Personalmente, ho un ben preciso ricordo del momento in cui, nello studio della storia della letteratura greca antica, si passa dalla trattazione della poesia cantata dagli aedi a quella relativa ai testi recitati dai rapsodi[1]. Lo rammento soprattutto per i toni sufficienti riservati in svariati manuali (anche universitari) a queste figure di cantori “tardi”, se così si può dire. Com’è noto, il rapsodo ‒ così si legge ad vocem nell’Enciclopedia Treccani ‒ è l’
Antico recitatore professionale dell’epica greca. Omero adopera il nome di aedo (ἀοιδός, ‘cantore’) sia per il poeta sia per il recitatore; solo dal 5° sec. a.C. è usato il termine ῥαψῳδός, inteso poi dai moderni come recitatore di canti altrui in opposizione ad aedo, il vero e proprio poeta. Tale contrapposizione, però, non sembra accettabile, perché in Omero ῥάπτω vale anche «escogitare con arte» […]. Infatti, i rapsodi divennero semplici recitatori solo in seguito, col sorgere dell’elegia, del giambo e della prosa, che con nuove problematiche rispondevano alle nuove esigenze civili e politiche dei Greci. Dapprima i rapsodi avevano probabilmente domicilio fisso: a Chio, per esempio, erano organizzati in una specie di gilda e si chiamarono Omeridi [dal gr. ῾Ομηρίδης][2]; poi dal 5° sec. a.C. andarono errabondi di paese in paese prendendo parte agli agoni rapsodici nelle feste (per es., nelle Panatenee), in cui recitavano Omero in modo drammatico, accompagnando il canto, e i gesti, col suono della lira. In età più recente presero a recitare tenendo un bastone in mano (da tale circostanza deriverebbe la falsa etimologia della parola da ῥάβδος «verga»)[3].
Perché aprire con una digressione sulla figura del rapsodo, che spesso viene raccontata come meno illustre rispetto a quella dell’aedo? Poiché i “rapsodi” erano i recitatori, ma erano anche i “cucitori di storie”.
Da un passo di Pindaro (precisamente il primo verso della seconda Ode Nemea) si ricava l’etimologia del termine, che è ricollegabile al verbo ῥάπτειν (‘cucire’), per cui il rapsodo – appunto ‒ sarebbe il ‘cucitore di canti’. In base a questa etimologia, alcuni studiosi hanno dedotto che il rapsodo, a differenza dell’aedo, si limitasse a ripetere ciò che gli era stato trasmesso dalle generazioni precedenti (da qui i toni di sufficienza, se non di disprezzo, verso questa figura, da parte di alcuni specialisti). Altri, invece, ritengono che anche i rapsodi intervenissero sul repertorio tradizionale, talora arricchendolo; in entrambi i casi, comunque, resta fondamentale il loro ruolo nel tramandare il patrimonio mitico greco.
Venendo al titolo della silloge uscita per Le Commari Edizioni nel 2023, “arripizzari” in siciliano sta per ‘rammendare’ o ‘ricucire’: se, dunque, trasliamo la metafora del “tessuto” nell’ambito della pratica scrittoria, otteniamo il “testo” (textum, i o textus, us, a seconda della declinazione prescelta). Le storie che in questo volume sono raccolte, infatti, parlano tutte di arte del “rappezzo” e insieme del drappeggio; per adoperare anche una metafora musicale, di variazioni su tema e insieme di virtuosismi da solista. La scrittura, dunque, come tessitura e/o come ricamo; e la scrittrice come abile sarta: non solo esperta dell’arte del cucito, ma anche creativa orditrice di trame del tutto inedite e originali.
