“Le città invisibili” e il desiderio

Author di Fabio Baccelliere

Conoscenza e scacco 

Le città invisibili prende avvio da un momento epifanico e disperato, di «vuoto»[1] e «vertigine»[2], nel quale il Gran Khan percepisce e scopre che l’impero che gli era sembrato «la somma di tutte le meraviglie del mondo è in realtà uno sfacelo senza fine né forma»[3], afflitto da una corruzione talmente incancrenita che nessuno scettro vi potrebbe porre rimedio. Un momento, questo, preceduto, in un primo tempo, dall’orgoglio provato dal Gran Khan davanti alla sterminata estensione del suo impero; e subito dopo da una strana e aporetica compresenza di malinconia e sollievo di fronte alla consapevolezza che i territori di sua proprietà sono troppo sterminati per essere conosciuti e compresi.

Si tratta di un’aporia che restituisce, dunque, da una parte la malinconia di un desiderio che si sa inappagabile, e dall’altra il sollievo che deriva, probabilmente, dalla consapevolezza che un desiderio soddisfatto rischia di diventare un desiderio “morto”. Essa, inoltre, riassume il contrasto essenziale che sarà sviluppato nelle cornici che scandiscono il libro: il conflitto, cioè, tra il desiderio di totalità (intesa come voglia di conoscere tutto interamente, che poi altro non è che un modo di possedere il proprio impero in modo più profondo rispetto al semplice dominio materiale), di cui si fa portatore il Khan (che sembra dimenticare il sollievo iniziale provato di fronte alla presa d’atto dell’inconoscibilità), e il suo scacco, che Marco si incarica di evidenziare tanto nei dialoghi con l’imperatore quanto nel racconto delle singole città invisibili.

La spinta verso la totalità ricorda molto da vicino il godimento, uno dei concetti pivotali, assieme al desiderio, dell’insegnamento lacaniano: di quel Lacan presente con quattro dei suoi volumi nella biblioteca di Calvino (Gli scritti, Il Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, Il Seminario XX. Ancora, Televisione), che qui si cita intendendolo come ricerca del sapere assoluto, totalizzante; un sapere che pretende di precedere, come vedremo, le città stesse, prescindendone, o addirittura pretende che le città vi si adeguino. Potremmo dire, dunque, che il percorso delle città invisibili è anche un percorso che tende a dimostrare che il desiderio di conoscenza/godimento di Khan non può che fallire: che non c’è, cioè, conoscenza assoluta, non c’è possesso integrale, non c’è riduzione all’unità che tenga. E a questo assunto, vedremo, si oppone il frammento: che è un modo per preservare il desiderio.

Alla contraddizione tra sollievo e malinconia vissuta dal Khan segue la sua percezione del disfacimento dell’Impero. Però, sembra poterci essere rimedio alla rovina: «Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Khan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti»[4]. Il rimedio all’infelicità (al disfacimento, alla rovina) sembra passare per la conoscenza delle città nelle quali l’infelicità prende effettivamente forma. Non una conoscenza di fatti, dati o cose, però, ma una conoscenza del “senso”; non il resoconto fedele di una città, ma l’essenza, la proprietà, il segreto che la rende diversa da tutte le altre.

Il racconto di Marco Polo, dunque, si incarica di trovare al disfacimento la cura del senso: Kublai Khan, infatti, rintraccia nei resoconti di Marco Polo «la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti»[5]. Un disegno, quindi, che tenga insieme in un senso le cose e le rispettive forme anche quando saranno polverizzate. Un disegno tra le città, che Marco realizza nelle categorizzazioni attraverso cui è strutturato il libro (le città e la memoria, le città e il desiderio, le città e i segni, le città sottili, le città e gli scambi, le città e il nome, le città e gli occhi, le città e i morti, le città continue); e insieme un disegno nelle città, dal momento che Marco cerca di volta in volta l’essenza, la proprietà, il segreto di ciascuna di esse. Il bisogno di porre rimedio alla rovina con il senso sembra, dunque, mascherare la pulsione primaria di Khan: possedere interamente, integralmente i suoi possessi.

