Omaggio a Dada, a cento anni dalla nascita: idee, luoghi, iniziative editoriali e valutazioni degli esperti

Author di Martina Neri

Scrivo questo manifesto per dimostrare come si possano fare insieme le azioni più contraddittorie in un solo fresco respiro; sono contro l’azione e in favore della contraddizione continua, ma sono pure per l’affermazione. Non sono né per il pro né per il contro e non voglio spiegare a nessuno perché odio il buon senso1.

Così scrive Tristan Tzara, all’anagrafe Samuel Rosenstock (Moineşti, 1896-Parigi, 1963), poeta rumeno bilingue francese, tra i fondatori del Dadaismo. Siamo nella Svizzera della Prima guerra mondiale; qui, per l’esattezza a Zurigo, si radunano numerosi artisti i quali, approfittando della libertà che concede loro quel luogo neutrale, dichiarano guerra alla politica, ai valori sociali e al conformismo culturale, ritenuti complici del devastante conflitto in corso. Qui nasce nel 1916 il Dadaismo. Gli artisti dada non hanno in comune caratteristiche stilistiche, quanto piuttosto un’impetuosa voglia di rivoluzione che va contro le strutture della società e i modelli artistici, sostituendo alla logica e alla ragione il caos, l’assurdo e l’imprevedibile.

Tra le varie avanguardie, il Dadaismo o, più semplicemente, Dada è di gran lunga la più radicale. La “filosofia del disgusto” di Tzara si serve del sarcasmo e dell’ironia per andare contro qualsiasi ordinamento, sia esso sociale, politico o culturale. Segue la linea della “semplicità attiva”: tutto è ricondotto alla spontaneità primitiva, al grado zero, al primo modo incerto di esprimersi tipico dei bambini, dai dadaisti tanto elogiato. Una spontaneità insita anche nei gesti semplici, immediati, istintivi, come l’“URLO” di Tzara con cui si chiude il Manifesto del Dadaismo. Tale atto del gridare viene vissuto come atto di sfogo, gesto liberatorio, come l’unica reazione possibile davanti alle oscenità della guerra, che porta dolore nell’animo e follia nella mente dell’essere umano. Afferma Tzara:

Per capire come è nato Dadà, bisogna immaginarsi ciò che, da una parte, era lo stato d’animo di un gruppo di giovani in quella specie di prigione che era la Svizzera durante la prima guerra mondiale e, d’altra parte, il livello intellettuale dell’arte e della letteratura a quell’epoca. Certo, la guerra doveva terminare e, poi, noi non ne avevamo visto altre (…). Ma verso il 1916-17 la guerra sembrava installarsi in permanenza, non se ne vedeva la fine. Tanto più che, da lontano, prendeva per me e per i miei amici proporzioni falsate da una prospettiva che si credeva molto vasta. Da ciò il disgusto e la rivolta.

Dada è un movimento vario e complesso; investe ogni ambito della vita dell’uomo, annullando il confine tra arte e vita. Altre sue caratteristiche principali sono l’aleatorietà, ovvero il sovvertimento della logica, l’incertezza e, soprattutto, l’imprevedibilità. Dada è, infatti, automatico, spontaneo: tra le maggiori modalità creative dada troviamo i “collage realizzati col caso” di Hans Arp, fervente dadaista, il quale sostiene:

La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria.

A lungo si è discusso sulla concezione dadaista dell’opera d’arte. Il Dada non è a priori contro l’opera d’arte, ma contro l’idea di opera d’arte; alla base di questo movimento c’è, infatti, una forte e vigorosa vitalità, che nella sua esplosività trova molta difficoltà a essere rinchiusa in opere d’arte compiute. In più i dadaisti non accettano le definizioni: non sono contrari all’oggetto in sé, bensì al “nome” con cui ci si riferisce all’“opera d’arte”. Dada ritiene che quel nome non comunichi molto dell’essenza dell’opera stessa: vede incerta, se non impossibile, tale comunicazione, e lo fa giocando con ironia, sfociando nella contraddizione, servendosi nel nonsense.

L’avanguardia dada è un’avanguardia internazionale, che assume caratteristiche diverse a seconda del luogo in cui si diffonde. Numerosi manuali di storia dell’arte dividono il capitolo su Dada in vari paragrafi, analizzandovi le varie anime del movimento. Questo parte, come detto, da Zurigo, nucleo di aggregazione di artisti e letterati, rifugio dalle bruttezze della guerra, terra di libera espressione e di condivisione di idee e teorie: Tzara, Janco, Arp, Ball e Huelsenbeck danno qui vita al movimento dada.

Il Cabaret Voltaire, La “culla” del Dadaismo, chiamato così in onore dell’eclettico e sarcastico filosofo francese notoriamente contrario alle convenzioni religiose, sociali e politiche, si trova al n. 1 della Spielgasse, strada nella quale, al civico 12, abita Lenin con sua moglie. Si racconta di vari incontri tra i fautori del movimento e Lenin. Tuttavia, al gruppo di intellettuali la politica interessa ben poco; la corrente dada più attiva politicamente sarà quella tedesca. Il Dadaismo zurighese non crede in niente, semplicemente rifiuta, avvolto in un manto di nichilismo, la ragione, la società e tutto ciò che è a essa connesso, come l’arte stessa, ad esempio.

Sull’origine del nome “Dada”, Hans Arp, nel 1921, in una rivista del movimento, racconta:

Dichiaro che Tristan Tzara ha trovato la parola Dada l’8 Febbraio 1916 alle sei di sera. Ero presente coi miei dodici figli quando Tzara pronunciò per la prima volta questa parola che ha destato in tutti noi un entusiasmo legittimo. Ciò accadeva al Café Terrasse di Zurigo mentre portavo una brioche alla narice sinistra. Sono convinto che questa parola non ha alcuna importanza e che non ci sono che gli imbecilli e i professori spagnoli che possono interessarsi ai dati. Quello che a noi interessa è lo spirito dadaista e noi eravamo tutti dadaisti prima dell’esistenza di Dada.

Tzara, da parte sua, aggiunge che è «nel vocabolario Larousse che ho trovato per caso la parola Dada». Ma Tzara ha dato anche altre spiegazioni di tale scelta:

Se qualcuno trova inutile, se qualcuno non perde il suo tempo per una parola che non significa nulla… Il primo pensiero che gira in queste teste è di ordine batteriologico; trovare la sua origine etimologica, storica o psicologica almeno. Dai giornali apprendiamo che i negri Kru chiamano la coda della vacca santa: DADA. Il cubo e la madre in una certa contrada d’Italia prendono il nome di DADA. Un cavallo di legno, la nutrice, la doppia affermazione in russo e in rumeno: DADA…2.