Con queste premesse, di certo, alla sapienza organizzativa della curatrice Alma Daddario non può essere sfuggito che scelta vincente sarebbe stata quella di porre nella posizione forte dell’explicit, e di chiudere la silloge, con un delizioso racconto intitolato L’uovo di legno (il n. 14), che appunto allude al “rammendacalzini” adoperato dalle nostre nonne, di cui l’autrice all’inizio ignora l’utilità, concentrandosi sulla valenza simbolica dell’oggetto, che la rimanda idealmente alla fertilità, alla rinascita, all’«essenza femminile» (p. 154); e focalizzandosi sulla sua forma, che le risveglia «il bisogno di qualcosa di essenziale, mi conduceva in un percorso di pulizia dal superfluo, dall’arzigogolio mentale, dall’inutile. […] mi riportava all’atmosfera metafisica dei dipinti del mio amatissimo Giorgio De Chirico e ai suoi manichini che per anni ho tentato di imitare» (pp. 155-56). Il passaggio dall’arte pratica del rammendo a un suo significato ulteriore è inevitabile: «Chi sa rammendare più, chi rammenda ancora calzini bucati? – chiede all’implicito lettore Luisa Stagni ‒ Chi perde tempo a ricucire uno strappo, un buco? Nessuno» (p. 157). Quell’oggetto diviene per la protagonista della narrazione un vero e proprio simbolo: «raccontava di una lunga resistenza alla consunzione, di atti di volontà per riparare ciò che si era rotto o, appunto, consumato» (p. 158). Di questo passaggio sottolineerei il concetto di “resistenza alla consunzione” che, per varie ragioni – perlopiù intuibili –, mi pare caratteristico soprattutto dell’approccio femminile alla vita.
Devo confessare che questo racconto mi ha molto coinvolta e commossa, forse perché anch’io mi sto trovando nella difficile condizione emotiva e mentale di dover affrontare la durissima prova di decidere cosa conservare e cosa dare via degli abiti e degli oggetti di mia madre, scomparsa da poco; e perché anche la mia adorata nonna materna, solare e piena di energia, aveva un uovo di legno, che adoperava sempre per rammendare le calze di mio nonno e che m’incuriosiva tanto, quando ero bambina; confesso anche che, appena ho terminato di leggere il racconto, mi sono precipitata a cercarlo, perché mi è venuta voglia di porlo in mostra su uno scaffale della libreria, come decide di fare istintivamente la protagonista del racconto prima di venire a sapere qual è la reale funzione di quell’oggetto così misterioso e pieno di fascino. Si può agevolmente individuare almeno un messaggio (implicito ed esplicito) nel testo: «Il mio uovo di legno mi costringeva a guardare i tanti buchi che non avevo riparato, i tanti secchioni del non riciclabile che avevo riempito di storie lise dal tempo, bucate da strappi di noia, gettate via perché attratta da nuove, luccicanti, promesse» (p. 158). E alla fine la voce narrante, in un bilancio piuttosto confortante, conferma: «Ho imparato a raccogliere i punti smagliati, a unire i lembi di uno strappo. […] so distinguere i buchi non aggiustabili da quelli che possono essere invece riparati» (pp. 158-59). Il che, in realtà, non delinea una netta differenza di genere, non traccia una linea di demarcazione rigida, ma a mio parere riguarda uomini, donne e anche chi non si riconosce nei due generi citati. La forza di questi testi, infatti, consiste proprio nel fatto che, nonostante le voci siano femminili e raccontino punti di vista apparentemente solo femminili, in realtà, nella maggior parte dei casi, le sensazioni, gli stati d’animo, le emozioni, le esperienze vissute risultano condivisibili e facilmente comprensibili per un pubblico di lettori eterogenei.
