Pomilio, Petrarca e l'”humanitas”

Author di Cecilia Gibellini

Ragioni di un recupero

Il presente contributo prende le mosse dal recupero di uno studio giovanile di Mario Pomilio su Petrarca, rimasto inedito per oltre sessant’anni e pubblicato a mia cura, nel 2016, per Studium[1]. Le ragioni di interesse di questo recupero, alla luce anche dei nuovi apporti della critica su Pomilio, addensatisi negli ultimi anni e in particolare in corrispondenza del centenario della nascita dell’autore, sono più di una. Innanzitutto si tratta dell’opera di uno dei maggiori narratori del Novecento italiano, che fu anche figura luminosa di intellettuale dall’“impegno totale”; ma gli studi petrarcheschi di Pomilio meritano considerazione anche in sé, per l’originale interpretazione del pensiero estetico di Petrarca e per il metodo seguìto dal giovane studioso, che fonda l’intero discorso su concreti riscontri testuali da cui riesce a far lievitare una sintesi critica di ampio respiro. Soprattutto, questo studio petrarchesco ruota intorno al riconoscimento del valore conoscitivo della poesia, della capacità del poeta di cogliere la verità e di dialogare spiritualmente con il lettore, idee che hanno favorito la conversione di Pomilio dall’attività di studioso a quella di narratore animato da una forte tensione etico-conoscitiva. Egli non mancherà di mettere a frutto l’esperienza di lettura e interpretazione dei documenti del passato nei suoi romanzi misti di storia e invenzione, come Il quinto evangelio e Il Natale del 1833. Insomma, dal cimento con Petrarca Pomilio esce forse sconfitto come accademico, ma nasce a se stesso, riconoscendo la propria vocazione di scrittore.

Pomilio tra Bruxelles e Parigi

Passato da Orsogna, in Abruzzo, dove era nato nel 1921, a Lanciano e ad Avezzano, Pomilio era stato ammesso, dopo il Liceo classico, alla Scuola Normale Superiore come studente di lettere dell’ateneo pisano. Interrotti gli studi per il servizio militare, aveva partecipato dopo l’8 settembre al movimento resistenziale, nelle file del Partito d’Azione, continuando a dedicarsi alla politica, con i socialisti, fino al 1948: dopo la sconfitta del Fronte Popolare interruppe infatti la militanza civile, pur rimanendo fedele agli ideali di un socialismo umanitario sempre più coniugato con le ritornanti «certezze cristiane»[2]. Laureatosi a Pisa nel 1945, discutendo con Giovanni Macchia una tesi sulla narrativa di Pirandello, ed entrato presto nella scuola, si era trasferito nel 1949 a Napoli come insegnante di lettere nei licei.

Nel 1950, alla soglia dei trent’anni, ottenne delle borse di perfezionamento che lo portarono a Bruxelles e poi a Parigi, oltre che nelle biblioteche di Gand, Liegi e Lovanio. Fu in quegli anni che, come si ricava dalle lettere scritte a Dora Caiola, sua fidanzata e dal settembre 1951 sua moglie, progettò uno studio sull’estetica platonica in Francia del quale restano materiali tra le sue carte, e avviò in parallelo, o forse come trasformazione del primitivo disegno, una massiccia ricerca intorno all’estetica di Petrarca, all’interno di un più ambizioso progetto, irrealizzato, sulla nozione del furor ispirativo e sulla poetica dell’entusiasmo dal Medioevo all’età moderna[3].

Tornato a Napoli nel ’52, riprese l’insegnamento di lettere nei licei e poi quello di poetica e drammatica nel Conservatorio di San Pietro a Maiella, abbandonando progressivamente l’intenzione di mantenere qualche contatto con l’università partenopea. Venne così maturando «la sua crisi di uomo di studio, che, negli anni della letteratura come “documento”, del “realismo socialista”, nel ristagno socio-politico del momento storico, è in cerca di una personale soluzione umana e artistica, che non può appagarsi nella sola letteratura di ricerca, ma ha bisogno di un suo naturale sbocco creativo»[4]. Abbandonate le ricerche accademiche, Pomilio si applicò a un’attività pure volta a traguardi conoscitivi e spirituali, tanto attraverso la scrittura narrativa quanto attraverso la riflessione sulle opere altrui, funzionale anche all’elaborazione di una propria estetica, da lui sentita come una stringente necessità. Agli studi saggistici in senso lato, dei quali raccolse i risultati in Contestazioni (1967) e Scritti cristiani (1979), affiancò in varie sedi studi specificamente letterari la cui sezione più rilevante, quella sugli autori dell’ultimo Ottocento, è stata meritoriamente riunita in un volume uscito nel 2017[5].

L’autografo

La ricerca sulla poetica di Petrarca, robusta seppure mai completata, venne affidata a una serie di manoscritti, ora conservati nel Fondo Pomilio al Centro manoscritti dell’Università di Pavia. Prima del passaggio a Pavia, Dora, la moglie di Pomilio, trasse dai manoscritti delle fotocopie, che riunì in sei fascicoli cui appose numeri romani progressivi, non si sa se prima o dopo la morte del marito; nel Fondo pavese gli autografi sono riuniti e disposti in altro modo. Nell’edizione del 2016, dopo aver valutato varie ipotesi di ordinamento, ho deciso di rispettare la successione del testo come si presenta in quei plichi, dal momento che potrebbe essere stata suggerita dall’autore. Questi i titoli dei saggi, che per comodità possiamo chiamare capitoli:

I. Le prime enunciazioni del principio dell’allegoria. La formula dell’Orazione del Campidoglio.

II. L’idea della renovatio: il Petrarca e l’antichità classica.

III. L’umanità della poesia.

IV. Poesia e sapienza.

V. La Pro Archia, l’ingenium e il furor.

VI. La nuova estetica dell’Africa.

La diversa disposizione della materia nei tanti schemi tematici lasciati da Pomilio, che prevedono anche la trattazione di temi non sviluppati nelle pagine a noi pervenute, rende evidente che il saggio configurato nei sei faldoni ha una forma provvisoria e una struttura in divenire. Ad esempio, il sesto capitolo (La nuova estetica dell’Africa), quello di maggiore entità materiale, differisce fortemente dagli altri nell’aspetto, perché rimasto a uno stadio di elaborazione più arretrato, e si conclude, nell’ultima carta, con una serie di appunti disordinati che sembrano preludere a una continuazione non realizzata (o a noi non pervenuta).

Per il resto, le singole parti del saggio si presentano come unità in sé compiute e ben collegabili l’una all’altra, anche se non necessariamente nella sequenza proposta nel volume. Due immagini possono calzare a quest’opera e alla sua struttura: quella dei pannelli di un polittico ancora da comporre, che sarebbero combinabili in disegni diversi e comunque sensati; e quella di un edificio esagonale al quale si può accedere da uno qualunque dei sei ingressi, senza che il risultato complessivo della visita sia compromesso. Sicché si addice perfettamente al tragitto mentale dell’autore quanto egli scrive di Petrarca, che non procede linearmente, ma intrecciando e ampliando via via i suoi nuclei problematici e concettuali:

I motivi del Petrarca si inseriscono sempre l’uno nell’altro, s’addizionano l’uno all’altro in un processo assai vario, e il voler dedurre, da esigenze isolate, tutt’intero un sistema, porterebbe a falsare interamente il significato del suo pensiero: il quale procedeva piuttosto per via di addizioni successive e, poco preoccupato di riordinare e sistemare quanto era già acquisito […], si veniva piuttosto, man mano che gli orizzonti e gli interessi culturali si allargavano, appropriando di nuovi temi e scopriva nuovi campi di ricerca per entro il mondo culturale nel quale si muoveva[6].

Ogni tentativo di esporre schematicamente il pensiero di Petrarca, constata Pomilio, urta contro la difficoltà di armonizzare quanto resta «apparentemente contraddittorio», che «si spiega soltanto tenendo presente la doppia tradizione, quella classica e quella patristica, che in lui confluisce e tenta di fondersi». E conclude:

Tuttavia com’è possibile ritrovare presso di lui un problema dominante, quello della giustificazione della poesia, e un tono predominante, quello polemico, così è possibile isolare alcuni motivi fondamentali, sui quali e attorno ai quali il suo edificio si costruisce[7].

Sono affermazioni che illustrano alla perfezione l’accessus ad auctorem praticato da Pomilio, e mostrano come la struttura costitutivamente aperta del suo saggio fosse strettamente legata, quasi determinata, dallo sfuggente oggetto da lui trattato.

La tesi: Petrarca profeta dell’umanesimo cristiano

Se la struttura del saggio è fluida, la prospettiva è solida: proviamo a sintetizzarne la tesi, nei suoi principali elementi di originalità. Riunendo le disiecta membra depositate da Petrarca negli scritti latini, Pomilio ricostruisce la sua idea di poesia che, a dispetto dell’apparente affinità con l’estetica medievale, gli fa compiere un passo pionieristico in direzione dell’umanesimo. I cenni contenuti nel saggio all’eredità lasciata a Boccaccio, agli umanisti, alla cultura rinascimentale e al nuovo programma elaborato in quella stagione sono importanti quanto le precisazioni sui rischi di confondere gli elementi di modernità di Petrarca con tratti della sensibilità moderna a lui estranei. Pomilio sottolinea che un elemento determinante del suo rinnovamento teoretico è rappresentato dalla presa di distanza dall’allegoresi medievale, anche dantesca, fino ad allora egemone, dall’idea del polisenso allegorico e dalla contrapposizione dell’allegoria in factis dei testi sacri a quella in verbis dei testi poetici, relegati su un gradino più basso. Petrarca riscatta l’allegoria verbale e la metafora, intese come velamen che aiuta a intravedere la verità e anzi a evidenziarla sensibilmente: di conseguenza, esse non si riducono a espedienti della retorica, intesa tradizionalmente come ars pragmatica, ma diventano consustanziali alla poesia, concepita nel senso più nobile di ricerca di verità e ascesi sapienziale. Per maturare questa idea, osserva Pomilio, Petrarca risale alla patristica, in particolare a Lattanzio e a Macrobio, che lo aiutano a svincolarsi dall’allegorismo tardo-medievale e a recuperare, sdoganandole, le fonti classiche del suo pensiero, tra le quali spicca Cicerone. Pomilio non trascura gli scritti polemici di Petrarca, le Invective contra medicum, l’epistola metrica contro Zoilo e quella al cardinal Bernardo, tappe di una consolidata consapevolezza dell’alto seggio in cui l’autore poneva la letteratura, non più subordinata al sapere scientifico né ancella di valori estrinseci. E non dimentica l’impegno creativo e riflessivo dell’Africa, che rappresenta, se non il culmine, un traguardo importante del tragitto petrarchesco.

Se la renovatio della lezione classica consente a Petrarca di prendere le distanze dalle idee circolanti, la visione cristiana gli serve anche a far lievitare l’ansia di immortalità, che negli antichi si manifestava soprattutto nella speranza di ottenere la fama imperitura grazie alla bellezza artistica che consacra la virtù. Evocando le figure di Orfeo e di Omero, fondative di miti di secolare durata, Pomilio fa di Petrarca l’alfiere di un riscatto del patrimonio classico e della mitologia, attraverso la distinzione delle fabulae insensate dalle finzioni sapienziali, recuperando la figura originaria del poeta come vate o profeta, che apre la strada, per intenderci, alla linea Vico-Foscolo. La visione cristiana integra e arricchisce quella classica, sostituendo la laurea sempreverde della gloria poetica, oggetto precipuo dei testi petrarcheschi per l’incoronazione in Campidoglio, con la gloria celeste, che supera pure la caduca Fama post mortem, erosa dal Tempo (e di qui l’intenzione di Pomilio, non realizzata ma testimoniata dagli appunti, di lavorare sui Trionfi). Ma Petrarca, osserva Pomilio, non manca di enucleare e potenziare la convinzione che una componente divina sia insita già nella concezione ciceroniana dell’ispirazione poetica. In questo modo egli inscrive Petrarca nella linea di umanesimo cristiano che vedeva nell’eredità classica l’altro Antico Testamento, l’altro preannuncio di verità che avrebbe raggiunto la pienezza del senso con il messaggio evangelico. Pomilio dedica varie pagine al tema del furor ispirativo, serpeggiante nell’estetica antica e destinato a fluire carsicamente fino all’età romantica. Acquistano allora un rilevo particolare la valorizzazione dell’ingenium nel senso etimologico, innatistico, e la conseguente svalutazione della poetica dell’artificio, della techne fondata su una retorica scorrettamente intesa come disciplina pratica.