Tzara sottolinea, tuttavia, fin da subito che la parola Dada non è nient’altro che un simbolo di protesta e di negazione.

Il movimento, che quest’anno compie cento anni, nasce ufficialmente il 5 febbraio 1916, giorno di fondazione del Cabaret Voltaire, luogo dove si è infatti celebrato il centenario. Il Cabaret Voltaire vede la luce grazie a un’idea di Hugo Ball e della sua compagna Emmy Hennings. È evidente e forte la predisposizione di Ball per l’astrazione, che infatti sarà l’orientamento principale di tutta la corrente zurighese del movimento. Tra le caratteristiche principali delle serate di Zurigo troviamo in primo luogo il coinvolgimento diretto del pubblico, il quale viene chiamato a intervenire durante le performances (non proprio una creazione originale dadaista, essendo state già sperimentate dal Futurismo); la satira, che i dadaisti tirano fuori quando mostrano la loro ostilità nei confronti della guerra, e il mescolarsi continuo di generi alti e generi bassi.

Tra gli apporti innovativi che la stagione del Cabaret Voltaire, seppur breve, dà al movimento, senza dubbio centrali sono gli spettacoli, come l’Elefantenkarawane di Ball, in cui l’artista emette dei suoni astratti. Ma perché produrre sillabe sciolte? L’intento di Ball è quello di purificare il linguaggio: secondo il suo parere, il linguaggio è vittima di contaminazione e degrado derivanti dall’uso che ne fanno il giornalismo e la comunicazione quotidiana, i quali lo privano del suo senso spirituale originario.

La stagione del Cabaret Voltaire è, però, molto breve, e, nell’estate dello stesso anno, si chiude. Alla sua chiusura segue però l’apertura, sempre in Svizzera, della Galerie Dada, diretta da Tzara e Ball. Nel 1919, a Zurigo arriva Picabia; il numero «Dada 4-5», di Tzara e Picabia, contiene il simbolico omaggio di Picabia alla Svizzera, l’impronta di meccanismi rotti di un orologio dal titolo Sveglia del mattino. Il fascicolo rappresenta il punto di convergenza delle diverse anime dada. Quando termina la guerra, finisce anche il periodo dada a Zurigo.

Il Dada svizzero ha avuto un occhio sempre puntato verso le avanguardie internazionali, e uno anche molto attento verso l’Italia. De Chirico, Modigliani, Prampolini: Tzara è fortemente attratto dagli artisti italiani, tanto da richiederne la collaborazione per il primo numero della rivista «Dada», del luglio 1917.

Tzara, infatti, dalla Svizzera guarda sempre all’Italia, tentando di mantenere stretti i rapporti con le personalità artistiche italiane più in voga; dal 1920 Dada riesce a penetrare nella penisola, soprattutto a Roma, città decisamente viva dal punto di vista artistico, allora considerata la realtà d’avanguardia più vivace del nostro Paese.

«Bleu» e le altre riviste dada

Nel 1920 vengono a crearsi in Italia quattro centri culturali in cui si formano dei gruppi dadaisti: Firenze, Trieste, Mantova e Roma. Proprio a Mantova vivono e operano Fiozzi e Cantarelli, i redattori di «Bleu», la prima e unica rivista Dada italiana, stampata presso la tipografia L’Artistica di A. Bedulli, situata in corso Umberto. La rivista ha un costo di 60 centesimi ed è costituita di sole sei pagine. Ne escono altri due numeri, rispettivamente ad agosto-settembre 1920 e a gennaio 1921, di nove e sei pagine, entrambi al costo di una lira. Era prevista l’uscita di un quarto numero, tutto ad opera di Julius Evola, contenente un calendario della stagione dada, degli aforismi satirici, scritti polemici contro i futuristi “nemici”, contributi di Tzara e di altri dadaisti, ma non è mai stato pubblicato.

I finanziamenti per la pubblicazione dei primi due numeri della rivista provengono da Cantarelli, il quale, ereditata dai genitori una cospicua somma, la utilizza in pochi anni per finanziare varie attività espositive ed editoriali. Il terzo numero viene, invece, finanziato da Evola. Per il quarto numero si propone un ignoto mecenate che, però, si tira indietro al momento della pubblicazione e, venendo a mancare i soldi necessari, la rivista non esce.

Il periodico prende il nome dal colore utilizzato per la stampa del titolo e delle immagini del primo numero. Il colore scelto per il secondo numero sarà il verde, e il rosso sarà scelto per il terzo; tuttavia, il nome della rivista rimarrà invariato: il risultato della mescolanza di questi ultimi due colori resta, infatti, sempre e comunque il blu.

«Bleu» contiene documenti, opere, poesie e disegni non solo dadaisti ma che spaziano dall’espressionismo a De Stijl: sono molti, infatti, gli interventi di Van Doesburg, e vi si anticipa anche il Surrealismo, con poesie di Aragon. I primi due numeri della rivista si presentano molto aperti verso gli altri movimenti, mentre il terzo, dove non compaiono mai Cantarelli e Fiozzi, è quello che contiene più riferimenti dadaisti. Esce, invece, tutto il fervore dadaista di Evola, il quale firma, in prima pagina, Note per gli Amici (ovvero per i dadaisti), e cita Tzara, del quale apprezza e sottolinea le idee e le dichiarazioni.

Cantarelli e Fiozzi, provenienti dall’ambiente futurista, sono redattori, dal 1917 al 1920, della rivista «Procellaria», dadaista e futurista, improntata ad accogliere tutte le espressioni sperimentali della modernità. Abbandonano il periodico nel 1920, proprio in occasione della creazione di «Bleu». Sono conosciute pochissime opere di Fiozzi pittore; qualche suo disegno è riprodotto appunto sui tre numeri di «Bleu». Sul secondo numero compare uno dei suoi dipinti polimaterici (con vecchi pezzi di legno, molle, fili di ferro e oggetti vari), Valori astratti di un individuo y (un assemblage, appunto, di materiali diversi, realizzato con fili del telefono, porcellana, metallo e legno, con l’aggiunta di formule chimiche e simboli grafici), che rimanda ai ritratti meccanicistici di Picabia. Questo è un chiaro esempio dell’orientamento del Dadaismo mantovano verso l’astrazione, la quale, però, non viene presa in esame solo in relazione alla ricerca tecnica in ambito pittorico, ma viene assunta quale valore di vita. Sappiamo che è proprio Tzara a consigliare a Cantarelli di creare una rivista incentrata sul Dadaismo ed è proprio Tzara a dare a «Bleu» l’impostazione grafico-testuale delle riviste dadaiste internazionali, «Dada» prima di tutte.

