Nel 1976 esce il romanzo Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami[1], che esamina la materializzazione di un sadismo vendicativo in un uomo medio il cui figlio viene ucciso in una rapina. Il romanzo viene salutato con entusiasmo dai due maggiori scrittori e critici dell’epoca, Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino. Nel 1977 il regista Mario Monicelli traspone il libro in film[2], per il quale Cerami prepara l’adattamento su cui si basa la sceneggiatura di Monicelli e Sergio Amidei. Rispetto al libro viene alterato il finale che mostra il protagonista commettere un altro omicidio, questa volta di un giovane di borgata che l’ha insultato. Il film divide la critica tra chi lo considera un’apologia reazionaria della violenza e chi invece lo trova coerente con il comico grottesco della fine degli anni Settanta.
Nelle loro divergenze, le valutazioni critiche del libro e del film riconoscono nella violenza rappresentata una novità “mostruosa” che potrebbe essere sintomatica del momento storico del 1976-1977, e che richiede nuovi parametri morali ed estetici per interpretarla. In questo contributo si parte dalle riflessioni di Pasolini e Calvino che condividono con il libro lo stesso contesto storico e letterario, ma che, basandosi sul sentire comune di una crisi dei valori con cui interpretare la realtà culturale e politica, arrivano a conclusioni diverse. Mentre il primo teorizza una “mutazione antropologica” irriversibile che con la diffusione del consumismo comporta il progressivo imborghesimento delle classi popolari, l’altro s’impegna come scrittore per la sopravvivenza di un discorso “umano” in una società permissiva che mette in questione la funzione politica della letteratura. Gli studi critici del film di Monicelli invece spostano la discussione sulla “banalità” della violenza su un altro piano, quello della crisi del genere della commedia all’italiana e del suo ruolo di lente deformatrice e critica dei mali della società.
Con Un borghese piccolo piccolo Cerami stesso adotta una definizione duplice del comico che gli permetta di interpretare “l’assurdo” del male sia in una chiave umana sia in una chiave grottesca. Il presente saggio ipotizza che Cerami, identificando in Pasolini il suo maestro, riconosca in Salò il film con cui misurare quando e come la violenza da funzionale diventa gratuita, ovvero quando si inizia a parlare di una “mostruosa singolarità”, la definizione coniata da Klossowski in Sade mon prochain. La rappresentazione della morte nel libro e nel film, che stabilisce ogni volta un rapporto diverso tra colpevole e vittima in relazione al contesto in cui è avvenuta, sarà la lente con cui valutare l’impatto sugli individui e sull’arte del “mostro” dei violenti anni Settanta.
La sopravvivenza dell’umano in una storia di vittime e di mostri
Pier Paolo Pasolini, nella sua rubrica letteraria su «Tempo illustrato», leggendo il manoscritto nel 1973, lo aveva definito «un bellissimo romanzo neocrepuscolare, atroce»[3], e Italo Calvino lo aveva presentato per la prima edizione Garzanti come «una storia di vittime e nello stesso tempo di mostri […]: vittime d’un assurdo che possiamo scegliere di definire sociale oppure metafisico senza che questo cambi nulla nell’oscura, quasi inarticolata determinazione con cui vi si muove chi non ha altro fine che il farsi largo entro un chiuso orizzonte»[4]. Pasolini nella sua rubrica aveva inserito il romanzo all’interno di quei prodotti culturali a cui attribuire «un reale valore»[5], opere di giovani autori con «una vocazione letteraria»[6] non rimasti bloccati né dalla «neo-avanguardia del quinquennio 1963-68»[7] né dalla «Contestazione»[8], ma che erano stati travolti dalla «cultura di massa e la civiltà dei consumi, che il Potere è andato macinando e preparando, nei primi anni Sessanta, passando ormai, oggi, su tutto come un rullo compressore»[9]. Che i critici, subendo «il ricatto del terrorismo sessantottesco»[10], si fossero resi complici del Potere ignorando la nascita di una nuova narrativa fuori dagli schemi prestabiliti non era però soltanto colpa loro, ma anche di un sistema binario di valori che era andato in frantumi: «Infatti alle loro spalle si sta verificando non solo la dissoluzione del grande Dualismo (cultura di destra e cultura di sinistra, comunismo e cattolicesimo), ma la dissoluzione di una cultura e di un’epoca della storia (la cui ultima fase era stata caratterizzata da una sorta di egemonia marxista)»[11].
Calvino invece, con la sua duplice interpretazione del romanzo, si era espresso in linea con il saggio sugli Usi politici giusti e sbagliati della letteratura del 1976 in cui diceva di trovarsi intrappolato tra due sensazioni di vuoto: «il vuoto d’un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto d’un progetto letterario in cui io possa credere»[12]. Analogamente a Pasolini, egli ravvisava a partire dagli anni Sessanta una messa in questione di tutti «i parametri, le categorie, le antitesi che usavamo per definire, classificare, progettare il mondo»[13]. Lo scrittore notava che negli anni Settanta si era «allargata la coscienza della complessità della società in cui viviamo», segnata «da una parte di crescente deterioramento e corruzione del nostro quadro istituzionale – e dall’altra parte d’una maturazione collettiva e d’una ricerca di vie d’autogoverno»[14]. In tale situazione il posto della letteratura, secondo Calvino, avrebbe dovuto essere quello di «garantire la sopravvivenza di quel che si chiama umano in un mondo dove tutto si presenta inumano», intendendo “umano” non in un senso umoriale e «non rigoroso», ma invece nel senso di un «discorso umano». Egli poneva così l’ipotesi del caso «molto raro» di «qualcuno che creda in un rigore della letteratura, superiore e contrapposto al falso rigore dei linguaggi che oggi guidano il mondo»[15]. Tale convinzione portava Calvino ad affermare che:
Qualsiasi risultato raggiunto dalla letteratura, se rigoroso, può essere visto come un punto fermo per ogni attività pratica, per chi miri alla costruzione d’un ordine mentale così solido e complesso da contenere in sé il disordine del mondo, per chi tenda a stabilire un metodo così sottile e duttile da essere l’equivalente dell’assenza d’ogni metodo[16].
Si trattava in fondo non di pensare in un senso degenerativo la morte dei valori tradizionali che conduceva Pasolini nel 1974 a formulare la sua famosa ipotesi della «mutazione antropologica» degli italiani, ma di creare «quel genere di modelli-valori che sono al tempo stesso estetici ed etici» e di modellare quel «genere di consapevolezza» essenziale per mettere in crisi la «malattia» e per «inventare un nuovo modo di essere»[17].