La seconda cornice

Nella seconda cornice Calvino racconta delle relazioni dei messi e degli esattori inviati a ispezionare le remote province. Gli ambasciatori parlano idiomi incomprensibili al Khan, ma nonostante ciò riescono a comunicare le cifre incassate dal fisco, i nomi dei funzionari, le dimensioni dei canali di irrigazione. Vale a dire: a prescindere dalla trasparenza del segno linguistico, c’è una dimensione che oltrepassa la lingua, e cioè il codice dei numeri, del calcolo, del registro, per così dire.

La comunicazione con Marco Polo, invece, si presenta subito come diversa: Marco si esprime con «gesti, salti, grida di meraviglia e di orrore, latrati o chiurli d’animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce»[6]. Per rappresentare ogni città Marco utilizza pantomime che il sovrano ha il compito di interpretare; pantomime che hanno la forza dell’emblema. Quando Marco apprende la lingua dell’imperatore, è finalmente in grado di fornire notizie e informazioni più circostanziate; i dati, però, non prendono significato autonomamente, ma sempre e solo retrospettivamente, grazie agli emblemi che in precedenza avevano contraddistinto le città che ora vengono descritte con parole: «il nuovo dato riceveva un senso da quell’emblema e insieme aggiungeva all’emblema un nuovo senso»[7]. Un senso che la lingua da sola non sembra in grado di restituire: c’è, dunque, uno stadio pre-linguistico in qualche modo superiore, che precede il taglio del linguaggio. In filigrana sembra emergere il fatto che il linguaggio impedisca il senso, che gli è fornito invece dall’emblema, dal gesto, dall’immagine. Un godimento pre-verbale: un ritorno, sembrerebbe ancora, a quella fusionalità tra sé e mondo che è propria dell’esperienza del soggetto prima del linguaggio. “La Cosa”, la chiamerebbe Lacan: quella dimensione mai esperita di cui tutti gli animali linguistici hanno nostalgia.

«Forse l’impero», conclude Kublai al termine di questa seconda cornice, «non è altro che uno zodiaco di fantasmi della mente»[8]. Il Gran Khan chiede a Marco: «Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?»[9]. Il Gran Khan ipotizza, dunque, una conoscenza fantasmatico/emblematica dell’Impero: se ogni emblema è un fantasma della mente, conoscerli tutti può significare possederlo? «Sire, non lo credere: quel giorno sarai tu stesso emblema tra gli emblemi»[10], lo ammonisce Marco. La conoscenza degli emblemi, dei fantasmi è a sua volta un emblema, un fantasma. Non c’è il segno ultimo, direbbe Lacan: allo stesso modo, non c’è un fantasma ultimo che dia un senso definitivo ai fantasmi che viviamo. Non c’è un punto di arrivo: la catena del senso non si chiude. Se, a questo punto del libro, Khan propende per la ricerca della totalità emblematica, potremmo ipotizzare che Khan e Marco rappresentino due istanze di Calvino: la prima che tenta il sapere assoluto; la seconda che naviga tra le perigliose acque della significazione mai definitiva, impossibilitata a diventare assoluta. La prima cerca il godimento: la saturazione dei vuoti, dei sensi sfuggenti; il secondo il desiderio, inteso come movimento perenne, fantasma che non si svela.

Pensiamo alla città di Cloe, appartenente alla serie Le città e gli scambi: in essa le persone che si incrociano realizzano incontri appassionati senza quasi neppure guardarsi, con la sola potenza dell’immaginazione. Conclude Marco: «Se uomini e donne cominciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia di inseguimenti, di finzioni, di malintesi, di urti, di oppressioni, e la giostra delle fantasie si fermerebbe»[11]. Come a dire: senza fantasmi viene meno il desiderio. I fantasmi sono il desiderio: per preservarlo devono restare tali.