L’idea della poesia come humanitas, espressione di una verità che abita agostinianamente in interiore homine e testimonia quanto di divino c’è nell’uomo, rappresenta dunque il nucleo gravitazionale del saggio pomiliano, racchiuso nel quarto capitolo, intitolato Poesia e sapienza, centrale anche nella collocazione, cerniera tra il versante dei precedenti, prevalentemente orientati sulle auctoritates cristiane, e quello dei successivi, giocati sul confronto con le poetiche classiche. Lungi dal configurare un passaggio rettilineo dal polo medievale a quello umanistico e dall’universo cristiano a quello classico, Pomilio insiste sulla dialettica dei due scenari mentali: il progressivo distacco dall’allegoria non sfocia nel rifiuto delle istanze etiche a vantaggio di quelle estetiche, ma comporta una conciliazione tra la poesia concepita come gloria dalla cultura classica e la poesia come interiorità, propria della dimensione cristiana. Il capitolo è proprio bipartito dall’autore nei paragrafi A. L’interiorità e B. La gloria, diciture che indicano come l’opzione del modello classico o di quello cristiano-medievale non sia per Pomilio questione di cultura o di gusto, ma di spinte ideali, di pulsioni psichiche e morali che convivono e interagiscono.

Sul metodo: gli appoggi testuali

Per enucleare concetti di carattere generale, Pomilio ricorre con singolare abbondanza e puntigliosità, nel testo o in nota, a citazioni di opere di Petrarca e dei suoi precursori classici e cristiani. Tra i latini domina Cicerone, richiamato una quarantina di volte, specialmente per la Pro Archia, una celebrazione del valore della poesia che aveva alimentato il pensiero di Petrarca, il quale ne aveva riscoperto un esemplare nel 1333 a Liegi, in quel Belgio in cui Pomilio risiedeva mentre lavorava al saggio. Cicerone è citato anche per altre opere: il De divinatione e il De inventione, veicoli dell’idea della soprannaturale creatività della parola; il De Oratore e l’Orator, confacenti alla disquisizione sull’eloquenza; il De officiis, funzionale al riconoscimento di un carattere etico all’attività letteraria, e le Tusculanae disputationes, orientate a quello conoscitivo. Dato l’oggetto della sua ricerca, Pomilio non può prescindere dalla Poetica di Aristotele, citato mediatamente come Platone, ma anche direttamente in greco, e neppure dall’Ars poetica di Orazio, convocato anche per le Odi e le Satire. Non possono mancare rinvii ai due auctores privilegiati dal Medioevo, Ovidio innanzitutto, e Virgilio. E se Svetonio interessa per il De poetis, richiamato nei paragrafi sul concetto di gloria presso i gentili, la riflessione di Petrarca sul potere rasserenante o consolatorio della poesia lo induce a richiamare più volte Seneca. Più sporadiche le menzioni di altri autori, quali Lucrezio e Persio, mentre Ennio è evocato senza appoggi ai suoi versi superstiti, ma per quanto ne scrive il poeta dell’Africa.

Gli autori cristiani più citati sono Lattanzio e Macrobio, i pilastri su cui, secondo Pomilio, Petrarca costruisce la sua sommessa ma radicale rivoluzione estetica. Collocando Petrarca, intento a recuperare l’eredità classica al nuovo sapere cristiano, nel solco di Lattanzio, retore convertito, Pomilio riporta passi delle Divinae institutiones, uno dei quali riconosce la capacità di vedere la luce divina ai poeti e ai filosofi pagani che non conobbero la verità[8]. A questo «Cicerone cristiano» associa Macrobio – la cui adesione al cristianesimo è oggi controversa –, per il suo Commentarium al ciceroniano Somnium Scipionis, testo che deve la sua fortuna medievale all’idea “pre-cristiana” del premio immortale riservato ai benefattori della patria e ai campioni di virtù. Ripetuto è anche il rinvio alle Ethymologiae di Isidoro di Siviglia, che offrono il destro per riscattare le favole antiche e toccare la questione mitologica per la quale entrano in gioco anche Giovanni di Salisbury e il Boccaccio delle Genealogie deorum gentilium. Agostino, il pensatore prediletto da Petrarca e collocato al centro del paragrafo sull’interiorità, prevale su Gerolamo, menzionato nei passi che trattano il tema del valore letterario alla Bibbia, per il quale è richiamato anche il De schematis et tropis Sacrae Scripturae di Beda. Le fitte citazioni della Summa di Tommaso servono invece a definire la nozione egemone di allegoria medievale, contro la quale si indirizza il pensiero di Petrarca.

Ma l’edificio di Pomilio si appoggia più massicciamente, come è ovvio, sulle parole del Petrarca latino, in prosa e in versi. Dell’opera in cui il poeta ripose la sua speranza di gloria, l’Africa, sono riportati passi del II, III e soprattutto del IX libro, che definiscono un’estetica in divenire. Legato a questo poema incompiuto – messo in stretto rapporto con il Bucolicum carmen, specialmente per l’egloga Dedalus – è il rinvio alle Historiae di Tito Livio, che vi sono rielaborate e ampliate.

Pomilio non manca di citare la Collatio laureationis, chiave di volta nella crescita dell’autocoscienza poetica di Petrarca, e di rinviare al Privilegium laureae, che considera erroneamente di diretta paternità petrarchesca. E a corroborare l’idea che la fama poetica è garantita dal ricordo dei posteri sono evocati i Rerum memorandarum libri, specie il II e il IV, e la Praefatio del De viris illustribus.

Per documentare la maturata consapevolezza di un’estetica umanistica da parte di Petrarca, Pomilio rinvia anche ai suoi interventi polemici, cui attribuisce un ruolo decisivo. Si pensi alle citazioni dal De sui ipsius et multorum ignorantia (in particolare di IV, 32) e soprattutto delle Invective contra medicum, richiamate ripetutamente nel ventaglio dei primi quattro capitoli e con maggiore insistenza nel III. Segnalate sono anche le parti polemiche delle Epystole metrice; le più citate, quella diretta al cardinal Bernardo (II, 3) e ancor più quella contro Zoilo (II, 11 nell’edizione da lui usata, II 10 in quella corrente). Abbondanti sono pure i rinvii alle Familiares, specialmente alla X, 4 e alla X, 5 dirette al fratello Gherardo; più raro il ricorso alle Seniles, tra le quali spiccano la I, 5 e la II, 1, indirizzate a Boccaccio. Il De remediis utriusque fortune è richiamato per un solo passo (I, 9), e generici sono i pochi cenni al Secretum. Il De vita solitaria, opera assegnata convenzionalmente al versante medievale della cultura petrarchesca, viene interpretato da Pomilio in chiave personale, per cui la predilezione per la vita solitaria rappresenterebbe una strategia conoscitiva connessa all’idea che la letteratura persegua la sapienza.

Il numero consistente dei testi latini citati rende ancor più sorprendente la rarità dei riferimenti alle opere volgari di Petrarca, in un saggio inteso a ricostruirne la concezione estetica. Marginali restano le osservazioni sul sonetto «Passa la nave mia colma d’oblio» (RVF 189), che servono a indicare il carattere metaforico del vascello, per contrapporlo a quello realistico o visionario del Purgatorio dantesco. Ancora più corsive sono le menzioni di altri quattro sonetti e di una canzone: «La gola e ’l sonno et l’otïose piume», richiamato ad attestare l’identificazione, frequente in Petrarca, tra poesia e filosofia (RVF 7); «Arbor victorïosa triumphale», collegato all’orazione per la laurea in Campidoglio nella comune celebrazione del potere glorificante dell’alloro (RVF 263); «S’i’ fussi stato fermo a la spelunca», citato come esempio di platonismo in chiave cristiana (RVF 166); infine «Spirto gentil», canzone cui Pomilio accenna in nota, a proposito di un analogo passo dell’Africa sul destino di Roma (RVF 53).

Ma poteva Pomilio scordarsi dell’opera volgare di Petrarca, mentre studiava nel latino la sua concezione di poesia? Certamente no. In un indice da lui stilato, riferibile a una prima stesura del saggio[9], figura una sezione dedicata ai versi italiani, «Sonetto La gola e il sonno. Trionfo della Fama. Sapienza e ispirazione», un motivo che ricompare in un’altra sua scaletta tematica, «I Trionfi come duplicato dell’atteggiamento delle Rime», nonché nel sommario posto in capo al quarto capitolo: «I sapienti nel Trionfo della Fama». Delle Rime e dei Trionfi l’autore parla anche in un appunto steso sul verso di due fogli del saggio, paragonando il simbolismo di Petrarca a quello di Dante e di Cavalcanti[10]. Da ciò si ricava che l’esiguità dei cenni ai versi volgari nel saggio sull’estetica petrarchesca è attribuibile alla sua incompiutezza. D’altra parte Pomilio insiste ripetutamente sull’inscindibilità delle sue opere latine e volgari. Nel Fondo manoscritti pavese una serie di carte testimonia l’intenzione pomiliana di procurare un’antologia commentata, composta da ventun testi del Canzoniere e da un passo dei Trionfi, per cui aveva già steso il commento di tre sonetti e due canzoni[11].

Pomilio e la critica petrarchesca

L’intero saggio pomiliano è attraversato da polarità concettuali, che trovano il loro perfetto correlato espressivo nelle coppie verbali antitetiche: interiorità/gloria, utile/dulce, scienza/sapienza, filosofia/devozione; è bene notare che di lì a poco la critica stilistica avrebbe identificato nell’antitesi la cifra caratteristica del Canzoniere[12]. Ma dall’analisi pomiliana, volta a indagare il ruolo della poesia nella visione di Petrarca, dunque interessata all’intellettuale più che al lirico, le Rime restano o sono tenute volutamente al di fuori, sebbene siano più volte richiamate. Le poesie in volgare risultano già investite indirettamente della stessa dialettica dal giovane filologo, che fa affiorare la loro memoria quale ideale controcanto allo squadernamento della poetica petrarchesca.

Collegando passi delle Familiares, dei Rerum memorandarum, delle Invective contra medicum e del Sui ipsius et multorum ignorantia, e associandole a passi di Cicerone e di Orazio, di Lattanzio e di Agostino, di Tommaso e di Giovanni di Salisbury, Pomilio tocca la questione fondamentale della legittimazione della poesia, sospesa tra mondana vanitas e alta aspirazione etica e noetica, che la critica dei decenni successivi avrebbe rilevato proprio nella struttura del Canzoniere e nel suo dinamico diagramma, dal sonetto proemiale alla canzone alla Vergine, anzi fino a quei Trionfi che vennero a lungo sentiti, trascritti e stampati come ideale séguito dei Fragmenta lirici, e la cui struttura Pomilio intendeva collegare all’ordinamento delle Rime.

Il saggio di Pomilio merita dunque un posto di rilievo nella critica perché anticipa spunti e ipotesi sviluppate più tardi, e si spinge nello spazio della poetica, o meglio dell’idea petrarchesca di letteratura, tuttora poco frequentato dagli studiosi del settore[13]. Pomilio dimostra pure che Petrarca si interrogò precocemente sulle favole antiche, liberandole dalla taccia di fole menzognere nate al tempo degli dèi falsi e bugiardi. Al patrimonio mitologico pagano la civiltà medievale aveva potuto accostarsi forzandone l’interpretazione – con la lettura evemeristica, la chiave naturalistica, il velame allegorico, l’esegesi moralizzante –, mentre Petrarca, trovandovi verità e bellezza, preparò con diverse strategie la loro piena rigenerazione in età umanistica. Su questo tema si sono infittiti in tempi recenti gli studi, anche specificatamente dedicati a Petrarca[14], per esempio inseguendo il mito dafneo che corre lungo il Canzoniere o mettendo in luce il riflesso di Ovidio nella canzone delle metamorfosi (RVF 23); mentre nel saggio Pomilio si concentra sulla figura di Orfeo, promossa a esemplare dell’alto rango della poesia.

Anche di un’altra linea Pomilio viene a porsi come iniziatore. Leggendo le pagine dedicate al rapporto tra poesia e verità, e alla funzione religiosa e conoscitiva assegnata agli antichi vates, filosofi o teologi sub specie poetica, egli fa schiudere a Petrarca un quaderno su cui scriveranno pagine capitali Vico e i grandi fautori dell’omerismo, Foscolo compreso («l’Omero sapienziale che resterà vivo nella coscienza europea almeno fino al Vico, e di cui il padre va considerato senz’altro il Petrarca»)[15].