La comicità come glorificazione della morte
La discussione sul film di Monicelli che esce nel 1977 rispecchia la stessa preoccupazione sul processo di omologazione culturale segnalato da Pasolini e Calvino. A Monicelli stesso era stata attribuita la frase che il suo film sarebbe stato «la pietra tombale della commedia all’italiana», ma in La commedia umana, che raccoglie le sue conversazioni con Sebastiano Mondadori, egli ne nega l’appartenenza, ribadendo che «Un borghese piccolo piccolo è ancora a tutti gli effetti una commedia all’italiana. […] Emerge una nuova ferocia, che a tratti schiaccia il ridicolo […] Ma non ci è passata la voglia di ridere»[18].
Un volume di saggi dedicato al cinema di Monicelli contiene due giudizi contrari che illustrano questo contrasto nella ricezione. Aldo Viganò intravede nel film «il rischio ‘mostruoso’ di fare del suo protagonista Vivaldi un ‘positivo’ eroe dei nostri tempi», ma il difetto del regista di non aver saputo trovare la «giusta distanza» che crea la comicità sarebbe in fin dei conti da attribuire al contesto storico:
Un borghese piccolo piccolo appare come il prodotto di un cinema confuso […]. Sullo sfondo restano i residui della commedia (la ‘mostruosa’ abilità del protagonista nel destreggiarsi nel traffico urbano, il suo maniacale attaccamento alla famiglia, il servilismo e l’arte d’arrangiarsi), ma costituiscono ormai solo il precipitato cinematografico di una società sempre più incapace di ridere di se stessa[19].
Per Gianni Canova invece il film,
a torto interpretato – ai tempi – come declinazione grottesca del ‘poliziottesco all’italiana’ o come reazionario richiamo all’ordine e alla legge, […] si configura […] come il tentativo più lucido di dar forma all’‘ordine cannibale’ e di mostrare il modo in cui l’istinto omicida si manifesta in un uomo qualunque, pronto a trasformarsi da tranquillo impiegato ministeriale in giustiziere spietato e feroce[20].
Con “ordine cannibale”, un termine preso in prestito da Jacques Attali, il critico intende esprimere «l’effetto disgregante che la morte produce sui suoi universi diegetici»[21]. Egli conclude perciò che «il film è in realtà una asciutta rappresentazione della ‘banalità del male’ e, insieme, dell’insostenibile precarietà del vivere»[22].
Monicelli stesso in un’intervista del 2004 dice del film di aver puntato coscientemente a un’interpretazione ambivalente, e dichiara anche di essersi ispirato a certi film americani che tematizzavano l’aumento della criminalità, della delinquenza giovanile e dell’insicurezza personale nella vita quotidiana di quegli anni. In questo modo il regista viareggino di adozione non stabilisce un legame diretto con la violenza politica degli anni Settanta nel suo Paese, ma con un fenomeno sociale internazionale contingente e con un genere cinematografico americano in cui prevaleva il punto di vista dell’uomo vendicatore. Scegliendo un attore comico amato dagli italiani come Alberto Sordi[23] e trasformandolo in un mostro che compie la propria vendetta torturando e uccidendo l’assassino del figlio, Monicelli voleva rendere il personaggio tanto ambiguo da far riflettere il pubblico sulla liceità del suo comportamento da giustiziere. Poiché la prima parte del film, incentrata sulla figura di Giovanni Vivaldi, piccolo burocrate impiegato in un ministero, corrisponde in tutto al genere comico, il maestro della commedia all’italiana afferma di essere riuscito a costruire una farsa che slitta inavvertitamente nella tragedia[24]. Il film, nel bene e nel male, sarebbe dunque, secondo Vincenzo Buccheri, da definirsi «un’opera ‘terminale’», ma rimane da decidere se «i vecchi ‘mostri’ d’antan – maestri del servilismo e dell’arte d’arrangiarsi, qui condensati nel personaggio interpretato da Alberto Sordi – siano additati come responsabili storici del disastro presente oppure presentati come dei sopravvissuti senza bussola, vittime di un tempo nuovo più ‘mostruoso’ di loro»[25].
Per Rémi Fournier Lanzoni, infine, Un borghese piccolo piccolo dimostra la svolta della seconda fase della commedia all’italiana, quella dell’epoca post-boom (1968-1979), dal sorriso della satira al cinismo del modo grottesco. La morte funge in queste narrazioni tragicomiche da artificio tematico predominante: in una società in preda alla violenza, la morte non è più un’entità esterna limitata a delle funzioni minori, ma piuttosto un elemento completo che ha raggiunto la sua maturità sullo schermo[26]. Lanzoni cita a tal proposito Monicelli, che ha definito il proprio film un passo in avanti verso l’assurdo, il cui elemento grottesco coincide con la disperazione e la solitudine[27]. Per dimostrare come la passione umana possa generare violenza e morte, non serve tanto la compassione della tragedia ma la verità circostanziale della farsa. Intervistato da Lanzoni, Monicelli sostiene che «il potere della commedia è senza ambiguità»[28]. Nelle conversazioni con Sebastiano Mondadori già citate, Monicelli precisa che nel raccontare la violenza ha voluto adottare uno «stile elementare in cui manca del tutto un giudizio morale»[29].
Cerami stesso definisce la comicità come «la distruzione della sociologia, della psicologia, dell’ideologia. È bidimensionale; è come un fumetto. È la poesia del nulla. La glorificazione della morte fatta con allegria»[30]. Moralmente accettabile o meno, il grottesco mette lo spettatore di fronte a un limite, non più concepibile con gli schemi binari della dialettica, come Pasolini e Calvino ebbero a dimostrare, ma piuttosto tangibile nella sua forma di zona di contatto, e dunque travalicabile e analizzabile in termini spaziali ed emotivi.
Nella sua prefazione a Fattacci. Il racconto di quattro delitti italiani, Cerami parla della «linea di demarcazione» della sua infanzia a Roma che separava il suo quartiere dall’“inferno” della guerra:
Mi separava dall’inferno quella linea grossolana che mi son sempre portato dietro nei tanti traslochi. Me la vedo lì, a un passo. Un piede può varcarla per distrazione, per troppa sicurezza. O per sinistra attrazione del male. […] La mia paura più ricorrente, ancora oggi, è di confessare un delitto mai commesso nella convinzione profonda di averlo commesso. Una lampada in faccia e confesso l’inconfessabile. E questo perché in un angoletto della nostra personalità c’è scritto che saremmo capaci di uccidere proprio perché siamo capaci di non farlo[31].
È la parabola di Henry Jekyll e Edward Hyde che per Stevenson aveva reso chiaro che «quella linea è il perno centrale di un equilibrio sempre instabile. Essa non è disegnata sulla strada ma dentro ogni persona. Di qua l’essere umano di là una belva immonda»[32]. Per Cerami rappresenta il «mistero» che «rimane lì, come un monolito, compatto e insondabile», del «perché una persona tranquilla dovrebbe essere tentata dalla tragedia»[33].