A «Bleu» partecipa ampiamente anche il gruppo dada romano; sono presenti infatti, come accennato, contributi di Prampolini ed Evola, due tra i maggiori esponenti del gruppo Dada romano. È importante notare come Cantarelli, che appare così motivato e convinto della fondazione della rivista, a partire dal terzo numero sprofondi in una sorta di silenzio stampa, per poi riapparire, nel 1921, quando espone tre opere in veste di artista dadaista nella casa d’arte Bragaglia di Roma, fondata dai fratelli Anton Giulio e Carlo, centro importantissimo dove espongono tutti i maggiori futuristi e pittori d’avanguardia europei. In quell’occasione Cantarelli espone delle opere complesse, realizzate con una grande varietà di materiali e colori. Concordi nella critica negativa alla mostra sono Marinetti e lo stesso Bragaglia: la mostra è l’ultimo contatto tra il gruppo dada mantovano e quello romano. Dopo, sia Fiozzi che Cantarelli interrompono ogni tipo di rapporto con il Dadaismo.

«Bleu» è la rivista in cui sono raccolte le speranze del “seme dada”, volenteroso di germogliare in Italia ma piantato nel terreno sbagliato. Julius Evola non riesce nel suo scopo; dopo un breve, brevissimo, periodo di contaminazione artistica, il Dada italiano si spegne all’ombra del Colosseo, sulle rive di un Tevere da una parte forse ancora troppo legato al passato per accettare questa impetuosa novità e dall’altra forse troppo legato al Futurismo, di cui il Dadaismo viene considerato quasi come una copia.

Volando oltreoceano, invece, arriviamo a New York. Qui il Dada non è una semplice filiale del movimento svizzero, ma un vero e proprio movimento a sé. Il perché del luogo è analogo: la neutralità (per lo meno al momento della nascita del movimento) e la distanza fisica dalla guerra. La nascita di questo precedente dadaista, se vogliamo meno profondo e più ironico, più “leggero” rispetto al movimento zurighese, è databile all’anno 1915, anno in cui Duchamp e Picabia arrivano a New York e si forma un gruppo di intellettuali riuniti intorno ai coniugi Arensberg, coppia di collezionisti attorno alla quale ruota il sistema dada americano. Proprio nella dimora degli Arensberg hanno luogo le famose serate dada, durante le quali artisti e intellettuali si intrattengono in maniera piuttosto sfrenata sulle note di canzoni jazz, ammirando sulle pareti capolavori dell’arte europea d’avanguardia.

Il primo personaggio del Dada americano da prendere in considerazione è Picabia, artista francese che arriva a New York nel 1913 per l’Armory Show, un’importante esposizione di arte internazionale che ha, tra l’altro, un enorme successo. L’arte di avanguardia europea era già penetrata in America grazie a Stieglitz con le sue Little Galleries, o 291, per il numero civico della via in cui si trovavano, con opere di Matisse, Cezanne, Picabia. De Zayas è, però, colui che getta davvero le basi per lo sviluppo del dadaismo; oltre a fondare una sua galleria, fonda la rivista «291», così chiamata in onore di Stieglitz, con il totale appoggio suo e di Picabia. Più radicale è Duchamp, francese anche lui, altro fondamentale personaggio per il Dada newyorkese. Tra le sue opere più celebri ricordiamo il Grande Vetro, che grazie alla sua trasparenza è in grado di accogliere in sé la realtà che lo circonda, ma anche Fontana, meglio conosciuta come l’orinatoio, e L.H.O.O.Q., una copia della Monna Lisa decorata con baffi e barbetta. È attribuita a lui anche l’invenzione della tecnica artistica del readymade, il cui primo esempio è senz’altro la famosa Ruota di bicicletta. Con il readymade qualsiasi oggetto, anche il più semplice, non è mai banale e può diventare un’opera d’arte.

Un ultimo artista che si può definire fondamentale per il suo contributo al Dada americano è ovviamente il pittore/fotografo/regista Man Ray, grande amico e compagno di lavoro di Duchamp. I due collaborano per l’ultima volta nella creazione della rivista «New York Dada» del 1921. Figura importante e degna di nota strettamente collegata a Man Ray, in quanto compagna e musa, è Alice Prin, in arte Kiki de Montparnasse, modella e attrice dal temperamento ribelle e audace (è la protagonista della fotografia Le violon d’Ingres, del 1924, tra le più famose opere di Man Ray).

Tzara si tiene in contatto con gli artisti americani, con l’intento di diffondere oltreoceano la cultura dada, ma è solo dal 1921 che egli autorizzerà ufficialmente l’uso del nome, proprio come leggiamo nel titolo della rivista, sostenendo che «Dada è di tutti come lo è lo spazzolino da denti (stupenda invenzione)».

Una volta rientrato Huelsenbeck da Zurigo, inizia la stagione dada a Berlino. A lui si deve la fondazione del Club Dada, dove ben presto si forma un gruppo composto, oltre che da lui, da Hausmann, Herzfelde con il fratello, che americanizza il nome in Heartfield, e Grosz. Gli ultimi tre sono i più politicamente schierati e attivi del gruppo.

Dal Manifesto del dadaismo del 1918, letto da Huelsenbeck, si evince una chiara presa di distanza dal movimento dada di Zurigo; vi si legge, infatti: «il vero dadaismo è vita, è azione, non è arte astratta». Il riferimento esplicito è quello al comunismo: il dada di Berlino è definibile perciò, più che una corrente artistica, una lotta comunista contro la classe borghese. Al dada berlinese è attribuita l’invenzione del fotomontaggio. Nel 1919 esce il primo numero di «Der Dada», in cui sono presenti numerosi fotomontaggi; qualcuno esplicitamente politico, altri di diverso argomento. Il dada berlinese termina con l’esposizione Dada-Messe del 1920.

Più simile al dadaismo zurighese è, invece, la corrente formatasi a Colonia. Tra i personaggi più importanti ritroviamo Ernst e Baargeld, i quali, non a caso, vengono a contatto con artisti del movimento svizzero quali Ball e Hennings. La loro prima esposizione la fanno all’interno di uno spazio chiamato sezione D, e fondano manifesto Bulletin D, dove si possono vedere lavori di arte africana, fotografie, disegni fatti da bambini etc. Tra i temi principali c’è l’interesse per il sogno e la dimensione allucinatoria. La maggior parte degli artisti sono autodidatti e rifiutano il concetto di accademia. L’evento principale è la mostra Dada Vorfrühling, chiusa per oscenità ma che permette a Ernst di farsi conoscere e di poter partecipare al Dada Messe di Berlino. Nel 1920, come a Berlino, Dada si spegne.

