Le Variazioni Kundera

Author di Lakis Proguidis

Se prendiamo in esame l’insieme degli studi, dei trattati, dei commenti critici e dei saggi dedicati alla letteratura e pubblicati in Europa negli ultimi cinque o sei secoli, è giocoforza constatare che il romanzo non è mai stato considerato, a livello della percezione e dell’analisi estetica, come un’arte indipendente. Ovviamente ho solo una conoscenza parziale del suddetto insieme. E, certo, esistono degli studi che vanno contro lo spirito dominante in questo ambito. Ma il loro impatto è stato e resta sempre insignificante rispetto alla tendenza generale. Tendenza che, cosa sorprendente, si scontra con il buon senso, con il sentimento comune più diffuso: il romanzo è la grande arte dell’Europa moderna, come la tragedia è stata la grande arte dell’antica Atene. A partire da Rabelais e Cervantes, l’albero del romanzo non ha mai smesso di crescere, fiorire e dare i suoi frutti mirabolanti su tutto il suolo europeo e, dalla fine del XIX secolo, sul resto della Terra. Triste constatazione: l’Europa ignora la sua unica “espansione” di cui dovrebbe andare fiera.

Si possono ipotizzare diverse cause per spiegare lo scarto tra riflessione estetica e pratica nell’ambito del romanzo. Ai miei occhi, la causa più semplice, ossia la più umana, è quella del tempo. Se c’è bisogno di tempo, molto tempo direbbe Bachtin, perché un’arte maggiore (la poesia, la pittura ecc.) consolidi il suo terreno, formi il suo nucleo estetico e inauguri la sua storia, quanto altro ne serve perché l’animo colga e concettualizzi la portata artistica e le ripercussioni sull’immaginario della suddetta arte! Cinque, sei secoli? Sì, nulla di sorprendente. La riflessione e il pensiero estetico non riescono a sconvolgere tanto velocemente i gusti e le abitudini. Tanto più che, trattandosi del romanzo, la novità estetica non consiste in una semplice innovazione formale. Con l’arrivo del romanzo ciò che cambia è il nostro regime estetico: passiamo dal regime estetico mimetico (da mimesis), ossia dal regime che ha prevalso per tutte le arti durante l’Antichità greco-latina e durante il Medioevo, dal regime che ha formato le preferenze artistiche di vaste popolazioni per ventidue o ventitré secoli, al regime romanzesco[1].

Questa mancanza per l’arte del romanzo di approcci teorici ad essa confacenti, a parte, ripeto, qualche brillante eccezione, come ad esempio tra le più recenti Le vite del romanzo[2] di Thomas Pavel, avrebbe potuto perpetuarsi all’infinito, se l’arte non si fosse incaricata da sola di ristabilire l’ordine. L’arte o l’artista; è lo stesso. Verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso dalla confraternita dei grandi romanzieri si è levata una voce, quella di Milan Kundera, per sostenere che bisognava smetterla di sottovalutare l’arte che ha plasmato quasi da sola l’uomo dei Tempi moderni. Kundera non è stato né il primo né l’unico romanziere ad aver compreso ed espresso il valore insostituibile della sua arte.

Tutti i grandi romanzieri hanno sottolineato, in una maniera o in un’altra, la singolarità estetica delle loro opere letterarie. Kundera ha fatto qualcosa in più. In un momento storico in cui la diffidenza verso il romanzo, incrementata dalla carenza cronica di difese della sua autonomia estetica, cominciava a insediarsi con effetti durevoli nelle menti dei critici come degli scrittori, la voce di Kundera è risuonata come il segno di una riscossa salutare. Kundera non si è accontentato di difendere la propria arte. La sua intera opera incarna e illustra la ragion d’essere di questa arte. Ci ritornerò.

La lotta proromanzesca di Kundera, lotta condotta su più fronti (creazione, riflessione, commenti critici, insegnamento e vari interventi pubblici), ha contribuito a scalfire in un qualsiasi modo l’indifferenza della gente verso l’estetica del romanzo? Per niente affatto. I docenti universitari continuano a tenere i loro corsi sui testi letterari, i critici a ruminare dei cliché sulla scrittura e gli editori a pubblicare romanzi a palate. Possibile? È certo possibile ignorare delle voci solitarie che hanno scarsa influenza al di fuori della cerchia dei pochi che condividono i loro interessi; ma Kundera è tradotto in quasi tutte le lingue del mondo e la sua opera è presente nella sua totalità in una trentina di paesi. È possibile che la sua voce resti inascoltata? Certo. Per forza. Le orecchie sono allenate a captare esclusivamente i richiami a questioni molto più importanti, a quanto sembra, rispetto alla sorte dell’arte del romanzo.