Quale sia la posizione di Pomilio nel panorama degli studi petrarcheschi del tempo lo si ricava dai rinvii bibliografici a lavori critici nel saggio, che sono di numero nettamente inferiore rispetto alle citazioni di opere di Petrarca e dei suoi auctores – molti di più se ne trovano, va detto, negli appunti preparatori e nei quaderni di lavoro, dai quali emerge appieno lo scrupolo citazionale e documentario del giovane studioso. Da quei richiami si ricava che Pomilio resta al di fuori della linea stilistico-variantistica che in quegli anni brillava grazie a contributi principalmente dedicati alle rime volgari, per esempio quelli di Alfredo Schiaffini sul Lavorio della forma in Francesco Petrarca (1941) e di Gianfranco Contini nel Saggio di un commento alle correzioni del Petrarca volgare (1943) – il nome di Contini spunta più volte nel commento ad alcune poesie del Canzoniere cui si è accennato. Pur non citando espressamente Benedetto Croce, autore di un saggio sul Canzoniere, Pomilio non esita a usare la distinzione crociana tra «poesia» e «letteratura»[16].

Nel saggio non sono menzionati neppure Attilio Momigliano e Umberto Bosco, che nel 1946 aveva pubblicato la monografia su Petrarca registrata invece da Pomilio nei quaderni di lavoro e negli appunti preparatori. Egli si mostra maggiormente attratto dagli aspetti concettuali dell’umanesimo che da quelli filologici: cita Giuseppe Billanovich come curatore di testi e non come autore delle monografie sullo Scrittoio del Petrarca (1947) e su Petrarca letterato (1946), che pure segnala nelle sue carte di lavoro. Come ex studente pisano non può esimersi dal rinviare un paio di volte a Luigi Russo per l’articolo sulla Poetica del Petrarca, con cui peraltro non consente appieno (era apparso su «Belfagor» nel 1948). Pure per l’omogeneità tematica richiama un saggio meno recente di Sebastiano Scandura, L’estetica di Dante, Petrarca e Boccaccio (1928).

Ma lo studioso più citato è il fiammingo Edgar De Bruyne, autore delle Études d’esthétique médiévale e dell’Esthétique du Moyen Âge (1946-1947), opere robuste e allora recenti che si imponevano al giovane italiano trasferito in Belgio per la sua ricerca su un terreno confinante. Pomilio nomina più volte anche il fondamentale lavoro su Pétrarque et l’humanisme di Pierre de Nolhac (1892), che tocca un tema cui si era applicato anche Giuseppe Toffanin, allora docente nell’università napoletana, in La fine dell’Umanesimo (1920), nella Storia dell’Umanesimo dal XIII al XVI secolo (1933) e nel Secolo senza Roma (1942). Pomilio richiama i saggi di Toffanin principalmente per l’attenzione prestata ai contatti tra il mondo classico e quello cristiano, argomento che gli fa richiamare il capitolo del Trecento vallardiano in cui Natalino Sapegno propone un superamento delle antitesi tra l’umanista e il cristiano, tra il poeta e il letterato (1934). Più o meno per le stesse ragioni Pomilio cita Nella selva del Petrarca (1942), il saggio in cui il cattolico Carlo Calcaterra indaga sui rapporti tra Petrarca e Agostino, mettendo a fuoco l’elevazione morale di un umanesimo che unisce il culto degli scrittori antichi a quello degli autori cristiani. Non stupisce allora il rinvio al lavoro sul Sentimento politico del Petrarca di Rodolfo De Mattei (1944), che insiste sulla conciliazione del cristianesimo agostiniano con la cultura classica, rinvio che potrebbe leggersi come segno del precoce interesse etico-civile del futuro narratore e saggista.

Pomilio rinvia ripetutamente a Eugenio Garin per la sottolineatura della spiritualità e dell’interiorità della poesia, e per il riconoscimento del valore pedagogico degli studi umanistici che caratterizzano il saggio su Umanesimo e Rinascimento (uscito nelle Questioni e correnti di Marzorati nel 1949), e cita il coevo volume su Petrarca e il Rinascimento di John Humphreys Whitfield. Più strettamente connessi al tema del saggio sono i richiami allo scritto di Roberto Weiss su Barbato da Sulmona, il Petrarca e la rivoluzione di Cola di Rienzo (1950), e il Saggio sull’‘Africa’ premesso da Nicola Festa all’edizione critica del poema da lui procurata (1926). Pomilio non manca di menzionare i meritori curatori o traduttori ottocenteschi del Petrarca latino – Attilio Hortis per l’edizione del testo e la prefazione alla Collatio laureationis (1874), Domenico Rossetti per la pubblicazione dei tre volumi dei Poemata minora (1829-1834) –, ma rinvia a edizioni più vicine, se esistenti, come quella dei Rerum memorandarum libri di Billanovich (1943) e quella del Canzoniere di Contini (1949).

Si può concludere che i rinvii di Pomilio configurano un selezionato pacchetto di sussidi precisamente orientati, chiamati in causa solo a ragion veduta, e mai abusando di sfoggio citazionista, nella persuasione che i materiali testuali per la costruzione del suo edificio critico andassero tratti direttamente dalle miniere dei testi d’autore: da Petrarca, cioè, e dalle sue letture.

Petrarca negli altri scritti letterari di Pomilio

Gli scritti critici sparsi di Pomilio trattano di Dante, Boccaccio, Leonardo da Vinci, Cellini; passano a Manzoni, al Naturalismo, al Verismo, a De Roberto, Verga, d’Annunzio, Pirandello, infine alla «Voce», a Svevo, Alvaro, Brancati e Rea.

Il saggio sull’estetica di Petrarca si colloca così tra la lettura del canto sulla «candida rosa» di Dante e lo studio sul tono basso del Decameron di Boccaccio, autore indagato non solo come novelliere. Questo è già il segno di un’attitudine a studiare anche opere diverse dal capolavoro riconosciuto, che si trova confermata dall’intervento sul Manzoni «minore» – le virgolette messe nel titolo dall’autore segnalano la sua presa di distanza dalla divisione manichea tra opere principali e secondarie[17].

Negli altri saggi letterari di Pomilio poco o nulla si trova su Petrarca. Dopo il cimento con l’estetica del trecentista, che diede un impulso vigoroso alla sua conversione alla narrativa, Pomilio si applicò ad auctores a lui ben più congeniali. Su tutti Manzoni, di cui condivideva la fame di realtà e l’impegno sociale, ma ancor più la fede problematica, vissuta con l’inquietudine partecipe che conoscono i lettori del Natale del 1833. L’istanza sociale e realistica di Pomilio era frutto di una religiosità che, come ammette egli stesso, era più portata all’umana solidarietà che alla speculazione teologica: predilezione che lo mette in sintonia con scrittori e pensatori veristi, specie se radicati nel Mezzogiorno, e in certo senso neoverghiani come Alvaro e Brancati.

Fame di realtà, nella scrittura di Petrarca, ce n’era davvero poca. Da lui Pomilio sembra aver tuttavia mutuato l’idea di una letteratura che non si riduca a retorica ma produca un incremento conoscitivo, una promozione morale di sé e degli altri; così come la vocazione umanistica conciliata con quella cristiana. Nella prefazione al volume sulla pittura di Leonardo definisce le sue immagini «finestra dell’anima»[18], e nella monografia su Pirandello parla di «interiorità della forma»[19], mostrando che le pagine petrarchesche sull’interiorità come luogo abitato dalla verità e soggetto di una scrittura letteraria intesa come quête restano punti di riferimento anche nella sua attività saggistica.

Riflessi del saggio petrarchesco nel Pomilio narratore

Nel Quinto evangelio (1975) e nel Natale del 1833 (1983), vertici della sua scrittura creativa, Pomilio mostra che sopravvivono in lui il mestiere e il gusto acquisiti da giovane nel lavoro su Petrarca, ossia l’abilità nel condurre il filo diegetico analizzando e collegando tra di loro citazioni, testi e documenti, ora reali ora fittizi – per cui si è potuto parlare di «filologia fantastica»[20]. Nel ricostruire l’anno più doloroso per Manzoni, il 1833, egli esamina e interpreta gli abbozzi del mirabile frammento dell’inno sacro, e le lettere vere o congetturate del suo entourage; e nell’inchiesta sulle tracce del misterioso quinto ma non apocrifo vangelo, condotta da uno studioso ed ex-ufficiale americano, suo trasparente doppio, non fa che trasportare sul piano della fictio il procedimento praticato nella ricostruzione dell’inafferrabile estetica di Petrarca.

Il carattere per eccellenza problematico del saggio critico Pomilio lo estende alla scrittura narrativa, perché l’opera romanzesca, scrive, non gli «si presenta mai bell’e fatta al momento di cominciare, anzi! […] è un nucleo di fatti che, quanto a significato […] è oscuro. Scavare per entro di esso, cercarne il significato, la verità che […] propone, è la condizione del […] lavoro»[21].

L’opzione morale dell’estetica petrarchesca Pomilio l’avrebbe applicata poi a se stesso: «Ormai la letteratura, per me, passa intera attraverso l’etica, deve richiamarsi senza equivoci alle sue responsabilità»[22].

Giacomo Prandolini, anticipando su rivista alcune pagine del saggio, vi trovava già il segno di uno scrittore che era dentro la «storia almeno fino al collo», che vuole rispondere alle aspettative dell’uomo, alle «ansietà del mondo contemporaneo»[23]. E indicava in una frase del saggio una sorta di autoritratto intellettuale:

Al centro degli interessi spirituali del Petrarca sta l’uomo, e l’uomo nel suo farsi, nella conquista ansiosa e pensosa della sua humanitas, l’uomo come problema spirituale e morale, e che proprio nel riconoscimento della sua natura essenzialmente etica ritrova se stesso, i fondamenti cioè della sua origine divina[24].

Se Petrarca abbia lasciato una traccia non effimera nella futura carriera di Pomilio o se Pomilio abbia proiettato su Petrarca l’ombra della propria personalità, i presagi delle sue scelte mature, è arduo stabilirlo. Innegabile, invece, che, nella sua evoluzione intellettuale, artistica e spirituale, la via imboccata con l’interrotto studio giovanile non era un vicolo cieco.