L’ultima anima di Dada in Germania è Hannover. Qui Schwitters, non accettato dal gruppo di Berlino, inventa il termine “Merz”. Afferma Schwitters: «I quadri di pittura Merz sono opere astratte. La parola Merz significa, nella sua essenza, l’assemblamento di tutti i materiali possibili e immaginabili per scopi artistici, e in senso tecnico l’uguale valorizzazione di principio dei singoli materiali». La parola proviene da un ritaglio di giornale, Kommerz-und privat-banl, ma rappresenta chiaramente anche una critica anticapitalistica, in quanto Merz deriva dalla parola Kommerz, che significa ‘commercio’. Addirittura si arriva all’idea di una “merzizzazione” di Berlino, ovvero di uno stravolgimento dell’architettura cittadina, da riempire poi di luci e colori. L’unico evento dada ad Hannover è la serata Dada Revon (dall’ultima parte del nome Han-nover, letta al contrario).

La figura di Van Doesburg, il quale si crea un alter ego per riuscire a gestire sia la sua rivista neoplastica «De Stijl» sia l’attività dadaista, è anch’essa fondamentale; egli è infatti co-direttore dell’importantissima rivista «Mécano».

Ultima, ma non per importanza, la città di Parigi. Il dada parigino non è stato molto preso in considerazione in ambito storico-artistico sia per il suo stretto rapporto con la corrente successiva, ovvero il Surrealismo, con il quale, alla fine, per un periodo si mescola e confonde, sia perché si manifesta più dal punto di vista letterario che nelle arti visive. A parte il Salon Dada del 1921, di importante per il dada francese ricordiamo le serate, le quali mescolano la teatralità del cabaret zurighese e la provocazione futurista con la più tradizionale declamazione di poesie. Tre sono gli artisti principali del Dada parigino: Breton, Tzara e Picabia, tre artisti simili e diversi allo stesso tempo. Breton, il quale, insieme con altri giovani poeti, frequenta Apollinaire, ha frequenti contatti con Picabia ed è grazie a lui che Tzara introduce le sue poesie sulle riviste francesi. Breton, con Aragon e Soupault, dirige, dal 1919, la rivista «Littérature», che già dal nome risulta più “seria”, meno stravagante, rispetto alle altre. È a Parigi che il Dada si trasforma, si evolve e diventa poi, a tutti gli effetti, Surrealismo.

Come si evince da quanto detto finora, il mezzo di espressione principale di Dada sono le riviste. La parola “Dada” compare per la prima volta in un numero unico intitolato Cabaret Voltaire, una raccolta letteraria e artistica uscita nel maggio 1916, per mano di Tzara, Arp, Ball, Janco, Huelsenbeck e altri esponenti importanti dell’avanguardia internazionale, tra cui figurano nomi celebri come Apollinaire, Kandinsky, Marinetti, Cangiullo, Modigliani e Picasso.

Il concetto di individualismo non va a genio agli artisti dada: infatti, su idea di Ball, partecipano alla raccolta vari redattori, i quali si alternano. Non esistono capi o direttori, tutto si fa e si decide insieme: c’è unità, coesione, lavoro di gruppo. Scrive Ball nell’introduzione al fascicolo:

Oggi con l’aiuto dei nostri amici di Francia, d’Italia, e di Russia, pubblichiamo questo quadernetto. Deve precisare l’attività di questo cabaret il cui compito è di ricordare che ci sono, al di là della guerra e delle patrie, degli uomini indipendenti che vivono d’altri ideali. L’intenzione degli artisti qui riuniti è di pubblicare una rivista internazionale. La rivista uscirà a Zurigo e porterà il nome di DADA dada dada dada dada.

Nel Luglio 1917 viene dato alle stampe il primo numero di «Dada», ed è subito un grande successo; la rivista conosce larghissima diffusione. Alla fine del 1917 esce anche il secondo numero; invece, per il terzo bisogna aspettare l’anno seguente. In questo numero Tzara pubblica il Manifesto del Dadaismo, sorta di sintesi poetica e intellettuale del movimento.

Il Manifesto del Dadaismo è contenuto nell’opera di Tzara Sette manifesti dada, insieme con il Manifesto del signor Antipyrine, il Manifesto del Signor Aa l’Anti-filosofo, il Dada. Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro e altri testi. Come nota Sandro Volta, scrittore e giornalista3, l’importanza di Tzara al tempo di Dada risiede essenzialmente nell’impegno di dislocazione sistematica del linguaggio, inteso come mezzo di trasformazione di ogni attività umana. Per Tzara il linguaggio, ossia l’uso che si fa comunemente delle parole, è lo strumento principale di costrizione degli spiriti: fattore essenziale del macchinismo sociale, è diventato la catena che lega lo schiavo a un mondo di oppressione. Prendendo di mira il linguaggio, disarticolandolo e svincolandolo dalla sua logica convenzionale, Tzara si propone di colpire la servitù umana nella sua organizzazione fondamentale. L’uso di parole senza senso e l’accoppiamento di parole senza riferimento fra loro è, dunque, l’arma di disgregazione della società, al servizio della libertà dell’uomo. Parecchi anni più tardi, Tzara spiega così l’ostacolo che il linguaggio ha rappresentato allora alla realizzazione dei suoi propositi: «Se Dada non ha potuto sottrarsi al linguaggio, ha constatato il malessere che causava e gli impedimenti che metteva alla liberazione della poesia».

Ovviamente, l’obiettivo dadaista non è quello di un annientamento definitivo del linguaggio; è sottintesa una riconquista e una purificazione dello stesso. Lo afferma Tzara nel 1947: «È certo che la tabula rasa di cui noi facevamo il principio direttivo della nostra attività non aveva altro valore che in quanto un’altra cosa doveva succederle».

È da tener presente, però, anche un altro aspetto fondamentale per l’influenza che ha avuto sulla poesia contemporanea, quello che Tzara ha così annunciato:

Denunciamo al più presto un malinteso che pretendeva di classificare la poesia sotto la rubrica dei mezzi d’espressione. La poesia che non si distingue dai romanzi altro che per la sua forma esteriore, la poesia che esprime tanto delle idee quanto dei sentimenti non interessa più nessuno. Io le oppongo la poesia attività dello spirito… È perfettamente ammesso oggi che si può essere poeta senza avere mai scritto un verso, che esiste una qualità di poesia nella strada, in uno spettacolo commerciale, non importa dove; la confusione grande, essa è poetica.