Aggiungo che, in tutta onestà, non sono proprio certa che si possa nettamente identificare una “via femminile alla scrittura” o che si possano descrivere con precisione le caratteristiche di un approccio femminile alla narrazione. Dalla notte dei tempi sembrerebbe che la narrazione sia appannaggio particolare delle donne (si pensi, ad esempio, alla Sherazade delle Mille e una notte, che ne fa addirittura una ragione di vita, anzi uno strumento per scampare alla morte, per allontanarla, per rimandarla il più possibile, fino al lieto fine). Però, sono convinta che un grande scrittore e una grande scrittrice siano egualmente capaci di immergersi talmente in profondità nell’animo umano da riuscire a empatizzare e a comprendere, quasi allo stesso modo, le emozioni e le ragioni di chiunque, senza distinzioni di genere; mi piace immaginare il mio scrittore/scrittrice ideale come dotato/a di una sensibilità talmente spiccata e di una capacità di immedesimazione talmente istintiva da riuscire a calarsi perfettamente nei panni sia di una donna sia di un uomo (o di un sasso, un animale, una pianta…). Si potrebbe obiettare che la com-passione (in senso etimologico) per l’Altro alberghi più spesso in animi femminili (sarà vero?); il che, forse, potrebbe concedere alle donne anche un vantaggio nella scrittura di finzione (sempre in senso etimologico). Ad ogni modo, sono anni che continuo a interrogarmi sulla differenza ‒ se esiste (non ne sono così convinta) ‒ di approccio alla scrittura fra una donna e un uomo; e questa antologia mi ha regalato suggestioni, mi ha suscitato altre domande, mi ha innescato altri dubbi, mi ha fornito qualche altra risposta, mi ha emozionato, mi ha dis-tratto, mi ha intrattenuto, mi ha indotto a riflettere ancora e ancora. Ha svolto, dunque, egregiamente il compito precipuo di ogni testo letterario.
Mi pare, in generale, che le narrazioni raccolte in questa silloge sappiano fotografare situazioni e ambienti diversi con uno sguardo sempre disponibile verso l’Alterità, aperto a comprenderla e curioso della Vita. Per tali ragioni ritengo che la lettura di questi racconti possa egualmente affascinare e coinvolgere lettori di tutte le età e di diversa esperienza, anche perché le scrittrici sono state molto attente a elaborare testi che possano essere interpretati a vari livelli.
Persino la più dura di queste storie, Schiave di Susanna Schimperna (n. 12), che è un vero e proprio pugno nello stomaco, racconta di una condizione che purtroppo ancora oggi è prettamente femminile, ma che talora è condivisa anche da bambini e giovani uomini, sebbene la situazione delle donne sia quasi sempre di gran lunga più difficile e problematica rispetto a quella maschile. Nel caso di Schiave, la scrittura non può essere risarcimento alla violenza gratuita, all’ingiustizia, alla rabbia, al dolore fisico e morale provato e subìto dalle donne rapite, picchiate, torturate, sfruttate, stuprate, terrorizzate e rese succubi psicologicamente da uomini senza scrupoli, ma si fa strumento di denuncia e, dunque, in qualche modo, di liberazione almeno ideale: invito alla resistenza, monito, richiamo alla coscienza di chi vive in condizioni di agiatezza e, dandolo erroneamente per scontato, può decidere liberamente del proprio corpo e del proprio destino, come ovviamente sarebbe giusto per ogni creatura vivente.
Questo racconto rappresenta il picco tragico della raccolta, quello che ha meno possibilità di risarcimento, ma le note presenti nella silloge sono varie e le tonalità di colore molto diversificate: dalla cupezza plumbea di Schiave si passa all’appello alla razionalità implicitamente contenuto in La lettera ai nipoti (n. 8) di Toni Maraini, un’impietosa descrizione del mondo contemporaneo (è ambientato nel 2020), della società odierna e delle sue contraddizioni, dei pericoli incombenti (tra guerre e minaccia nucleare), del cambiamento antropologico in atto, dell’emergenza ambientale, della degenerazione di certi rapporti umani etc. In un ideale passaggio di consegne, di generazione in generazione, del Mondo che stiamo vivendo e contribuendo a creare o, forse, soprattutto a distruggere, la Lettera di Toni Maraini, che ovviamente è implicitamente indirizzata a tutti i lettori, ha la delicatezza di chiudersi riallacciandosi a un’arte sorella della letteratura, la musica, sulle note di Blowing in the wind di Bob Dylan, e in particolare della sua seconda strofa:
Per quanti anni può esistere una montagna
Prima che sia lavata dal mare?
