Come se la passa Beckett ai nostri giorni? Apparentemente bene. Gli hanno fatto un bel volume dei «Meridiani» Mondadori dal titolo Romanzi, teatro e televisione, che contiene anche testi poco noti e quindi aiuta la conoscenza complessiva dell’autore; gli hanno fatto anche un biopic, Prima danza, poi pensa, del regista Premio Oscar James Marsh, che lo presenta al grande pubblico delle sale cinematografiche. Però quest’ultimo omaggio – puntato com’è necessariamente sulla biografia – dice molto poco dell’opera e la diluisce tra rimpianti e rimorsi. Insomma, Beckett sta così così: per forza, perché deve essere messo in offerta a un pubblico “popolare” che ormai non ha più alcuna cognizione di quella “modernità radicale” che ha rappresentato nelle forme dello svuotamento e della verbigerazione del nulla.
Ben venga dunque uno studio serio e filosoficamente agguerrito come quello che a Beckett ha dedicato Antonio Sanges: Les jeux sont faits: la cultura della superficie, Carla Rossi Academy Press. Un saggio di dibattito e di polemica, che ha il merito di seguire – con coerenza e scansando tutte le influenze, anche le esimie – una sua ipotesi, che potremmo condensare nella parola “superficialità”. Vi aveva accennato Savinio, nella sua Nuova Enciclopedia, là dove affermava: «Scopro l’inesistere della profondità», e: «Anche la ‘profondità’ è una ‘superficie’». Sanges ne fa la base di un approccio che tiene in sospetto l’imperversare dell’interpretazione. Against interpretation, aveva detto la Sontag: e nel caso di Beckett la questione si fa ancor più spinosa perché tanto più lo scrittore si batte contro il Senso con la maiuscola, cercando di impedire che si coaguli (per fallire sempre meglio, cioè peggio), e tanto più si fa alta la tentazione di ricondurlo indietro, in più “spirabil aure”, attribuendoglielo questo Senso, volente o nolente. La tentazione metafisica (nel Godot tradotto quale deus absconditus), la tentazione esistenziale (la negazione del senso come crisi dell’affettività), oltre che, ovviamente, la versione psicoanalitica, perché l’oltranzismo di voler continuare a dire il nulla da dire è ideale per l’analista che trae indizi proprio dall’inessenziale, basta che continui a parlare.
Tutte queste “riconversioni” però violano quella “superficialità” che Beckett ha assiduamente perseguita. Nel farlo, devono ogni volta aggiungere qualcosa dall’esterno a quanto si trova nel testo. La contromossa deve essere allora quella di attenersi “alla lettera”, «tornare alla lettera nuda del testo di Beckett, dove inizia e finisce la parola che si fa azione drammatica che non agisce». Questa la dichiarazione d’intenti di Sanges:
In questo senso, la superficialità esposta della lingua beckettiana e la sua scarnificazione stilistica assumono una pregnanza logica e, solo dopo, culturale, i cui esiti non sono ancora valutabili in toto, ma si dovrà notare che il dramma che si ha davanti non significhi niente se non sé stesso, altrimenti ogni valutazione culturale sulla sua opera prescinderà dallo scopo di questo lavoro che è non quello di restituire il senso dell’opera beckettiana, o interpretarlo ermeneuticamente, e nemmeno antagonisticamente criticare l’interpretazione, bensì quello di notare la superficialità del testo stesso, ridotto ad azioni inutili, espressioni inutili, all’ascolto di una Musa epidermica.
A partire da tali premesse, che sembrerebbero tagliare le gambe a qualsiasi discorso critico, Sanges opera sul suo testo d’elezione, che è Endgame, Finale di partita, seguendone meticolosamente i passi e mostrando come la parola e l’azione non debbano essere riportate ad un contenuto nascosto, ma valgano per se stesse, nell’attività meramente ostensiva del mostrare la tabula rasa.
La scelta del teatro da parte di Beckett e anche di Sanges nel ruolo purtuttavia di critico si può spiegare allora proprio perché il teatro è il luogo per eccellenza della presenza e del dialogo e quindi lì maggiormente risalta l’anomalia beckettiana. Facendo riferimento alla teoria degli atti linguistici, Sanges indica bene gli aspetti per i quali Beckett nel mettere in scena la conversazione contravviene alle buone norme socio-linguistiche. I personaggi, per esempio Hamm e Clov, da un punto di vista formale parlano l’uno con l’altro, però in realtà non rispondono a tono, oppure si contraddicono, oppure ancora inibiscono il pathos che potrebbe formarsi dalla loro condizione distopica. Quindi, l’annullamento è ancora più forte dall’interno della situazione che dovrebbe essere cooperativa (anche secondo la “buona volontà” dialogica dell’ermeneutica) che non nel soliloquio, per esempio dell’Innommable.
Il dispositivo beckettiano riceve, nel discorso di Sanges, diversi nomi, quale “scarnificazione” («scarnificazione della lingua e dello stile»), disinnesco («è un’azione disinnescata in sé stessa che non porta ad alcuno sviluppo drammatico») e soprattutto disattivazione. Così, a proposito della scena in cui si inserisce anche il personaggio del padre:
Anche in questa scena, per l’ennesima, estenuante volta, non accade assolutamente niente: l’azione è disattivata, la narrazione è disattivata, il pathos è disattivato, non c’è alcuna sostanza, ciò che resta è null’altro se non la successione fonica delle parole inutili, idiote, vuote se non perché emesse da un organo fonatorio, e delle corrispondenti azioni a loro volta inutili.
E ancora:
Così, tutto ciò che resta, disattivata l’azione che non porta ad una progressione drammatica o epica interpretabile dal pubblico o dal critico, è il dramma da “vedere” e non da “interpretare”, e il punto fermo sulla scena è lo small talk, il parlare di niente, laddove anche quando vengono toccati i temi “universali” dell’Occidente, come il dolore, oppure si sfiorano toni lirici e patetici (la natura!), essi vengono disattivati, in un appiattimento dell’ethos dei personaggi nonché del pathos completamente escluso dalla scena.
Insomma, questo eroico autore del “forse”, che più d’ogni altro è rigoroso nel mettere e nel togliere, viene tradito se è inteso (come oggi si è propensi a fare) secondo un modello espressivo del sé, oppure attraverso le facili allegorie della storia (sia pure quale antitesi al capitalismo) e ne va invece preservato il meccanismo, nel suo girare a vuoto.
Concludendo,
Il dramma Finale di Partita è una successione di conversazioni laddove le parole sono, per convenzione letteraria, funzionali ad un’azione che a teatro deve necessariamente esserci, ma tale azione non porterà a niente, così come le parole che non hanno nessun significato tangibile, ovvero interpretabile dal pubblico secondo le regole del gioco sociale; esse hanno invece senso nell’ambito di un gioco che sia stato creato ad hoc dall’autore che presenta sulla scena personaggi che parlano del niente, laddove quel niente s’intende in senso tematico; […].
Il che non significa che di Beckett non si possa parlare, ma che occorre diffidare delle “sovrinterpretazioni” che eccedano nello spiegarlo su altri piani non giustificati dalla lettera del testo e non si presentino al modo aperto dell’ipotesi. Di Beckett si può sempre, anzi si deve, discutere ed è quello che Sanges fa con adeguati riferimenti ai grandi precedenti critico-filosofici (Adorno, Deleuze ecc.), ma senza timori reverenziali e senza scorciatoie intuizioniste, bensì “secondo logica”.
(fasc. 52, vol. II, 3 giugno 2024)