solo un intento, ma che questo libro ha mantenuto realmente la promessa relativa alla programmatica dichiarazione dell’autore: «confido che sarà almeno un bel gesto di pietas non solo storiografica avventurarsi in quei binari morti, in quei sentieri interrotti, per sottrarre all’oblio un nutrito drappello di hommes de lettres privi di fama non di sventura» (p. 14; con efficace allusione foscoliana).
Una parola-chiave di questo libro, infatti, è “furori”, che ovviamente rimanda subito al Vittorini di Conversazione in Sicilia, testo amatissimo da Di Grado (e dalla sottoscritta) e da tanti, a ragione. Gli “astratti furori” vittoriniani, infatti, ben rappresentano lo stato d’animo di tanti giovani, di tanti intellettuali di quel periodo, sballottati dai colpi della Storia come piccoli vascelli capitati nel bel mezzo di una tempesta in mare aperto. «Di loro si occuperà questo libro: di chi fra loro scrisse, credendo o adattandosi, dannandosi o assolvendosi, esponendosi o defilandosi» (p. 12), precisa lo stesso autore nelle prime pagine. A scanso di equivoci, infatti, Di Grado puntualizza che intende raccontare «di alcune vite bruciate per dare parole e corpo, sangue e nervi, a una miraggio mendace, o per vederlo svanire distillandone il sapore dolceamaro della sconfitta» (p. 12). In una dichiarazione programmatica piena di pathos aggiunge:
E voglio dire di alcune pagine disperatamente belle che quel grumo di errori, di sogni infranti, di cieche ostinazioni, di risentimenti o di ripensamenti alimentò e rifornì di fiele e di miele [con rimando bufaliniano: N.d.A.]. E dire del silenzio che i vincitori, resi ingiusti dal sapersi giusti, fecero piombare su quei nomi e quelle opere come una lastra tombale, tuttora sorvegliata da arcigni guardiani. (P. 12)
Il libro, dunque, ambisce anche a fare, in qualche modo, ammenda della damnatio memoriae abbattutasi rovinosamente sul collo di questi scrittori e, in nome dell’autonomia dell’arte (che avvicina Di Grado a Croce molto più di quanto non emerga dalla lettura del suo saggio), a ripristinare un’utile e salutare distinzione fra l’uomo e l’artista, le sue scelte politiche o di vita magari deprecabili e i prodotti del suo ingegno e della sua ispirazione, magari invece degni di essere ricompresi nel novero delle opere letterarie patrimonio dell’Umanità, o al limite di essere quantomeno riconsiderati e apprezzati nelle loro caratteristiche migliori. Il saggio sdogana, infatti, e ribadisce in maniera meritoria il principio che la qualità di un’opera letteraria non si misura dalle scelte di vita del suo autore, a maggior ragione – commenterei – dato che ogni opera d’ingegno viene partorita da una mente umana, ma, una volta conclusa e pubblicata, va per il mondo, diviene patrimonio dei lettori e quasi non appartiene più a chi l’ha creata. Inoltre, implicitamente il saggio ribadisce la liceità nonché la necessità del giudizio di valore, altro fondamento irrinunciabile specie in un’epoca come la nostra in cui le recensioni vengono affidate spesso a critici amici o prezzolati e, di norma, si limitano a riassumere i contenuti dei libri di cui trattano senza esprimere una valutazione al riguardo o, al massimo, lodando o al contrario stroncando un’opera senza argomentare, senza portare esempi tangibili, senza entrare nel merito del testo e delle sue forme.
Come si diceva, oltre a nomi noti del panorama novecentesco italiano (come Pirandello, Ungaretti, Vittorini, Brancati, Alvaro, Bontempelli, Malaparte, Berto, Pavese, Moravia, Loria, Ojetti, Comisso etc.), questo saggio ha il merito di riaccendere l’attenzione della critica su figure rimaste in secondo piano (almeno finora) quali Ricci, Garrone, Gallian, Sarfatti, Fracchia, Rosso di San Secondo, Pea, Barbaro, Puccini, Lanza, Carocci, Emanuelli, Rimanelli, Soavi etc. Anzi, è proprio su questo secondo gruppo di scrittori che forse si sofferma di più, aggiungendo dettagli illuminanti sulle loro biografie, fornendo sempre un sintetico giudizio di valore sulle loro opere, delineate nei loro tratti più significativi sia per quanto concerne i contenuti sia per quanto riguarda lo stile; mettendo in rilievo i rapporti tra queste figure di intellettuali e le loro relazioni col regime (grazie anche all’uso accorto di materiale archivistico non sempre edito, e facendo riferimento alle loro corrispondenze epistolari: e al riguardo, leggendo queste pagine, confesso di essere stata assalita dalla malinconia del pensiero che un simile, certosino, infaticabile e utilissimo lavoro critico non potrà essere mai condotto sull’epoca odierna e sui suoi protagonisti, visto il cambiamento irreversibile nei mezzi di comunicazione, avvenuto oramai da diversi decenni).