Il motivo per il quale la voce di Kundera è rimasta inascoltata è che è stata emessa in un’epoca di estrema politicizzazione. Politicizzazione che continua ai nostri giorni a soggiogare le menti – come l’immaginario – a un livello ancora più catastrofico di quello che ha sperimentato Kundera durante gli anni della sua formazione artistica, ossia gli anni Cinquanta e Sessanta (non confondiamo politicizzazione e vita politica: stricto sensu, troviamo la politicizzazione dove non c’è vita politica). Kundera ha avvertito molto presto il pericolo. Potremmo dire da dentro. Questo perché la sua giovinezza e i suoi primi passi come scrittore sono stati segnati, come per tutti a quel tempo, dalla sua obbedienza entusiastica ai diktat dell’homo politicus. Ma, da quando ha messo piede sul territorio stabile del romanzo, da quando ha preso coscienza della sua vena artistica, a partire, diciamo, dalla pubblicazione dello Scherzo nel 1967, non ha mai smesso di rivendicare il primato del suo lavoro di romanziere su tutto il resto: patria, nazione, partito politico; investimenti ideologici, sociali, geopolitici; dissensi ecc. Un romanziere atipico, tuttavia: una delle sue prime opere è stata un saggio letterario, L’arte del romanzo, incentrato su Vladislav Vancura e pubblicato nel 1953[3]. Mi sembra difficile trovare un altro romanziere del calibro di Kundera che abbia avviato la sua carriera con una riflessione approfondita sulla sua arte.

Fatica sprecata. Nonostante Kundera non perdesse occasione di mettere i puntini sulle i riguardo a ciò che lo interessava, nonostante i suoi ripetuti sforzi per attirare l’attenzione dei critici, dei giornalisti e del pubblico verso le sue preoccupazioni estetiche, il demone della politicizzazione arrivava sempre con una battuta d’anticipo. Quarant’anni di malintesi! Quarant’anni di chiarimenti inutili. Alla fine Kundera ha preferito chiudersi nel silenzio. Senza, tuttavia, aver prima di tutto garantito la perennità del suo apporto all’eredità di Cervantes.

Œuvre (Opera [N.d.T.]) è il titolo che Kundera ha scelto per le sue opere riunite in due volumi della Pléiade[4]. Pubblicate a cura di François Ricard nel 2011, sono state ripubblicate nel 2016 al fine di includere La festa dell’insignificanza, uscito nel 2014. La Pléiade “Kundera” include la sua raccolta di racconti, i suoi dieci romanzi, una delle sue pièce di teatro, i suoi quattro saggi, e la prefazione e la «Biografia dell’opera» redatte da François Ricard. Così, esiste in Francia, e solo in Francia, il corpus kunderiano come l’autore lo ha voluto alla fine della sua carriera. Da questo insieme sono deliberatamente esclusi tutti i suoi scritti d’occasione di interesse culturale, storico o politico, così come alcune delle sue opere letterarie. È allora questo corpus che deve studiare chi voglia comprendere il particolare apporto di Kundera all’arte del romanzo. E questo basta e avanza. Per la semplice ragione che, se tra gli scritti scartati da Oeuvre ci fosse qualcosa di importante per l’arte del romanzo, sul fronte della creazione o della riflessione, Kundera sarebbe il più idoneo a saperlo (ho avuto la fortuna di seguire per tutta la sua durata il seminario sui grandi romanzieri centroeuropei che Kundera ha svolto all’École des Hautes Études en Sciences Sociales dal 1981 al 1994: tutto ciò che Kundera ha detto di essenziale nei suoi corsi è stato rielaborato e ripreso nei suoi quattro saggi).

