L’avventura editoriale di Terra Matta ha notoriamente inizio con la consegna del dattiloscritto intitolato Fontanazza all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. L’archivio venne fondato da Saverio Tutino nel 1984, con lo scopo preciso di dare spazio alla storia individuale e alla memoria delle persone comuni mediante la raccolta di diari, biografie, epistolari che avessero una rilevanza storico-culturale tale da poter ambire a divenire letteratura. L’intuizione di Tutino ha reso, quindi, possibile raccordare le vicende della storia d’Italia ˗ la storia universale – con le vicende individuali di chi ha vissuto il Novecento.
Il caso di Vincenzo Rabito rappresenta in tal senso un esempio emblematico: contadino nelle campagne siciliane, è stato sempre in fuga dalla fame che mordeva i talloni; poi, in trincea durante la Seconda guerra mondiale; poi, ancora emigrato in Germania; infine, dopo la partecipazione al secondo conflitto mondiale, ha vissuto gli anni del boom economico: mezzo secolo di storia d’Italia che Rabito intreccia alle proprie vicende intime, amalgamando i due livelli, individuale e collettivo, con il suo talento narrativo.
Vincenzo Rabito sa raccontare bene. Lo confermano le parole di Saverio Tutino: «Pensavo di aver visto tutto, dopo sedici anni, in realtà quest’opera ha scardinato tutte le convinzioni». Nel 2000, infatti, Giovanni Rabito (figlio più piccolo di Vincenzo) si reca a Pieve Santo Stefano e vi consegna una versione rielaborata dei quaderni del padre. La storia trascinante di Rabito fa intuire che quella scrittura è più di una semplice memoria: da qui la richiesta, da parte dell’Archivio, di poter avere a disposizione i quaderni rilegati in filo di corda, oggi ivi depositati, contenenti i fogli dattiloscritti da Vincenzo Rabito con la Lettera 22.
Rabito ha vinto il “Premio Pieve Banca-Toscana”, oggi intitolato alla memoria di Saverio Tutino, nel 2000. Al dattiloscritto Fontanazza ha lavorato Luca Ricci (cfr. l’intervista che ci ha rilasciato, nel fascicolo 1 di «Diacritica») per trarne una versione intermedia da proporre a diversi editori. Nel 2003 Ricci è stato affiancato da Evelina Santangelo (cfr. l’intervista nel fascicolo 2 della rivista stessa), fino alla pubblicazione di Terra matta per i tipi di Einaudi.
Della lunga genesi del caso editoriale Terra matta abbiamo parlato anche con Natalia Cangi, direttrice dell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. Cangi ci ha confermato la capacità unica di Rabito di raccontare: «[…] come Rabito non ne esistono: dal punto di vista della rappresentazione di sé, del racconto di un secolo, dell’invenzione letteraria, di un linguaggio che lui si è costruito pezzetto per pezzetto, per la capacità di tenere lì le persone ad ogni parola».
Qual è l’idea di fondo dell’Archivio diaristico nazionale?
L’Archivio è nato nel 1984 per raccogliere la memoria delle persone comuni. L’idea è stata di Saverio Tutino, giornalista e scrittore. Tutino ha spesso detto che la sua missione voleva essere quella di salvare il salvabile del patrimonio autobiografico europeo, perché egli stesso per quart’anni ha tenuto un diario giornaliero. L’idea è proprio questa: offrire un luogo fisico dove mantenere viva la memoria, diffonderla, e dare nuova vita a quella delle persone comuni. Questa operazione è nata gradualmente: Tutino ha immaginato che, per far arrivare a Pieve i diari e le memorie che stavano chiusi nei cassetti, ci fosse bisogno di una spinta forte. Così, assieme a Natalia Ginzburg ha inventato il “Premio Pieve”.
Tutino ha ricevuto minacce di morte dalle BR. È allora che è cambiata la sua visione della Storia, passando da una prospettiva universale a una individuale?
Sì. Probabilmente questa è una chiave di lettura in cui anche Tutino si sarebbe riconosciuto. Ha voluto ripensare il proprio atteggiamento, più intimo e meno esposto rispetto ad altre rivoluzioni che aveva seguito. Me lo sono sempre immaginato, quale fondatore dell’Archivio, come una persona che ha voluto applicare alla vita reale l’idea di una rivoluzione che aveva sempre coltivato: dare potere a chi il potere non lo ha, attraverso un luogo dove anche le storie più “piccole”, più “minute” potessero essere, in realtà, importanti per tutti.