  1. M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia. Una monografia inedita, a cura di C. Gibellini, Roma, Studium, 2016.
  2. Lo rileva Carmine Di Biase, che vede affiorare in Pomilio il coraggio del padre socialista e il fervente cattolicesimo della madre, alimentati poi dalla lettura di autori quali Agostino e Pascal, nella biblioteca di uno zio sacerdote: C. Di Biase, Lettura di Mario Pomilio, Milano, Massimo, 1980, pp. 7-8.
  3. Nel Centro manoscritti dell’Università di Pavia, dove sono conservate le carte di Pomilio, abbondano materiali e appunti di lavoro su Mussato e sugli umanisti (Salutati, Ficino, Landino, Pico, Poliziano, Bruni), ma anche sulle poetiche rinascimentali, sull’Arcadia, su Vico, sui preromantici e i romantici italiani (Monti, Foscolo, Leopardi, Manzoni) e francesi.
  4. Cfr. C. Di Biase, Lettura di Mario Pomilio, op. cit., p. 8.
  5. M. Pomilio, Scritti sull’ultimo Ottocento, a cura di M. Volpi, introduzione di P. Villani, Novate Milanese, Prospero, 2017. Un’accurata Bibliografia degli scritti di Mario Pomilio, allestita da Paola Villani e Giovanna Formisano, è stata pubblicata in appendice al volume Le ragioni del romanzo. Mario Pomilio e la vita letteraria a Napoli. In memoria di Carmine di Biase, a cura di F. Pierangeli e P. Villani, presentazione di L. d’Alessandro, prefazione di M. A. Grignani, Roma, Studium, 2014, pp. 436-94, consultabile anche on-line, tra i materiali del sito «mariopomilio.org», all’url https://mariopomilio.org/bibliografia/ (ultima consultazione: 7 luglio 2023); allo stesso indirizzo sono pubblicati anche gli aggiornamenti della stessa Bibliografia, dal 2015 in poi.
  6. M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia, op. cit., p. 206.
  7. Ibidem.
  8. «Nelle Divinae institutiones egli [Petrarca] assisteva al più grande, forse, sforzo compiuto per riassorbire l’esperienza pagana nella cristiana e di ritrovare nel pensiero, nella filosofia, nelle credenze del mondo greco-romano, una somma di giustificazioni e di prove della nuova fede. Mondo ebraico e mondo pagano cospiravano armoniosamente a delineare un quadro culturale, in cui la poesia dei gentili s’inseriva, alla pari, coi testi dei filosofi e coi libri del Vecchio Testamento, a convalidare la verità̀ rivelata. Tutto il mondo precristiano si disponeva secondo lo schema d’una doppia prerivelazione, quella greco-romana e quella ebraica, ambedue in egual misura operanti a confronto della vera fede. Si trattava, per il Petrarca, d’una sistemazione di portata immensa. Lattanzio, che appoggiava la sua dimostrazione dell’esistenza di Dio su prove storiche e non scientifiche, diventava ai suoi occhi uno dei maggiori veicoli del messaggio umanistico»: M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia, op. cit., pp. 57-58.
  9. Cfr. M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia, op. cit.: Nota al testo, p. 38.
  10. Ivi, pp. 77-78.
  11. Nel fascicolo «Materiali su Mussato e Petrarca» sono elencati i testi del Canzoniere da includere nell’antologia, con titoli e numeri, ossia 1, 12, 16, 32, 35, 53, 62, 81, 90, 126, 128, 129, 189, 234, 272, 279, 292, 302, 310, 311, 364, 365, 366, e «La morte di Laura», versi senz’altro ricavati dai Triumphi. Nel fascicolo «Appunti e commenti ai sonetti di Petrarca» si trovano i commenti a RVF 16, 32, 53, 126 e 319.
  12. Si ricordi almeno il contributo di E. Bigi, Alcuni aspetti dello stile del ‘Canzoniere’ di Petrarca, in «Lingua nostra», 13, 1952, pp. 17-22, poi in Id., Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 1-22.
  13. Tra gli studi che toccano qualche aspetto dell’estetica o della poetica petrarchesca vanno ricordati: G. Ponte, Poetica e poesia nelle ‘Metriche’ del Petrarca, in «Rivista di letteratura italiana», 72, 1968, pp. 209-19; H.-G. Funke, Autoreferenzialità e riflessione metapoetica nel ‘Canzoniere’ petrarchesco, in «Rivista di letteratura italiana», 3, 2003, pp. 9-32; M. Picone, Il tema dell’incoronazione poetica in Dante, Petrarca e Boccaccio, in «L’Alighieri», 25, 2005, pp. 5-26; D. Marsh, Poetics and Polemics in Petrarch’s Invectives, in «Humanistica», 1-2, 2006, pp. 40-46; F. Bausi, Petrarca antimoderno: studi sulle invettive e sulle polemiche petrarchesche, Firenze, Cesati, 2008; V. Fera, Petrarca e la poetica dell’incultum, in «Studi medievali e umanistici», 10, 2012, pp. 9-87.
  14. Cfr. L. Marcozzi, La biblioteca di Febo. Mitologia e allegoria in Petrarca, Firenze, Cesati, 2002; C. Vecce, Il mito nelle ‘Familiari’, in Motivi e forme delle ‘Familiari’ di Francesco Petrarca, a cura di C. Berra, Milano, Cisalpino-Istituto Editoriale Universitario, 2003, pp. 149-65; Id., Francesco Petrarca. La rinascita degli dèi antichi, in Il mito nella letteratura italiana. I. Dal Medioevo al Rinascimento, a cura di G. Alessio, Brescia, Morcelliana, 2005, pp. 177-228.
  15. M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia, op. cit., p. 152.
  16. Ivi, p. 267.
  17. Paradiso XXXI, in La dimensione umana e la prospettiva divina in Dante, a cura di P. Sabbatino, Pompei, Pepe, 1983; Il tono basso-realistico del Boccaccio, in Atti del Convegno di Nimega sul Boccaccio, a cura di C. Ballerini, Bologna, Patron, 1976; A proposito del Manzoni “minore”, in «Il Popolo», 28 luglio 1959.
  18. L’opera completa di Leonardo pittore, presentazione di M. Pomilio, a cura di A. Ottino Della Chiesa, Milano, Rizzoli, 1967.
  19. M. Pomilio, La formazione critico-estetica di Pirandello, Napoli, Liguori, 1966.
  20. P. Gibellini, La filologia fantastica di Mario Pomilio, in «Humanitas», 1, 1992, pp. 28-41.
  21. M. Pomilio, Scritti cristiani, Milano, Rusconi, 1979, p. 25. Già Carmine Di Biase rilevava che con la sua formazione di ricercatore il giovane Pomilio aveva affinato l’attitudine euristica che caratterizza anche la scrittura narrativa per la quale vari critici hanno parlato di romanzi-saggio. Cfr. C. Di Biase, Lettura di Mario Pomilio, op. cit., passim.
  22. M. Pomilio, Scritti cristiani, op. cit., p. 26.
  23. Cfr. G. Prandolini, Petrarca e l’allegoria, in «Rivista di letteratura italiana», 1-3, 1996, p. 253. Le espressioni virgolettate provengono dagli Scritti cristiani cit., p. 23.
  24. M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia, op. cit., p. 105.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023)

Gli “scritti cristiani” di Mario Pomilio: le parole della letteratura e l’incontro con la Parola

Author di Giuseppe Langella

Metto subito avanti le mani: chi conosce abbastanza a fondo la bibliografia di Mario Pomilio non ignora che è mia la prefazione a un’edizione notevolmente “accresciuta” dei suoi Scritti cristiani, curata da Marco Beck nel 2014 per l’editrice Vita e Pensiero[1]. A beneficio, spero non soltanto, della contabilità letteraria, ricorderò che l’incremento faceva salire a 25 i testi ammessi nel libro, a fronte dei 14 selezionati da Pomilio per l’edizione Rusconi del 1979[2], con conseguente lievitazione di più di un terzo del numero di pagine complessivo[3]. L’operazione, in sé perfettamente legittima, e anzi lodevole, perché riportava in libreria un’opera da molto tempo esaurita, finiva però, senza volerlo, per modificarne le intenzioni originarie e la portata culturale. Rispettosissimo dell’editio princeps, il curatore si asteneva, beninteso, da qualsiasi interpolazione, collocando gli 11 contributi aggiunti ex novo in un’apposita sezione, in coda a quelli prescelti da Pomilio. Ma bastava la loro semplice presenza ad assegnare alla nuova edizione un significato e una funzione differenti rispetto al libro del ’79. Ciò risulta palese anche a voler considerare soltanto l’escursione cronologica degli “accrescimenti”, che coprono un arco di tempo lunghissimo, dal 1955 al 1983, dove invece i 14 Scritti cristiani della prima edizione, con un’unica, comprensibile, eccezione, risalivano tutti a un fazzoletto d’anni, intorno alla pubblicazione del Quinto evangelio. Inoltre, ben 9 degli 11 testi aggiunti sono articoli di giornale, di misura quindi più agile e di taglio più cronachistico e militante in confronto al tono e al respiro prevalenti nell’edizione Rusconi. Affiancando al nucleo di partenza quel nutrito e più occasionale mannello di interventi, concepiti in stagioni e circostanze storiche ed ecclesiali anche distanti tra loro, Beck mirava, chiaramente, ad allestire un’ideale antologia di documenti che valesse a comporre un ritratto completo, a tutto tondo, quasi un riepilogo, del Pomilio intellettuale e apologeta, che prende posizione all’interno del mondo cattolico e si apre al dialogo con la cultura laica e marxista, ma senza cedimenti, pronto al contrario a difendere il lievito vivificatore del messaggio cristiano nella società del benessere e del vuoto esistenziale. Questa dilatazione degli orizzonti, se aveva il merito indiscutibile di rivendicare a Pomilio un posto non trascurabile nel dibattito culturale del terzo Novecento, non poteva evitare un effetto collaterale indesiderato: quello di decontestualizzare il libro del 1979, perdendo di vista le ragioni contingenti che avevano indotto lo scrittore a raccogliere in volume proprio e soltanto quei 14 Scritti cristiani nati a ridosso del Quinto evangelio. È appunto per recuperare quelle ragioni e restaurare l’intentio auctoris che in questa sede, tralasciando le integrazioni postume proposte da Beck, mi concentrerò sull’edizione Rusconi.

La corretta chiave di lettura degli Scritti cristiani del 1979[4] è quella suggerita dal risvolto di copertina, che conviene riprodurre per intero:

Gli scritti riuniti in questo volume, ad eccezione di uno, sono contemporanei o immediatamente posteriori alla stesura de Il quinto evangelio, il romanzo più noto di Pomilio, e in buona parte, per vari gradi, si saldano ad esso e quasi ne continuano il discorso. Perfino un saggio necessariamente specialistico qual è Il Vangelo secondo Smith diventa singolarmente interessante per come, di riverbero, ci consente di penetrare nell’officina filologica di quel romanzo.

Ciò non toglie che Scritti cristiani sia un’opera perfettamente autonoma. In pagine dove più volte il narratore dà delicatamente la mano al saggista, al critico letterario e finanche al polemista, Pomilio confessa i propri problemi di uomo e di scrittore, s’addentra in riletture di grandi testi religiosi, riflette sulla condizione del cristiano e discute alcuni dei grandi temi del Cristianesimo d’oggi, segnala ombre e attese del tempo che stiamo vivendo, mostra quali sollecitazioni possono introdurvi i Vangeli. Ne viene un insolito ritratto di credente che si confronta senza chiusure con gli interrogativi dei nostri giorni, prospettando, implicitamente, come già ne Il quinto evangelio, l’immagine d’un Cristianesimo in riflessione e in ricerca e, nell’intimo, tutto percorso dalle spinte cristologiche del Concilio.

Con tutta evidenza, Pomilio vuole sottolineare il rapporto strettissimo che lega, geneticamente, gli Scritti cristiani al Quinto evangelio, facendoci pensare a una sorta di parto gemellare, a una derivazione di entrambe le opere, di quella narrativa come di quella saggistica, da un’unica matrice[5]. Per ammissione dello stesso Pomilio, il narratore si è introdotto furtivamente nello studio dell’intellettuale, lasciando qua e là le sue impronte. Peraltro, l’osmosi tra i due libri nati allo stesso tavolo avviene anche in direzione opposta, nel senso che lo scrittore non si limita a dare «delicatamente la mano al saggista», ma si nutre anche degli Scritti cristiani, prelevandone spunti e considerazioni che tornano pari pari nel romanzo, come ha inoppugnabilmente dimostrato Wanda Santini[6].

Alla collocazione degli Scritti cristiani nel cono di luce del Quinto evangelio non è estranea, certamente, una strategia di promozione editoriale. Alla fine degli anni Settanta Pomilio non era soltanto un autore affermato, ma aveva già toccato l’apogeo della notorietà con lo straordinario successo, appunto, nel 1975, del Quinto evangelio, uno degli esiti in assoluto più importanti del romanzo italiano dell’ultimo secolo[7]. Quando egli decise di radunare, sotto il titolo di Scritti cristiani, alcuni fra i suoi interventi più lucidi e pensosi sulla Chiesa del Concilio e sulle inquietudini dell’uomo contemporaneo, all’incrocio tra esame di coscienza e polemica culturale, tra diagnosi storica e tensione profetica, non si era ancora spenta la vasta impressione suscitata dall’uscita di quell’opera tanto coraggiosa quanto originale, di cui erano già state tirate quattordici ristampe. Il quinto evangelio aveva avuto, anzi, una notevole risonanza anche a livello internazionale, suggellata da due riconoscimenti prestigiosi come il “Prix du Meilleur Livre Étranger”, in Francia, e il Premio Pax, conferitogli dalla cattolicissima Polonia.

Nulla di strano, allora, che il percorso sotteso al montaggio dei 14 Scritti cristiani dell’edizione Rusconi sfoci proprio in quella Preistoria d’un romanzo in cui Pomilio rievoca le suggestioni e i propositi che avevano accompagnato la genesi balenante e la lenta elaborazione del suo capolavoro. Posta, infatti, in penultima sede, Preistoria d’un romanzo rappresenta virtualmente l’estuario del libro, in cui confluiscono tutte le acque discese dagli scritti precedenti. Segue soltanto, non a caso, Il Vangelo secondo Smith, che nel risvolto di copertina viene menzionato come porta laterale d’accesso all’«officina filologica» del Quinto evangelio e un avviso didascalico, adagiato sopra il titolo, classifica alla stregua, «quasi», di «un’appendice», confermando l’invito a leggere quelle pagine come una propaggine di Preistoria d’un romanzo. Pomilio dà l’impressione, insomma, di volerci raccontare, con una simile impaginazione, per quali vicende personali e convinzioni profonde fosse giunto a concepire e sviluppare l’idea e il progetto di un’opera di altissima testimonianza come Il quinto evangelio, autentica summa della sua concezione religiosa, interpretando i fermenti della stagione post-conciliare.