La distinzione fra poesia mezzo di espressione e poesia attività dello spirito che Tzara introduce nel 1931, dopo quindi aver aderito al Surrealismo, è essenziale per spiegare l’essenza di Dada perché è, appunto, colpendo il linguaggio che si nega il valore poetico del mezzo di espressione. Tzara è un poeta che non respinge la poesia nelle sue forme tradizionali, perché altrimenti non si spiegherebbero gli anni che spende nell’appassionato studio di Villon, il poeta francese della seconda metà del Quattrocento, ma la respinge nelle forme decadenti in cui è stata ridotta da un’interpretazione formalistica che ha falsato la tradizione autentica. Attività dello spirito, la poesia è sempre stata intesa da lui unicamente come liberazione dell’uomo.

Tra le varie, numerosissime, seppur brevi, riviste del panorama dada internazionale, oltre alle già citate, figurano «Action», edita da Fels e altri a Parigi, nata nel 1920, che smette le sue pubblicazioni due anni dopo; «Aesthete», del 1925, creata da Hankel (pseudonimo di vari nomi); «New York», del 1925, di cui esce un solo numero; «Almanach der freien Zeitung», edita da Hugo Ball a Berna nel 1918 in un solo numero; «Der Ararat», una delle più longeve, dato che conta ben ventidue numeri, edita da Goltz a Monaco dal 1918 al 1921; «Aventure» di Crevel (Parigi 1921-1922), che conta, invece, solo tre numeri; «Blindman» (secondo e ultimo numero intitolato «Blind man») di Roche, Wood e Duchamp, stampata a New York nel 1917. Due numeri anche per «Cannibale», rivista di Picabia stampata a Parigi nel 1920; numero unico per «Le Coeur à barbe» di Tristan Tzara (Parigi 1922); «Maintenant», edita tra il 1912 e il 1915, interamente redatta da Cravan a Parigi a suo nome e sotto vari pseudonimi: ne escono cinque numeri. Ancora: «Merz», edita da Schwitters ad Hannover tra il 1923 e il 1932, di cui escono ben ventuno numeri (benché i fascicoli 10, 22 e 23 non siano mai stati pubblicati); il numero unico «Projecteur» di Arnauld, stampato a Parigi nel 1920; «Proverbe», edita da Eluard a Parigi tra il 1920 e il 1921 (ne escono sei numeri) e «Ronwrong», edita da Duchamp, Roché e Wood a New York, in un solo numero nel luglio 1917.

Di riviste dada ne escono moltissime altre. Come si evince datali periodici, proprio come il Futurismo anche Dada opera una rivoluzione nello stile e nella sintassi, una “rivoluzione della parola scritta”.

Prendiamo, ad esempio, la ricetta di Tzara per fare una poesia Dada:

Prendete un giornale.
Prendete le forbici.
Scegliete nel giornale un articolo della lunghezza che desiderate per la vostra poesia.
Ritagliate l’articolo.
Ritagliate, poi, accuratamente, ognuna delle parole che compongono l’articolo e mettetele in un sacco.
Agitate delicatamente.
Tirate poi fuori un ritaglio dopo l’altro disponendoli nell’ordine in cui sono usciti dal sacco.
Copiate scrupolosamente.
La poesia vi somiglierà.
Ed eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, benché incompresa dal volgo.

Questa tecnica per stendere una poesia dadaista segue la legge del caso, come d’altronde fanno i collage di Arp: «Intuition led me to revere the law of chance as the highest and deepest of laws, the law that rises from the fundament» (‘L’intuizione mi ha portato a riverire la legge del caso come la più alta e la più profonda delle leggi, la legge che si innalza dalle fondamenta’), dichiara infatti.

Alla base della scrittura dadaista si ha una rivoluzione della sintassi e del linguaggio: «sminuzzare il testo, dare ad ogni elemento la sua integrità, la sua autonomia»4. Viene meno la validità e la solidità del linguaggio comune, del linguaggio giornalistico, quello accessibile alle masse, fatto di una sintassi semplice e lineare, di una grammatica che segue la logica del soggetto-verbo-complemento. Troviamo le parole libere, confuse se vogliamo, nello spazio di un sacchetto, prese dalla mano dell’artista, scelte inconsciamente, anzi non-scelte, prese senza un criterio definito, in altre parole a caso.

Inevitabile che ciò rimandi al Futurismo: come già osservato, tra i vari riconoscimenti da attribuire doverosamente a Marinetti e ai futuristi c’è indubbiamente quello di aver scosso profondamente le basi della comunicazione. Con la rivoluzione grafica dei testi paroliberi, appartenenti a uno stile letterario in cui le parole che compongono il testo non hanno alcun legame sintattico-grammaticale fra loro e non sono organizzate in frasi e periodi, viene abolita la punteggiatura e vengono aboliti anche gli accenti e gli apostrofi e queste sono tutte caratteristiche riscontrabili anche nei dadaisti (si veda in proposito il testo Dada Paesaggio di Evola nel terzo numero di «Bleu»). Il Futurismo si rende autore di un primo insostituibile passo avanti nel lungo cammino di svecchiamento della grafica italiana del Novecento. Le avanguardie danno un notevole impulso a questo tipo di pubblicazione. Il Futurismo anticipa il Dadaismo in tante cose; come Marinetti con le Edizioni di Poesia, anche Dada crea le Edizioni Dada, ma il futurismo anticipa sicuramente Dada anche nella sperimentazione linguistica, ad esempio con gli assemblage ludici di Balla, le già nominate Tavole Parolibere di Cangiullo, l’onomalingua di Depero, l’astrazione di Prampolini e la sperimentazione tipografica di Marinetti. Prampolini, infatti, dopo il primo numero della rivista «Dada», accusa Tzara di plagio nei confronti dei futuristi.

Forse, la spiegazione più esaustiva è quella di Richter, intellettuale dadaista, il quale in Dada: Arte e Antiarte5 sostiene che:

Noi eravamo convinti come tutti i neonati che il mondo cominciasse con noi, e in effetti avevamo invece inghiottito il Futurismo con tutte le sue radici che però nel corso della digestione avevamo risputato completamente. Lo slancio giovanile, l’attacco diretto e aggressivo della pubblica opinione, il gusto della provocazione, erano pure tutti prodotti del Futurismo, come erano le forme letterarie nelle quali si rispecchiava: il manifesto e la sua struttura visiva. Già alcuni anni prima troviamo nel Futurismo l’impiego arbitrario della tipografia: il compositore si muove sui fogli da stampa verticalmente, orizzontalmente, diagonalmente, mescola tutti i caratteri e aggiunge a capriccio ornamenti e disegni dalla cassetta dei caratteri.