Sì, e quanti anni possono vivere alcune persone
Prima che sia permesso loro di essere libere?
Sì, e quante volte un uomo può girare la testa
Fingendo di non vedere?
La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento.
Ma in questo florilegio sono ben rappresentati anche la levitas e il senso di magia: ad esempio in Ali, di Lia Migale (n. 9), in cui domina la scena una quasi salvifica apparizione di un miracoloso uccello dal variopinto piumaggio, che incanta un intero paese con i suoi colori e la promessa di felicità che sembra incarnare. Un omaggio al valore e al potere vivificante della Bellezza in senso lato che, però, contiene in cauda venenum, con la sua chiusa fulminante, spiazzante e malinconica: quasi a ricordarci che purtroppo, laddove si manifesta la Bellezza, a volte si vengono a creare e si palesano, come vortici sorti all’improvviso dal più arido deserto, forze che mirano solo a soffocarla, a imbrattarla, a spegnerla e a distruggerla.
«Cosa sapeva Lei della notte, della noia, dell’abisso? Nulla. Oppure molto, molto di più di tutti noi»: questa, la chiusa criptica e ambigua del decimo racconto, a firma di Valeria Moretti, dal titolo emblematico Altrove, che rievoca le suggestioni regalate dalla sua modella Teha’amana al pittore Paul Gauguin, noto per i colori squillanti e le ambientazioni lussureggianti. Il sogno esotico (ed erotico) dell’Altrove, il «desiderio di fuga» (p. 116) che, prima o poi, accomuna tutti nella perpetua lotta contro il grigiore della reiterazione dei gesti quotidiani, sembra nascondere, però, in queste pagine, una qualche insidia. Oltre a comunicare un concetto assai interessante, specie nel mondo attuale (in cui sembrano contare solo la performance, il profitto, il risultato), ovvero quello di «tempo non tempo» (p. 117):
quello che desideriamo va trovato nel tempo non tempo, solo unicamente in quello. Nel tempo lasciato a se stesso, nel tempo lasciato andare… Ho rincorso tempi “svogliati”. È quel tipo di tempo che ho inseguito andandomene lontano. Sì, è quel tempo che volevo conquistare. Solo ed unicamente quello: il tempo non tempo. (Ibidem).
Struggente è anche la fragile figura dell’ex professoressa di italiano protagonista di Dove finiscono i palloni (n. 11) di Veronica Passeri, in bilico fra realtà e follia, passato e presente, pensieri e ricordi: un matrimonio fallito alle spalle, un figlio a Londra a fare carriera oppure morto, secondo certe voci. Come nei migliori racconti di Buzzati o nel suo capolavoro, Il deserto dei Tartari, nella quotidianità all’improvviso irrompe il mistero: una declinazione molto tangibile del fantastico, in questo caso, perché si tratta di palloni da gioco. «Fu allora che li vide» (p. 127): una decina di palloni persi nel raggio di anni, «sulla loggia sotto la sua terrazza» (p. 127), da ragazzini che giocavano nel cortile. La sua reazione è prima di confusione e poi di partecipazione al dolore del Mondo: «Li guardò una seconda volta e sentì tutto lo strazio di cui sono capaci le cose minime. Un senso di perdita inspiegabile» (p. 131) che, però, verrà chiarito in parte nel corso della narrazione, rievocando un episodio del passato in cui il figlio Giacomo, a nove anni, aveva perso un adorato «pallone del Paris Saint Germain ai giardini del centro» (p. 131).