Le tappe di questo cammino sono scandite in maniera rigorosa e perfettamente regolare in tre blocchi di eguale consistenza: si parte con quattro lettere, indirizzate rispettivamente al padre, alla figlia, a un amico e a una suora, che rientrano nella biografia dell’autore e ne svelano i lati più intimi e umani, i vissuti interiori, gli episodi che ne hanno segnato la vita, i propositi e i moti della coscienza; poi vengono quattro riflessioni che delineano la visione cristiana di Pomilio, ovvero il suo modo d’intendere e di vivere la dimensione religiosa; e, dietro, altri quattro scritti che guardano alla Bibbia e in particolare ai Vangeli come a un modello, insieme, di letteratura e di santità. Raffinando ulteriormente lo sguardo, si può notare la struttura binaria, a coppie, spesso complementari, dell’invisibile telaio che regge il disegno degli Scritti cristiani: come ad esempio le due lettere iniziali al padre e alla figlia, che mettono in scena il conflitto generazionale, il bisogno di emanciparsi dall’autorità ingombrante del genitore per trovare autonomamente il proprio posto nel mondo; o In margine a una parabola e L’apartheid di Dio, che affrontano il tema della solitudine dell’uomo secolarizzato e della missione della Chiesa; o ancora, il dittico, immediatamente visibile, La Bibbia come letteratura e I Vangeli come letteratura; fino ai conclusivi Preistoria d’un romanzo e Il Vangelo secondo Smith, dove s’inseguono e si interpretano le testimonianze scritte dell’insegnamento di Gesù, alla ricerca del suo messaggio più autentico.

Una valenza singolare assume, in ordine all’annunciarsi della vocazione, insieme spirituale e letteraria, che culminerà nel Quinto evangelio, la Lettera a una suora, perché Pomilio vi annoda indissolubilmente il ritorno alla fede, dopo un temporaneo distacco nutrito di ideologie laiciste, irreligiose e anticlericali, con la scoperta in sé di quella prepotente inclinazione narrativa che avrebbe impresso una svolta alla sua vita, segnandone di fatto il destino di scrittore. E quella suora ospedaliera, avvicinata durante un ricovero in clinica della moglie per un intervento chirurgico piuttosto delicato, è anche la prima icona che ci viene incontro, negli Scritti cristiani, di quella fede incarnata nella dimessa santità di ogni giorno, che resterà sempre l’ideale di cristianesimo inseguito e vagheggiato da Pomilio. Quando l’ancora agnostico intellettuale aveva cominciato a chiedersi, davanti all’angelico sorriso e ai gesti amorevoli e solleciti di quella religiosa, «perché una così totale offerta di sé agli altri e, propriamente, perché tanta carità. E perché tanta gioia nella carità. E perché tanta forza d’animo. E perché tanta umiltà»[8], era il marzo del 1953. Esattamente un mese dopo egli avrebbe messo mano al suo primo romanzo, L’uccello nella cupola, pubblicato da Bompiani l’anno seguente[9], lavorando intorno al caso di coscienza di un giovane sacerdote di fronte a una donna tormentata dai sensi di colpa. Mostrandogli «in concreto che cos’è la carità cristiana e quale tesoro di valori essa contiene»[10], la suora della clinica non solo lo aveva riconciliato con Dio e con la Chiesa, ma lo aveva anche aiutato a guardarsi dentro, a riconoscersi scrittore[11].

L’importanza che Pomilio assegna ai grandi capolavori della letteratura viene in piena luce nella Lettera a una figlia, dove ricorda di aver messo sotto gli occhi di Annalisa, studentessa liceale, alcune opere che considerava «patrimonio dell’umanità», sicuro che esse l’avrebbero aiutata a crescere «libera, ricca di personalità, capace di scelte e di giudizio»[12]. In queste pagine lo scrittore riduce tutta la sua «pedagogia» paterna, il suo «piccolo e segreto magistero», a due soli principi, correlati tra loro: trasmettere il «culto della parola come luogo di verifica dei problemi e delle idee (che è poi senza parere l’effetto della parola letteraria)» e favorire «il contatto col grande»[13]. Ai suoi occhi, infatti, in certi libri «il reale trova insieme il suo riflesso e la sua esplicazione», per cui immergersi in essi consente di «introdurre un criterio d’ordine nelle nostre esperienze»[14]. Pomilio attribuisce alla grande letteratura un «valore carismatico»[15], riportando, fra l’altro, quel che aveva sostenuto, in una lettera, Flaubert: «Credo che se si guardassero sempre i cieli si finirebbe con l’aver le ali»[16].

Il «culto della parola», consustanziale all’esperienza della scrittura letteraria in quanto veicolo di conoscenza, si moltiplica al quadrato nei testi sacri, perché sono essi stessi letteratura ma anche, per statuto, i depositari della verità rivelata, almeno per chi li riconosca, sull’autorità della Chiesa, d’ispirazione divina. Di particolare interesse, in questa prospettiva, sono i due scritti in cui Pomilio legge la Bibbia in chiave letteraria, e sia pure di una letteratura sui generis, e interpreta i Vangeli canonici come un “ciclo” narrativo. La Bibbia riunisce «in un solo libro» l’«intera letteratura d’un popolo» sviluppatasi nell’arco di «un millennio»[17]. A volerla esaminare da un punto di vista squisitamente formale, essa appare «un grande incunabolo di quasi tutti i possibili generi letterari»[18]; però presenta anche dei tratti comuni altamente significativi, che derivano dal suo essere «il discorso d’un popolo con Dio e su Dio»: donde «la forte impronta oggettiva», la «potente impersonalità per la quale l’Antico Testamento, in ogni suo momento, sembra l’espressione d’un sentimento e d’una memoria collettivi»[19].

Ma la sua maggiore peculiarità, ciò che la rende un caso più unico che raro, è l’assenza totale di qualsiasi preoccupazione letteraria[20]. Pomilio fa l’esempio dei profeti, che si sentono dei «puri e semplici mediatori della Parola di Dio»:

Lo scrittore biblico non inventa fatti, ignora i diritti della fantasia, non conosce il concetto dell’autonomia dell’arte; e non compie operazioni letterarie sul linguaggio. La sua disposizione nei confronti della parola fa tutt’uno con quella nei confronti della verità: ambedue gli preesistono, gli sono anzi comunicate da Dio, ambedue sono perciò un deposito inalterabile che colui che scrive può ricevere e mediare, non abbellire, non variare. L’Amen, l’«in verità vi dico», non è solo una formula sacra, ma anche una dichiarazione di poetica e più ancora un criterio estetico: «dire», per lo scrittore biblico, è parlare secondo verità, e la parola è uno strumento abitato dall’assoluto[21].

Non stupisce, perciò, l’estrema asciuttezza dei racconti e l’essenzialità delle descrizioni: «artisticamente parlando», afferma Pomilio, la Bibbia «è una grande abbreviatrice», tanto che le storie e i personaggi sembrano appena sbozzati e hanno, semmai, il «fascino del non finito»[22]. Se, tuttavia, quella della Bibbia «non è parola abbellita, è però parola intensificata, portata a una densità inusitata di significati, come se veramente, prima di manifestarsi, essa fosse passata attraverso lo spessore di Dio», e «ciò le conferisce una forza di sintesi che la parola non possiede in nessun’altra letteratura»[23]. Si tratta, insomma, «di una grande letteratura», che noi possiamo gustare appieno solo se «ne penetriamo il nodo sacro, il significato religioso o l’intento rituale», solo se comprendiamo che «il discorso dei poeti biblici si svolge sempre in verticale», nel senso che «può passare attraverso l’uomo e le cose, ma per raggiungere Dio» e che quindi la loro «poesia nasce e s’aggira in uno spazio morale»[24].

Queste considerazioni tornano anche nell’altro scritto, quello su I Vangeli come letteratura. Pomilio pone subito l’accento sulla portata letteraria di quelle narrazioni, che hanno segnato una «svolta» straordinaria rispetto alla tradizione epica greca e latina:

Coi Vangeli la narrativa entra nella storia, e vi entra come narrazione della vita d’un uomo al livello della realtà, narrazione in forme realistiche e a respiro popolare destinata al più largo pubblico possibile. Secoli di lettura prevalentemente religiosa ci hanno fatto quasi dimenticare che i quattro Vangeli erano anzitutto racconti. E racconti non d’invenzione, perché chi li scriveva intendeva tenersi il più possibile al criterio del vero, non obbedienti alle regole d’un genere letterario che per il momento non esisteva, ignari dei criteri della convenienza e del decorum che non consentivano di trattare in opere serie personaggi di umile estrazione e di mettere alla pari personaggi «bassi» e personaggi «elevati», e scritti in prosa, quando la «narrativa» creata fino allora era stata tutta in versi, e scritti in un linguaggio parlato e popolare[25].

Pomilio sottolinea la «potente oggettività dei Vangeli», totalmente refrattari alle «avventure dell’immaginazione»[26]. Gli evangelisti adottano, anzi, «il metodo dell’impersonalità, fino a scomparire veramente dietro» Gesù, lasciandolo «parlare il più possibile con le sue stesse parole»[27]. Peraltro, sono proprio «i loghia, le parole, i discorsi di Gesù» il contenuto principale dei loro racconti, perché alla fine, come nota l’autore in un altro scritto, L’interrogazione del cristiano, per gli evangelisti «Gesù è essenzialmente “colui che dice”, egli è parola, anzi propriamente, è la Parola», «secondo quel nodo polisenso e inscindibile che d’una persona e d’un linguaggio fa tutt’uno con la verità»[28]. Ecco, allora,

un’altra delle sconcertanti novità letterarie dei Vangeli: su un piano narrativo dimesso e popolare emergono discorsi che senza distaccarsene quanto a tonalità stilistiche e movenze sintattiche, risultano di straordinaria densità e pregnanza, parole che in una lingua quotidiana e disadorna straripano di significati, parole insomma che per effetto della inusitata intensificazione semantica che hanno subìto posseggono in pari tempo la persuasività dell’evidenza e la vibrazione indefinita del mistero»[29].

Assumendo, davanti alla Bibbia come ai Vangeli, il punto di vista dello storico della letteratura, Pomilio coerentemente applica ai testi sacri la strumentazione tipica della critica letteraria, con tutta una serie di osservazioni mirate sul genere, sul registro stilistico, sul linguaggio, sull’opzione realistica, perfino sui destinatari di quelle scritture, dove può mettere a frutto, tra l’altro, le sue raffinate competenze di studioso[30]. Mi limito, qui, a registrare tre categorie critiche che entrano in spiccata risonanza con l’idea ispiratrice del Quinto evangelio: l’«impersonalità» e il «ciclo letterario», largamente maneggiate da Pomilio nei lavori su Verga e sulle poetiche realistiche di secondo Ottocento[31], e il «non finito», stigma di tanta letteratura novecentesca. Nella coppia di saggi di cui ci stiamo occupando Pomilio avanza due distinte interpretazioni dell’«impersonalità» scritturale: nei libri dell’Antico Testamento, più che una tecnica narrativa, essa è, come abbiamo letto, «l’espressione d’un sentimento e d’una memoria collettivi», la «forte impronta oggettiva» di testi in cui non un singolo, ma un popolo intero, «si esprime, si cerca, si riflette, si confessa», bandendo in partenza ogni forma di «soggettivismo» o di «ripiegamento intimistico»[32]. Nella Bibbia come letteratura, insomma, dell’«impersonalità» a Pomilio preme porre in rilievo più che altro la dimensione “corale”, in sommessa polemica con certo modernismo e novecentismo variamente solipsistici, narcisistici e ombelicali. Nell’altro articolo, invece, prevale l’accezione operativa di «impersonalità», che Pomilio addita, correttamente, nel suo aspetto di «metodo» narrativo. Nei Vangeli come letteratura l’«impersonalità» investe la stessa funzione autoriale degli evangelisti, che, non riuscendo a comprendere fino in fondo il messaggio del Figlio di Dio, rinunciano al ruolo di narratori onniscienti, cui si sentono inadeguati, e lasciano che a parlare, nelle loro testimonianze, sia il più possibile e direttamente, con i suoi discorsi, le sue parabole e i suoi segni, il loro Maestro, protagonista assoluto dei Vangeli. Sopraffatti dal mistero inattingibile di quel Gesù che è il Verbo incarnato, essi si declassano, come gli antichi profeti, a semplici intermediari della sua Parola, ponendosi «in umile atteggiamento d’ascolto, tesi solo a ricordare e custodire quanto più fedelmente ciò che Gesù ha effettivamente detto» e «comportandosi talora addirittura come chi non intende appieno un’espressione, ma non s’azzarda a modificarla»[33].