C’è anche un’altra città in cui si parla esplicitamente di fantasmi: si tratta di Zobeide (la quinta della serie La città e il desiderio). Zobeide fu costruita a partire da un sogno: i fondatori volevano ricreare la città nella quale avevano sognato di rincorrere una donna nuda. «Nella disposizione delle strade», dice Marco Polo, «ognuno rifece il percorso del suo inseguimento; nel punto in cui aveva perso le tracce della fuggitiva ordinò diversamente che nel sogno gli spazi e le mura in modo che non gli potesse più scappare»[12]. Inutile dire che nessuno vide mai la donna del sogno, giungendo a dimenticarla. I fantasmi funzionano così: alla fine finiscono per lavorare silenziosamente all’interno. Khan desidera un emblema ultimo, un fantasma ultimo che ponga fine alla catena del senso; ma bloccare questa catena vorrebbe dire bloccare il desiderio: il godimento dell’assoluto, ancora, si dà come impossibile.

La terza cornice

La seconda parte del libro si apre con la terza cornice, dove ci imbattiamo in una riflessione di Khan e Marco sul passato. Marco dice di aver compreso che il passato non può essere un dato acquisito una volta per tutte: il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto. Il passato, come il futuro, è un altrove: «L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che ha avuto e non avrà»[13]. Ci si riconosce, quindi, scoprendo quello che non si è: si apprende, ci si apprende per differenza. Ed è un apprendimento che non finisce mai, poiché un presente ha bisogno di diventare a sua volta passato per essere compreso e il passato, a sua volta, non è un possesso definitivo, ma un possesso variabile. Che si tratti di fantasmi, che si tratti di storia e passato, le città invisibili non si fanno afferrare.

La settima cornice

Nella settima cornice il Khan lancia a Marco un’accusa: le sue città «non esistono»[14]. Non esistono per un duplice motivo. Il primo è che non sono in grado di cogliere la marcescenza che corrode l’Impero: a questo Marco risponde che per conoscere il buio bisogna guardare le luci lontane, per misurare l’infelicità bisogna osservare le felicità che sono distanti. Il secondo, specularmente inverso, è che le impressioni di viaggio di Marco si fermano alle «delusive apparenze»[15], non riuscendo in tal modo a cogliere il «disegno perfetto»[16] con il quale sono aggregate le molecole dell’impero e il «processo inarrestabile»[17] secondo il quale prende forma, nel «ribollire degli elementi»[18], il «diamante splendido e durissimo»[19]. Dopo il Niente (la rovina), Khan sembra tendere verso il Tutto (la perfezione): a quella che prima era un’assoluta infelicità ora oppone, improvvisamente, un’assoluta felicità. Siamo nei pressi della città ideale, dell’utopia: l’altro lato, verrebbe da dire, della distopia.

Marco ammonisce per questo Khan: la città che ha pensato è una città che «una e ultima innalza le sue mura senza macchia»[20]. Una città ideale nella quale la felicità precede e pretende di espungere l’infelicità. Nella visione di Marco, invece, l’ideale non è mai prima: è, semmai, dopo. È partendo dalle piccole infelicità che si progetta il diamante; è dalla natura intrinsecamente tragica dell’umano che si possono costruire ipotesi di felicità. Dice Marco al Khan: «Solo se conoscerai il residuo di infelicità che nessuna pietra preziosa arriverà a risarcire, potrai computare l’esatto numero di carati cui il diamante finale deve tendere, e non sballerai i calcoli del tuo progetto dall’inizio»[21]. Il progetto deve, quindi, partire dal dato di realtà: dall’umana imperfezione.

Gli stessi concetti di felicità e infelicità, d’altro canto, non servono per dividere tra loro le città: «è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati»[22]. C’è una duplice declinazione del desiderio in questo passo: una generativa, che ha a che fare con la trasformazione continua, che è vita, nella quale le città danno forma ai desideri, e cambiando queste forme vanno avanti; e una passiva, nella quale i desideri si subiscono, non si soggettivizzano, nella quale i desideri non trovano una forma. È una struttura che fa del desiderio uno strumento di schiavitù.

Avevamo proposto prima di definire “godimento” la tendenza di Khan alla conoscenza totalizzante; siamo di fronte, in questo caso, a un’altra forma di quella che Lacan chiama jouissance: il soggetto, appunto, come la città, è formato dal desiderio, fino a esserne cancellato. Si intrecciano, dunque, in questo complesso e imprendibile libro, il desiderio di Khan di possedere attraverso una conoscenza totalizzante il proprio impero e di cancellare l’infelicità, e le città invisibili che sono risposte a una domanda o a una paura, luoghi in cui al desiderio è stata data una forma, ma anche luoghi in cui il desiderio può farsi prigione, cancellando città e soggetti che le abitano.