È stupefacente constatare l’indifferenza, se non proprio la diffidenza, espressa dal mondo letterario francese – una volta placato il brusio mediatico –, verso la decisione presa da Kundera di separare i suoi scritti validi da quelli non validi. Una decisione che ha imposto, questo va considerato, contro una tradizione editoriale che ha sempre voluto che i glossatori si vendicassero degli autori illustri. Ciò che conta, lo ripeto, è che Oeuvre esiste. E ciò che colpisce immediatamente è la parola. Perché Oeuvre, al singolare, e non “Opere scelte” o “Opere complete”? Perché la parola è rivelatrice della “forma” che Kundera ha scelto al fine di preservare il suo contributo personale alla storia e all’estetica del romanzo.

Oeuvre è una trilogia a due autori preceduta da una prefazione in cui François Ricard presenta l’opera. Il primo «libro» contiene, nell’ordine cronologico, Amori ridicoli, i dieci romanzi e il dramma teatrale che, sebbene scritto nel 1972, è collocato alla fine. Il secondo «libro» contiene i quattro saggi. Il terzo «libro» è la «Biografia dell’opera» di François Ricard. Questo «libro» concepito e scritto da una terza persona è destinato – che non se ne abbiano a male i biofili del mondo intero – a spostare il centro dell’interesse dalla vita dell’autore alla sua creazione. Tuttavia, in questo terzo libro di Oeuvre nulla è scartato. Tutto ciò che è stato significativo nella vita di Kundera è scrupolosamente menzionato, datato e commentato nel suo contesto storico, politico e culturale: opere letterarie, pubblicazioni di ogni genere, interventi pubblici e dati biografici importanti. Il tutto redatto nella prospettiva di far apparire più chiaramente possibile la costruzione di Oeuvre, libro dopo libro, nel corso del tempo.

Chiaramente François Ricard non è un terzo neutro. Suppongo che Kundera lo abbia scelto perché, fra tutti i critici, Ricard è stato quello che ha meglio compreso e formulato il pericolo della politicizzazione che correvano le sue opere. Aggiungiamo che, oltre ai dettagli sulla pubblicazione successiva degli scritti di Kundera (senza distinzione tra libri e articoli importanti), Ricard si è preoccupato di far seguire le informazioni di carattere editoriale dall’eco che questi scritti hanno suscitato presso la critica e i media. Il bilancio globale? Accoglienza, a parte qualche eccezione, sempre entusiastica ma per delle ragioni che sono in rapporto con la doxa geopolitica, con i temi prediletti dei giornalisti, o con entrambi nello stesso momento. Così, grazie al «libro» di Ricard ci è permesso conoscere tutti gli scritti di Kundera, le condizioni della loro produzione come della loro ricezione. Kundera non ha nascosto o negato nulla. Ma, dal magma costituito dai suoi tentativi artistici, i suoi impegni politici, i suoi gusti, le sue letture e i suoi successi inframmezzati ai diversi episodi della sua vita personale come li ha riportati François Ricard rispettando la cronologia, Kundera è riuscito a estrarre in Oeuvre ciò che a suo giudizio doveva essere recepito dai posteri.

Ritorno alla mia idea che l’intera opera di Kundera incarna e illustra la ragion d’essere dell’arte del romanzo. E rettifico: non l’“intera opera” ma Oeuvre. È grazie a Oeuvre che il progetto proromanzesco di Kundera si svela in tutta la sua chiarezza e in tutta la sua coerenza. Perché è in Oeuvre e da nessun’altra parte che si concretizza in maniera vistosa il connubio, cercato fino all’ossessione, intensamente desiderato da Kundera, tra il sensibile e il cognitivo, tra lo slancio creatore e la concettualizzazione, tra la forma artistica (infinitamente variabile) e l’intelletto (che dipende sempre da certi parametri del pensiero). Non si tratta solo dell’abitudine ben nota di Kundera di integrare nei suoi romanzi delle parti saggistiche: questa non è che la punta dell’iceberg. In Oeuvre, per ciò che concerne il suo “ideale” artistico, ci troviamo dinanzi a qualcosa di molto più significativo delle sue trovate formali per così dire secondarie. Questa coabitazione, questa giustapposizione di due forme letterarie nello stesso libro, romanzo e saggio, attesta il fatto che Kundera non può concepire la sua creazione artistica staccandola dalla sua riflessione sull’arte in generale e sul romanzo in particolare e, di contro, che egli non vorrebbe che le sue riflessioni fossero dissociate dalle sue conquiste nel campo dell’arte. Ciò ci autorizza a immaginare che per Kundera il sensibile è solo un’altra forma del cognitivo, una metamorfosi, una variante e viceversa. Certo che le due forme non sono omologhe. Per passare dal cognitivo al sensibile, serve un enzima: il personaggio romanzesco. Eppure l’edificio è uno. La composizione è una. Oeuvre abbraccia con la stessa forza «romanzo» e «saggio». Questo può aiutarci a comprendere la particolare estetica di Kundera e il legame di questa estetica con il senso del romanzo.