La violenza borghese in confronto a Salò
Oltre a sondare l’attrazione inconscia del male, Cerami, seguendo l’esempio di Dostoevskij, ambisce come scrittore anche a fornire «interpretazioni dell’età presente»[34]. Ciò permette di analizzare la violenza rappresentata in Un borghese piccolo piccolo con due approcci ambedue conducenti all’assurdo, uno sociale e uno metafisico, come proposto da Calvino nella sua presentazione del romanzo. Da un lato, partendo dal titolo, lo si potrebbe collocare all’interno della critica della borghesia di stampa pasoliniana di cui Cerami si fa interprete in La trascrizione dello sguardo con cui introduce le sceneggiature di Pasolini raccolte in Per il cinema. Mentre Pasolini, secondo Cerami, «vuoi per principio, vuoi per vocazione d’artista, si è sempre rifiutato di descrivere realisticamente l’universo borghese e piccolo-borghese», protagonista della sua opera rimane pur sempre «la rinnegata, ostile, violenta borghesia»[35]. Cerami invece porta la lezione di Pasolini oltre la barriera ideologica autoimposta dal regista quando medita, intervistato da Giordano Meacci, sulla lezione di umanità del maestro di cui fu allievo alla scuola media “Francesco Petrarca” a Ciampino:
Ogni essere vivente, per me, è santo. E questo sentimento sacro nei confronti di tutto il creato forse l’ho ereditato da Pier Paolo. In questo senso mi sento profondamente religioso, anche se poi provo un dolore potente che mi mette in conflitto con la realtà, così da amare e odiare contemporaneamente. Io ho sempre molto amato Giovanni, il protagonista di Un borghese piccolo piccolo, altrimenti non avrei mai potuto descriverlo. Eppure, se ci pensi bene, è un assassino e un torturatore. L’essere più detestabile che si possa immaginare[36].
A ben vedere, ciò che differenzia la sua opera da quella di Pasolini è il suo volersi fare «carico dell’universo piccolo-borghese», mentre per Pasolini si trattò di un mondo «che lui rifiutava ideologicamente; anzi: era il nemico»[37]. Nella sua introduzione agli scritti Per il cinema Cerami afferma che nell’opera di Pasolini «L’Italia divisa in carnefici e vittime complici fa la sua apparizione in Salò»[38]. La sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma del 1975, paragonata a Un borghese piccolo piccolo, potrebbe illustrare la differenza tra un approccio ideologico di rifiuto e uno “umano” – nel senso della sua “sopravvivenza” attribuitogli da Calvino. Il rapporto tra violenza e borghesia nelle due opere può così essere analizzato all’interno di un contesto storico che Cerami descrive come segue:
Mercato, consumismo e televisione annullano la centralità del potere, creano anomia, dissolvono le culture particolari in favore di una massificazione che trova identità solo nell’edonismo. Le classi sociali si mischiano per una nuova sistemazione su base meramente economica. Quindici anni cruciali, che vanno dai ‘giovani arrabbiati’, al Sessantotto, al terrorismo: sono il frastuono di un cambiamento radicale del nostro paese[39].
A sostegno di tale panorama in sintonia con la cosiddetta “mutazione antropologica” pasoliniana[40], si possono citare anche le parole usate da Guido Crainz per caratterizzare il passaggio dalla crisi politica ed economica del 1976 alla seconda contestazione del 1977: si assiste secondo lo storico «all’irrompere di un’esplosione inaspettata di violenza e di disgregazione sociale, all’emergere di laceranti fratture generazionali e culturali»[41]. È proprio la crisi generale che si manifesta nell’ultima metà degli anni Settanta a determinare, secondo Domenico Guzzo, l’incubo della discesa sociale della famiglia Vivaldi:
Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli […] apre così uno spaccato sugli elementi e sui fattori di conflittualità collaterali al dipanarsi della tradizionale matrice ‘terroristica’ degli anni di piombo; individuando nella crisi esiziale del paternalismo borghese, nell’esaurimento definitivo della teleologia del miracolo economico e nel passaggio dalla ‘produzione’ al ‘consumo’ quale primaria categoria del sociale, alcuni decisivi percorsi di accesso e preparazione a quel combinato disposto di violenza politica e creatività diffusa che sarà il 1977[42].
Se da un lato quindi la crisi della borghesia è sintomatica per la mutazione antropologica e politica che attraversa la società italiana degli anni Settanta, dall’altro lato il romanzo di Cerami nella sua versione filmica segna, come si è visto, la crisi della commedia all’italiana. In questo caso il trattamento della violenza fa parte della risposta cinematografica del genere comico, verso la fine degli anni Settanta, alla violenza politica durante gli anni del terrorismo[43]. Alan O’Leary, in un saggio sul cinema italiano e gli “anni di piombo”, menziona tre film di Monicelli, Vogliamo i colonelli (1973), Caro Michele (1976) e Un borghese piccolo piccolo (1977), che insieme corrispondono alla tendenza del cinema politico di sfruttare due caratteristiche della commedia all’italiana. La prima riguarda la sua essenza di “commedia di costume” e dunque della messa a nudo di comportamenti e attitudini femminili e maschili che possono essere ricondotti a determinati codici sociali. Con la seconda si stabilisce invece un tipo di identificazione che rende il pubblico complice della violenza rappresentata attraverso l’associazione di certe facce iconiche, specie maschili, alla costruzione di un italiano tipico e grottesco, facilmente riconoscibile[44]. Viene dunque da chiedersi se sia possibile paragonare questi due percorsi nella rappresentazione della violenza piccolo-borghese, seguendo la parabola pasoliniana dell’ideologia o quella della commedia umana: ambedue percorsi segnati dalla morte, e all’insegna della mostruosità dell’essere umano. Seguendo il suggerimento che sia l’artificio della morte a mettere alla prova il potere conoscitivo della comicità, si propone a questo punto un’analisi, individuando tre possibili chiavi di lettura delle morti nel libro e nel film: la prima è politico-sociale, in quanto coincide con la violenza che accompagna il rapido cambiamento di una società contadina in una società di consumo con una mentalità piccolo-borghese; la seconda si ispira a Salò per analizzare fino a che punto la violenza sia attribuibile a un sadismo di tipo patriarcale; la terza, infine, indaga i limiti posti dalla violenza all’emancipazione femminile e al genere della commedia all’italiana.