Il modello, l’utopia

Nella cornice successiva, l’ottava, il Khan, riprendendo l’accusa lanciata nella precedente a Marco («le tue città non esistono»), decide che d’ora in avanti sarà lui a descrivere le città: sarà compito di Marco verificare la loro esistenza nel corso dei suoi viaggi. Invano, poiché non v’è mai corrispondenza tra l’immaginazione dell’imperatore e la realtà delle cose. Ciò che Khan tenta di fare è partire da un modello su cui effettuare variazioni; un modello che racchiude al suo interno tutto ciò che, secondo Khan, risponde alla norma: poiché le città che esistono si allontanano in vario modo dalla norma, secondo lui basterebbe «prevedere le varie eccezioni alla norma e calcolarne le combinazioni più probabili»[23].

Marco capovolge il ragionamento: la sua città-modello è fatta solo di eccezioni: diminuendo il numero degli elementi abnormi, si accrescono le probabilità che le città ci siano veramente. Un modello, quello del Khan, fatto com’è di tutte le possibili normalità e dal quale costruire città con piccoli scarti, che tende a riportare le differenze all’Uno: un Uno ideale, per l’appunto, che fa delle eccezioni delle fisiologiche e accettabili (quando nei limiti, si intende) manifestazioni di identità (che è, dunque, nient’altro che una riproduzione della norma con qualche scarto). Per Marco, invece, il modello di partenza racchiude tutte le eccezioni: che è come dire che ciascuna città fa delle differenze la propria identità e che i tratti normali non sono altro che il terreno comune che gli appartenenti a una medesima categoria (urbana come umana) condividono. Ogni città, alla fine, non è che un’eccezione: «basta che io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi ordine proceda arriverò a trovarmi davanti una delle città che, pur sempre in via d’eccezione, esistono»[24]. Alla fine della cornice, viene messa in discussione da Marco la categoria stessa di verità che è sottesa al modello di Khan: ciò che è troppo verosimile non è vero. La verità, dunque, è fatta di eccezioni e differenze: sfugge all’ideologia, che stabilisce il verosimile.

La quindicesima cornice

Il lavoro di astrazione di Khan alla ricerca del possesso intellettuale e immaginario delle città del proprio impero prosegue nella quindicesima cornice: paragonando una città a una partita a scacchi, Khan crede che, quando conoscerà perfettamente le regole del gioco, possiederà finalmente il proprio impero, pur non conoscendo in dettaglio ogni città. Il gioco degli scacchi racconta il desiderio di scorporamento di Khan: trovare la forma essenziale che è alla base delle città. Il punto è che alla fine resta il Nulla: «A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato: il nulla…»[25]. Il gioco finisce per sfuggire a Khan, poiché gliene sfuggono le motivazioni. Di certo c’è che il Tutto della conquista definitiva coincide con il Nulla (una riflessione più approfondita sul Tutto e sul Nulla e sulle loro reciproche implicazioni ci viene regalata da Calvino in una cosmicomica delle Cosmicomiche vecchie e nuove, dal titolo Il Niente e il Poco).

Le città che si assomigliano tra loro (come Khan rimprovera a Marco) e la ricerca della legge formale uguale per tutte si ricollegano all’ambizione alla città senza macchia che Marco Polo, come abbiamo visto, rimproverava al Khan. L’utopia non è solo l’assenza di macchia, ma anche la ricerca del modello identico per tutti.