Il nostro Paese ha bisogno di legare la memoria storica all’attualità. Perché è ancora importante mantenere viva la storia delle individualità in rapporto alla memoria collettiva? Qual è l’utilità del suo lavoro?
Per noi è utile tutti i giorni. Per noi non esistono i vivi e i morti, ma esistono le persone e la loro capacità di confrontarsi con la Storia, con la storia personale che diventa collettiva. L’Archivio ha circa 2.500 autori che parlano del periodo 1939-1945: un evento che ha cambiato la storia del Novecento e diventa una storia parallela a quella ufficiale. È, comunque, un confronto per noi sempre attuale: la lettura dei diari, delle autobiografie è sicuramente un modo per leggere anche il presente.
Quali sono i diari e le autobiografie “simbolo” dell’Archivio? Potrebbe parlarci di Gnanca na Busia di Clelia Marchi? E gli altri? Tommaso Bordonaro, Antonio Sbirziola, Castrenze Chimento?
Quello della Marchi è un diario particolare. È scritto su un lenzuolo matrimoniale. A settantadue anni, nel 1984, Clelia si mette a scrivere sul lenzuolo. Perde il marito con cui ha condiviso cinquant’anni della sua vita, in un incidente. Era andata a convivere con lui, negli anni ’30 del Novecento e mise al mondo un figlio, fuori del matrimonio, con un ragazzo che aveva tredici anni più di lei. A lui è dedicato questo lenzuolo, un monumento; la prima motivazione che lei dà è: «Non posso più consumare le lenzuola con mio marito, ci scrivo sopra». Ma c’è altro: Clelia si ricorda che alle elementari la maestra raccontava l’usanza degli Etruschi di avvolgere i defunti con le lenzuola scritte. Nel lenzuolo ci sono anche la guerra, il dopoguerra, i sacrifici di una vita, la famiglia, i lutti, le nascite dei nipoti.
È stata una donna che, sul finire della sua vita, andava nelle scuole, parlava con i ragazzi: è stata una grande comunicatrice. La prima essenza di questa comunicazione la mette nella dedica, nelle prime due righe del lenzuolo: «Care persone fatene tesoro di questo lenzuolo che c’è un po’ della vita mia». Pensa mentalmente a un pubblico a cui rivolgersi, e in più dà un titolo, quel Gnanca na’ Busia: dico sempre che il lenzuolo può essere considerato una sorta di manifesto dell’autobiografia, perché quel «neanche una bugia» accomuna un po’ tutti gli autobiografi, che sostengono che quello che stanno raccontando è la verità.
Marchi ha consapevolezza che quella storia, prima o poi, verrà letta. In Rabito questo non c’è perché non scrive per gli altri, ma per se stesso; anche perché, se avesse saputo che il suo dattiloscritto sarebbe stato pubblicato, avrebbe modulato certi passaggi in modo diverso; invece, è senza censure (si leggano gli episodi della violenza sulla donna slovena, o le pagine sul rapporto conflittuale con la suocera).
Riguardo agli altri tre siciliani, c’è un’attenzione particolare dell’Archivio verso gli autori siciliani perché hanno una grande capacità evocativa e sanno descrivere il contesto oltre alle proprie storie individuali. Sono dei diari che hanno qualcosa in più. Nel caso di Sbirziola, sembra quasi che ci sia un passaggio di consegne con Rabito, con la differenza che intercorrono quarantadue anni tra i due: Sbirziola è del 1942 e ha una visione della vita molto diversa da quella di Rabito. Sicuramente, ha una forza di volontà che trasuda dalle parole che scrive. La pubblicazione con il Mulino (Povero, onesto e gentiluomo: Ndr) tra le due è sicuramente la migliore, perché lì c’è un percorso, un formarsi di lui come persona. È dal punto di vista sintattico, nella costruzione della frase, che ci sono delle somiglianze con Rabito. Come lui, infatti, Sbirziola attacca le parole, «allintomane», «allavorare», e mescola il siciliano con l’inglese, come fa Bordonaro, ma Sbirziola ha una potenza narrativa maggiore. A Bordonaro sono legate delle immagini indimenticabili: la descrizione dell’arrivo a New York e tanta storia dell’immigrazione italiana. Grande scrittura evocativa: questo è il termine che mi viene da abbinare a questi autori. Lo stesso Chimento, che sicuramente dei nostri tre siciliani è quello più debole, però ha la capacità di affascinare con le descrizioni di quella terra che emergono con quella scrittura, così come in Rabito si sente la conoscenza dell’Opera dei Pupi. Rabito veniva chiamato alla Società operaia, per raccontare delle storie. Raccontava il fatto e poi si fermava. Un’altra cosa che li accomuna è il desiderio di farsi un’istruzione in età avanzata, a settantaquattro anni. Dei dubbi li abbiamo avuti sulla perfezione della sua scrittura, ma Patrizia Tomasino, sua professoressa, ci ha sempre confermato che il manoscritto è suo. Noi l’abbiamo premiato per la singolarità della storia e anche per la capacità di descrivere la sua condizione di bambino-schiavo, in modo efficace, asciutto, evocativo: per la capacità visionaria.