Ripetitori fedeli, dunque, della Parola, ma non passivi, gli evangelisti si sono comunque sforzati di far luce sul mistero insondabile del Cristo, restituendoci, con quello che hanno visto e udito, il poco che ciascuno di loro ha capito o presunto di capire; col risultato che ogni Vangelo ci offre, pur partendo quasi sempre dai medesimi dati esperienziali, un’interpretazione diversa, fatalmente parziale, del Maestro; donde quella pluralità di rievocazioni, sinottiche o meno, che Pomilio assimila a un «ciclo letterario»:

In questo senso i quattro Vangeli sono un esempio perfetto, e storicamente singolare, di formazione d’un ciclo letterario: quattro libri che presentano quattro versioni parallele e insieme autonome d’un medesimo personaggio, quattro maniere di sentirlo, di intenderlo, di narrarlo, quattro variazioni su un unico tema che, riprendendo ciascuna e in pari tempo arricchendo quel che è detto dall’altra, contribuiscono alla formazione di quel potente blocco poetico che è il personaggio del Cristo Gesù[34].

Ma proprio la coesistenza di quattro Vangeli canonici, in cui si rifrangono immagini inevitabilmente diminuite, incomplete e frammentarie, della poliedrica e sovrastante figura del Maestro, è una spia fin troppo eloquente della parzialità e provvisorietà di ogni formula religiosa che si affacci sul mistero incolmabile di Dio. La Verità può essere solo inseguita e va di volta in volta verificata e incarnata nella storia. Di qui l’«impressione di “non finito”» che Pomilio coglie nei Vangeli, come se gli autori si fossero dovuti arrendere davanti a un «personaggio aperto, poliverso, mal definibile, non classificabile, al limite un enigma»[35]. Gli «evangelisti sembrano essere di fronte a Gesù nella stessa situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: “Ma voi chi dite che io sia?”»[36]. Evidentemente, «quattro testimonianze diverse non sono riuscite a esaurire» l’imprendibile «ampiezza d’un messaggio» intorno al quale, dopo «venti secoli», ancora ci si interroga e s’indaga[37]. D’altronde, quella domanda – aggiunge Pomilio nell’Interrogazione del cristiano – non è stata rivolta, una tantum, agli apostoli, ma «continua a risuonare anche per noi, chiamandoci a collaborare al discorso della fede, chiedendoci che siamo noi a pronunciarci su chi è Gesù»[38], «con il risultato di trasformare ogni lettura dei Vangeli in un viaggio di scoperta e in una scommessa col mistero»[39]. Poi, magari, potrà anche succedere che si prendano delle solenni cantonate, come è capitato a Morton Smith e al suo pruriginoso Vangelo segreto[40]; ma è esattamente da qui, dalla domanda sempre rilanciata sul conto del Maestro, della sua identità e del suo kèrigma, che prende le mosse il progetto pomiliano del Quinto evangelio, snodando, si può dire, lungo tutta l’era cristiana l’inappagabile ricerca di una risposta in qualche modo definitiva.

Quella praticata e suggerita da Pomilio è insomma una fruizione “interrogante” dei Vangeli. Lo scrittore invita a leggere gli insegnamenti e i moniti di Gesù «come un richiamo alla continua mobilitazione della coscienza, un invito a vivere la nostra vita in tensione», «a diffidare degli atteggiamenti passivi»: «ogni contatto con la parola di Gesù» comporta – dice – «un bisogno continuo di riproposta del senso e delle modalità dell’esistenza»[41]. Egli ha introdotto, infatti, nella sfera del religioso «un coefficiente d’inquietudine, una sorta di disposizione permanente a oltrepassare i termini noti delle obbedienze facili […] e il tranquillo legalismo dell’osservanza della legge mosaica»[42]; «non è venuto a fondare una legge, ma un modo d’essere in tensione nei confronti di qualsiasi legge», «una condizione che richiede giorno per giorno un itinerario di conversione»[43]. «Ciò che autentica l’atto di fede» – ribadisce nel suggestivo L’apartheid di Dio – «è da sempre il quantum di tensione che esige da parte nostra, è lo spazio che esso lascia alle interrogazioni, agli slanci, alle perplessità. […] Dio per il cristiano d’oggi non è il rifugio all’insicurezza, ma uno stimolo al rischio, non è la soluzione, ma il problema dell’uomo»[44].

Perciò, la lettura dei Vangeli implica, per Pomilio, il farsi interpellare sul terreno decisivo del senso della vita e dei principi morali che ne derivano, il sentirsi chiamati a rispondere in coscienza e ad adeguarsi, a conformare la propria esistenza a un modello, con un impegno e una determinazione che non ammettono cedimenti; e, di conseguenza, postula un approccio personale, un accostarsi trepido e carico di domande, un recepire e assorbire del messaggio, magari con la convinzione o la speranza di coglierne l’essenza più profonda, quel che ha da suggerire a noi, gli ammaestramenti più indispensabili per sostenere e orientare le scelte e le fatiche che dobbiamo affrontare nel contesto storico e ambientale in cui ci troviamo. Di qui la necessità, per tutti e per ciascuno, di fare i conti con lui, con la sua parola, a partire dai resoconti, inevitabilmente parziali, degli evangelisti. Così chiarisce Pomilio, accennando alla genesi del Quinto evangelio:

Altra volta a chi scrive è accaduto di dire, metaforicamente, che a ciascuna generazione spetta scrivere un suo vangelo. Il che, se nel campo pratico può servire a designare le opere che compiamo per attenerci ai precetti di Gesù, in sede teoretica raffigura, credo, abbastanza quel tanto d’insonne che proviene al cristiano dal contatto con la parola di Gesù e dalla sua percezione che ogni sforzo per penetrarla non fa che dimostrare da un lato la capacità di restare contemporanea a chiunque vi si avvicina, il suo riproporsi sempre nuovo, dall’altro l’inesauribilità. Evitando cioè di dirci esplicitamente chi, secondo loro, era Gesù, non bloccando la fede a risposte “certe”, rinunziando insomma a proporci una verità bell’e fatta e offrendocela anzi come in fieri, […] ci hanno consegnati, parole di Gesù alla mano, a un destino d’eterni interroganti[45].

È proprio questa «delega della Parola», continuamente rilanciata in ogni tempo, che ha reso «mobile e fervida» la storia bimillenaria del cristianesimo, «trasformando la rivelazione in un evento perpetuo e il problema della fedeltà al messaggio dei Vangeli in quello del suo continuo reinveramento»[46]. Gli Scritti cristiani ci restituiscono, a questo riguardo, due emblematici accertamenti, dove Pomilio esamina la radicalità con cui san Francesco da un lato e Georges Bernanos dall’altro hanno inteso e introiettato la Parola evangelica. Sospinto dal «bisogno d’una riproposta integrale dei Vangeli», san Francesco ha elaborato per i suoi frati la regola in assoluto più radicale, totale, estrema, che si potesse concepire[47]. La singolarità e la forza dirompente della sua proposta stanno tutte in un’intuizione: che non sarebbe stata possibile una «vera restituzione dello “spirito” dei Vangeli» se non attraverso «il recupero della “lettera” dei Vangeli», da intendersi anche e in primis come «mimesi integrale» del linguaggio[48]. La sua straordinaria «dimestichezza coi Vangeli» – afferma Pomilio – consentì al poverello d’Assisi di

comprendere alla perfezione sia le modalità espressive […] sia il carattere di grande narrazione popolare parlante con la presa dell’accadimento quotidiano e d’un linguaggio domestico, familiare, dimesso, estremamente concreto e accessibile ai più umili. Egli intuì, voglio dire, che l’essenza del metodo adottato da Gesù consisté nel pronunziare i suoi insegnamenti tenendosi stretto alla psicologia del popolo e usando parole di tutti i giorni. E fu certamente una simile intuizione che gli consentì di rompere l’involucro del latino e d’avviare (e proprio dall’interno della tradizione religiosa, la più resistente) quella svolta verso l’uso del volgare da cui sboccerà la fioritura letteraria del Duecento[49].

Si deve appunto a questa assunzione letterale dei Vangeli «l’influsso» che san Francesco «esercitò sulla nascita della nostra letteratura»[50]. Senza di lui – sostiene Pomilio – «non si comprenderebbe il miracolo stesso della lingua di Dante che, partito da un registro altamente selettivo, operò successivamente il balzo in direzione del popolare determinandosi a scrivere la Divina Commedia in un linguaggio “remissus et humilis”»[51]. Pomilio entrava così, quasi senza darlo a vedere, nella vexata questio delle fondazioni della letteratura italiana, che certa storiografia ghibellina, laicista e anticlericale aveva assegnato alla Scuola siciliana. Rivendicando il ruolo avuto da san Francesco e dai suoi seguaci nella promozione di un volgare per niente di maniera, ma còlto dalla viva voce degli ultimi, Pomilio suggeriva l’esistenza, fin dalle origini della nostra letteratura, di due distinte e per certi versi opposte tradizioni: quella cortese, di registro illustre e altamente convenzionale, e quella popolare, di registro basso e intrisa di oralità, sul modello dei Vangeli. I Vangeli, appunto, alla cui «scuola» san Francesco si era «interamente» rifatto per compiere la sua rivoluzione, diventano per suo tramite il palinsesto della linea realistica e popolare della nostra letteratura. Ciò significa che essi non solo si possono leggere alla stregua di un’opera letteraria, come Pomilio ha mostrato nel saggio precedente, ma sono anche parte integrante del codice genetico della lingua e letteratura italiana.

Quanto a Bernanos, la ripresa, quasi disperata, degli ideali evangelici nel contesto novecentesco della secolarizzazione mira a salvare le anime, riscattandole dalla massificazione e dalla mercificazione dei rapporti che hanno ridotto l’essere umano a «un rassegnato privo di finalità e di speranza, moralmente indifferente» e quindi «disponibile, al momento buono, per ogni specie di violenza»[52]. Pomilio enfatizza la differenza tra i santi di Bernanos, tutti «disciplina e carità», e il Benedetto di Fogazzaro, il santo «riformatore»[53]. E non a caso si sofferma, in particolare, su un romanzo, Sotto il sole di Satana, che definisce, in maniera calzante, in riferimento all’abate Donissan, «una sorta di moderna Imitazione di Cristo», ricalcata sui Vangeli:

Non si ripete forse, presso Donissan, lo scontro del Cristo coi Farisei? Non si ripete il mito del Cristo tentato da Satana? Non si ripete il destino del Cristo, che passa ignorato o deriso dagli uomini del suo tempo? Non si ripete la sua morte solitaria? E non accade forse, come nei Vangeli, che l’unica consolazione provenga al povero abate dal veder fiorire intorno a sé la fede degli umili e un principio di pietà popolare?[54]

L’accostamento dell’opera, inquieta e drammatica, di un autore contemporaneo come Bernanos alla figura ardente e scandalosa di san Francesco d’Assisi, figlio ribelle dell’età dei Comuni, conferma la tesi enunciata da Pomilio nell’Apartheid di Dio, che cioè «il bisogno dell’interrogazione religiosa non è affatto estinto» e che anzi la cifra dominante e caratteristica della «coscienza d’oggi», rimasta «orfana di Dio» e per questo più che mai bisognosa di «punti di riferimento», «propende più per la “ricerca” che per la “certezza”»[55]. Pomilio percepisce, tra i risvolti inattesi della secolarizzazione, la diffusa inquietudine e perfino «la nostalgia del trascendente» serpeggianti nell’Italia del boom economico, l’«insostituibilità» di un orizzonte religioso per colmare il «vuoto» conseguente alla perdita del fondamento e vincere la «disperazione»[56].