Ho molto apprezzato, da storica dell’editoria, anche l’attenzione che Di Grado spesso rivolge alle edizioni dei testi, ricostruendo i rapporti di questi intellettuali con alcune case editrici e con certi direttori editoriali (ad esempio, in queste pagine continui riferimenti, a mio avviso inevitabili, si trovano alla produzione vociana, solariana e gobettiana, e ai protagonisti di quelle esperienze letterarie ed editoriali, in contrapposizione al regime).
Come hanno già sottolineato vari recensori del volume, quella di Di Grado è anche un’appassionata testimonianza sullo statuto della letteratura, sulla sua funzione: come scrive il critico in un passo molto significativo e a ragione assai citato, «Se la storia scava trincee, la letteratura costruisce ponti: non di indulgenza e di assoluzione, categorie che non conosce e non le spettano, ma di conoscenza, di indagine nei meandri più remoti e contorti della psiche, nelle pene più segrete e immedicabili, nei moventi più oscuri di scelte solo apparentemente nette e fondate, nel mistero che tutti accomuna del fortuito biforcarsi dei destini» (p. 16). Citando Giorgio Fontana, Di Grado giustamente ribadisce che la letteratura «sostituisce “al regno delle antinomie quello della sfumatura”» (p. 16): e, direi, indaga le miriadi di tonalità di grigio situate fra la nettezza un po’ cieca e assoluta del bianco e quella altrettanto ottusa e sorda del nero. Perché indaga la vita, che non è mai né bianca né nera. E forse anche questa notazione potrebbe rappresentare uno stimolo per chi si accinge oggi non solo a leggere, ma a scrivere in prima persona: un invito a non allontanarsi dalla vita reale, dai sentimenti realmente provati e vissuti, dalle sensazioni che hanno dato corpo e carne e sangue alle migliori pagine della letteratura di tutti i tempi.
Fra gli altri, Di Grado cita La politica dell’impossibile di Stig Dagerman, anarchico suicida che auspicava una letteratura che combattesse per i tre «diritti inalienabili dell’essere umano imprigionato nelle organizzazioni politiche e di massa: la libertà, la fuga e il tradimento» (p. 18). Sono, dunque, prese di posizione forti, che non riguardano solo l’ambito estetico – come tutto ciò che scrive Di Grado –, ma coinvolgono il nostro modo di essere “al mondo” e “nel mondo”.
Fra le sue altre prese di posizione rilevanti e forse controcorrente, da ricordare quella su Pirandello, di cui si ricorda senza remore l’adesione al fascismo del 1924, sottolineando anche il momento in cui avvenne, ovvero il periodo immediatamente successivo al delitto Matteotti: quindi, un’adesione consapevole e assai grave (cfr. p. 33), della quale – come ricorda l’autore – ha fatto giustizia Piero Meli in Luigi Pirandello. “Io sono fascista”, edito per i tipi di Salvatore Sciascia (cfr. p. 99).
«Con i morti – tutti – vanno fatti i conti, non si può ricacciarli nelle tenebre del rimosso o peggio nel lager in cui la storia reclude, con crudele iattanza, i perdenti» (p. 34): anche questo è un messaggio intenso alle nuove generazioni di critici e di storiografi, un invito a bilanciare l’arroganza dei vincitori recuperando la testimonianza non solo delle vittime ma anche dei perdenti, sempre al fine di non perdere nessuna sfumatura dell’ampio ventaglio dei sentimenti, delle idee, delle convinzioni, delle credenze che hanno caratterizzato un’epoca. Perché – come rammenta opportunamente Di Grado – nelle carceri talora si è persa nella storia la distinzione fra esponenti di diverse fazioni politiche e tutti sono stati «vittime d’un fallimento comune» (p. 47).
