Pietre alla confluenza di vite e saperi
Se c’è una poeta spagnola del nostro tempo che non si discute a livello di talento, impegno artistico e originalità, questa è senza dubbio Clara Janés, autrice capace di attraversare tutta l’inquietudine del secondo Novecento per approdare al nuovo secolo con una scrittura che è ancora capace di mantenere un’identità precisa, di scartare rispetto alle mode ultime e a una musa ormai fin troppo consumata. Sì, perché fin dalle sue prime prove Clara Janés, che è anche una dei pochi membri donna della Real Academia Española, si è ritagliata uno spazio che è culturale prima ancora che letterario, ha saputo portare dentro la grande tradizione ispanica non solo l’etica e la scrittura di una presenza femminile durevole, e mai scontata a certe latitudini, ma anche la ricchezza di una poesia tutt’altro che ordinaria o troppo radicata, a prescindere dalle radici da cui parte; una poesia solida ma fluttuante, difficile da catalogare, una poesia che nel corso dei decenni ha celebrato il nitore della classicità e l’esperimento, la fusione tra i generi, le arti e i saperi, un sentimento del tempo, per dirla con Ungaretti, che travalica le ere – geologiche, antropologiche, letterarie – e si accampa nelle viscere di cronos, nel cuore della vita stessa, intesa, quest’ultima, come vicissitudine laica e naturale, accadimento immanente e trascendente che coinvolge materia animata e inanimata, esseri, pietre, animali, cose.
E proprio alla vita trascesa di questa materia Clara Janés ha dedicato in particolare due libri di poesia che oggi possiamo leggere in una nuova edizione italiana (Padova, Cleup, 2017) a cura di Antonella Cancellier, versatile e nota ispanista dell’Università di Padova, che si è occupata anche della traduzione dei testi. Si tratta delle raccolte Fósiles e Lapidario, che risalgono agli anni Ottanta e sono approdate nel tempo a una versione definitiva che ne svela tutta la profondità, la vocazione poliedrica e intersemiotica, “interdisciplinare”, configurando, come diremo, due esempi perfetti per inaugurare la collana «Linceo-o», nata all’ombra dell’Università di Padova, per i tipi dell’editore Cleup, e dedicata appunto alla trasversalità dei saperi e al dialogo tra discipline. Questa collezione rara e preziosa – diretta dalla stessa Cancellier e dai suoi colleghi dell’ateneo patavino Vincenzo Milanesi e Telmo Pievani, docenti di fama internazionale di Filosofia morale e Filosofia della scienza – si ispira all’animale che è storicamente l’emblema dell’Accademia Nazionale dei Lincei e si prefigge perciò di scrutare con acume e agilità la varie forme della conoscenza e, in particolare, la possibilità di felici confluenze, come quelle tra letteratura e scienza, alla ricerca di un nuovo umanesimo che guardi lontano e sappia scavalcare i limiti stabiliti dagli ultimi secoli della modernità. È quanto intuiamo dal breve “manifesto” che accompagna la collana, il cui nome rimanda anche a Linceo, l’argonauta della mitologia greca capace di guarire le ferite e guardare attraverso gli oggetti, di penetrare l’universo naturale nei suoi aspetti più reconditi, nella pienezza convergente delle parti e del tutto.
In effetti, i due brevi ma densi libri di Clara Janés racchiudono proprio lo spirito, gli auspici dei fautori, poiché sommano in sé la forza e la densità della parola poetica, che si ipostatizza nella fissazione di un’immagine, o meglio di una serie di immagini che rimandano all’esistenza materica, “petrosa” del mondo, all’eternità della vita e insieme alla sua rigorosa temporalità. “Petrosa”, abbiamo detto, ma non nel senso della difficoltà formale, di significati occulti e impenetrabili alla decifrazione, come voleva Dante, bensì legata all’universo della pietra, della naturalezza più antica e resistente, alla capacità di quest’ultima di raccontare, più e meglio della parola scritta, l’aporia, l’ossimoro gioioso che incarna la maestosa precarietà del tempo che svanisce e che rimane. È il tempo storico, quello dell’uomo e delle sue vicende, ma è soprattutto il tempo “lucreziano”, di una natura che è madre, matrigna e sorella, ma in ogni caso sempre al fianco e prima dell’uomo stesso, gentile e feroce, generosa e ostile, sicuramente senza colpa. Che poi, a ben vedere, proprio il poeta latino insieme a quello della Commedia sono stati tra i primi autori a sublimare argomenti “scientifici” nei propri versi – a dire la scienza in poesia –, circostanza che al di là della suggestione ci immerge nel pieno dei libri di cui vogliamo parlare: sia Fossili che Lapidario hanno in sé proprio il germe della curiositas intellettuale e scientifica, intuizione e dimostrazione, e fondono insieme parola e concrezione, ascetica e analitica, corporalità e sostanza animica. Entrambe le raccolte ci parlano di pietre: nel primo caso sono le testimonianze di una vita conchiusa e viaggiante, in stato di perenne continuità, verace nella sua trascendenza percettibile, una vita fermata in queste istantanee monolitiche che sono appunto i fossili di animali e vegetali; nel secondo la pietra è quella della mistica e della filosofia, da quella del Medioevo occidentale, che fa del lapidario una sorta di catalogo propiziatorio o apotropaico, l’amuleto di un sapere concreto che si invera in una sorta di farmacologia da sacerdoti (e credenti), a quella sufi e mediorientale, in cui le proprietà si declinano lungo i più diversi crinali del sapere.