Sempre alla musica si torna con Yesterday (n. 13) di Orsola Severini, emblematico titolo di una storia che riguarda ancora una volta un’eredità materiale e culturale assieme: una scatola di cd appartenuta a Esther, nata da una famiglia ebraica in Francia nel 1942 e poi inviata a vivere presso dei contadini svizzeri per scampare ai rastrellamenti di Hitler. La sceglie un’adolescente fra gli oggetti appartenuti a un’amica appena scomparsa della madre, Esther appunto, cui era affezionata: un cofanetto nero con l’intera collezione degli album dei Beatles, selezionato solo per curiosità e quindi per caso, ma che innescherà un’autentica passione senza tempo per il quartetto londinese e la sua travolgente musica. La chiusa del racconto: «[…] la musica ha sconfitto la morte». Torna ‒ foscolianamente ‒ il Leitmotiv dell’Arte eternatrice, strumento di dilatazione del tempo terreno e di nutrimento vivificante per l’anima.
Altri rimandi interni collegano i racconti della prima metà del volume agli ultimi sette sin qui velocemente passati in rassegna e analizzati: ad esempio, per affinità tematica La lettera ai nipoti (n. 8) di Toni Maraini si può idealmente assimilare al secondo racconto, La Ribelle di Daniela Bertulu; Ali di Lia Migale (n. 9) può essere affiancato per il tono a L’angel sulla collina (n. 3) di Maria Antonietta Coccanari de’Fornari, che personalmente mi richiama alla memoria La Lupa di Verga a causa del nome e del portamento della sua protagonista; Altrove (n. 10) di Valeria Moretti ha in comune con Fughe e ritorni di Maria Rosa Cutrufelli (n. 4) alcune parole-chiave (come, appunto, “altrove” e “fuga”). In vari racconti come in Agamennone (n. 5) di Alma Daddario, che orbita intorno a un amato cagnone, ricorre il motivo della resistenza alla morte tramite il ricordo, della mancata resa all’oblio grazie alla memoria e alla testimonianza; Kill me di Katia Ippaso (n. 6), che introduce una coppia di una notte nata da un fugace incontro, nella cornice della seducente Lisbona, fra un uomo passionale e travolgente e una donna non più giovanissima e alle prese con la malinconica constatazione dell’appassire della propria bellezza, è ricollegabile, anche nel sottile erotismo affiorante dalle pagine, al già ricordato Altrove; infine, il tema dell’emancipazione femminile e della ricerca della libertà è il filo teso fra il racconto-testimonianza di Dacia Maraini Africa: una bambina e il suo maestro (n. 7) e il crudo Schiave.
Come alcuni sanno, il tema della scrittura come “riparazione” mi è molto caro, almeno fin dai tempi della prima edizione di Guarire il disordine del mondo, una raccolta di saggi che nel 2012 ho dedicato a una serie di prosatori a mio avviso accomunati dall’intento di mettere ordine nel caos del mondo attraverso la fissazione su carta, nero su bianco, di parole. Il “filo rosso” che lega quei saggi, incentrati su romanzieri, saggisti, critici letterari italiani (come Manzoni, De Sanctis, Pellico, Bini, Settembrini, Graf, Croce, Capuana, Serra, Alvaro, Buzzati, Morselli, Bufalino, Sciascia) è l’idea che «la scrittura rappresenti, in qualche modo, un espediente per cercare di dare forma al Caos, un modo di fare ordine, di arginare l’entropia che governa il mondo» (dalla Premessa). Vi si indagava la scrittura come phàrmacon, nella sua duplice accezione greca di ‘rimedio’ e di ‘veleno’; e la prosa come «consapevole scelta stilistica e formale, in quanto specchio di un pensiero che è sempre anche emozione» (ibidem). Pure per queste ragioni, non sarà difficile credere che ho trovato molto interessante e coinvolgente la lettura di questi testi.