Il critico rievoca distesamente anche la figura di Concetto Pettinato, che rivendicava la liceità di studiare quelle «torri d’avorio, dove nel necessario raccoglimento, e al largo delle sirene dell’“impegno”, operano in laborioso silenzio “dei buoni letterati, ma non dei profeti, non dei gladiatori, non dei capi-popolo”» (p. 39), il che mi ha ricordato le pagine di Croce del 1936 sull’ufficio della Letteratura, che, sebbene non raggiunga le altezze estetiche della Poesia (in prosa e in versi), comunque ha una funzione civile di testimonianza e di ritratto di un’epoca. Fra le altre cose, Di Grado cita anche il passo di Pettinato in cui si parla di un’«Europa di burocrati, di chierici, di mercanti, di mercenari e di pensionati» (p. 43), e non credo che lo faccia per caso.
Alcuni snodi della letteratura italiana non solo del Novecento ritornano nella trattazione come vividi problemi su cui dibattere: ad esempio, molto interessante il ricorrere della “funzione Leopardi”, a partire dallo stupefacente dilemma giovanile “Leopardi o Garibaldi?” rievocato in relazione a Curzio Malaparte, di cui viene messa in luce chiaramente l’«esibita incoerenza» (pp. 53-54), fino a Francesco Lanza (cfr. p. 147). Oppure si analizza la “funzione Verga” nella letteratura di quel periodo; e ancora l’influenza di Tozzi e del suo espressionismo (ancora su Lanza, a p. 155).
Inoltre, oltre a essere un volume di critica letteraria informato e ricco di dettagli (al punto tale che potrebbe anche essere adottato in un corso universitario come un manuale sui generis, atto a incuriosire e a stimolare letture nuove e insolite: se avessi avuto la mia cattedra, quest’anno lo avrei adottato di certo), Scrivere a destra ha anche una particolarità tutta sua. Infatti, è un libro talora dall’andamento aforismatico; un esempio a p. 85: «Una propensione spiritualistica sincera e sentita (o strumentale, ma poco cambia quanto agli esiti) è connaturata, piaccia o no, alle culture di destra, tanto quanto latita nella Weltanschauung progressista, coinvolta e afflitta da più mondane urgenze». Ed è anche una sorta di repertorio, per certi aspetti, di alcuni stereotipi sugli italiani, sui tratti che caratterizzano il popolo italiano; si ricordi, ad esempio, la tirata contro gli «agnostici e indifferenti vecchia peste di questo Paese» (pp. 105-106), ricordati a proposito di Ricci.
È uno studio originato da uno sguardo che procede in una duplice direzione: riservando attenzione alla provincia, con le sue chiusure asfissianti e le sue soffocanti oppressioni, e contemporaneamente al panorama internazionale, specie europeo (e penso ai riferimenti a Proust, Kundera, Céline, Chatwin, solo per ricordare i più noti).
Con profonda sensibilità vi s’indaga anche il panorama femminile, a partire dalle intelligenti riflessioni sulla Sarfatti (e sulla creazione dell’immaginario fascista da lei lucidamente operata nel famigerato Dux), fino alla rivalutazione delle opere di Paola Masino e al ricordo struggente di Antonia Pozzi.
Per concludere questo rapido schizzo di un’opera ben più complessa, stimolante e articolata non troverei una chiusa migliore della riflessione sui pensatori che Di Grado trae da Garrone:
“C’è al mondo degli uomini nati con uno scopo preciso e crudele: pensare”, uomini che “per lo stato sono zavorra improduttiva, pula”, ma che si ostinano a bere fino alla feccia quel calice di libera e povera improduttività, a consumarsi in quell’astratto rovello così inconciliabile non solo con un effimero regime ma con qualsiasi assetto politico e sociale […].
“Quando la sparuta pattuglia dei pensatori-artisti sarà definitivamente scomparsa, il mondo avrà esaurito la sua ragione di esistere, e colerà definitivamente a picco. Il che non sembra doversi mettere in un’epoca troppo lontana”. (Pp. 135-36).
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Si pubblica in parte il testo della presentazione del libro di Antonio Di Grado che ha avuto luogo presso la libreria L’Altracittà di Roma il 5 dicembre 2021 alla presenza dell’autore. ↑
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Cfr. Vocabolario online Treccani ad vocem: cfr. l’URL https://www.treccani.it/vocabolario/pieta/. ↑
(fasc. 41, 5 dicembre 2021)