Questa lucida consapevolezza storica è in perfetta sintonia con le riflessioni sviluppate all’interno del mondo cattolico nei fervidi anni del Concilio e depositate nelle costituzioni, come la Dei Verbum, la Lumen Gentium o la Gaudium et Spes, e negli altri documenti conciliari inerenti alle sfide epocali poste dalla secolarizzazione, alla centralità dei Vangeli come memoria culminante delle parole e degli atti con cui il Figlio di Dio ha rivelato l’essenza, la volontà e i disegni del Padre, al sacerdozio dei laici, al rinnovamento della liturgia e della pastorale[57]. Se, come ho già avuto modo di asserire[58], Il quinto evangelio è il romanzo più rappresentativo di quella vivacissima stagione in cui la Chiesa ha avviato un cammino coraggioso di rinnovamento, aprendosi al soffio dello Spirito, negli Scritti cristiani si deposita la coscienza fermentante di Pomilio uomo di fede e intellettuale, che vive intensamente, con animo partecipe, questo tempo di grazia e di travaglio, gustandone e divulgandone i frutti più succosi e duraturi. Pomilio saluta nel Vaticano II la fine del plurisecolare arroccamento della Chiesa in una sua refrattaria separatezza e chiusura pregiudiziale nei confronti del mondo moderno, culminato, un secolo prima, nel Sillabo e nel Non expedit[59]. Sovvertendo il luogo comune che voleva l’istituzione ecclesiastica dogmatica e bigotta, i padri conciliari avevano dimostrato, al contrario, di essere pronti a dialogare con tutti senza complessi, dando prova, con queste aperture, di una vitalità e di un dinamismo che invece erano mancati, semmai, alle ideologie secolari, ingessate nella loro dottrina e quasi del tutto incapaci di mettersi criticamente in discussione. Scrive Pomilio nell’Apartheid di Dio:

Pensandoci bene, a dispetto del dogmatismo e del fideismo che si rimproverano al Cristianesimo, le tranquille certezze ideologiche e filosofiche sono tutte presso i settori che hanno cancellato dal loro orizzonte le esigenze metafisiche e si sono chiusi, essi sì, in un dogmatismo del diniego e in un agnosticismo che preferisce elidere i problemi e postula, al limite, un mare di coscienze tranquille, di coscienze pacificate. Al confronto quello cristiano, almeno da qualche decennio a questa parte, è tutto mosso e fermentante e magari, certo, tutto rischi, ma anche tutto aperture[60].

E nell’Interrogazione del cristiano ribadisce, proseguendo la sua garbatissima apologia: «di fronte alla tranquilla scolasticità delle altre filosofie, quella cristiana è l’unica veramente in movimento»[61]. Tornata ad essere una realtà «minoritaria e talora semiclandestina», come nei secoli delle persecuzioni e delle catacombe, la Chiesa del Concilio ha riscoperto «la carica missionaria e caritativa» delle sue origini e «l’appello ad andare verso il mondo senza orgogli e senza chiusure», riappropriandosi del modello eslege di Gesù «quale emerge dai Vangeli: la sua tendenza ad uscire dai confini della religione storica in cui pure era nato, la sua predilezione pei Samaritani rispetto ai Giudei, il suo dare scandalo sedendo a mensa coi peccatori, il suo insistere nel dire di essere venuto non per il giusto, ma per il peccatore»[62]. In margine a una parabola, quella del Buon Pastore, Pomilio mette in risalto il mandato, ricevuto dalla Chiesa fin dalla sua costituzione nel giorno di Pentecoste e riaffermato dal Concilio con rinnovato vigore, di «fare oggetto della propria trepidazione e del proprio amore ciò che sta fuori di essa più ancora di ciò che sta con essa e dentro di essa» e di andare, quindi, «verso le culture d’oggi non per negarle, ma per abitarle, per coniugarle col Vangelo»[63]. Così facendo, e solo così, la Chiesa adempie la sua missione e conferma la sua dimensione eminentemente profetica. «In che altro consiste», infatti, «l’essere cristiani se non nel farsi, ciascuno nel suo ambito e secondo i carismi che gli sono stati concessi, un testimone della Parola?»[64].

Pomilio si sente interpellato, naturalmente e in primo luogo, in quanto scrittore: come può uno scrittore cristiano farsi «testimone della Parola»? Posto che il «profeta», come si legge in Cristianesimo e cultura, è chi «prolunga nella storia la rivelazione della Parola»[65], come può assolvere a questa missione chi si serve di parole umane per intrecciare delle storie immaginarie intorno a determinati personaggi? Alla luce di queste domande cruciali si comprende meglio perché Pomilio, sulla scorta di Auerbach e di Frye, abbia cercato nella Bibbia, e segnatamente nei Vangeli, anche un paradigma letterario. Ma è in Cristianesimo e cultura che egli definisce i compiti imprescindibili di chi voglia «dedicarsi al mestiere di scrittore» senza tradire il proprio mandato di «testimone della Parola»; due su tutti: avere, «nel modo di ritrarre e d’indagare i propri personaggi, una sottile disposizione a percepire la loro essenza creaturale, a sentirli e trattarli anzitutto come anime»[66] (disposizione «tanto più necessaria» – aggiunge – «oggi, in epoca di piena secolarizzazione», «tutta riversata nella prassi», che «deprime la persona a strumento» e che «in nome della società ignora l’individuo»)[67]; e insieme, in proiezione verticale, tenere «accesi gli interrogativi ultimi e fondamentali dell’uomo, la questione del senso della sua esistenza e della sua destinazione», alimentando almeno «l’interrogazione su Dio», «il sospetto» che sia proprio Lui l’origine e il fine di tutte le cose[68]. Detto diversamente, con le parole di Carmine Di Biase, la missione dello scrittore cristiano è quella di far sentire «l’assoluto nella storia»[69], non senza un «trepidante senso di responsabilità, in cui s’associano e il tremore d’essere l’intermediario d’un messaggio che lo eccede e al quale egli impresta appena la propria voce, e il dubbio e l’umiltà di chi si domanda se lo sia veramente»[70].

E di questo, alla fine, ha voluto dare testimonianza Pomilio concependo il disegno vastissimo, in più pannelli, del Quinto evangelio. Le intenzioni che presiedono all’impegnativo progetto vengono esplicitate in quel prezioso autocommento che è il già menzionato Preistoria d’un romanzo: l’autore ha voluto mostrare in atto gli effetti, nei secoli e nell’impatto con la Storia, «di quella delega permanente della Parola in virtù della quale ciascuna generazione sembra come in attesa d’un supplemento di Rivelazione e non soltanto rilegge diversamente i Vangeli ma, dal modo in cui ne adotta e ne esplica il messaggio, è come se a sua volta scrivesse un suo vangelo»[71]. La «fioritura degli Apocrifi (degli antichi come dei moderni)» era una dimostrazione fin troppo eloquente «della durata e della vitalità di quel mito»[72]. Non stupisce, allora, che il protagonista del capolavoro romanzesco di Pomilio, l’ufficiale americano Peter Bergin, imbattutosi in «alcuni documenti che lo mettono sulle tracce d’un quinto evangelo inedito», «se ne appassiona e impegna l’intera vita nella ricerca di esso», scoprendo

versetti non contenuti nei Vangeli canonici, novelle e leggende popolari che ne attestano l’esistenza e la credenza, lettere, versi, confessioni, epigrafi, documenti d’archivio, pagine a sapore mistico e via dicendo. Scopre soprattutto che in ogni epoca ci sono stati altri uomini, santi, eretici, ribelli, credenti e non credenti, che al pari di lui hanno speso la vita nella medesima ricerca[73].

Anche il Concilio, dal canto suo, aveva dato un impulso fortissimo a rileggere e a riappropriarsi dei Vangeli; e, quel che più conta, aveva esortato a nutrirsene l’intero popolo dei fedeli, senza più esclusioni. Era la prima volta, dai tempi della Riforma protestante, che la Chiesa cattolica lasciava cadere il divieto ai laici di accostarsi autonomamente alla Sacra Scrittura, senza la mediazione del clero. Non per nulla, sull’onda di questo stimolo, nel 1968 l’editore Neri Pozza aveva riproposto i quattro Vangeli canonici nella traduzione letteraria, molto apprezzata da Pomilio, rispettivamente di Nicola Lisi, Corrado Alvaro, Diego Valeri e Massimo Bontempelli[74]. Come ho già avuto modo di sottolineare, «senza il Concilio, Pomilio probabilmente non avrebbe mai scritto il suo capolavoro. Si deve infatti alla Dei Verbum se la Bibbia, per secoli interdetta al gregge cattolico, alla stregua di un libro proibito, non solo torna a circolare, in traduzione, ma viene collocata al centro della vita cristiana, nutrimento quotidiano per lo spirito»[75]. Di fatto, nelle pagine iniziali del Quinto evangelio Pomilio ci fa assistere a un virtuale passaggio di consegne, nella ricerca del fantomatico «Vangelo dei Vangeli»[76], da un parroco di Colonia, deceduto all’inizio della Seconda guerra mondiale, a un professore americano che indossa la divisa da ufficiale: dunque, per quel che ci interessa, da un chierico a un laico[77].

Pomilio ci racconta, in Preistoria d’un romanzo, la genesi dell’opera e il suo faticoso sviluppo, protrattosi per un intero quinquennio, indugiando fra l’altro sull’evoluzione della struttura, dall’ipotesi originaria di scrivere un romanzo epistolare, formato unicamente da lettere di epoche diverse, all’opzione di fornire una raccolta eterogenea di fonti e un miscuglio di generi diversi, violando i codici più convenzionali della forma romanzo[78]. E rivela anche di essere stato assalito a più riprese dal «dubbio di star scrivendo» un’opera «anacronistica»[79], inviluppata in vicende remote e «in un lavoro di mimesi, anche in senso stilistico», contro il suo «intento di scrivere un romanzo carico di risonanze nostre»[80]. Ma quel timore era del tutto infondato, perché in realtà Il quinto evangelio s’intonava perfettamente al clima religioso e culturale generato dal Concilio[81] e la distanza temporale dai fatti narrati serviva soltanto a salvare la storia da ogni caduta nella cronaca e nella «polemica scoperta»[82]. Via via che procede con l’elaborazione del romanzo, Pomilio si tranquillizza, «rendendosi conto» che l’opera era «leggibile anche, o soprattutto, come una sorta di lunga metafora della situazione religiosa» di quegli anni, «dei fermenti e magari dei dissensi» che agitavano la Chiesa, «dei problemi emersi dopo il Concilio». Scrive perciò, chiudendo la sua rievocazione:

La stessa richiesta d’una maggior vicinanza ai Vangeli, così avvertita nel Cattolicesimo d’oggi, e che fa del nostro un vero e proprio tempo cristologico, non inverava in qualche modo la mia intuizione originaria? Non eravamo, per tanti versi, in fase di “quinto evangelismo”? Dietro le parvenze storiche del mio romanzo c’era in altri termini tutto un tessuto di riporti all’attualità, c’era il brulicare dei fermenti del presente […]. E dietro le quinte (perché non dirlo?) non c’ero forse io, che utilizzavo una metafora per rispecchiarvi le mie attese e i miei dilemmi di cristiano passato attraverso il fuoco del Concilio?[83].

A prescindere, quindi, dalla cronologia spicciola delle date di stesura, i 14 Scritti cristiani confluiti nell’edizione Rusconi del 1979 si possono considerare, a buon diritto, e presi in blocco, la “preistoria”, ovvero la cornice problematica, l’avantesto riflessivo, del Quinto evangelio.