Inoltre, l’affermazione di Maria Vittoria Vittori, nella Prefazione, che «le parole sono tra gli strumenti più efficaci a nostra disposizione per cercare di ricucire e riparare, rendendo ciò che si ripara ancora più prezioso» (pp. 5-6) mi ha fatto pensare immediatamente – e il mio è un omaggio anche a Fosco Maraini e alle sue figlie, che il Giappone lo hanno conosciuto bene ‒ alla nobile arte giapponese del Kintsugi, termine che letteralmente significa ‘riparare con l’oro’ e che indica una tecnica di restauro ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per restaurare tazze in ceramica per la cerimonia del tè, Cha no yu. Secondo tale pratica, le linee di rottura delle ceramiche, ricongiunte tramite la lacca urushi, non vengono camuffate ma vengono lasciate visibili e, anzi, enfatizzate ed evidenziate con della polvere d’oro. Gli oggetti riparati tramite il Kintsugi diventano, dunque, vere e proprie opere d’arte, perché la tecnica di impreziosirli con la polvere d’oro accentua la loro bellezza, rendendo la fragilità un punto di forza e di perfezione, anziché una debolezza o una mancanza. Ogni ceramica restaurata, inoltre, presenta un diverso intreccio di linee dorate, irripetibile per via della casualità con cui la materia può frantumarsi, dando vita a disegni unici. Questa pratica nasce, quindi, dall’idea che dall’imperfezione e dalle ferite possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore; e trovo che questa immagine ben si adatti alla raccolta curata da Alma Daddario.
Da ultimo, mi fa piacere sottolineare che la maggior parte delle autrici raccolte in questa silloge ha a che fare, in qualche modo, con il mondo del teatro (la drammaturga, attrice e sceneggiatrice Chiara Alivernini addirittura lo cita nel racconto d’esordio A cena da Anne e William, riferendosi a Shakespeare), un dato che colpisce ma non sorprende perché a mio avviso rappresenta la perfetta quadratura del cerchio per il ragionamento fin qui condotto: anche il teatro, infatti, è – se così si può dire ‒ un’arte di riparazione. Tramite il teatro, ad esempio in vari progetti scolastici in cui sono stata coinvolta parecchi anni fa ‒ primo fra tutti il magnifico “Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli” del Teatro di Roma ‒, ho visto “guarire” tanti ragazzi: adolescenti inquieti che hanno scoperto il valore della disciplina o timidi impacciati che sono riusciti a liberare la propria creatività; giovani sbandati che si sono sentiti, forse per la prima volta nella loro vita, accettati e accolti; o, infine, ragazzi disabili, che hanno potuto sperimentare la vera inclusione, sentendosi parte di un gruppo e di un progetto comune. Il teatro rappresentato, infatti, guarisce: al pari della scrittura. E, in questa antologia, l’arte di combinare le parole ha una pulizia di linee e di sguardo, una schietta concretezza e una delicatezza di tocco che forse, in particolar modo, appartengono soprattutto alle voci femminili e le caratterizzano.
Non sarà un caso, infine, che abbia deciso di sostenere questo progetto di sole donne una casa fondata e gestita da due editrici: Cristina Anichini e Maria Corona Squitieri. La copertina scelta per il volume è di Lavinia Fagiuoli, un’altra donna: la sua gioiosa illustrazione ha al contempo un sapore di sfrenate danze etniche, chiacchiere franche e gonne vaporose che ben si adatta alla vivacità di toni dei testi proposti.
- Si propone il testo – riadattato ‒ della presentazione al pubblico dell’antologia in data 19 aprile 2024 e presso il Caffè letterario di Roma Horafelix: si ringrazia Roberta Fidanzia per il coinvolgimento nell’evento. ↑
- Nell’antica Grecia, “omerida” sta proprio per rapsodo seguace di Omero, che recitava o imitava i suoi poemi; nell’isola di Chio, in particolare, gli omeridi avevano costituito una sorta di casta e affermavano di discendere da Omero, tramandando la loro professione di padre in figlio. ↑
- Cfr. l’URL: www.treccani.it/enciclopedia/rapsodo (ultima consultazione: 18 aprile 2024). ↑
(fasc. 52, vol. II, 3 giugno 2024)