Le morti nel romanzo e nel film
Come anticipato, si distinguono tre casi di morte nel romanzo ‒ un quarto compare nel film ‒, che possono essere analizzati con i parametri del realismo borghese e della commedia grottesca sopra descritti. Il primo è il motore della trama, l’uccisione del figlio Mario, che cammina accanto al padre durante una rapina al Monte di Pietà nel giorno del concorso che doveva fare di lui un ragioniere di successo:
Di lì a poco sbucarono in una piazzetta quadrata dove successe quello che successe. Fu insieme un batter d’occhio e un’eternità. Non aveva finito di dire: ‘Mamma’ che già Mario era morto. Un attimo prima o un secolo prima l’urlo di una donna, di quelli che si possono fare solo in falsetto, a spaccagola. Il sangue usciva dai calzoni del ragazzo come da rubinetti lasciati aperti. A ucciderlo furono alcuni colpi d’arma da fuoco (più tardi si venne a sapere che si trattava di fucili mitragliatori in dotazione ai fanti dell’Esercito)[45].
Il padre di Mario ora si trova a vivere «nei panni di protagonista» un «fatto di cronaca»[46], mentre fino a quel momento occuparsi della cronaca nera era stato per lui una strategia per credersi «al di là dell’inferno»[47]. Ogni mattina, in attesa del caffè, la cronaca nera è il tema di conversazione preferito dei burocrati del Ministero di cui Giovanni fa parte:
Accadimenti straordinari avvenivano ogni giorno, da trent’anni. Ogni giorno una strage, una faida tragica di famiglia, crollo di dighe, esplosioni di delinquenza, i suicidi più atroci erano al centro dei loro discorsi. […] Alla fine, sempre, prima di chiudersi nei rispettivi uffici, gli impiegati si trovavano d’accordo che l’istituzione di una sana pena di morte avrebbe messo a tacere definitivamente tutta la violenza di questo mondo[48].
Durante il lavoro il ripudio di un mondo che nel suo totale viene considerato come “il nemico” trova sfogo nella violenza verbale del ceto impiegatizio: «E intanto i colleghi di stanza blateravano e vomitavano la loro rabbia per tutte le ingiustizie di questo schifoso mondo pieno di froci, di comunisti, di drogati e di ministri corrotti»[49]. Nella sicurezza domestica della propria casa Giovanni commenta inoltre le notizie assieme alla moglie, che dello scetticismo ha fatto la sua strategia difensiva: «la signora Amalia si interessava solo delle cose cattive che succedono a questo mondo. Così pareva trovare un pizzico di consolazione e di significato in quella vita spenta che, tutto sommato, aveva però almeno il merito […] di non essere stata sconvolta dalle più terribili tragedie»[50].
Ancorarsi alla negatività serve da legittimazione per opporvi un mondo autosufficiente, che trova le sue basi in una struttura patriarcale non più a sostegno del mondo contadino di partenza ma del mondo cittadino e burocrate di arrivo. Giovanni, prossimo alla pensione e pronto a lasciare spazio al figlio, riflette su come lui «da contadino abruzzese morto di fame era diventato, col tempo, un burocrate del Ministero»[51]. Era arrivato in città «per arruolarsi nell’esercito reale. Girò un po’ l’Italia, fece la guerra, si tolse la divisa ed entrò gruppo C al Ministero». Si sente fiero «perché nel suo piccolo aveva contribuito lui stesso a creare quella situazione di privilegio per il figlio e anche per tutti i compagni di scuola». Per Mario ora sarà tutta un’altra cosa: «Nato in città, non avrebbe dovuto avere alcuna malinconia: tutto era lì, a portata di mano: la casa, la famiglia, l’ufficio, la carriera…»[52].
Forse non è azzardato vedere in questo percorso di ascesa sociale, al di fuori degli schemi della dialettica antifascista e operaia, un’analogia con il dialogo tra un intervistatore e un gruppo di operai che apre la sceneggiatura di Teorema (1968), la prima opera di Pasolini che mette in scena la borghesia[53] e alla quale Cerami ha assistito nella scrittura[54]. Allora si potrebbe descriverlo come un processo di “borghesizzazione” determinato da quell’«ordine cannibale»[55] di cui parla Canova per spiegare la centralità della morte nelle commedie di Monicelli. Il personaggio «Intervistatore» pone l’ipotesi che, avendo il padrone regalato la sua fabbrica agli operai, e trattandosi non di «un atto isolato» ma della «tendenza generale […] di un mondo moderno», abbia offerto «un primo, preistorico, contributo alla trasformazione di tutta l’umanità in piccoli borghesi». Il personaggio «4º operaio» gli risponde che crede «che la borghesia non ci riesca a portare tutti gli uomini in borghesi». Al che l’intervistatore ribatte: «Questa borghesia sta mutando rivoluzionariamente la sua situazione. Se insomma la borghesia arriva ad identificare tutta l’umanità coi borghesi, non ha più davanti a sé una lotta di classe da vincere, non con l’esercito, non con la nazione, non con la chiesa confessionale…»[56].
Manca infatti completamente in quest’opera di Cerami la lotta di classe, spostatasi tra le mura dell’ufficio del Ministero e ridottasi alla competizione tra piccoli burocrati[57]. Ogni ricordo o testimonianza di miseria viene radicalmente rimosso. La baracca di legno fuori Roma, in una «campagna esangue»[58], unica superstite del passato contadino, è destinata a essere trasformata «in una casa», secondo la «scommessa» che si è prefissa Giovanni, in quanto capostipite dei Vivaldi, che ha «sudato tutta la vita» per farsela[59]. Il passato proletario vi torna però sotto forma spettrale nella gente che frequenta il cosiddetto «bazar», una «specie di chiosco casa-bottega dove vendevano di tutto» con anche «un banconcino da bar»[60]. Qui Giovanni a colazione osserva
il materiale umano […] così lontano, in fondo, dai moderni processi della civiltà. Era, per lui, la passerella degli spettri di cinquant’anni prima: gli esemplari di una razza sopravvissuta nei secoli e destinata all’estinzione. […] Gratta gratta, Giovanni, nella misurazione di quel microcosmo del bazar, sapeva di guadagnare sugli altri almeno qualche centimetro, o, per dirla in altri termini, almeno qualche decennio in più di civiltà[61].
La negazione delle proprie umili origini assume dimensioni darwiniane quando Giovanni s’immagina i colleghi d’ufficio, «tutti figli di gente così, di gente che man mano che scompariva dalla faccia della terra si faceva più mostruosa, più terribile a vedersi… l’ultimo di loro magari era destinato a morire di linciaggio ad opera del resto degli uomini»[62]. Il popolo del “vinti” è anch’esso presente sulla scena, con la «piccola banda di ragazzini», la «ciurma degli ometti» che quasi travolgono Giovanni mentre marciano in fila indiana, verso la fermata dell’autobus che li porterà a Roma, tutti cantando «a tutta gola un motivetto dello Zecchino d’oro»[63]. Tali reminiscenze neorealistiche di un passato traumatico e contraddittorio non elaborato sono indizi di una violenza borghese che può esplodere in ogni momento.
