Di «respiro ampio e in un certo senso prosaico» (p. 6) parla, per questi versi editi da Il ramo e la foglia nel 2021, il prefatore Francesco Muzzioli, sottolineando quanto Alvino vi rifugga dalla ripresa delle forme chiuse della tradizione: altrettanto bene Muzzioli mette in luce, però, che, sebbene in questo volumetto non si rispettino le regole metriche, «la libertà è sofferta ed è sottesa da un ritmo incalzante e dai cambi di pedale di una scrittura in continuo movimento» (ibidem).
Rethorica novissima già dal titolo pone al lettore il dubbio se fidarsi o meno dell’autore (a causa di quell’acca provocatoriamente posticipata), seguendolo in un percorso che attinge a piene mani dalla tradizione letteraria sia classica sia dell’italiano fin dalle origini. Il poeta sembra proprio sfidare chi leggerà, come se pretendesse un atto di fede da parte dei lettori, che verranno introdotti a una poesia, di certo, elitaria: consapevolmente e deliberatamente non per tutti.
Nella teologia cattolica, i novissima sono le cose cui l’uomo va incontro al termine della vita: la morte, il giudizio particolare, il paradiso o l’inferno; in questo titolo, “novissima” figura come aggettivo femminile singolare (e anche il riferimento implicito ai Novissimi appare scontato), ma non escluderei, fra le righe, un’allusione anche al senso prima accennato. Palese, invece, un gioco con la Rhetorica ad Herennium o Rhetorica nova, il trattato di età mariana attribuito a Cicerone e denominato Rettorica nuova di Tullio o Fiore di Rettorica nel XIII secolo, che seguiva al De Inventione o Prima rhetorica. Da notare, però, che forse non a caso nel componimento che dà il titolo alla silloge compare la parola «sapienza» (p. 27), il che mi pare possa alludere, fra le righe, anche alla lettura di Dante, che in Cicerone vedeva un maestro di sapienza più che un maestro di stile.
Infatti, la prassi versificatoria di Alvino pare rovesciare e andare oltre il concetto “ciceroniano” dell’isolamento della lingua come condizione della “pura Latinitas”, con la formulazione di una retorica “novissima”, contemporanea: il maestro di stile viene superato con l’introduzione, nel ricchissimo tessuto linguistico di questi versi, di lessico proveniente da lingue antiche o morte (soprattutto latino, come in De senectute, pp. 35-36; ma anche il greco «eureka» di p. 17), dall’italiano delle origini (come in Detto del fino amante, p. 37) e da lingue straniere (si veda, ad es., Regard, p. 30); inoltre, di veri e propri “strafalcioni” (come «accqua», p. 31) e – in linea con la lezione gaddiana che Alvino ben conosce – anche di termini tecnici e specialistici (per esempio, quelli relativi alla medicina, come in Humanitas, pp. 47-62; o all’arte). I più presenti fra questi ultimi – come ha notato il prefatore – sono quelli tratti dal lessico della filologia, di cui Alvino è indiscusso esperto, avendo offerto già tante prove della sua perizia e acribìa, in qualità di curatore di numerose edizioni critiche di testi in particolare novecenteschi: al riguardo si vedano almeno Codices inutiles, pp. 22-23; Canzone per andare in maschera, pp. 24-25, il cui andamento quasi cantilenante introduce il sospetto di un gioco parodico su alcune forme consolidate della tradizione; Questioni preliminari (esacatalogo per aspiranti poeti), pp. 33-34, e la sezione Varianti formali.
Pure il lessico specialistico della linguistica fa capolino tra i versi (si veda, ad es., Mon triste coeur), ma anche delle semplici parole che appartengono al nostro quotidiano Alvino sa mettere in luce significati secondari e valorizzare sensi spesso sconosciuti persino a parlanti di media cultura. Del resto, è proprio la citazione proustiana che apre il volumetto ad anticipare al lettore che «ogni scrittore è costretto a farsi una sua lingua, come ogni violinista è costretto a farsi un suo suono» (p. 13), sebbene personalmente non ritenga che, in questo caso, si tratti di costrizione, ma di deliberata e ben ponderata scelta di un approccio sempre vivacemente sperimentale al fare poetico.
L’assenza dei principali segni paragrafematici relativi all’interpunzione (qualche trattino lungo compare) contribuisce a infondere nel lettore la sensazione di essere travolto da un torrente di parole, la cui irruenza talora stordisce. Del resto, anche il plurilinguismo che alterna linguaggio alto e basso («sputazzi» a p. 17) contribuisce a restituire un’immagine caotica della contemporaneità: come ha notato Muzzioli, «poiché l’emozione autentica è un fattore di disordine, il disordine non può essere comunicato altro che disordinatamente» (p. 7); inoltre, «di fronte all’ordine depauperato del linguaggio-merce, non resta infatti […] che “spezzare la lingua spazzarla / farne un’altra”» (p. 8).
A rendere il frastuono della contemporaneità anche l’inserzione non esplicitata di stralci di parlato (ad esempio, in De gauche à droite, pp. 17-19) o di stilemi ed espressioni tipiche del linguaggio giornalistico specie televisivo (ad es., in Dolce traverso), che avvicinano alcuni di questi versi alla poetica del Realismo Terminale. Una poesia, dunque, che sfida le leggi del tempo, inglobando in sé una babele di linguaggi e un arco temporale che dalle origini della lingua arriva fino agli ultimi esiti dell’espressione poetica.
Forse è una suggestione di chi scrive, ma mi è parso che si potesse in qualche modo pensare a una lettura “trasversale” di alcune composizioni, collegando i loro primi versi: «temo che la faccenda si complichi più del dovuto» (p. 17), «sarebbe da irresponsabili non riconoscerlo» (p. 20), «be’ no la faccenda è diversa» (p. 22), recitano i primi versi dei primi tre componimenti, quasi a creare un andamento narrativo, stabilendo dei sottili rimandi fra stralci di testo che apparentemente non hanno nulla a che fare tra loro. La raccolta di versi, se la suggestione non fosse del tutto infondata, assurgerebbe a poema (o perlomeno potrebbe essere assimilata agli antichi frammenti di un poema, come fosse il misterioso ritrovamento futuro di un perduto manoscritto rinvenuto dai nostri posteri).
Tra i versi polemici, non poteva mancare un riferimento (Affetti di scanner, pp. 88-90) alla dannazione dei testi scansionati e convertiti da immagini tramite OCR, senza le opportune verifiche sugli originali: pratica che – temo – produrrà in futuro una serie di varianti a stampa non autorizzate e del tutto fuorvianti anche di classici. Si potrebbe commentare: «vien voglia di torturare massacrare mozzare / spegnere e mettersi a parlar d’altro / o non parlare affatto spegnere soltanto» (p. 18), versi assai vicini alla vis polemica dell’Alvino di Plausi & botte.
Tra la fascinazione della babele linguistica e la tentazione del silenzio, dunque, si muove la ricerca inesausta di questo poeta, intriso egualmente di cultura e di furor creativo. A opere a loro modo “enciclopediche” come questa è palesemente riduttivo dedicare solo una breve recensione: chissà che il futuro non ci permetta di ritornarci sopra con maggiore calma.
(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. II)