Caratteristiche che, infatti, riscontriamo perfettamente in «Bleu», dove abbiamo una mescolanza di vari caratteri, l’uso frequente del grassetto e l’alternanza di testo e disegni: «Ma è circa a questo punto che cessa l’influsso del Futurismo. Movimento, dinamica, vivere pericolosamente, simultaneità, ebbero sì un ruolo importante nel Dada, ma mai al punto di divenire programma. Qui sta la differenza fondamentale: il Futurismo aveva un programma. Questo programma dette il via a opere che miravano alla sua realizzazione. Il Dada non solo non ebbe alcun programma, ma fu in tutto e per tutto antiprogrammatico. Questa assoluta mancanza di premesse costituiva una novità nella storia dell’arte».

C’è da dire che il Dadaismo di Tzara è nichilista, non promuove l’attivismo e lo slancio vitale tanto cari ai futuristi, e in più rifiuta totalmente valori e morale: in quel determinato periodo storico, in Italia non era facile accettare tutto ciò. Tutti, compresi i futuristi, tengono fin dal principio a tenere separati i due movimenti, distinguendo anche i due “capi” Marinetti e Tzara. I futuristi sottolineano la solidità e la serietà del loro movimento rispetto al secondo, infastiditi peraltro dall’atteggiamento di Tzara, il quale si pone come unico e solo fondatore del movimento Dada, negando i debiti ideologici e artistici contratti con i futuristi italiani e minimizzando anche sui contatti e gli scambi di lettere che ha avuto con gli italiani nel periodo Dada zurighese, che sappiamo invece essere tanti e importanti.

Tzara non vuole ammettere il contributo fondamentale degli italiani alla nascita del movimento Dada. La stessa tipologia enunciativa del manifesto è futurista. Il manifesto, presupponendo una gran massa di ascoltatori, intende funzionare da mezzo di propaganda per le strade, reso ancora più efficace da un linguaggio sintetico, aggressivo e di immediata presa sul pubblico. Come già ricordato, tra il 1909 e il 1916 il movimento futurista rende pubblici oltre cinquanta manifesti. Tzara, che dai futuristi prende anche il veicolo di espressione del manifesto, resosi conto del clima di astio che si è venuto a creare in Italia, tra l’indifferenza e il silenzio della stampa italiana, che vuole «bloccare l’invasione del microbo dada»6, abbandona l’Italia, che non vede più come terra fertile, e va in Francia, a Parigi. D’altronde, come nota Richter: «Dada non era una necessità nella patria del Futurismo»; eppure è da rilevare che l’adesione di giovani italiani al movimento dada scaturisce proprio dalla volontà di distacco e di superamento del Futurismo.

Anche in America, come in Italia, Tzara viene ostacolato da chi, come i giornalisti del «Chicago Tribune», sostiene che Dada sia nato in America, ben prima della data fissata da Tzara, e che a quest’ultimo si debba solo il nome dato al movimento: «Not everybody knows that America was the birthplace of Dadaism».

La rivista americana «291», il già nominato periodico di arte e letteratura aperto all’avanguardia e alla sperimentazione, viene considerata a tutti gli effetti una “rivista proto-dadaista”. È qui che ritroviamo le figure meccanicistiche di Picabia di cui parlavamo prima, riferendoci allo stile dei numerosi disegni presenti in «Bleu». Nel suo unico anno di vita viene pubblicata in fogli dal formato grande, e all’epoca è un vero e proprio fallimento: pochissime le copie vendute, tanto che Stieglitz alla fine vende tutto il backstock a uno straccivendolo per 5 dollari e 987. Oggi è dispersa tra una decina di biblioteche e archivi di mezzo mondo.

A questa seguirà poi, nel 1917, «391», fondata in Spagna ad opera di Picabia. Di contenuto prevalentemente letterario e dal tono fortemente aggressivo, riprende, possiamo dire, lo stile e la verve di Apollinaire. È qui che compaiono i primi contributi di Man Ray e Duchamp: infatti, dalla Spagna viene, poi, pubblicata a New York; un numero, l’ottavo, esce a Zurigo, e poi viene stampata a Parigi, fino all’ultimo numero, che risale al 1924. Ne parla Picabia in questi termini: «Ogni pagina deve esplodere, sia attraverso la serietà, la profondità, la turbolenza, la nausea, il nuovo, l’eterno, annientare senza senso, l’entusiasmo per i principi, sia nel modo in cui viene stampata. L’arte deve essere antiestetica all’estremo, inutile e impossibile da giustificare».

Anche il movimento De Stijl (Lo Stile), come dicevamo nato nel 1917 con l’omonima rivista, da Von Doesburg e Mondrian, propone una rivoluzione del linguaggio che, libero da ogni vincolo contenutistico e comune a tutte le arti, si risolve in un equilibrio puramente visivo, capace di esercitare un’influenza positiva sulla vita sociale. Abbiamo anche qui un superamento del classicismo. Il manifesto La Letteratura, estratto dalla rivista e tradotto per «Bleu» da Cantarelli, è pubblicato nel secondo numero del periodico italiano. Anche qui è chiara la volontà di creare un nuovo linguaggio, rivoluzionando stile e grammatica8.

Come è stato ricordato, il 2016 è l’anno del centenario Dada. Riportiamo delle brevi interviste rilasciateci da tre esperti di arte contemporanea, che ringraziamo per la loro disponibilità e la loro gentilezza9. Si tratta del professor Dario Evola, docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Roma; del professor Claudio Zambianchi, docente di Storia dell’arte contemporanea alla “Sapienza Università di Roma”, e del professor Alberto Manodori Sagredo, insegnante di Storia dell’Arte alle scuole medie superiori e di Storia e Tecnica della Fotografia all’Università degli studi di Roma Tor Vergata, nonché consulente per l’ideazione e la cura scientifica di mostre e cataloghi della Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Dada o Dadaismo? In vari testi didattici, riviste d’arte, manuali etc., questo movimento viene nominato a volte semplicemente come il Dada, altre volte come Dadaismo. Secondo le intenzioni e le idee di Tzara e degli altri suoi promotori, Dada si chiama così proprio in quanto, essendo un movimento di rottura con il passato, rifugge da tutti gli “ismi” che hanno caratterizzato le correnti artistico-letterarie precedenti. È, quindi, un errore, seppure molto diffuso, chiamarlo Dadaismo, oppure, data proprio la sua grande diffusione, si può considerare ormai accettabile anche questa seconda variante?

Evola: Dada non è un movimento artistico né letterario né teatrale. Bisogna sottrarre Dada dalle storie dell’arte, della letteratura e del teatro. È antistorico, vive nel presente, vince sul proprio tempo e sul contemporaneo proprio perché si pone fuori dalla storia e dalla “razionalità” astratta della cultura occidentale, assumendo il caso come possibile. Con Nietzsche si pone verso il possibile per affermare la vita. Pertanto, l’uso di un ennesimo “ismo” nel caso di Dada risulta improprio perché lo omologherebbe alle molteplici correnti del Novecento.

