Riparare con l’oro delle parole
Come diceva Cesare Pavese, «è bene rifarsi a Omero perché Omero è la tragedia, il viaggio, il ritorno. È l’inquietudine, la sconfitta, è l’attesa ma anche la possibilità della speranza realizzata». Letta attentamente, la frase di Pavese, in fondo, dice che Omero è la vita, la realtà; e che Omero è anche la letteratura, l’immaginazione.
Quando capita di leggere un autore come Sandro Abruzzese, si continua a vivere perché si ha l’impressione di aver incontrato un amico che ti racconta quello che ha fatto nella giornata appena trascorsa; non importa se si sia trattato dell’attraversamento del Mediterraneo per tornare a Itaca o solo di un “semplice” spostamento dall’Irpinia all’Emilia: in ogni caso l’inquietudine, la sconfitta, l’attesa e la speranza che “si” immaginano vivono realmente.
Sandro Abruzzese è nato in Irpinia e vive a Ferrara, dove insegna materie letterarie in un Istituto Superiore. Per i tipi di Manifestolibri ha pubblicato nel 2015 Mezzogiorno Padano e nel 2018, per la collana «che ci faccio qui» di Rubbettino, CasaperCasa.
Se vi piace la scrittura che adotta una sorta di estetica “montana” della curiosità (“cosa c’è oltre quell’altura?”), un’estetica, cioè, che, fra tante parole, tra formule trite e ritrite e altari addobbati, tace l’essenziale per farlo scoprire o a volte inventarlo, allora Abruzzese è lo scrittore che fa per voi. È, questa, una lettura attiva che non trascina – come avviene nel cosiddetto “commissariato della letteratura” italiana degli ultimi tempi –, ma che accompagna e sostiene nelle odissee quotidiane dei personaggi di un mezzogiorno padano o dei vicini di casa, di strada, di paese.
Scorrendo l’indice di CasaperCasa – Ancora esplorazioni: ex MOF, p. 27; Città perfetta, p. 65; GAD, p. 97; Via Frutteti, Piazza Ariostea etc. –, quasi fossero le tappe di questa odissea minima, assicurando al lettore che incontrerà figure “mitologiche” come De Pisis o Bassani, non si può che confidare nella sua curiosità padana e invitarlo ad abitare questa immaginazione così reale. Lasciarsi abitare dalle pagine e dalle storie di Abruzzese vuol dire proprio prendersi cura di questa curiosità, prestare attenzione a ciò che ci circonda e a quello che c’è oltre un orizzonte più o meno visibile, anche se a volte proprio quell’orizzonte, per quanto ampio e vasto, potrà sembrare una gabbia che invita “solo” ad evadere, ma costringerà a tornare.
Nella prefazione di Vito Teti a Mezzogiorno padano si legge: «continua a piovere e arrivano bollettini di guerra da ogni parte […] tg nazionali mostrano terre sventrate, fiumi divelti, ponti cancellati»; aggiungiamoci pure: discariche a cielo aperto, ospedali pieni per la nostra pandemia quotidiana. Insomma, il peggio sembra non avere limiti e a tratti il nostro Paese appare solo un ammasso di macerie, una storia ininterrotta di fallimenti. Proprio per questo – continua Teti – «ci vuole una scrittura linda, pacata e senza furbizie e trovate letterarie, senza termini dialettali infilati nelle frasi ad effetto, nei dialoghi fasulli». Ci vuole una scrittura come quella di Sandro Abruzzese, e lo si afferma augurando a chi lo leggerà di provare quella rara sensazione del giovane Holden: «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira».
La tragedia, il viaggio, il ritorno in queste brevi odissee, montane e padane; l’inquietudine, la sconfitta e l’attesa che racconta Abruzzese nelle sue storie dicono anche che è ancora possibile pronunciare in modo chiaro e significativo parole come “rovina”, “maledizione”, “catastrofe”, “pandemia” per poter ribaltare l’idea stessa di fallimento.
Nella scrittura di Abruzzese tutte queste ferite sono così reali ed evidenti perché altrettanto evidente e reale è stato il modo di sanarle: usare parole per riparare. L’aggiustare con “loro”, con le parole, richiama, per evidente assonanza, l’antica arte giapponese del kintsugi, del riparare con l’oro. Non bisogna nascondere le ferite e le cicatrici che si hanno o, addirittura, vergognarsene. Ogni tappa delle nostre piccole odissee, ogni trauma o ferita che ci portiamo dietro racconta chi siamo, da dove veniamo, quali montagne abbiamo oltrepassato e a quale Itaca vogliamo tornare.
Le parole di Abruzzese, chiare, lucenti, ricche anche del fallimento del loro significato; queste parole ricompongono “oggetti” andati in mille pezzi, riparano le fratture della realtà, della terra, di un paese. Della nostra stessa umanità.
Splendenti cicatrici dorate, chiuse a regola d’arte.
(fasc. 38, 28 maggio 2021)