In una mentalità in cui non c’è spazio per una società civile o per uno Stato in cui riconoscere la garanzia istituzionale del contratto sociale, la violenza, sia psicologica che fisica, diventa una forza che permea tutte le relazioni, concepite puramente in funzione del desiderio del borghese capitalista di soddisfare i propri interessi. Come spiega Kriss Ravetto nella sua analisi di Salò, si tratta di una violenza di tipo sadico: il desiderio sadico del borghese capitalista, secondo Nietzsche, non solo mira al privilegio del potere, ma è sempre già iscritto in ogni espressione di potere, e dunque esprime in ogni caso il proprio interesse anche quando questo si maschera come legge universale o morale[64]. Un’istituzione che corrisponde perfettamente a tale visione “interessata” del potere mascherato da un’idea universale è la Massoneria, alla quale Giovanni viene iniziato dal suo capoufficio Spaziani, da lui chiamato a intercedere per favorire la carriera del figlio ragioniere. Uno degli episodi con un più elevato grado di comicità sia nel libro che nel film[65] riguarda il rito della cerimonia nella quale Giovanni, alla domanda su cosa deve a sé stesso e cosa deve alla nazione, risponde con improvvisato patriottismo: «Nulla devo a me stesso […] ma tutto devo alla Nazione, al mio Paese, alla Patria… la mia vita e il mio operato è tutto dovuto per il bene comune del mio popolo… Prima di me viene l’Italia…»[66].
Il contratto massonico che detta la legge per i «Profani», «la Fratellanza, l’Omertà, l’Amor patrio; i Doveri, i Diritti e le Spietate Condanne contro i Traditori»[67] è una chiara parodia del contratto sociale: dimostra che la legge è schizofrenica e, parlando in nome del padre, della Patria e dello Stato, ne nullifica la sovranità[68]. La presunta normalità di una mentalità borghese in cui è avvenuta la fatale indistinzione ‒ secondo i parametri di Pasolini ‒ tra la purezza dell’innocenza e il male, tra il neocapitalismo e il neofascismo[69], si palesa quando Giovanni si reca in Questura per il riconoscimento dell’assassino di suo figlio, comportandosi da “profano” in luogo pubblico: «In fondo tutta quella gente dell’ordine era impiegata come lui e anzi non poteva esistere senza il suo Ministero. […] Giovanni strinse la mano al maresciallo infilandogli il dito indice sotto il polsino della camicia, a mo’ di massone. Il poliziotto sussultò e quasi gli urlò di sedersi»[70]. Non esiste dunque per lui nessuna distinzione tra un piano clientelare basato su favori reciproci – «Poteva ben passare, prima o poi, qualche massone. E forse questi gli avrebbe anche fatto da guida e dato dei consigli utili, ma soprattutto lo avrebbe tirato fuori da qualche pasticcio»[71] – e l’ordine legale che funziona per la tutela dei cittadini.
Sempre interpretando il libro in parallelo a Salò, si può supporre che Giovanni si trasformi in un sadico Superego, il quale agisce secondo la legge patriarcale consumando e annichilendo ogni possibile piacere al di fuori del proprio desiderio di umiliare e distruggere, e che di conseguenza trasforma la famiglia nello spazio primario della sottomissione al suo volere sadico. Come i libertini in Salò non si costituiscono più contro un nemico esterno, così anche Giovanni “internalizza” gli atti di violenza, imprigionando le sue vittime nello spazio intimo della propria abitazione[72]. Privato del figlio, in Giovanni il desiderio di autoaffermazione si sostituisce al desiderio di riproduzione del potere istituzionalizzato. In un simile mutamento, è lecito riconoscere ciò che Pasolini intravedeva come l’istituzionalizzazione della psicosi normativa del fascismo, secondo la quale la legge castra in nome del padre e a favore del padre[73].
Nel caso di Giovanni-padre di Mario la sua violenza sadica non si rivolge tanto contro il pericolo di essere annichilito dal proprio figlio[74] quanto contro il giovane omicida che ha impedito al figlio di succedergli. In quest’ottica Giovanni non corrisponde quindi completamente a ciò che Pierre Klossowski in Sade mon prochain ha chiamato una «mostruosa singolarità», ovvero quella propulsione maschilista a eliminare ogni progenie e differenza che sta alla base dell’estrema espressione di narcisismo sadico[75]. Essendo egli stesso una vittima del desiderio di autoaffermazione di una nuova generazione, non riesce a imporre il proprio potere assoluto, e a negare in questo modo ogni forma di esistenzialismo basato su valori cristiani o umanistici[76].
Invece di accettare che il delinquente venga condannato dall’apparato giudiziario, Giovanni, riconosciutolo in questura, insegue il colpevole fino alla sua casa – per ironia della sorte proprio di fronte a dove abitano i Vivaldi –, lo colpisce e lo trasporta con la sua Ottoecinquanta fino alla baracca dove lo lega con fil di ferro a una sedia e lo lascia morire: «Un giorno […] il respiro della vittima si affievolì piano piano come un giocattolo che si scarica. […] ‘È morto’, disse subito fra sé. Sentì le ginocchia mancargli, si lasciò cadere seduto sulla brandina dove rimase un bel pezzo prima di reagire. E reagì a forza di singhiozzi: pianse, pianse, dalla testa ai piedi»[77].
Giovanni non ha mai accettato il verdetto del capoufficio che «la legge è uguale per tutti i giovani»[78], suo figlio essendo per lui eccezionale, anzi un «privilegiato» con il diritto di comportarsi in quanto tale. Durante le loro uscite di pesca, il padre aveva insegnato al figlio: «Farai strada, quant’è vero Iddio… Comincerai proprio da dove sono arrivato io, dopo trent’anni di servizio… e tu hai soltanto vent’anni… Un giovane in gamba per davvero pensa al suo avvenire, a nient’altro che a quello e lascia che gli altri s’impicchino»[79].
