Sulla poesia recente di Elio Pecora
Per il modo con cui contribuisce ad arricchire il patrimonio della letteratura italiana ed europea, ogni nuovo libro di Elio Pecora viene atteso con ansia, letto con devozione e con fervore dagli appassionati di poesia che ritengono l’autore cilentino un acuto interprete dell’attuale temperie sociale, in grado di avventurarsi nell’ambito dell’umano grazie alla circospezione e alla discrezione con cui ne approfondisce, analizza, interroga, vive, canta le qualità e i limiti, impegnato come pochi a riferire, con dovizia di particolari, sul nostro essere. D’altronde, da un Maestro come lui si esigono risposte sul nostro tempo, si attendono illuminanti proposte e aperture sul comune destino: la poesia, se è grande, deve trasformarsi in oracolo, in una voce che viene da lontano per aiutare a comprendere chi siamo, al fine di svolgere una vera e propria funzione maieutica.
Ogni libro diviene per Elio, probabilmente, fonte di estrema sofferenza e ricerca; non è impresa da poco riuscire a individuare dove sia l’uomo, chi sia l’uomo dei nostri giorni, mai così sfuggente e ambiguo, perfino irreperibile, celato dietro uno spettacolo di luci e di ombre da cui la sua maschera si lascia appena intravvedere.
La più recente raccolta poetica, Rifrazioni, è uscita, per i tipi dello specchio mondadoriano, nel gennaio del 2018. Due epigrafi l’aprono, che parlano sia del coincidere del pensiero e del cuore, sia del sovrapporsi dell’immaginario e del reale. Scrivere, ci avverte l’autore, è dunque un rivelarsi del mondo, grazie a un pensiero emotivo.
Segue un poema che funge da preambolo, riportato in corsivo, una sorta di invocazione alle Muse. È compito precipuo dello scrittore cercare di porsi al centro del suo tempo, al centro dell’uomo per carpirne i segreti, i valori che determinano le sue scelte, le motivazioni che stanno dietro i suoi gesti, le sue azioni. Nel passato si invocavano le Muse, Elio invece si rivolge a un luogo di pace, a uno spazio intimo, luogo dell’infanzia e del cuore, dove cercare prima di tutto se stesso. Il giardino di S. Arsenio, dietro la casa paterna, è il locus amoenus, il luogo privilegiato da cui guardare lontano, «ma dove lontano», si chiede già interdetto il poeta, e: «che lembo di occulta ragione» osservare? Nulla è scontato. Aggiunge poi: «Chi si cerca è trovato a sua volta da un’ombra», dunque egli narra di un conflitto tra il proprio sé e l’io, tra l’anima dell’essere che sta e risiede nel nome dell’altro nel luogo pacificato dell’infanzia e l’inquieto portatore dell’io, un conflitto che si risolve a tutto favore dell’ombra, del Sé, del nume tutelare del Luogo dell’anima, «ma pure vive e respira quell’ombra finanche nel sogno». Sarà proprio quel nume, lare domestico e ombra che non si è mai allontanata dal suo luogo, a guidarlo come Virgilio nella selva degli uomini e del suo tempo, quell’Animus che sente, che avverte oltre le pareti e gli spazi, che viene a coincidere con il poeta stesso, a cui dà, offre, dona la voce. D’ora in poi nel poeta, finalmente sicuro e pacificato, pronto a indagare, coincideranno l’«ombra che vive finanche nel sogno» e l’uomo incerto e dubbioso.
In epigrafe, una citazione di Brodskij, secondo cui la poesia ha la funzione, per chi la scrive, del modo per cui la luce o il buio si rifrangono. Che cos’è la rifrazione, parola che dà il titolo all’opera? La rifrazione è la deviazione che un raggio luminoso subisce nel passare da un mezzo trasparente a un altro, per la differenza della velocità di propagazione nei due mezzi. Se ne deduce che la funzione della poesia è di deviare, attraverso la propria sostanza, il corso di un’altra qualità. Insomma, una sorta di chiarificazione o anche di deformazione della comune visione della realtà.
