Nei Soliti ignoti di Mario Monicelli, un ladruncolo apre impacciato un frigorifero, sorpreso di trovarci all’interno pezzi di ghiaccio. È il 1958, e gli elettrodomestici sono ormai piombati nelle famiglie italiane, protagoniste e interpreti di quel «miracolo economico», passato alla storia come boom. Frigoriferi e televisori sono la cifra di una crescita economica incisiva sul benessere e sulla cultura, il simbolo più comune di un’Italia con lo sguardo rivolto alla modernità, in un percorso complesso e articolato, sfumato e contraddittorio, ricostruibile attraverso una dialettica del contrasto, il Leitmotiv sotteso alla struttura del testo, senza enfasi retoriche o sterili nostalgie.
In questa direzione si muovono i saggi raccolti nel volume Boom e dintorni. Le rappresentazioni del miracolo economico nella cultura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, curato da Inge Lanslots, Lorella Martinelli, Fulvio Orsitto e Ugo Perolino per i tipi di Peter Lang. Scevri da ogni comoda semplificazione, gli autori focalizzano gli anni del boom in una prospettiva corale sensibile alla pluralità dei linguaggi, dalla letteratura al cinema, dalla musica alla pubblicità, valorizzando i contesti storici vicini al periodo investigato, i cosiddetti «dintorni», appunto.
Il trittico di saggi in apertura della prima sezione, Scenari e Linguaggi, analizza le potenzialità dei media nel processo modernista che investe l’Italia. Dalla televisione al cinema, le modalità espressive del piccolo e grande schermo intercettano le spinte innovative e le urgenze rivitalizzanti di un Paese uscito dal dopoguerra.
Accendi, il boom è in televisione di Andrea Bini e Quando alla tv si disegnava: la lezione di Alberto Manzi e Non è mai troppo tardi, di Tania Convertini, evidenziano il doppio ruolo, commerciale e pedagogico, della televisione, nella sua inedita e progettata invasività.
Come spiega Bini, è il contrasto tra l’individuo e la nascente società dei consumi, che, se spalanca le porte a un’informazione più democratica, proietta il singolo in uno spazio temporale ancora sconosciuto, scandito dai tempi ordinati e invadenti dei media, abituandolo a un’organizzazione della propria vita dettata dal mercato e dalla pubblicità. Carosello è l’emblema della quotidianità pianificata dalla comunicazione mediatica: entra nelle case e, attraverso la réclame dedicata agli adulti, struttura la giornata di grandi e bambini, fino a trasformarsi in un’abitudine irrinunciabile, una consuetudine. «A letto dopo Carosello» è l’imperativo categorico delle famiglie italiane, per la prima volta a contatto con le potenzialità della televisione, capace di confondere realtà e finzione, modellando la percezione del singolo e i costumi nazionali. Ma anche in grado di trasformarsi in uno straordinario mezzo di alfabetizzazione, grazie a programmi studiati ad hoc come Non è mai troppo tardi, e il carisma di Alberto Manzi, analizzati nello studio di Convertini. Nell’Italia dall’analfabetismo pari al 10% tra gli adulti, la Rai promuove un’offerta didattica compatibile con le necessità di una platea domestica, da coinvolgere e stimolare, e le possibilità economiche di un Paese, che, pronto a rispondere, si raccoglie nelle case o nei locali pubblici dove la televisione è alla portata di tutti.
Anche il cinema incrocia le tendenze del pubblico, diviso fra l’intrattenimento e l’impegno, in un’esperienza della visione dai marcati tratti di coesione identitaria, dove uno spazio privilegiato è riservato al western all’italiana, come spiega Gian Piero Consoli nel saggio Per un pugno di lire: il miracolo economico del western- spaghetti. Dagli esordi incerti di Joaquín Luis Romero Marchent e Mario Caiano alla svolta di Sergio Leone, fino all’epilogo di Mario Girotti e Carlo Pedersoli, per tutti Bud Spencer e Terence Hill, che tra gli anni Sessanta e Settanta rilanciano il genere soffocato da una saturazione cinematografica.
Il contrasto è il Leitmotiv di un cambiamento in fieri, un processo di rinnovamento estensibile oltre il dato economico, comunque sbilanciato tra un settentrione produttivo e un meridione arretrato, impreparato all’incontro con la novità modernista; ma anche interno a precisi ambiti cittadini in via di sviluppo, come la Milano di Giorgio Scerbanenco, dove le disuguaglianze, anche sociali, riflettono un benessere circoscritto, lontano da qualsiasi istanza egualitaria.
Permea e plasma i rapporti generazionali, come testimoniano Il male oscuro di Giuseppe Berto e il Quaderno proibito Alba de Céspedes, ma anche La dolce vita di Federico Fellini. Padri e figli sperimentano un’incomunicabilità estranea alla tradizionale comunicazione familiare, ancorata a saldi principi e ruoli indiscutibili, traditi in nome di una rivendicazione che passa anche attraverso la parola e un gioco delle parti trasgredito.
È il contrasto della controinformazione, espressa dalla canzone d’autore, italiana e francese, di Fabrizio De André, Georges Brassens e Dominique Grange, per opporre la protesta individuale al potere, in una contestazione collettiva, come spiega Lorella Martinelli nel saggio La canzone d’autore tra Italia e Francia. George Brassens, Fabrizio De André, Dominique Grange.
Caratterizza, inoltre, i rapporti tra gli intellettuali e la modernità – da Paolo Pasolini a Paolo Volponi fino a Franco Fortini – le cui interpretazioni, divergenti per forma e contenuto, sintetizzano il ruolo delicato della voce engagée davanti ai fenomeni in atto, come sottolinea Giuseppe Lupo nella prefazione: «Mentre in quegli anni una famiglia media italiana inseguiva legittimamente il sogno di cambiare vita – e lo faceva con la più banale delle soluzioni: acquistare oggetti messi a disposizione dalla produzione industriale – gli intellettuali continuavano a rimanere chiusi un un’anomala torre d’avorio che essi chiamavano cultura marxista, spesso incapaci di decodificare i fenomeni che erano sotto i loro occhi e che abbisognavano semplicemente di essere compresi» (pp. 12-13).
Nel contrasto maturano le dinamiche interne alla modernizzazione, interdipendenti e polisemantiche, illuminate dai saggi proposti con il rigore delle analisi, senza fissare confini dialogici invalicabili tra Storia e Arti, per un’indagine ancora aperta e inesaurita.
(fasc. 36, 25 dicembre 2020)