Penso di non sorprendere nessuno se affermo che in Kundera l’ispirazione è cerebrale. Nessun’accezione peggiorativa in questo giudizio. Voglio dire che i personaggi romanzeschi kunderiani (delle «cavie», come li chiama) eseguono delle partiture (dei «temi», afferma) stabiliti in anticipo. Ciò che è miracoloso è che la loro esecuzione non è affatto cerebrale. È romanzesca dall’inizio alla fine. Si svolge tutto come se toccasse a loro provare che, una volta deposti sul terreno di sperimentazione voluto dal loro maestro, possano evolvere in un modo imprevedibile. E ci riescono a livelli magistrali. Nel senso che cominciano a vivere in noi a lungo. Si avvinghiano alla nostra esistenza con un’incredibile forza.

Prendiamo, ad esempio, il «kitsch», tema che percorre quasi tutti i romanzi di Kundera. Dopo la lettura, abbiamo imparato qualcosa di nuovo sulla sua natura? Sul piano del sapere, niente. Sul piano dell’esistenza, sì: il kitsch è intimamente legato al nostro desiderio, umano, troppo umano, di fonderci con il mondo per quel che appare. È un bene? È un male? Kundera non giudica. Conduce degli esperimenti. È facile verificare, romanzo dopo romanzo, che, nel territorio dell’esistenza, tutte le variazioni sono valide. Anche il saggio è un esperimento. Ma un esperimento senza le cavie. In Kundera “romanzo” e “saggio” si succedono come le due facce di un nastro di Möbius. O, per dirlo in altri termini, in Kundera “esistenza” e “pensiero” sono intrinsecamente legati. E allora? In cosa questa asserzione di stampo filosofico potrebbe interessare noi, lettori di romanzi?

Un’ipotesi di studio attraversa come un filo conduttore l’insieme dell’opera di Kundera (romanzesca e saggistica). Che il nostro mondo è, adoperando le sue parole, il mondo dei paradossi terminali, ossia il mondo in cui tutti i nostri valori di un tempo si rovesciano e diventano il contrario di ciò che erano. E cosa dicono le sue cavie di questo assurdo sconvolgimento? Niente. Continuano a vivere, ciascuno più o meno soddisfatto del suo accecamento, della sua ignoranza. È un bene? È un male? Non è questo il punto. In compenso, lo sperimentatore ha ancora una volta il piacere di verificare in concreto lo straordinario rigoglio esistenziale dinanzi a delle situazioni che a una prima impressione si potrebbe giudicare opprimenti.

In quest’ottica, si direbbe che Kundera non nutra altre ambizioni oltre a quella di decostruire i propri giudizi sul mondo. Potrebbe essere così, se l’autore dello Scherzo privilegiasse il ludico per il ludico con cui si dilettano gli scrittori definiti postmoderni. E forse sarebbe vero, se le amare constatazioni dell’autore dei Testamenti traditi perdessero la loro parte di verità dopo questi tentativi. No, Kundera non oppone l’esistenza al sapere. Non è la dialettica dell’esistenza e del pensiero a interessarlo. Non è alla ricerca di soluzioni. Non coltiva né lo spirito della negazione né lo spirito della resistenza. Si accontenta di accumulare le variazioni esistenziali delle sue cavie – senza offrire il minimo giudizio morale.