Il poeta avverte di essere in trappola, nel mondo, coartato e ingannato nella sua veste d’uomo, comprende di essere ingannato ma non ne ha le prove, non può sostenere la propria ipotesi se non facendo passare il reale attraverso la poesia.
La prima poesia, programmatica, riassume il fine dell’opera. Nel frastuono nello scandalo del mondo, alla ragione resta un flebile mormorio. Non si riesce a distinguere ciò che conta, a percepire un lume del vero. Eppure, c’è ancora chi si dedica a questa ricerca, relegato, dimenticato nell’incontaminato silenzio, ovvero versato in un ascolto ormai reso impossibile, forse per questo ancora più desiderato dai pochi più prossimi alla disciplina del romitaggio e a concepire la marginalizzazione dell’essenziale.
Si delinea così la figura di un cantore che, tra disincanto e speranza, tra rassegnazione al nulla e accensione d’interesse per una piccola significativa vicenda, in un presente che sa di ricordo e in una nostalgia di un futuro che si avverte sempre più lontano e distante, si agita come un samurai apparentemente freddo e impassibile, ma indicibilmente e inarrivabilmente sensibile, naturalmente votato alla solitudine, alla disperazione, perverso notomizzatore della prigione in cui versa inconsapevolmente l’uomo, raggirato da un inganno ordito da un invisibile demone.
Il poeta nomina la trappola in cui vive, definendolo un «abitacolo in rovina in cui l’umanità è nemica a se stessa» (anche se più avanti si contraddirà sostenendo che «l’inganno non è stato muoversi in questo recinto,/ ma tenere per certa una promessa bugiarda»). L’abitacolo è il mondo, la Natura, in cui la creatura si ribella e si sente nemica perfino di chi l’ha generato, in una condizione edipica drammatica, che ne trascende perfino la tragicità. Come procedere? L’autore trova la strada nel prefiggersi un percorso etico di ascolto; il suo compito consisterà nel riuscire, nonostante il frastuono, a ristabilire il silenzio, prima di tutto dentro di sé, per fare “notte” nella propria dimensione; secondariamente significherà allentare il contatto col quotidiano e allontanarsi dal ringhio continuo e assordante che permea il giorno. Significherà anche mettersi nei panni dell’uomo comune, che, nel giorno, quando gli accade di star vicino ad arrendersi, quando tutto sembra essere perduto per sempre e ogni gesto sembra inutile, risibile ogni speranza, ecco che un nonnulla, una voce al telefono, l’odore di un cibo bastano per farlo riaffiorare dal soffocamento, per farlo ritrarre dalla disperazione. Al fondo dell’esperienza quotidiana, esaurite le urgenze, si presentano non invitate domande avvelenate – «perché tutto questo?», «e quanto durerà?» –, domande a cui si è portati a rispondere evasivamente, nascondendosi dietro una labile allegria. Implacabile, la felicità non transige, anche se forse essa è solo un vessillo agitato inutilmente, un simulacro. Con sguardo tenero, impetuoso e contraddittorio ma anche vigile e impietoso e perfino a volte con incanto e partecipazione infantile alla vita, l’autore non s’arrende alle disillusioni che il mondo propone, dimostrandosi docile al suo tempo, per meglio blandirlo e offrirgli un riparo, per essergli di rifugio, affinché l’epoca, affidandosi con le sue voci a lui, al cantore, si confidi, si riveli.