Nel libro come nel film, con il secondo omicidio si assiste alla morte di un assassino la cui vittima si è fatta carnefice. Il fatto che egli sia giovane sembra essere l’elemento principale a far innescare la vendetta omicida del padre. Nel corso della storia il figlio esemplare viene messo a confronto con altre tipologie di giovani con sembianze degenerate[80], giudicati da Giovanni con un moralismo reazionario non idonei al progresso[81]. La lezione di Pasolini può di nuovo essere riportata all’inferno di Salò, questa volta messo in relazione dallo psicanalista Massimo Recalcati con la «crisi profonda del processo della filiazione simbolica»[82]. Per Recalcati, Salò ha anticipato profeticamente il nostro tempo, dimostrando che «gli ideali si rivelano inconsistenti, salvo quello del godimento (di morte) come fine ultimo della vita»[83]. Il pater familias che si identifica con la legge è soggetto a una mutazione che Recalcati, sulla scia di Lacan, descrive come l’«evaporazione del padre»[84]. Giovanni non disadempie tanto al proprio compito paterno di trasmissione della legge, ma a quello di trasmettere una legge che sia «umanizzata», che offra il suo senso «non come castigo ma come possibilità della libertà, come fondamento del desiderio»[85]. Lasciando in eredità al figlio il diritto «singolare» di godere dei privilegi che gli ha creato, facendo tanti sacrifici – Recalcati parla di «godimento della legge»[86] –, non gli lascia la libertà di creare una nuova ragione di essere. Idealmente, «nell’ereditare è sempre in gioco anche la trasmissione di un dono che può umanizzare la vita»[87]. Se la tesi del libro di Recalcati è che «l’erede è sempre un orfano, è sempre senza eredità, diseredato, sradicato, privo di patrimonio, lasciato cadere, smarrito. L’eredità non si compie mai come un mero travaso di beni o di geni da una generazione all’altra»[88], si potrebbe ipotizzare che in Un borghese piccolo piccolo chi rimane orfano sia invece il padre, che senza la presenza dell’Altro «muore, appassisce, perde il sentimento stesso della vita, si spegne»[89]. Da cui forse la designazione pasoliniana di «neocrepuscolare»[90] per il romanzo di Cerami.
La privazione del figlio prepara un’altra eliminazione violenta dalla scena pubblica: quella della donna, che proprio negli anni in cui si svolge la narrazione acquista una serie di diritti dal citato referendum sul divorzio del 1974 alla legge sull’aborto del 1978. La morte di Mario stroncherà la madre Amalia, che rimarrà vittima di una trombosi: «Da allora restò seduta sulla sedia di vimini senza più ragione né sentimento, in penombra nel corridoio perché la luce le faceva male»[91]. La sua morte in seguito a quella del figlio – «Amalia era morta. Anche lei. Seduta su una sedia. In silenzio. Rimaneva una muta carcassa, appoggiata sul dondolo di vimini da chissà quando»[92] – ha diversi connotati. Da un lato potrebbe essere analizzata come la negazione, all’interno della logica borghese, dell’emancipazione femminile a cui questa madre, la cui unica funzione è quella di nutrire i maschi in famiglia[93] e le sue uniche salvezze il suo scetticismo e la sua fede, non sembra avere nessun accesso. Per tale motivo il suo personaggio rimane anche escluso dal genere della commedia[94], relegato invece allo spazio dell’ufficio sia nel romanzo sia nell’adattamento cinematografico.
In Cinema, Gender, and Everyday Space, Natalie Fullwood analizza in particolare la rappresentazione dell’ufficio nelle commedie all’italiana dal 1958 al 1970, quindi fino all’irrompere sulla scena politica dell’attivismo femminista[95]. Mentre in diverse commedie del periodo le tensioni tra i sessi sul lavoro fanno parte delle trame in cui figura l’impiegato prevalentemente maschio, di classe media e di mezza età[96], in Un borghese piccolo piccolo negli uffici del Ministero le donne sono completamente assenti. La feroce comicità nell’ambiente lavorativo di Giovanni è generata prima di tutto da ciò che Fullwood indica come i tentativi disperatamente comici di «arrivismo» degli impiegati che aspirano a raggiungere l’ideale dell’«uomo di successo» sia in senso economico che in termini di «stile»[97].
La rimozione della donna dallo spazio sociale ha anche connotazioni sadiche collegate al libertinaggio impudico rappresentato in Salò. La reclusione in casa di Amalia, specie dopo la sua infermità, la riduce in condizioni paragonabili a quelle dell’assassino sequestrato dal marito. La cura di Giovanni, che la trascura durante le ore che passa con la sua preda nella baracca, è ambigua, dato che non la fa spostare mai dalla sedia, trattandola come se fosse un corpo oggetto. Il narcisismo sadico del “patriarca” si scaglia anche contro la vittima simbolica della madre, che incarna la riproduzione e forma così un ostacolo al processo di disumanizzazione[98]. L’omelia del prete pronunciata al funerale di Amalia, «Come sono piccoli gli uomini…», in cui il sacerdote sfoga tutta la propria rabbia contro il genere umano tanto da voler invocare «il Diluvio Universale», viene assorbita da Giovanni «come una spugna arida e assetata»: «dai pori spalancati della pelle gli entravano dentro anche i punti e le virgole di quel discorso vibrante e veritiero»[99].
Trionfa dunque quella mentalità piccolo-borghese neofascista che nella visione pasoliniana invoca a sottrarsi, con violenza ripulsiva, alla contaminazione dell’impuro? Una lettura contraria si potrebbe trovare in Recalcati che, citando la massima evangelica «ciò che esce dall’uomo contamina l’uomo» (Marco 7, 20-23), sostiene invece che «non serve dunque sterminare il nemico come se fosse un batterio, […]; il male non viene mai solo da fuori; il male più inestirpabile abita il nostro essere»[100]. È quindi ancora possibile ribaltare la discesa infernale del “borghese piccolo piccolo”?
I due finali, ovvero la trasformazione in una «mostruosa singolarità»
In conclusione, si possono confrontare i due finali, che differiscono per il quarto morto nel film, un giovane ucciso da Giovanni davanti alla casa, colpito con lo stesso strumento usato per stordire l’altro. Si tratta dunque di una ripetizione e di un incrudelimento dell’atto omicida, in quanto gratuito e quindi liberato da ogni moralismo che impedisca il raggiungimento immediato del godimento sadico della legge. Giovanni completa così la propria trasformazione in quella «mostruosa singolarità»[101] che lo assimila alla trasformazione “antropologica” in atto, secondo Pasolini, nella società italiana degli anni Settanta. All’interno dell’opera di Monicelli, invece, questa quarta morte sigilla quel passo verso l’assurdo di cui parla il regista, e anche Calvino, nella sua presentazione del libro di Cerami. Trattandosi poi di nuovo di un giovane, viene confermata l’ipotesi di una crisi generazionale, dovuta sia a una gioventù “orfana” di padri – tema centrale anche nel film precedente di Monicelli, Caro Michele, tratto dal romanzo omonimo di Natalia Ginzburg[102] – sia a una classe di vecchi, essi stessi agenti dell’“ordine cannibale”[103] poiché non lasciano la loro eredità ai giovani. Monicelli in un’intervista ascrive la fine della commedia all’italiana anche al fatto che alla fine degli anni Settanta, con la morte di molti sceneggiatori e attori, veniva a mancare «la linfa per cui i film si fanno»[104].