Qual è il senso di questa accumulazione delle diverse opzioni esistenziali? Perché Kundera insiste a immaginare delle varianti umane a partire da soggetti sui quali non si è mai smesso di ragionare – il riso, l’ignoranza, il lirismo ecc.? Qual è il significato della sua estetica della variazione? Prima di tentare una risposta, mi sembra necessario ricordare il profondo attaccamento di Kundera alla modernità, a questa esplosione artistica e culturale di carattere paneuropeo che, dopo aver debuttato prima della fine del XIX secolo, è durata fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Più che a ogni altra cosa è alla modernità che Kundera deve l’essenziale della sua sensibilità d’artista e dei suoi gusti rispetto alle altre arti. E ricordiamo anche che Kundera è stato uno dei protagonisti della Primavera di Praga (1960-1968), di quell’effervescenza creatrice in tutti i campi dell’arte e del sapere che, per la sua estensione e la sua varietà, resta ancora unica nel mondo del dopoguerra. Che si guardi, allora, verso le fonti della sua ispirazione o verso la sua attività pubblica, ciò che colpisce e che motiva Kundera è la novità. Non la novità per la novità. Ma la novità di sempre. Come quella di Rabelais e di Cervantes, ai quali Kundera ritorna a più riprese nella sua opera. La modernità di Kundera è quella di un uomo rinascimentale e di uno spirito umanista (nel principale senso della parola, quello del ritorno alle origini). La sua estetica della variazione non è un capriccio individuale. È il frutto di un felice matrimonio tra una predisposizione innata, intima, a non accontentarsi della doxa e un gaio sapere che abbraccia le conoscenze e le esperienze artistiche più variegate e lontane nel tempo e nello spazio.

Ritorno alla domanda: perché tutte queste variazioni esistenziali? Soffermiamoci sulla parola “esistenza”. Supponiamo che si tratti di un valore a cui teniamo e ammettiamo che Kundera abbia ragione, quando afferma che viviamo nel mondo in cui tutti i nostri valori volgono nel loro contrario. Qual è il contrario dell’esistenza? La morte? No, la morte è il contrario della vita. Il contrario dell’esistenza, dell’esistenza suscettibile secondo Kundera di variare indefinitamente, è l’evoluzione. Dal Petit Robert, «Evoluzione: seguito di trasformazioni nello stesso senso». Sì, il contrario dell’esistenza che viene fuori dal laboratorio di Kundera è la credenza che le cose evolvano «nello stesso senso».

E il contrario dell’evoluzione? Cosa avrebbe potuto essere il contrario del valore supremo della nostra civilizzazione, del valore strutturale della civilizzazione prodotta dai Tempi moderni (all’inizio del XVI secolo)? Ai suoi inizi, l’evoluzione non suscitava molto entusiasmo. Ma, secolo dopo secolo, non ha smesso di rafforzare la sua presa sull’immaginazione e sul pensiero fino al punto di diventare ai nostri giorni il valore assoluto, il valore al quale devono adeguarsi tutti gli altri. Questo valore di riferimento, “procustiano”, non può essere né sostituito né rovesciato. Il suo contrario? Nessuno osa immaginarlo. Giacché nessuno osa immaginare che ne sarebbe del mondo, una volta perduto il suo fondamento. È il nulla? Forse. In ogni caso, per ora, e che se ne pensi dello stato catastrofico delle nostre società, l’evoluzione resiste, «nello stesso senso». Il che contraddice la concezione kunderiana del possibile rovesciamento di tutti i valori. La concezione sì, ma non la sua arte.

Direi anche che la sua arte rappresenta il contrappunto della fase più recente dell’evoluzione, vale a dire l’impegno a tutto spiano di separare il cognitivo e il sensibile e, infine, di sottomettere tutto al potere dell’intelligenza (il punto in cui siamo adesso). Certo, l’evoluzione proseguirà il suo cammino, imperturbabile, fedele al dogma che la anima dal principio, al dogma che vuole che in ciò che concerne la vita non tutte le varianti si equivalgono. Valgono solo le vite che, sottoposte all’una o all’altra trasformazione, proseguono «nello stesso senso». Altrimenti? Altrimenti escono dal sentiero tracciato. Un fossato invalicabile separa questo dogma evoluzionista dall’universo romanzesco-saggistico di Kundera. Secondo il concetto dell’evoluzione, concetto a priori emancipato dal dato sensibile, per mantenere la rotta dello «stesso senso» bisogna procedere per eliminazioni successive. Ma, stando agli esperimenti kunderiani, nessuna vita umana va nello «stesso senso». Una volta trasposta nell’evoluzione concretamente vissuta di una situazione umana, la vita non può mai restare «nello stesso senso». Nelle sperimentazioni kunderiane tutte le varianti della vita hanno il loro posto, a tutte si deve rispetto.