A chi mi potrebbe obiettare che questo non è il compito precipuo di Elio Pecora, quanto, piuttosto, in generale, di ogni poeta, ribatto sostenendo che il poeta adempie alla propria missione quando egli è talmente coraggioso da incarnare fino in fondo la folgore precipitosa e tonante del suo tempo, quando ne riesce a carpire le confessioni, le mancanze, le speranze, la promessa di una sorte migliore e magari di una salvezza universale, pur se fredda e tecnologica, artificiosa e persino “disumana”. Pecora studia, insegue, percorre il proprio presente, ne trascrive i dettagli con la pazienza dell’amanuense, con la costanza di un certosino, identificandosi con ciò che lo circonda. Questa immedesimazione che gli costa sangue e sudore lo fa uscire tramortito ogni volta dai propri versi, versi fatti della sostanza stessa della notte che egli vive, giacché la verità di questo secolo va cercata, egli scrive, «nel buio: che è poi il niente non più niente», versi impregnati di nichilismo, della sofferenza e del male, ma pure e ancora segni di una vivezza fortemente sentita, se riescono nonostante tutto a trasmettere l’innamoramento per un fiore, per il profilo minuto di un adolescente, l’incanto di fronte all’estatica luna. In contrasto con l’immensa fenomenologia di questo secolo, che si riassume nella promessa del vuoto, del niente, del buio, la cui minaccia si sostanzia pian piano, l’uomo ancora si porta dentro, oltre al male e alla minaccia, «cosmi e particole», e sa di esserne «traversato e abitato/ mentre li abita e li traversa»: in questo chiasmo Pecora fa divenire la rifrazione una spettacolare simmetria, sottintendendo l’abbraccio mortale tra scienza e filosofia, l’unione innaturale tra le opposte e vicine mitologie del tempo, e per questo ci ricorda stile e atteggiamento leopardiani, l’innamoramento disperato di Leopardi per la vita.
Pecora aggiunge l’amore per un raffinato e decadente estetismo, allorché egli nota come l’universo, dentro di noi, forse nasconda un’altra verità, confortata dal fatto che ancora qualcuno non riesce a negare l’abbraccio della bellezza, a percepire il piede danzante della Madonna dei pellegrini di Caravaggio o lo screzio sorpreso nella canzone del salice di Desdemona nell’Otello. In qualche modo, l’universo si rispecchia negli artifici umani.
L’opera di Pecora è una sorta di poema, di lungo discorso o dialogo di un uomo con se stesso e con il suo tempo, inteso attraverso il sentire di un’ombra, di una creatura che fa da tramite tra cosmi e particole e si fa anche sostanza di ciò che questi cosmi abitano: il mondo è il modo con cui esso abita le sue creature, si fa sostanza nelle creature, le attraversa, le fa innamorare e disperare di sé.
«Se penso alla bellezza – dice – v’incorporo/ il mondo intero. La penso pensando alla morte/ e tutto allora mi si presenta insostituibile,/ anche i giorni della tristezza: quando l’attesa/ non smette di origliare e la rabbia/ accende fuochi ovunque per scaldarsi./ Chi negherà bellezza all’abbraccio/ che può esserci tolto?// Ah, lo schianto del fulmine dentro l’acacia!» (da Rifrazioni, p. 22). Quale smarrimento e quale saggezza ispirano questi versi in cui è centrale quell’abbraccio che può essere tolto a tutti noi! È l’abbraccio stesso del poeta a noi, che ci viene tolto nell’atto stesso della lettura. Che cos’è quello slancio se non poesia, il modo in cui la luce si rifrange nella nostra labile esistenza? Il dolore della bellezza consumato dalla stretta del tempo, che stringe il cuore e l’anima in una nostalgia senza oggetto, perciò indefinita, che a noi anzi appare: “infinita”.
Che cos’è la parola della poesia, qual è la funzione del poeta nel suo tempo? Nei versi di Pecora, si accenna a una risposta. Il tempo che precede il tempo della rivelazione è la parola: un anticipo secco del nulla o del Tutto, o della cognizione dell’irreversibile: l’irreversibile inteso come il coincidere del segno con la realtà, coincidenza che è un vero abisso spalancato. Questa cognizione è forse la compassione di se stessi; il dolore non è mai bastevole o assoluto, spesso coincide con quello dell’altro, di un altro.