Qual è l’importanza del dattiloscritto Fontanazza di Rabito?
Per noi ha segnato un momento di passaggio perché lo stesso Saverio Tutino disse: «Pensavo di aver visto tutto, dopo sedici anni, in realtà quest’opera ha scardinato tutte le convinzioni». C’erano stati dei diari emblematici, importanti: la Ianelli, per esempio, sulla strage di Marzabotto. Però, come Rabito non ne esistono: dal punto di vista della rappresentazione di sé, del racconto di un secolo, dell’invenzione letteraria, di un linguaggio che si è costruito pezzetto per pezzetto, per la capacità di tenere lì le persone ad ogni parola. È uno scrittore a tutti gli effetti: non se ne rende conto, ma lo è.
Questo testo si accomuna a quello di Marchi, per via del supporto: la pagina diventa una pietra da scolpire con i tasti della macchina da scrivere. Poi, Rabito è stato recensito da scrittori e giornalisti importanti: è diventato una rappresentazione teatrale, un docufilm, non si è mai esaurito; avere Rabito ha aiutato molto l’Archivio. Ha fatto conoscere l’Archivio all’esterno, ne ha fatto cambiare la percezione; così come il lenzuolo: ho visto persone adulte commuoversi davanti al lenzuolo; sono cose inspiegabili.
Qual è stata l’intuizione di Saverio Tutino?
L’intuizione è stata quella di credere nella “memoria dal basso”. Fino a quel momento l’idea di raccogliere materiale per ricostruire la memoria collettiva, condivisa, rimaneva ingabbiata in un contesto accademico. La memoria era ad uso e consumo degli storici e degli antropologi. Tutino l’ha resa pubblica, chiedendo alle persone comuni di mandare le memorie per il “Premio Pieve”. L’idea era quella di scrivere una storia delle persone comuni che andasse in parallelo con quella della Storia ufficiale.
Dopo il “Premio Pieve”, Tutino pensò alla commissione di lettura: ci furono una serie di passaggi consequenziali che diedero all’Archivio una struttura molto diversa rispetto a un’istituzione culturale un po’ più ingessata. Oggi siamo, dal 2009, nel «Codice dei beni culturali dello Stato», ma siamo un’istituzione un po’ fuori dalle righe: un centro culturale dove si propongono tante iniziative e si cerca di guardare avanti.
Possiamo definire l’Archivio di Pieve un “monumento anti-ideologico”?
Mi piace molto questa definizione; penso che sarebbe piaciuta molto anche a Tutino, perché è stato uno spirito libero: apparteneva a un’area politica ben definita, è stato sempre molto critico rispetto a quell’area. Quando la commissione di lettura s’insediava per la prima riunione, e quindi c’erano persone nuove, ci insegnava a non avere pregiudizi nei confronti di chi poteva pensarla diversamente da noi, sia dal punto di vista politico sia religioso, ma anche di persone con una moralità che diventa a-moralità. Saverio mi ha insegnato a guardare senza pregiudizi: l’Archivio mette nelle stesse condizioni un repubblichino e un partigiano, che si siano macchiati di nefandezze oppure no.
Qual è la dialettica tra l’Archivio e la comunità di Pieve Santo Stefano?
È un rapporto un po’ strano. Dire che la comunità di Pieve non si sia avvicinata all’Archivio è sbagliato. In tanti anni, abbiamo avuto moltissimi lettori di Pieve: persone che hanno fatto un percorso da ottobre a giugno di ogni anno per leggere i diari; ma è un’istituzione ingombrante per un paese piccolo come Pieve, perché ha una portata nazionale, fa delle cose che hanno un respiro molto ampio, non sottostà a delle logiche paesane.
