Recensione di Sandro Abruzzese, “Mezzogiorno Padano” e “CasaperCasa”

Author di Giuseppe Ferrara

Riparare con l’oro delle parole

Come diceva Cesare Pavese, «è bene rifarsi a Omero perché Omero è la tragedia, il viaggio, il ritorno. È l’inquietudine, la sconfitta, è l’attesa ma anche la possibilità della speranza realizzata». Letta attentamente, la frase di Pavese, in fondo, dice che Omero è la vita, la realtà; e che Omero è anche la letteratura, l’immaginazione.

Quando capita di leggere un autore come Sandro Abruzzese, si continua a vivere perché si ha l’impressione di aver incontrato un amico che ti racconta quello che ha fatto nella giornata appena trascorsa; non importa se si sia trattato dell’attraversamento del Mediterraneo per tornare a Itaca o solo di un “semplice” spostamento dall’Irpinia all’Emilia: in ogni caso l’inquietudine, la sconfitta, l’attesa e la speranza che “si” immaginano vivono realmente.

Sandro Abruzzese è nato in Irpinia e vive a Ferrara, dove insegna materie letterarie in un Istituto Superiore. Per i tipi di Manifestolibri ha pubblicato nel 2015 Mezzogiorno Padano e nel 2018, per la collana «che ci faccio qui» di Rubbettino, CasaperCasa.

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Libro) CasaperCasa

Se vi piace la scrittura che adotta una sorta di estetica “montana” della curiosità (“cosa c’è oltre quell’altura?”), un’estetica, cioè, che, fra tante parole, tra formule trite e ritrite e altari addobbati, tace l’essenziale per farlo scoprire o a volte inventarlo, allora Abruzzese è lo scrittore che fa per voi. È, questa, una lettura attiva che non trascina – come avviene nel cosiddetto “commissariato della letteratura” italiana degli ultimi tempi –, ma che accompagna e sostiene nelle odissee quotidiane dei personaggi di un mezzogiorno padano o dei vicini di casa, di strada, di paese.

Scorrendo l’indice di CasaperCasaAncora esplorazioni: ex MOF, p. 27; Città perfetta, p. 65; GAD, p. 97; Via Frutteti, Piazza Ariostea etc. –, quasi fossero le tappe di questa odissea minima, assicurando al lettore che incontrerà figure “mitologiche” come De Pisis o Bassani, non si può che confidare nella sua curiosità padana e invitarlo ad abitare questa immaginazione così reale. Lasciarsi abitare dalle pagine e dalle storie di Abruzzese vuol dire proprio prendersi cura di questa curiosità, prestare attenzione a ciò che ci circonda e a quello che c’è oltre un orizzonte più o meno visibile, anche se a volte proprio quell’orizzonte, per quanto ampio e vasto, potrà sembrare una gabbia che invita “solo” ad evadere, ma costringerà a tornare.

Nella prefazione di Vito Teti a Mezzogiorno padano si legge: «continua a piovere e arrivano bollettini di guerra da ogni parte […] tg nazionali mostrano terre sventrate, fiumi divelti, ponti cancellati»; aggiungiamoci pure: discariche a cielo aperto, ospedali pieni per la nostra pandemia quotidiana. Insomma, il peggio sembra non avere limiti e a tratti il nostro Paese appare solo un ammasso di macerie, una storia ininterrotta di fallimenti. Proprio per questo – continua Teti – «ci vuole una scrittura linda, pacata e senza furbizie e trovate letterarie, senza termini dialettali infilati nelle frasi ad effetto, nei dialoghi fasulli». Ci vuole una scrittura come quella di Sandro Abruzzese, e lo si afferma augurando a chi lo leggerà di provare quella rara sensazione del giovane Holden: «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira».

La tragedia, il viaggio, il ritorno in queste brevi odissee, montane e padane; l’inquietudine, la sconfitta e l’attesa che racconta Abruzzese nelle sue storie dicono anche che è ancora possibile pronunciare in modo chiaro e significativo parole come “rovina”, “maledizione”, “catastrofe”, “pandemia” per poter ribaltare l’idea stessa di fallimento.

Nella scrittura di Abruzzese tutte queste ferite sono così reali ed evidenti perché altrettanto evidente e reale è stato il modo di sanarle: usare parole per riparare. L’aggiustare con “loro”, con le parole, richiama, per evidente assonanza, l’antica arte giapponese del kintsugi, del riparare con l’oro. Non bisogna nascondere le ferite e le cicatrici che si hanno o, addirittura, vergognarsene. Ogni tappa delle nostre piccole odissee, ogni trauma o ferita che ci portiamo dietro racconta chi siamo, da dove veniamo, quali montagne abbiamo oltrepassato e a quale Itaca vogliamo tornare.

Le parole di Abruzzese, chiare, lucenti, ricche anche del fallimento del loro significato; queste parole ricompongono “oggetti” andati in mille pezzi, riparano le fratture della realtà, della terra, di un paese. Della nostra stessa umanità.

Splendenti cicatrici dorate, chiuse a regola d’arte.

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

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