La struttura di Rifrazioni è di natura poematica: sebbene formata da lacerti, da poesie singole, può leggersi come un unico lungo discorso, un poema formato di un verso denso, lungo, raramente inferiore all’endecasillabo.
Da spettatore e attore, Pecora cerca di misurare l’immisurabile, di determinare che cosa siano il dolore e la felicità e la bellezza di cui s’incorpora il mondo intero, imbevuto del filtro attraverso cui tutto si presenta insostituibile. Si esauriscono ogni paradiso e inferno nella frammentarietà, nel non aver tempo per l’amore, nel non lasciarsi andare alla leggerezza, nel destino a cui basta «il desiderio di una felicità appena sfiorata». Che cosa resta dell’entrare nella vita, dell’uscire nella morte? Arrestare il tempo, attendere, perdere la misura nella gioia d’un gesto, mandare un segno a chi non c’è per una risposta, aver pazienza. L’umano sfocia, sminuzzato, nelle paure e nell’ansia, nella perdita. Il poeta dal silenzio trae parole, appena un cenno per un altrove nemmeno intravisto, la certezza anche abbagliante del niente nel niente. Il poeta continua imperterrito con la testa mozza di Orfeo a «cantare per quale spettacolo»?
In esergo, le epigrafi spiegano il contenuto delle liriche comprese in ogni sezione: lo spessore dell’ombra è il ritorno del desiderio nella sparizione (Blanchot), «il passato siamo noi e perfino il nostro domani è un passato che si ripete» (Zolla).
La parte più notevole del poema pecoriano è Lo spessore dell’ombra, in cui la lunghezza del verso si affida a una sorta di esametro, composto di due misure, l’una controcanto dell’altra, in cui la seconda si può considerare una specie di commento o di eco della prima parte, dalla tensione fortemente epico-drammatica. Il riferimento alla classicità è evidente, i temi dell’umano sono ancora e sempre quelli; la classicità pecoriana però si riveste dell’angoscia e della sensibilità moderna, di uno sperimentalismo che avvicina il poema ai grandi risultati raggiunti in campo europeo da Eliot nei Four Quartets e in The waste land, da Auden in The age of anxiety, da Pound nei Cantos.
Per scrivere di “loro”, degli uomini, “egli” (l’Animus del poeta) deve prendere sulle spalle il destino di tutti, caricarsi della loro gioia e del loro dolore, in nome e per conto loro. “Egli” non li ha mai abbandonati, ne riferisce la Storia, l’Esito, ne è l’ultimo testimone, partecipe del loro inutile affaccendarsi, un samurai che ha concentrato nella sua impassibilità tutti i gesti possibili e assiste senza scomporsi all’imperfezione progressiva del mondo, all’imperfezione degli alberi, del tempo, degli animali, fino a quella dell’uomo.
Chi sono gli uomini? Sono coloro che non scamparono mai alla morte, docili creature negate a loro stesse da un destino di impermanenza, di transitorietà, di fugacità. Creature per eccellenza, perché consapevoli del loro essere votate al dissolvimento. Non ebbero dei, perché fu vuoto il loro cielo, perciò non ebbero dei contrari o favorevoli ma colmarono questa assenza immaginando quel che non vedevano, e cioè dei capaci di generare in loro desideri, paure, la bellezza. Ebbero esperienza del tempo, della felicità, del dolore e anche il meno attento seppe dell’amore. Il corteo dei morti viventi avanza nel pensiero fermo dell’Animus che li coglie nella loro consistenza (e sostanza) di folla, di quelli che andarono insieme per un tratto più o meno lungo, comunque sempre importante, degli altri che invece non seppero nemmeno l’uno dell’altro. Il distacco tra Animus e uomini, tra soggetto (poetico, anche) e anonime schiere di uomini si fonde in una lucida constatazione: «Moriamo alla morte dell’ultimo che ci ha conosciuti».
Di fronte a tali verità, le parole sono nient’altro che «sentinelle assonnate sugli spalti di una città assediata».