Il Premio “Pieve-Banca Toscana” attribuito in piazza, la giuria popolare: sono questi gli elementi che costituiscono tratti identitari distintivi dell’Archivio dei diari rispetto ad altri centri di documentazione?
Sì. Il “Premio Pieve” comporta qualche sofferenza, perché i finalisti vorremmo premiarli tutti: non c’è una storia di vita meno degna di un’altra. Il “Premio Pieve-Saverio Tutino” è una gran bella occasione per far leggere le opere vincitrici da un buon numero di persone: i dodici della “commissione interna”, che esprimono un parere su quel testo, lo portano avanti da ottobre a giugno, fanno delle riunioni di formazione; possiamo arrivare con un’idea su un testo e cambiarla dopo le riunioni settimanali, come accade in un comitato redazionale di una casa editrice. La premiazione è un momento di magia, perché, quando hai letto quel testo pagina dopo pagina, cade la barriera tra persone che non si conoscono: tu sai tutto di quella persona, sino al punto che quella persona ha deciso di raccontare.
L’Archivio dà spazio ai temi storici del Novecento: le due guerre, l’emigrazione negli Stati Uniti e in Europa, la migrazione interna, il lavoro dei contadini.
Quali sono i nuovi temi nei diari, nelle autobiografie, negli epistolari più recenti? Penso agli anni di piombo, per esempio…
Sugli anni di piombo c’è, per esempio, la memoria di Sergio Lenci, vittima designata di Prima linea, che ha vissuto per trent’anni con una pallottola conficcata nella nuca: in quel caso, c’è il racconto degli anni di piombo vissuti da un testimone oculare. Anche quello ha rappresentato un cambiamento storico, tanto quanto le guerre, o i flussi migratori.
Alcune testimonianze di grande efficacia si alternano ad altre più frammentarie. Ci vorrà più tempo per avere una maggiore percezione del valore storico di queste autobiografie. Oggi, dal mio punto di vista ci sono testi molto più concentrati sul racconto di sé, dell’individuo con i suoi disagi, con i suoi disturbi. Il bisogno di ritrovare se stessi esce fuori nei diari dell’oggi, nel provare a trovare un’identità probabilmente molto diversa rispetto a quella che ognuno di noi crede di avere. I diari accompagnano tutto il Novecento: riguardano l’aspetto individuale e individualista che la società esprime, questo bisogno di costruire un’identità. Ci sono poi i diari di persone impegnate con le O. N. G. in giro nel mondo.
Come cambia l’Archivio, in termini di gestione-fruibilità della documentazione, con il progetto “Impronte digitali”?
È un progetto che stiamo portando avanti dal 2011, quando abbiamo digitalizzato i testi dei manoscritti più vecchi, quelli dell’Ottocento. Nel 2012 abbiamo lavorato su altri due settori: la Prima guerra mondiale e i finalisti di tutte le ventisette edizioni del “Premio”, e adesso stiamo lavorando sugli interi comparti dell’Archivio.
L’idea di fondo del progetto è di dare una restituzione online di questi testi: mettere a disposizione di studenti e studiosi il maggior numero di testi possibili; questa nostra volontà dovrà, però, incontrare il consenso degli autori, perché tutto il patrimonio di Pieve rimane di proprietà di chi lo ha scritto, o degli eredi. Non sarà un passaggio per tutti i 7.000 autori. Noi abbiamo lavorato in due direzioni: la prima è quella di rendere più fruibile al maggior numero di persone possibili il patrimonio di Pieve; la seconda è creare un percorso turistico che porti le persone a Pieve.
Com’è cambiata, se è cambiata, la scrittura di sé con il passaggio dalla penna alla “Lettera 22”, e a internet?
È cambiato tantissimo. Intanto, con la scrittura a mano, quando uno faceva le correzioni, si vedevano; con il computer non è più così: è una scrittura più consapevole, più standard, meno bella da leggere, perché col fatto di poterci tornare su, di abbellire, di poter sistemare, si perde quella ruvidezza che invece Rabito, Bordonaro, Marchi conservano intatta. Non si può, però, negare che il computer ha aiutato molte persone ad avvicinarsi alla scrittura, anche se risulta meno spontanea.
(fasc. 3, 25 giugno 2015)