Antonella Cancellier, presentando questi Fósiles, ce ne ricorda fin dall’esordio la natura trascendente e transeunte, e lo fa con le parole dell’immenso Bachelard della Poetica dello spazio: «Il fossile non è semplicemente un essere che ha vissuto, è un essere che vive ancora, addormentato nella sua forma». E la forma è qui l’immagine, il “negativo” per così dire, che si imprime sulla pietra, testimonianza organica e spirituale dell’essere e del tempo, rifratta in un prisma di sensazioni di cui l’apparato iconografico che accompagna sia l’edizione spagnola originaria sia questa italiana rende pienamente giustizia: si tratta dei disegni di Rosa Biadiu – 25 come le liriche che compongono la raccolta – che, come intuì a suo tempo Rosa Chacel, la quale presentò l’opera quando uscì per la prima volta in Spagna nel 1987, sintetizzano l’effigie e la relativa emozione evocata dai versi, il fascino di «questo nostro mondo dinamico sepolto in un silenzio secolare»; e ciò con la consapevolezza che la vita ha lasciato «tracce» che «perdurarono […] nell’aria, nel soffio dell’ispirazione, e con lo stesso rigore lento e laborioso diffusero – scritto, dipinto, scolpito – il racconto magico che la poesia abbraccia senza seppellirlo». È sempre la curatrice italiana a rilevare le più significative di queste tracce provenienti da «un passato che non passa e che, dalle “acque amniotiche delle ere” (Thanatocenosis), riporta alla luce del presente le memorie superstiti di antichi paesaggi […], le impronte preziose dei gigli di mare dai “ricami solenni”, la “filigrana di piume”, le “incastonature del silenzio” (Crinoidi), le testimonianze d’eternità della “veglia senza fine” nell’Ammonite, le energie sepolte del “calore / di quello che fu legno” (Xilopalo)». Ma accanto a queste ultime mi piace sottolineare anche le immagini che procedono per sintesi o per metafora, come il «ventaglio minimo / che alle mie mani si consegna» e che allude alla valva della Rhynchonella; o il Dendraster, antenato del nostro riccio di mare, che «in marmorea e liscia superficie/ […] presenta cinque petali»; oppure la generosa verità serrata nell’interno imperscrutabile del Pecten, con la sua «perla» che «mai poté sbirciare l’occhio umano»; o ancora lo straordinario lampo stroboscopico per cui quella che un tempo fu «conchiglia» diviene «compendio del mare/ visto dall’alto» (Trigonia). Siamo al cospetto, pertanto, di un affresco variegato che rinvia all’essenza stessa delle cose, a una «natura generosa, amorosa», un orizzonte in cui l’umano è elemento puramente transitorio, parte di un gioco molto più grande di lui; è un’eterogenesi “laicissima” dei fini, un disegno accurato e privo di morale, una sorta di Tree of life che si riverbera dal cinema di Terence Mallick passando attraverso il Kubrik “spaziale” e “scimmiesco” e risale indietro nel tempo fino all’arbor vitae della tradizione medievale, dai trattati dei monaci alle raffigurazioni pittoriche, come il meraviglioso mosaico di Pantaleone della Cattedrale di Otranto.