Invece, il finale del libro narra il susseguirsi di gesti automatici che preparano a un lento spegnersi del pensionato Giovanni: «riempì la tazzina e con le labbra a punta ci soffiò sopra a circolo. Soffiava e pensava che per una quindicina d’anni tutte le mattine sarebbe stato così»[105]. In questa versione “neocrepuscolare”, la mostruosità è quella dell’indistinzione delle categorie, è quell’insostenibilità delle contraddizioni che, invece di tradursi in “scandalo” (come nell’opera di Pasolini), semplicemente si assopisce nella grigia normalità.
- V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, Milano, Garzanti, 1976. ↑
- Un borghese piccolo piccolo, regia di M. Monicelli, Luigi e Aurelio De Laurentiis, 1977. ↑
- P. P. Pasolini, I giovani che scrivono (23 dicembre 1973), in Id., Descrizioni di descrizioni, Milano, Garzanti, 1996, p. 318. ↑
- Italo Calvino cit. in G. Meacci, «La parola si scolpisce sul silenzio»: Ricordando Vincenzo Cerami, tratto da Improvviso il Novecento. Pasolini professore, Roma, minimum fax, 2015, riprodotto su «minima&moralia», 17 luglio 2013: http://www.minimaetmoralia.it/wp/vincenzo-cerami/ (ultima consultazione: 10/05/2024). ↑
- P. P. Pasolini, I giovani che scrivono (23 dicembre 1973), in op. cit., p. 320. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 318. ↑
- Ivi, p. 320. ↑
- Ivi, pp. 319-20. ↑
- Ivi, pp. 320-21. ↑
- Ivi, p. 322. ↑
- I. Calvino, Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 286. ↑
- Ivi, p. 287. ↑
- Ivi, p. 289. ↑
- Ivi, p. 290. ↑
- Ivi, p. 293. ↑
- Ivi, pp. 292-93. ↑
- M. Monicelli, La commedia umana. Conversazioni con Sebastiano Mondadori, Milano, il Saggiatore, 2016, p. 62. ↑
- A. Viganò, Il regista che non volle farsi autore, in Lo sguardo eclettico. Il cinema di Mario Monicelli, a cura di L. De Franceschi, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 80-81. ↑
- G. Canova, Figure di un ordine cannibale. Monicelli e la morte, in Lo sguardo eclettico, op. cit., p. 185. ↑
- Ivi, p. 182. ↑
- Ivi, p. 185. ↑
- Si tratta della quarta e ultima fase del coinvolgimento di Sordi nella commedia all’italiana, che inizia nel 1971 con il suo primo ruolo apertamente tragico in Detenuto in attesa di giudizio (diretto da Nanni Loy), e finisce con l’impersonificazione altrettanto tragica di Giovanni Vivaldi in Un borghese piccolo piccolo. Sordi ha sempre ribaltato le aspettative del pubblico con personaggi in continua evoluzione, da quello negativo a quello parzialmente positivo a quello apertamente tragico. Cfr. G. Boitani, «Neorealismo with a satirical outlook»: Alberto Sordi (1920-2003) and the stardom of the commedia all’italiana genre, in «Status Quaestionis», 1, 2011, pp. 65-66. ↑
- D. Young, Poverty, Misery, War and Other Comic Material: An Interview with Mario Monicelli, in «Cineaste», autunno 2004, p. 39. Vincenzo Buccheri osserva che nelle «recensioni la diagnosi più frequente è che Monicelli ha girato ‘due film in uno’» (La ‘bottega’ di Monicelli, in Storia del cinema italiano, vol. XIII – 1977/1985, a cura di V. Zagarrio, Venezia, Marsilio, 2005, p. 133). ↑
- V. Buccheri, La ‘bottega’ di Monicelli, op. cit., p. 130. ↑
- R. Fournier Lanzoni, Chronicles of a Hastened Modernisation. The Cynical Eye of the Commedia all’Italiana, in The Italian Cinema book, a cura di P. Bondanella, London, Palgrave Macmillan, 2014, pp. 188-89. ↑
- Ivi, p. 191. Si veda anche Monicelli sullo «scatto estremo» del vecchio Vivaldi: «La sfiducia nella legge è solo uno dei moventi, gli altri sono la solitudine e una sorta di inerzia priva di emozioni. La sua metamorfosi grottesca è come se l’avesse escluso dai rapporti umani»: La commedia umana, op. cit., p. 271. ↑
- R. Lanzoni, Atto finale della commedia all’italiana: intervista a Mario Monicelli, in «Italian Culture», 2, 2011, p. 135. ↑
- M. Monicelli, La commedia umana, op. cit., p. 272. ↑
- G. Meacci, «La parola si scolpisce sul silenzio»: ricordando Vincenzo Cerami, op. cit. ↑
- V. Cerami, Prefazione, in Id., Fattacci. Il racconto di quattro delitti italiani, Torino, Einaudi, 1997, pp. v-vi. ↑
- Ivi, p. vi. ↑
- Ivi, p. X. ↑
- Ivi, p. viii. ↑
- V. Cerami, La trascrizione dello sguardo, in P. P. Pasolini, Per il cinema. Tomo primo, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Arnoldo Mondadori, 2001, p. xxvii e p. xxxi. ↑
- G. Meacci, «La parola si scolpisce sul silenzio»: ricordando Vincenzo Cerami, op. cit. ↑
- Ibidem. ↑
- V. Cerami, La trascrizione dello sguardo, op. cit., p. xlvi. ↑
- Ivi, p. xlv. ↑
- Scrive Pasolini il 10 giugno 1974 sul «Corriere della Sera» in reazione al 59% degli italiani che al referendum aveva votato “no” all’abrogazione della legge sul divorzio: «Il ‘no’ è stata una vittoria, indubbiamente. Ma la indicazione che esso dà è quella di una ‘mutazione’ della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressivismo socialista». Cit. in G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003, p. 505. ↑
- Ivi, p. 553. ↑
- D. Guzzo, Un borghese piccolo piccolo: retaggi patriarcali, crisi economica e violenza diffusa all’alba del 1977, in Italia 1977: crocevia di un cambiamento, a cura di E. Taviani, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, p. 71. ↑
- Le cifre riportate da Crainz rivelano la relativa debolezza della violenza prima dell’esplosione nel 1977: «considerando il periodo fra il 1968 e il 1982, gli atti terroristici di sinistra si concentrano per il 70% fra il 1977 e 1979, e per il 90% fra 1977 e 1982» (G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, op. cit., p. 565). Nel 1976 si assiste già al «diffondersi dei conflitti sociali” culminanti nell’uccisione del procuratore generale Francesco Coco e degli uomini della sua scorta a Genova il 9 giugno da parte delle Brigate Rosse» (ivi, pp. 537-38). ↑
- A. O’Leary, Italian cinema and the “anni di piombo”, in «Journal of European Studies», 40, 3, 2010, p. 247. ↑