«L’aria è piena di anime», la frase di Pitagora diviene emblema della condizione di chi avverte attorno ai viventi “ombre” che ci “chiamano”: «Pare a volte di udirne la voce, ne ascolti la frase/ che ti confortò o che ti offese. A volte ne scorgi/ le mani irrequiete, il colore degli occhi./ A volte spostano una sedia, un libro,/ un cuscino ricamato; a volte/ ti precedono in una strada affollata/ e nemmeno si voltano».
Di questo restare, di questo indulgere dei vivi tra i morti o dei morti tra i vivi, così strenuamente affezionati a oggetti e ai loro vizi, pronti a farsi ingannare per amore delle cose o per questioni sentimentali (i morti tornano per farsi ancora ingannare oppure restano perché non riescono a uscire dall’inganno?), svelti a farsi tradire nel luogo dove essi hanno nascosto i loro mostri.
Similmente al romanzo manzoniano, Rifrazioni è un poema corale, dove l’io lirico è uno dei tanti personaggi che s’agitano nel testo, laddove il vero protagonista è l’umanità di quel tempo, narrata e descritta da un narratore onnisciente ben nascosto dietro le quinte, una sorta di Divina Provvidenza che regge il teatro del mondo.
Il narratore è convinto che una superiore volontà ordinerà il caos, provvederà, laddove si è creato un vuoto, a colmare; laddove qualcuno si è dimostrato avaro, a depauperarlo, a dare a chi non ha avuto, insomma, a compiere e a rendere equilibrate le sorti; qui il narratore è una voce che resta e penetra fin dentro il lutto e l’assenza dell’uomo e del mondo.
«La condizione umana risiede nell’abitazione, nel senso di soggiorno sulla terra dei mortali» (Heidegger).
Pecora “spazializza” le paure per renderle visibili, connaturate e connaturali alle proiezioni culturali (film, scritti sull’apocalisse, sulle guerre, sulle aggressioni che commettono gli uomini nei confronti degli altri, paure sempre più forti e corpose).
Nessun uomo si può ritenere mai esente dall’umanità e dal suo concorrere a un impegno comune, nessuno è salvo dai propri gesti, nessuno è libero dal suo essere fonte e oggetto di relazionalità, di corresponsabilità a un progetto unico.
La poesia, forse, non è che l’espressione del desiderio umano di dialogo, di confronto, nell’assunzione di una responsabilità critica nei riguardi del potere di una “ragione” che, oltre che a esprimere in sé le forme del mondo, contribuisce a mutarle, a inciderle in modo spesso orrendo, “contro natura”.
Ecco il perché di una ribellione che si concretizza nella descrizione di una sempre più probabile autodistruzione a causa di una mancanza di senso presente nell’attuale agire umano, sempre più impregnata di nichilismo: «Quest’uomo non crede più a nulla, a nulla più crede/ (nemmeno al denaro che, se lo distrae e contenta,/ non basta a guarirlo dal desiderio e dall’ansia)./ Da tanto non ha più un altare né un dio da pregare:/ quando sente insicura la mente, e breve e malata/ la sua ora».
La terra è diventata un immenso spettacolo umano dove «L’aurora/ dai centomila watt/ risolleva il sipario/ sull’immenso teatro», uno scenario osceno, sconfortante, desolato, che non nasconde più alcuna sorpresa per gli uomini, attori abbagliati dai riflettori, divenuti ciechi, figli degeneri, allontanatisi dalla natura, dalla loro essenza, traditori del loro compito di custodi del pianeta. Un teatro degradato in “teatrino”, in uno spettacolo indecente in cui «Seduti sulle immondizie pienamente legiferano:/ Dopo di noi il diluvio!».
Sconsolato, il poeta si chiede: «quanto di tempo impiegherà quest’uomo,/ così tanto occupato da se stesso,/ a sentirsi a misura della foglia/ che spunta da una minuscola polla» a ridiventare, se mai lo farà, di nuovo creatura naturale?
(fasc. 38, 28 maggio 2021)