Manodori Sagredo: Cosa direbbe Tzara se si aprisse un’analisi disquisitoria sulla necessità intellettuale e formale di distinguere e scegliere tra Dada e Dadaismo? Comunque, è da rispettare la scelta originale degli artisti inventori e fondatori, comprendendo che chi adopera gli “ismi” lo fa per una necessità di ordine storico-catalografico e catalogico.

Zambianchi: è una questione nominalistica; il linguaggio non riflette delle essenze o delle verità assolute. Dada è sicuramente meglio; tuttavia, non arriverei a considerarlo un errore chiamarlo Dadaismo. Dada è più aderente alle intenzioni, è come lo chiamavano loro; Dadaismo sembra più un fatto quasi accademico per farlo assomigliare agli altri “ismi”, ma in fondo anche Arte Astratta è Arte Astratta, meglio di Astrattismo, ma non costituisce un errore. Il rischio, nel considerarlo un errore, è di dare troppa importanza alle etichette.

Lo scorso Febbraio si sono festeggiati i cento anni dalla nascita del movimento Dada. Qual è il suo pensiero al riguardo? Qual è stato, secondo lei, guardando all’evoluzione dell’arte in questi cento anni, l’apporto originale che Dada ha dato all’arte? E questo apporto si è mantenuto e/o evoluto nel tempo?

Evola: Non a caso il centenario è passato sotto silenzio, se si escludono un paio di mostre d’obbligo in Svizzera e l’unica manifestazione a Roma presso l’Accademia di Belle Arti, proprio lo stesso giorno dell’anniversario, promossa da Vitaldo Conte con Giovanni Sessa, Gianfranco De Turris e dal sottoscritto in occasione della pubblicazione del fascicolo monografico della rivista «Biblioteca», di via Senato. Dada ha reso idiota il sistema dell’arte. Dada smaschera l’ipocrisia dell’arte contemporanea, anzi di quella attuale, che non riesce neanche a diventare contemporanea; smaschera il sistema degli agenti della comunicazione pubblicitaria, sottraendo la funzione artistica alla maschera della comunicazione. Oggi l’arte attuale, quella che circola nelle istituzioni pubbliche e private, è un prodotto della comunicazione come tanti, ma paradossalmente non ha più una “forma”, nel senso novecentesco del termine. L’arte oggi è solo un “gas”, un’atmosfera. Nel caso dei grandi elenchi pubblicitari, si sostanzia nella mobilitazione di sciami; del resto, è omologazione di “attitudini”, processo di “artializzazione”, senza arte. Persino il mercato si è sottratto all’arte. L’economia dell’arte attuale è molto simile all’economia finanziaria, così piena di “titoli tossici” e di brokers sotto forma di “curators”. Dada pratica l’iperbole, smascherando la falsità del presente e degli alibi culturali.

Manodori Sagredo: è stato scritto più che abbastanza sugli effetti del Dada, sulle arti e sull’uso che di queste la cultura occidentale ha fatto nel corso del tempo. Era ora che ci si rendesse conto che i linguaggi popolari, di immediato, facile e/o superficiale riconoscimento ed eventuale conseguente comprensione hanno esaurito il loro compito sociale e che l’artista ha dichiarato il proprio diritto a una sua assoluta indipendenza.

Zambianchi: Dada ha capitalizzato su un’idea che è stata dei cubisti e in parte dei futuristi, quella del frammento e quella del montaggio del frammento, e quindi ha colto e interpretato forse più di ogni altro movimento di quegli anni l’idea di una possibilità di fare arte col frammento. Il frammento dada è un frammento che, a differenza di quello cubista o futurista, mantiene l’alterità rispetto all’arte; è spesso un frammento di scarto, è spesso un frammento che sta in tensione piuttosto che in un rapporto di armonia, diversamente da quanto accade nei cubisti e spesso nei futuristi, con il resto dell’insieme in cui sta. Nasconde un pensiero negativo nei confronti della realtà, l’impossibilità di ricomporre il mondo, un mondo, quello della Prima guerra mondiale, sottoposto a un siffatto disastro, e l’impossibilità di ricomporre la sensatezza di esso, un’idea che sta molto a cuore a Dada. Essendo l’arte del Novecento in gran parte arte di montaggio di frammenti, Dada è fondamentale nel definire in una maniera più larga e più storicamente complessa l’idea del frammento e ciò si estende, poi, nel resto del Novecento con grandissima forza. Anche nella tipografia questa dimensione frammentaria di Dada è molto importante. La neoavanguardia, poi, questo lo rilegge: non parlo solo del Neo Dada americano, ma proprio di tutto, come del Nuovo Realismo francese o anche di Mimmo Rotella nei manifesti.

Le differenze principali tra Neo Dada e Dada. Il Neo Dada non è stato prolifico nel campo della produzione scritta; si può, però, collegare alla corrente letteraria francese del Nouveau Roman di Robbe Grillet?

Zambianchi: Tutto quello che è “neo” presuppone una rilettura orientata di quello che viene prima, non è un riprendere tal quale un’avanguardia; la rileggono e la reinterpretano. Il Neo Dada e più in generale il Nuovo Realismo francese riprendono in origine l’idea della confusione fra l’arte e la vita, una confusione che si sbriciola e si manifesta in queste forme artistiche tra la metà degli anni ’50 e la fine degli anni ’60. Per quanto riguarda il Nouveau Roman, direi senz’altro di sì.

La figura di Julius Evola. Tutto ciò che reputa importante sapere su di lui per chi si affaccia allo studio della storia dell’arte.

Evola: Su Evola si è detto e scritto di tutto. Quel che si può sintetizzare è una visione non conformista della vita, una profonda conoscenza e un’assidua pratica nel pensiero, una figura di intellettuale non provinciale. Basti pensare ai suoi rapporti con Tzara, Guenon etc. Fra i passaggi più interessanti della sua prassi intellettuale è da rilevare l’elemento performativo, insieme con l’atteggiamento dandy.

Dada in Italia. Perché, nonostante gli sforzi di numerose personalità, tra cui Julius Evola, il Dada non è riuscito ad avere qui lo stesso successo che ha avuto all’estero?

Manodori Sagredo: La libertà degli altri genera sospetti, equivoci e paure. È meglio distrarsi altrove.

Zambianchi: Perché, d’accordo che il fascismo ha avuto un atteggiamento riguardo all’arte moderna diverso da quello che ha avuto il nazismo, però, mentre poteva essere più facile per il fascismo metabolizzare forme di arte basate sull’astratto, è realmente impossibile che accettasse appieno quelle basate sull’inconscio. Ma è una cosa che possiamo notare anche dopo: la storia dell’arte italiana del Novecento ha vissuto difficoltà nel rapporto con Dada e con il Surrealismo; pensiamo a Burri, che poteva essere letto in una chiave neodadaista ed è stato, invece, letto in una chiave esistenziale.