E proprio alla trattatistica del Medioevo rimanda in prima istanza il Lapidario di Clara Janés, le cui «straordinarie intuizioni visionarie» sintetizzano «la polarità di scienza ed emblema» che contraddistingueva all’epoca l’indagine delle «qualità» e delle «virtù magiche» delle pietre. È con queste parole che la Cancellier ci conduce tra le pagine della seconda raccolta, che storicamente esce a Madrid nel 1988, in scoperta continuità cronologica e concettuale con il volume precedente. Con questo libro ci troviamo dinanzi a un testo che, in ogni caso, è piuttosto diverso dal precedente, poiché alla solida ma “stringata” immediatezza rappresentativa dei fossili contrappone un’analitica più elaborata che sostiene la tassonomia e l’evocazione/invocazione delle proprietà prodigiose delle pietre. Ne nasce un’opera più estesa e complessa, quasi borgesiana, se ci si passa il termine, con tanto di paratesti che accompagnano il racconto in versi, che perlopiù anticipano l’impressione – in senso fotografico, in primis – in cui sono còlte le pietre stesse: sono poche righe che ne descrivono il colore e recuperano le origini ancestrali del loro culto, rapide annotazioni che aiutano il lettore a immergersi nella lettura delle singole liriche, questa volta caratterizzate da una «creatività, intensa ed elaborata, carica di memoria intertestuale diretta o indiretta», ci ricorda ancora la traduttrice. Numerosi, in effetti, sono gli echi letterari che si percepiscono nelle pagine della raccolta, dai classici al Siglo de Oro di Garcilaso e Quevedo. In queste poesie «scienza ed estetica si abbracciano», divenendo iconiche rispetto alle ragioni della collana in cui trovano spazio: il lapidario racchiude il sapere delle lettere e di quella che un tempo fu scienza, dall’epoca classica – oltre all’obbligato riferimento a Lucrezio, si pensi a Celso, Columella ed epigoni – fino alla stagione dei vari Telesio e Campanella, insomma fino alla modernità anteriore alla svolta cartesiana e poi alla definitiva “vittoria” darwiniana; è un oggetto da saper maneggiare con cura, uno strumento per iniziati che può essere utilizzato per il più nobile dei propositi e perfino per i più prosaici desideri della carne. Da qui il catalogo propostoci da Clara Janés, che spazia appunto dalla Pietra di luna, dal colore e dalla luce variabili e «potens ad amorem conciliandum», all’Eliotropio, color smeraldo maculato di rosso, che può scaldare l’acqua e rendere invisibile chi la tiene in mano; dalla Pietra calamita, «vertebra del cosmo/ […]/ simile all’albero della vita/ che nel suo elevarsi tre sfere unisce», al Topazio, policromo e cangiante, che «dispiega l’iride con il suo prisma intatto» e porta simpatia e sorriso. Tra le altre si affacciano poi la Pietra filosofale e l’Onice, «trionfante nella sua nerezza», il Berillo e l’Azzurrite, ma soprattutto il Granato, in cui l’istanza metaforica si sublima dando vita a versi di rara maestria, che appaiono in tutta la loro bellezza anche nella versione italiana:
Rubea rosa trattenuta in drusa
avvolta in dodici fianchi cristallini,
visione del vino tramutato in luci,
o in bicchiere di crepuscolo colmo.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma ciò che qui conta sottolineare è la forza delle figurazioni poetiche che l’autrice addensa attorno alle leggende e alla materia delle pietre, una materia che, a sentire scrittori e pensatori di altre e assai più fertili stagioni, è tutt’altro che sorda alle vicende umane; anzi, ne è complice e interprete, svelando spesso le ragioni occulte delle sorti di ognuno: ma lo fa spesso per analogia, quasi sub specie aeternitatis, in una trascendenza sognata e sospirata eppure degna della “fede” più osservante. Una fede eteroclita che oscilla, come detto, tra la mitologia antica e la scolastica, tra la mistica islamica e quella indiana, ma che in ogni caso si fa sintesi dell’umano scibile (e auspicabile), di un sapere che concilia – vichianamente – verità e filologia, chimica e mito, religione e destino.
Sia Fossili che Lapidario sono dunque libri colti, profondi e colti, come pure la lingua poetica che adottano, fondata su un linguaggio e uno stile sorvegliati, con i versi che pescano in un bacino lessicale principalmente “difficile”, a volte “letteratissimo”, e usano a piene mani del repertorio dei tropi e delle figure sintattiche più disparate, dall’inversione all’enumeratio. A livello metrico, inoltre, si fa apprezzare il ricorso alle misure consolidate dell’endecasillabo e del settenario (singolo e doppio), con pochissime eccezioni, in sequenze che accompagnano il canto con viva sonorità e a fronte delle quali le versioni italiane ricreano nuovi, efficaci ritmi, soluzioni dotate di libertà e ottima resa stilistica. Sì, perché la traduzione è attenta proprio a recuperare l’icasticità dei versi di Clara Janés, la densità delle immagini e delle espressioni più pregnanti, distribuendo con perizia significanti, pause e riprese e distendendo un vocabolario puntuale teso a ricreare la vis poetica propria dell’origine, intesa come ispirazione e come tessuto linguistico. È in questo modo, attraverso un atteggiamento duttile e propositivo, in un andirivieni ponderato tra esegesi e creatività, che la traduzione di poesia approda a buon porto; è così che traduttore e autore dialogano da vicino, che la lingua pura della lirica, come diceva Benjamin, continua a parlare nel tempo e nello spazio, con il suo rispetto, con la sua autonomia, con la sua eternità.
(fasc. 28, 25 agosto 2019)