Mi è tornato in mente, a questo punto della rilettura delle Città invisibili, un libro di qualche secolo fa: sto parlando dell’Utopia di Tommaso Moro, pubblicato (in latino) nel 1514. In particolare, mi è venuta in mente la parte seconda, nella quale l’umanista inglese descrive l’isola di Utopia. Le città di quest’isola sono 54: sono «ampie e magnifiche, quasi tutte uguali per lingua, usanze, istituzioni e leggi; identico è anche il piano di tutte e, per quanto consente la posizione, anche l’aspetto»[26]. Nel capitolo dedicato alla capitale, che si chiama Amauroto, Moro così esordisce: «Chi conosce una sola città le conosce tutte, tanto sono interamente simili tra loro, per quel che consente la natura del luogo: perciò ne dipingerò una purchessia, non importa quale»[27]. Descrive dunque Amauroto, disegnata a suo tempo dal fondatore che si chiama, nomen omen, Utòpo. Mentre le 54 città utopiche, che sono in nessun luogo, sono tutte identiche, o quasi, le 55 città invisibili di Calvino sono tutte differenti tra loro. Calvino inserisce Utopia, non a caso, tra le terre promesse (Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Oceana, Tamoé, Armonia, Icaria, New Lanark) contenute nell’atlante del Gran Khan; dove ci sono anche, secondo quel contrasto tra opposti che abbiamo visto prima, anche le città infernali: Enoch, Babilonia, Yahoo. Il Tutto e il Niente. Il Tutto, l’Utopia, è però infernale come il Niente, l’inferno: anzi, alle volte è l’Utopia stessa il vero Inferno, come accade nella città di Bersabea, che «crede virtù ciò che è un cupo invasamento a riempire il vaso vuoto di sé stessa»[28].

La diciassettesima cornice

Nella diciassettesima cornice, l’avventura del desiderio di conoscenza del Khan acquista un carattere nuovo e ulteriore, che in qualche modo rifocalizza tutto ciò che lo ha preceduto. Una sorta di confessione, potremmo dire:

Alle volte mi pare che la tua voce mi giunga da lontano, mentre sono prigioniero d’un presente vistoso e invivibile, in cui tutte le forme di convivenza umana sono giunte a un estremo del loro cielo e non si può immaginare quali nuove forme prenderanno. E ascolto dalla tua voce le ragioni invisibili di cui le città vivevano, e per cui, forse, dopo morte, rivivranno[29].

È la prima volta che nei discorsi del Khan appare l’aggettivo «umana» e, più in generale, l’orizzonte dell’umana convivenza. Sembra quasi che l’Imperatore l’abbia evitata volontariamente, ma che ci sia sempre stata, nel sottotesto, in filigrana. Khan sembra dire a Marco e al lettore: i miei tentativi finora non sono stati che disperate risposte alla decomposizione delle relazioni umane.

Vorrei citare due città. Raissa è una città triste, dove però corre un filo invisibile che «allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra i punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere»[30]. Sono le relazioni tra gli umani, dunque, ciò che meno d’ogni altra cosa è descrivibile dagli ambasciatori del Khan, a far germogliare dall’infelicità la felicità. È nelle crepe di un’infelicità che sembra tetragona che si nascondono tracce di felicità: non è nell’utopia il rimedio.

L’ultima città del libro, aggiungerei non a caso, è Berenice. Se in Raissa si embricavano in modo inestricabile felicità e infelicità, qui si sovrappongono giustizia e ingiustizia. Nella città dei giusti è nascosto il seme dell’ingiustizia: cioè la certezza e l’orgoglio di essere nel giusto, che può portare alla trasformazione di una città giusta in una città ingiusta. È il rischio dell’ideale eretto a sistema, dell’utopia, quindi, e diremmo ancora dell’ideologia: creare una città sulla carta, certa della propria giustizia, non è altro che il primo passo verso la distopia.

Non si dà conoscenza definitiva, ultima; non si danno felicità e giustizia in senso assoluto. Possedere l’umano è progetto fallimentare: nessuna ideologia, forma, modello può farlo. Pertanto, nessun imperatore può possedere le città del proprio impero. La conoscenza del vero, come del giusto, si dà sempre come non definitiva: parte dall’accettazione che nel positivo si annidi il negativo, e viceversa. La città perfetta si dà solo per frammenti, come dice Marco nell’ultima cornice, in cui ‒ lo abbiamo in parte già visto ‒ Khan prima allude a futuri utopici da raggiungere, poi ad approdi infernali senza speranza: questa visione per frammenti è ciò che ci permette di fuggire l’incubo totalitario. Il godimento delle leggi universali e il desiderio delle declinazioni particolari sono in conflitto: le seconde possono impedire l’affermazione delle prime.