L’evoluzione, mi si ribatterà, non figura tra i temi cari a Kundera. Certo che no. Ma l’evoluzione è il tema di fondo di tutta la sua arte e di tutto il suo pensiero. È il tema portante, il tema di cui non percepiamo l’esistenza se non attraverso le sue variazioni. È lo sfondo che conta. E questo sfondo resta sempre lo stesso: sfuggire allo «stesso senso». Sfuggire al kitsch che Kundera considera come «l’accordo categorico con l’essere», ossia con l’essere che evolve sempre nello stesso senso.

Tutte le arti devono la loro esistenza alla misteriosa unione del sensibile e del cognitivo. Ma nessuna arte è stata predisposta per affrontare il pericolo della loro separazione e ancora meno per esaminare la subordinazione del sensibile al cognitivo. Sono i Tempi moderni che hanno aperto la porta a questo pericolo. E sono i Tempi moderni che hanno visto nascere, come una nuova sensibilità, come un campo di riflessione da coltivare a parte, come una prospettiva umana diversa da quella dell’evoluzione, l’arte del romanzo e la sua materia prima: l’esistenza. Perché l’esistenza? Perché esistenza uguale coesistenza. È la vita che è isolabile, analizzabile e decifrabile, non l’esistenza. L’esistenza risuona sempre in un’altra esistenza. Il “tutto cognitivo” si accontenta della vita nuda, del vivente. Non l’esistenza, che resta sempre aperta all’affettività di un’altra esistenza. È nello spazio interumano che risiede l’unione del cognitivo e del sensibile. Perpetualmente in conflitto e perpetualmente inseparabili. Gli umani non vivono, coesistono. È questa tutta la verità del romanzo. L’evoluzionismo nel nome della vita ha rovinato ciò che c’è oltre – l’anima, il bello, i piaceri della vita – e si appresta a ridurre l’umano a un ammasso di ingranaggi. Il romanzo ha scommesso, dalla sua prima apparizione, sul lato inesauribile dell’esistenza. Kundera non ha fatto che riscoprire e reincarnare la ragion d’essere della sua arte, come l’hanno voluta e praticata i suoi fondatori. Con una differenza: per la storia del romanzo, ci sarà certamente un prima e un dopo Kundera. Giacché è Kundera che ha messo in luce l’anima stessa del romanzo, il suo nucleo estetico, ossia il fatto che l’evoluzione non esaurirà mai l’esistenza.

Mi immagino la soddisfazione dell’autore presentandoci la sua Opera. Si tratta insieme di una scoperta (di uno svelamento) e di un ritorno alle fonti della sua arte. Una scoperta rispetto a ciò che si annida nelle viscere del nostro mondo. E un ritorno, dato che, a conti fatti, Oeuvre non è altro che una variante delle opere polifoniche di Rabelais e di Cervantes[5].

  1. Sulla nozione di regime estetico come sul passaggio dal regime mimetico a quello del romanzo mi permetto di rinviare il lettore al mio saggio I misteri del romanzo. Da Kundera a Rabelais (Rabelais. Que le roman commence !, 2016), a cura di S. Carretta, Milano-Udine, Mimesis, 2021.
  2. T. PAVEL, Le vite del romanzo. Una storia (Lives of Novel. A History, 2013), trad. it. di D. Biagi, a cura di C. Tirinanzi de Medici, M. Rizzante, Milano-Udine, Mimesis, 2015.
  3. Si tratta di una versione precedente del saggio da cui è tratta la traduzione italiana disponibile per Adelphi, trasformato da Kundera in una riflessione sulla propria opera [N.d.T.].
  4. Il riferimento è alla collana editoriale francese edita da Gallimard che raccoglie i nomi consacrati della letteratura. Kundera è stato il primo autore vivente ad esservi stato incluso [N.d.T.].
  5. Traduzione dal francese di Simona Carretta.

(fasc. 48, 11 luglio 2023)