La rivista «Bleu», il primo vero tentativo di diffusione di Dada in Italia. Cosa ne pensa della rivista, del suo contenuto e della particolare forma tipografica in cui viene stampata?

Manodori Sagredo: «Bleu» è ora un segno storicizzato di partecipazione italiana al Dada.

Zambianchi: è un tentativo di mettersi in rapporto oggettivo con Dada.

Dada è stato uno dei movimenti artistico-letterari che ha visto la pubblicazione di più riviste in assoluto. Cosa ne pensa delle altre riviste? Quali sono, secondo lei, le più valide e perché?

Manodori Sagredo: Ogni rivista nasce con uno scopo, cui col tempo viene meno, per esaurimento delle spinte iniziali o per loro naturale o contingente trasformazione. Le riviste dada non vengono meno a questo imprinting culturale. Esse sono i momenti di un percorso che non scrive la parola “fine” se non quando le sue forze si spengono o si dirigono altrove. Niente classifiche, perciò, ma ad ognuna la sua parte di e nella storia.

Il difficile rapporto con i futuristi. Quanto c’è di vero nelle accuse che i futuristi hanno mosso a Dada, di aver rubato loro idee e innovazioni?

Manodori Sagredo: Tra Futurismo e Dada la differenza, la distinzione, la separazione nell’“ismo” e nelle dichiarazioni ideologico-politiche è fortemente divergente, se non opposta, fin dall’inizio.

Zambianchi: Premettendo che nell’arte non si ruba, non ci sono stati plagi diretti. Non sono delle cose che si possono copiare, sono delle pratiche che vengono riprese. Poi, sappiamo che «Noi», la rivista di Prampolini, ospita interventi Dada. C’è Julius Evola che è vicino al Dada: qualche rapporto c’è.

Per quanto riguarda la rivoluzione tipografica, possiamo dire che è un vento che percorre l’avanguardia. La rivendicazione di essere proprietari di certe cose è inutile, anche perché i futuristi tenevano d’occhio il collage cubista, e da lì hanno ripreso molte cose, anche nel piano dell’impaginazione tipografica cubista, stante l’uso delle lettere fatte con gli stencil. Il plagio vero sono altre cose. L’arte è fatta perché le idee circolino, soprattutto queste forme di arte che diffondono delle pratiche nuove più che degli stili nuovi.

Dada e la “rivoluzione della parola scritta”. La poesia dada, come sappiamo, “segue la legge del caso”. Cosa ne pensa di questa modalità di scrittura?

Manodori Sagredo: Per una parte dell’umanità niente accade per caso; l’altra parte è esigua. Perché la poesia non dovrebbe partecipare a tanta convinzione?

Il personaggio dada che predilige e perché.

Manodori Sagredo: Per la parte minore che ha svolto nell’ottica dada, ma per il fatto che ha usato la “photografia”, Man Ray e i suoi rayogrammi.

Nel 1975, a Mantova, un gruppo di giovani appartenenti al circolo anarchico Gaetano Bresci ha deciso di mettere in stampa il numero unico «BLEU», rivista di sei pagine di cui sono state tirate in totale mille copie. Uno dei suoi redattori, in un’intervista, ricorda come l’idea fosse nata dal contatto con l’ambiente studentesco incandescente di quegli anni. La decisione di intitolare questa rivista «BLEU» nasce in loro dalla necessità di riallacciarsi alle tradizioni rivoluzionarie della loro città. Cosa ne pensa di questa iniziativa e, più in generale, essendo lei professore, quindi a contatto con gli studenti, quanto secondo lei è vivo l’interesse dei giovani di oggi per i movimenti di avanguardia?

Evola: Non ero al corrente dell’iniziativa simpatica del gruppo Gaetano Bresci di Mantova… una vera azione dada!

Manodori Sagredo: In molti giovani lo spirito critico è motore di rinnovamento ed è impegnativo quanto necessario che anche i professori e gli adulti lo comprendano e lo accettino. L’arte si offre, allora, come la prima, internazionale forma di linguaggio per suscitare le coscienze. Le prime a rispondere sono quelle giovanili, che non subiscono il fascino incantatore degli idola fori e degli idola tribuni.

Zambianchi: Che da parte del movimento degli anni ’70 (in realtà, più verso il ’77) ci sia un interesse nei confronti di Dada è innegabile. Questo probabilmente per gli aspetti liberatori legati a questo cortocircuito che c’è tra arte e comportamento. L’episodio di «BLEU» è semplicemente precoce.

Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, è un’idea tenera e romantica quella che hanno i giovani di una possibile confusione tra arte e vita, e continua ad avere appello tra i giovani: i giovani sono fatti così. Ci può essere un interesse generale per delle forme d’arte che insistano su questa possibile congiuntura: poi, che gli studenti di Lettere siano attratti da queste forme d’arte direi di sì: senz’altro stanno loro simpatiche.

  1. T. Tzara, Manifesto Dada, 1918. Questo contributo rappresenta un estratto della tesi di Laurea Magistrale in “Editoria e scrittura”, dal titolo Le forme della scrittura nel periodo delle avanguardie artistiche del Novecento, discussa presso la “Sapienza Università di Roma” nella sessione estiva dell’anno accademico 2015/2016.
  2. T. Tzara, Manifesto del Dadaismo, 1918.
  3. È autore della prefazione alla silloge Manifesti del Dadaismo, Torino, Einaudi, 1964.
  4. T. Tzara, Nota sulla poesia, in «Dada», nn. 4-5, maggio 1919.
  5. Milano, Gabriele Mazzotta Editore, 1974.
  6. T. Tzara, «Dadaphone», n. 7, marzo 1920.
  7. Cfr. il sito: www.dada-companion.com
  8. Per approfondire: M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli Editore, 2010; Edizioni Elettriche, La rivoluzione editoriale e tipografica, del Futurismo, Roma, Edizioni De Luca, 1995; I. Schiaffini, Arte Contemporanea: metafisica, dada, surrealismo, Roma, Carocci Editore, 2014; D. Palazzoli, Bleu, in «Marcatrè», n. 15-16-17, 1965; M. Ragozzino, Dada, Firenze-Milano, Giunti Editore, 2001.
  9. L’occasione dell’incontro con i tre esperti è stata la stesura della tesi di Laurea Magistrale in “Editoria e scrittura” dal titolo Le forme della scrittura nel periodo delle avanguardie artistiche del Novecento cui si è fatto cenno nella nota 1.

(fasc. 11, 25 ottobre 2016)