Conclusioni

Per concludere il ragionamento, mi sembra utile ricordare un altro Calvino. Amerigo Ormea, protagonista della Giornata di uno scrutatore, portatore di un razionalismo laico e illuminista, fa i conti con tutto ciò che nella realtà non segue pedissequamente le istanze della ragione o dell’ideologia. La sua fidanzata, Lia, è da lui definita «prelogica»[31]; ma nel pensarlo (non avrà il coraggio di dirlo) egli prova una forma di godimento: «e provava un doppio piacere, a riproporsi la sofferenza che gli dava il modo di pensare di Lia, e a esercitare crudelmente su di esso l’aggressione della logica più elementare»[32]. Comprende, a un certo punto, che il desiderio non è cosa autistica (godimento dell’Uno, direbbe Lacan), ma strutturata dalla relazione («il desiderio di desiderio, l’Altro, il Riconoscimento»[33]; in questo passo Calvino cita apertamente Hegel); in una telefonata con Lia, viene ancora messo di fronte a ciò che la ragione non può governare: il corpo («per lei non conta la logica della ragione, ma solo la logica della fisiologia!»)[34]. Nelle righe finali, di fronte a delle donne nane che spingono una carretta di fascine, di fronte quindi all’ultima scena dell’irrimediabile imperfezione del Cottolengo, e di fronte al loro riso collettivo, ha l’epifania che anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua “ora perfetta”: «l’ora, l’attimo in cui in ogni città c’è la Città»[35]. La sua “città invisibile”.

Il desiderio totalizzante dell’ideologia, che abbiamo chiamato “godimento”, cede di fronte ai piccoli momenti di perfezione: gli attimi umani, dove il desiderio si costruisce, nella sua illogicità e nella struttura delle proprie misteriose e non modellizzabili relazioni. E dove, di tanto in tanto, la perfezione si affaccia nell’unica declinazione che possiamo dire umana: nell’attimo del rapporto.

Non esiste la città ideale o dei modelli di città; esistono gli umani che le abitano, e dei momenti di perfezione sfuggente che le loro relazioni sanno costruire; per questo, l’Imperatore che le voglia governare ideologicamente, o possederle nel possesso/godimento di chi vuole imporre loro una sola forma, non potrà che farne un inferno in terra: perché non è imponendo la propria idea di felicità ai governati che li si rende felici, ma trovando nell’infelicità dell’umano i suoi momenti di incomparabile e desiderante felicità. È questa, secondo chi scrive, una delle lezioni di Italo Calvino.

  1. I. Calvino, Le città invisibili, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1993, p. 5.
  2. Ibidem.
  3. Ibidem.
  4. Ibidem.
  5. Ibidem.
  6. Ivi, p. 21.
  7. Ivi, p. 22.
  8. Ibidem.
  9. Ibidem.
  10. Ibidem.
  11. Ivi, p. 52.
  12. Ivi, p. 55.
  13. Ivi, p. 27.
  14. Ivi, p. 59.
  15. Ivi, p. 60.
  16. Ibidem.
  17. Ibidem.
  18. Ibidem.
  19. Ibidem.
  20. Ibidem.
  21. Ibidem.
  22. Ivi, pp. 34-35.
  23. Ivi, p. 69.
  24. Ibidem.
  25. Ivi, p. 123.
  26. T. Moro, L’Utopia, Bari, Laterza, 1993, p. 56.
  27. Ivi, pp. 58-59.
  28. I. Calvino, Le città invisibili, op. cit., p. 112.
  29. Ivi, pp. 137-38.
  30. Ivi, p. 149.
  31. I. Calvino, La giornata di uno scrutatore, in Id., Romanzi e racconti. Volume secondo, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Arnoldo Mondadori Editori, 2004, p. 53.
  32. Ibidem.
  33. Ivi, p. 55.
  34. Ivi, p. 58.
  35. Ivi, p. 78.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)