- V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, Milano, Garzanti, 1976, p. 62. ↑
- Ivi, p. 63. ↑
- V. Cerami, Prefazione, in Id., Fattacci, op. cit. ↑
- V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., pp. 16-17. ↑
- Ivi, p. 19. ↑
- Ivi, p. 27. ↑
- Ivi, p. 15. ↑
- Ivi, p. 14. ↑
- V. Cerami, La trascrizione dello sguardo, op. cit., p. xxix. ↑
- G. Meacci, «La parola si scolpisce sul silenzio»: ricordando Vincenzo Cerami, op. cit. ↑
- G. Canova, Figure di un ordine cannibale, op. cit. ↑
- P. P. Pasolini, Teorema, in Id., Per il cinema, Tomo primo, op. cit., p. 1081. ↑
- Monicelli definisce «la parte dei ministeri» come quella «più spietata»: «Le trame, gli odi, le false amicizie portano alla luce una realtà in cui tutti sono mostri». M. Monicelli, La commedia umana, op. cit., p. 272. ↑
- V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 7. ↑
- Ivi, p. 9. ↑
- Ivi, p. 93. ↑
- Ivi, p. 94. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, pp. 93-94. ↑
- K. Ravetto, The Unmaking of Fascist Aesthetics, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1998, p. 114. ↑
- A. Viganò invece critica la scena della cerimonia d’iniziazione alla Massoneria nel film perché «la comicità travalica inesorabilmente […] nel grottesco», in Il regista che non volle farsi autore, op. cit., p. 80. ↑
- V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 32. ↑
- Ivi, p. 32. ↑
- K. Ravetto, The Unmaking of Fascist Aesthetics, op. cit. pp. 115-16. ↑
- Ivi, p. 119. ↑
- V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., pp. 68-69. ↑
- Ivi, p. 68. ↑
- K. Ravetto, The Unmaking of Fascist Aesthetics, op. cit., p. 132. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 130. ↑
- Ivi, p. 133. ↑
- V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 102. ↑
- Ivi, p. 20. ↑
- Ivi, p. 5. ↑
- Dice Pasolini a proposito di Salò: «La nostra memoria è sempre cattiva. Viviamo dunque ciò che succede oggi, la repressione del potere tollerante, che, di tutte le repressioni, è la più atroce. […] I giovani sono o brutti o disperati, cattivi o sconfitti…»: Il sesso come metafora del potere, in P. P. Pasolini, Per il cinema, tomo secondo, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Arnoldo Mondadori, 2001, p. 2064. ↑
- Si veda per esempio il «ragazzino multicolore con la radiolina accesa nelle mani» (V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 59) che Giovanni osserva sul tram mentre accompagna il figlio al concorso: «Giovanni pensava e intanto fissava quel ragazzino tutto pitturato e sculettante: quel ragazzino che non sarebbe mai diventato ragioniere, un po’ rognoso e molto incivile» (ivi, p. 60). ↑
- M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 38. ↑
- Ivi, p. 26. ↑
- «Con questa espressione non ho solo commentato la crisi dei padri reali nell’esercitare la loro autorità, ma, più radicalmente, il venire meno della funzione orientativa dell’Ideale nella vita individuale e collettiva» (ivi, p. 20). ↑
- Ivi, p. 37. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 17. ↑
- Ivi, p. 16. ↑
- Ivi, p. 33. ↑
- P. P. Pasolini, I giovani che scrivono (23 dicembre 1973), art. cit. ↑
- V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 65. ↑
- Ivi, p. 110. ↑
- «La signora Amalia, costretta a spostarsi da una stanza all’altra per accudire i suoi due uomini che sembravano aver scoperto all’improvviso di possedere una casa […] brontolando con una voce ventriloqua, faceva su e giù per la casa una volta con un panino, un’altra con il fiasco del vino, poi con le tazzine del caffè…» (ivi, pp. 26-27). ↑
- Monicelli per il film sceglie di farla interpretare da Shelley Winters, un’attrice straordinaria in ruoli comici e tragici, e quindi in grado di combinare le due personalità: cfr. D. Young, Poverty, Misery, War, op. cit., p. 39. ↑
- Cfr. N. Fullwood, Cinema, Gender and Everyday Space. Comedy Italian Style, New York, Palgrave Macmillan, 2015, p. 11. ↑
- Ivi, p. 96 e p. 98. Come ricorda Paul Ginsborg, nel periodo 1950-1970, i colletti bianchi formano il settore più in crescita della forza lavoro italiana (cit. in N. Fullwood, Cinema, Gender and Everyday Space. Comedy Italian Style, op. cit., p. 98). ↑
- Ivi, p. 107 e p. 101. Da qui anche la teoria di Giovanni basata sulla sua osservazione che “dentro” l’ufficio «contavano soprattutto due categorie di persone: ‘quelli che avevano una cultura’ e ‘quelli che avevano le conoscenze’, fossero capiufficio o uscieri o semplici impiegati» (V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 17). ↑
- Cfr. la discussione in Salò, nel Girone della merda, tra la sig.ra Maggi e Blangis sul matricidio: «Sig.ra Maggi: Non seppi resistere alla tentazione e la uccisi. […] Blangis: È follia supporre che si debba qualcosa alla propria madre. Dovremmo esserle grati perché ha goduto mentre qualcuno la possedeva una volta? Questo dovrebbe bastare, a dire il vero» (in P. P. Pasolini, Per il cinema, op. cit., p. 2047). ↑
- V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., pp. 117-18. ↑
- M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, op. cit., pp. 45-46. ↑
- P. Klossowski, citato in K. Ravetto, The Unmaking of Fascist Aesthetics, op. cit., p. 130. ↑
- Monicelli in un’intervista dice di aver voluto fotografare, seguendo da vicino il romanzo della Ginzburg, quel momento in Italia del passaggio da una vecchia generazione borghese attaccata a valori morali e sociali arcaici alla rivolta di una nuova generazione che di quei valori si disinteressa completamente: cfr. D. Young, Poverty, Misery, War, op. cit., p. 40. ↑
- Cfr. G. Canova, Figure di un ordine cannibale, op. cit. ↑
- R. Lanzoni, Atto finale della commedia all’italiana, op. cit., p. 134. ↑
- V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 127. ↑
(fasc. 52, 31 luglio 2024)