  1. M. Pomilio, Scritti cristiani, nuova edizione accresciuta, a cura di M. Beck, Prefazione di G. Langella, Milano, Vita e Pensiero, 2014.
  2. M. Pomilio, Scritti cristiani, Milano, Rusconi, 1979.
  3. Peraltro, alla fine del secolo scorso Beck aveva proposto senza successo a due case editrici, una cattolica e una laica, la pubblicazione di un secondo volume, totalmente autonomo, di Scritti cristiani, che avrebbe dovuto raccogliere 22 testi di Mario Pomilio non inclusi nel libro del ’79, di cui tre addirittura inediti: cfr. M. Beck, Il quinto e il sesto evangelio di Mario Pomilio, negli Atti del convegno su Chierici e laici nella letteratura italiana, prima e dopo il Concilio (Milano-Brescia, 4-5 novembre 2013), a cura di G. Langella, Borgomanero, Giuliano Ladolfi Editore, 2014, pp. 256-96, cit. alle pp. 285-89, par. intitolato Storia di un libro mai nato. Rispetto, dunque, a questo progetto iniziale, l’edizione Vita e Pensiero 2014 rappresenta un doppio ripiego, proponendo solo la metà degli “scritti cristiani” selezionati per il nuovo volume e accorpandoli a quelli della princeps.
  4. La bibliografia critica sugli Scritti cristiani di Pomilio non è particolarmente copiosa, ma in compenso può vantare un’eccellente monografia, che si segnala come indispensabile punto di riferimento: L. Isernia, Mario Pomilio e gli «Scritti cristiani». Una rilettura critica, Roma, Studium, 2012. Cfr. inoltre I. A. Chiusano, Pomilio e gli «Scritti cristiani», negli Atti del convegno su Mario Pomilio e il romanzo italiano del Novecento (Napoli, 19-20 aprile 1991), a cura di C. Di Biase, Napoli, Guida Editori, 1995, pp. 111-18; e M. Beck, Il quinto e il sesto evangelio…, op. cit., specialmente pp. 270-82.
  5. Tanto che Beck ha definito addirittura gli Scritti cristiani il «sesto evangelio» di Pomilio: cfr. M. Beck, Il quinto e il sesto evangelio…, op. cit.
  6. W. Santini, Mario Pomilio. Un impegno totale, in Media allo specchio. Letteratura e Giornalismo, a cura di E. Di Iorio e F. Zangrilli, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2014, pp. 139-57, cit. alle pp. 148-49.
  7. M. Pomilio, Il quinto evangelio, Milano, Rusconi, 1975.
  8. M. Pomilio, Lettera a una suora, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 29-35, cit. a p. 31.
  9. M. Pomilio, L’uccello nella cupola, Milano, Bompiani, 1954.
  10. M. Pomilio, Lettera a una suora, op. cit., p. 34.
  11. Sull’importanza decisiva di quest’incontro ha indugiato, opportunamente, L. Piccioni, Gli «Scritti cristiani»: Lettera a una suora, in Mario Pomilio e il romanzo italiano del Novecento, op. cit., pp. 119-22; cfr. inoltre M. Beck, Mario Pomilio: il Vangelo incarnato nella letteratura, in Id., Le mani e le sere. Incroci tra fede e letteratura, Borgomanero, Giuliano Ladolfi Editore, 2015, pp. 285-99, cit. alle pp. 285-86.
  12. M. Pomilio, Lettera a una figlia, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 11-20, cit. a p. 16.
  13. Ivi, pp. 17-18.
  14. Ivi, p. 15.
  15. Ivi, p. 18.
  16. Ivi, p. 17. Su questi aspetti cfr. L. Isernia, Mario Pomilio e gli «Scritti cristiani»…, op. cit., pp. 31-33.
  17. M. Pomilio, La Bibbia come letteratura, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 95-101, cit. a p. 95.
  18. Ibidem.
  19. Ivi, pp. 95-96.
  20. Cfr. A. Montariello, Mario Pomilio: la ricerca della Verità. Itinerario spirituale e artistico di un intellettuale cattolico, Napoli, Giannini Editore, 2005, p. 563.
  21. M. Pomilio, La Bibbia come letteratura, op. cit., p. 96.
  22. Ivi, p. 98.
  23. Ivi, p. 97.
  24. Ivi, pp. 97-98, 100-101.
  25. M. Pomilio, I Vangeli come letteratura, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 103-11, cit. a p. 103. Cfr., per questi aspetti, L. Isernia, Mario Pomilio e gli «Scritti cristiani»…, op. cit., pp. 123-24.
  26. M. Pomilio, I Vangeli come letteratura, op. cit., p. 106.
  27. Ivi, p. 107.
  28. M. Pomilio, L’interrogazione del cristiano, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 53-60, cit. alle pp. 55-56.
  29. M. Pomilio, I Vangeli come letteratura, op. cit., p. 108. Quanto questa interpretazione letteraria dei Vangeli dipendesse dall’Auerbach di Mimesis è stato ampiamente documentato da A. Montariello, Mario Pomilio: la ricerca della Verità…, op. cit., pp. 564-72.
  30. Cfr. M. Sovente, Mario Pomilio critico letterario. L’opera come coscienza e stile, in «Italian Quarterly», XXVI, 1985, nn. 99-101, pp. 171-84. Per una ricognizione a tutto campo sull’attività accademica e militante del Pomilio italianista, rimando alle altre relazioni qui raccolte negli Atti della giornata di studi promossa da Cecilia Gibellini a Vercelli, presso l’Università del Piemonte Orientale, lo scorso 21 marzo 2023.
  31. Cfr. in particolare le due monografie di M. Pomilio, La fortuna del Verga, Napoli, Liguori, 1963; e Dal naturalismo al verismo, Napoli, Liguori, 1966; nonché la raccolta postuma di Scritti sull’ultimo Ottocento, a cura di M. Volpi, Novate Milanese, Prospero, 2017.
  32. M. Pomilio, La Bibbia come letteratura, op. cit., pp. 95-96.
  33. M. Pomilio, I Vangeli come letteratura, op. cit., p. 107.
  34. Ivi, p. 106.
  35. Ivi, pp. 110-11.
  36. Ivi, p. 111.
  37. Ivi, p. 110.
  38. M. Pomilio, L’interrogazione del cristiano, op. cit., p. 58.
  39. M. Pomilio, I Vangeli come letteratura, op. cit., p. 111.
  40. M. Pomilio, Il Vangelo secondo Smith, op. cit., pp. 141-57.
  41. M. Pomilio, I Vangeli come letteratura, op. cit., pp. 54 e 58.
  42. Ivi, p. 54.
  43. Ivi, p. 59.
  44. M. Pomilio, L’apartheid di Dio, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 45-51, cit. a p. 48. Su questi temi cfr. C. Di Biase, Mario Pomilio. L’assoluto nella storia, Napoli, Federico & Ardia, 1992, pp. 32-33 e passim.
  45. M. Pomilio, L’interrogazione del cristiano, op. cit., p. 57.
  46. Ivi, p. 58.
  47. M. Pomilio, Il paradosso di san Francesco, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 113-16, cit. a p. 113.
  48. Ivi, pp. 114-15.
  49. Ivi, pp. 115-16.
  50. Ivi, p. 115.
  51. Ivi, p. 116.
  52. M. Pomilio, Costeggiando Bernanos, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 117-26, cit. alle pp. 118-19.
  53. Ivi, pp. 121-22. Su questa contrapposizione ha già portato l’attenzione A. Montariello, Mario Pomilio: la ricerca della Verità…, op. cit., pp. 550-51.
  54. M. Pomilio, Costeggiando Bernanos, op. cit., p. 123.
  55. M. Pomilio, L’apartheid di Dio, op. cit., p. 47.
  56. Ivi, p. 46.
  57. Per una storia del Concilio si consultino almeno G. Alberigo, Breve storia del Concilio Vaticano II, Bologna, Il Mulino, 2005; J. W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 2010; L. Coco, I grandi temi del Concilio Vaticano II, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2012; B. Sorge, La traversata. La Chiesa dal Concilio Vaticano II a oggi, Milano, Mondadori, 2010. Nello specifico, sull’apostolato dei laici, aspetto nevralgico seguito da Pomilio col massimo interesse, cfr. G. Campanini, Il laico nella Chiesa e nel mondo, Bologna, EDB, 1999.
  58. G. Langella, Prefazione a M. Pomilio, Scritti cristiani [2014], op. cit., p. 10.
  59. M. Pomilio, Cristianesimo e cultura, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 61-94, cfr. alle pp. 61-62. A questo articolo, davvero centrale, per posizione, per ampiezza e per importanza tematica, nell’economia degli Scritti cristiani, ha dedicato una trattazione particolarmente approfondita L. Isernia, Mario Pomilio e gli «Scritti cristiani»…, op. cit., pp. 72-101. Gli ha dato opportuno rilievo anche S. Latora, Il cristianesimo profetico nella rinnovata problematicità giobbica di Mario Pomilio, in La letteratura e il sacro, vol. V, Narrativa e teatro (Dagli anni Settanta del Novecento fino ai nostri giorni), a cura di F. D. Tosto, Roma, BastogiLibri, 2016, pp. 272-74.
  60. M. Pomilio, L’apartheid di Dio, op. cit., p. 48.
  61. M. Pomilio, L’interrogazione del cristiano, op. cit., pp. 59-60.
  62. M. Pomilio, In margine a una parabola, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 37-44, cit. a p. 41.
  63. Ivi, pp. 42-43.
  64. M. Pomilio, Cristianesimo e cultura, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., p. 81. Su questa idea testimoniale e profetica del cristianesimo di Pomilio cfr. M. Beck, Il quinto e il sesto evangelio…, op. cit., pp. 276-77.
  65. M. Pomilio, Cristianesimo e cultura, op. cit., p. 81. Sulla concezione pomiliana di profezia ha effettuato osservazioni estremamente acute M. Naro, Contemporaneità di Cristo e profezia: una lettura di Mario Pomilio, in Id., Sorprendersi dell’uomo. Domande radicali ed ermeneutica cristiana della letteratura, Assisi, Cittadella Editrice, 2012, pp. 257-76. Cfr. inoltre M. Marchi, C. Menotti, Il cristianesimo come profezia in Mario Pomilio, Roma, LAS, 1985; e C. Di Biase, Mario Pomilio. L’assoluto nella storia, op. cit., pp. 61, 73-74 e passim.
  66. M. Pomilio, Cristianesimo e cultura, op. cit., p. 87.
  67. Ivi, pp. 90-91.
  68. Ivi, p. 90.
  69. C. Di Biase, Mario Pomilio. L’assoluto nella storia, op. cit.
  70. M. Pomilio, Cristianesimo e cultura, op. cit., p. 83.
  71. M. Pomilio, Preistoria d’un romanzo, in Id., Scritti cristiani [1979], op. cit., pp. 127-40, cit. a p. 129. Questo aspetto del Quinto evangelio è stato messo particolarmente in luce da F. Castelli, Mario Pomilio: il Cristo dai cento volti, in Id., Volti di Gesù nella letteratura moderna, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1987, pp. 519-58, specialmente alle pp. 520-41.
  72. M. Pomilio, Preistoria d’un romanzo, op. cit., p. 128. Di qui, appunto, la fioritura, in piena secolarizzazione, di decine di riscritture letterarie dei Vangeli, quelle che G. Lupo ha definito I vangeli apocrifi del Novecento, negli Atti del convegno su La ricerca del fondamento. Letteratura e religione nella società secolarizzata (Brescia, 8-9 novembre 2010), a cura di G. Langella, Borgomanero, Giuliano Ladolfi Editore, 2011, pp. 179-86. Il ruolo focale avuto dal Quinto evangelio in questa fioritura è stato messo in rilievo sempre da G. Lupo, Il modello Pomilio, negli Atti del convegno sugli Apocrifi moderni. Riscritture dei Vangeli nel Novecento e oltre (Brescia-Milano, 8-9 maggio 2012), a cura di G. Langella, Borgomanero, Giuliano Ladolfi Editore, 2013, pp. 84-94.
  73. M. Pomilio, Preistoria d’un romanzo, op. cit., p. 133.
  74. Ivi, p. 127. Come c’era da aspettarsi, questa edizione dei Vangeli figura tra i libri posseduti dall’autore: cfr. L. Bianchi, La biblioteca culturale di Mario Pomilio, in Biblioteche reali, biblioteche immaginarie. Tracce di libri, luoghi e letture, a cura di A. Dolfi, Firenze, University Press, 2015, pp. 349-62, cit. a p. 359.
  75. G. Langella, L’annuncio di una Chiesa nuova: la letteratura contemporanea nello spirito del Concilio, in Il Concilio Vaticano II crocevia dell’umanesimo contemporaneo, a cura di A. Bianchi, Milano, Vita e Pensiero, 2015, pp. 219-32, cit. a p. 231.
  76. M. Pomilio, Il quinto evangelio, op. cit., p. 23.
  77. Per una ricognizione ad ampio raggio sulla rappresentazione del laicato cattolico nella narrativa italiana del dopo-Concilio rimando a F. D. Tosto, Il sacerdozio universale e il ruolo del laico cristiano nella letteratura postconciliare, in Chierici e laici nella letteratura italiana…, op. cit., pp. 223-55.
  78. Cfr. M. Pomilio, Preistoria d’un romanzo, op. cit., pp. 128-30. Sull’architettura del romanzo cfr. P. Maffeo, Scrittura e struttura del «Quinto evangelio», negli Atti del convegno su Mario Pomilio, pellegrino dell’assoluto (Firenze-Panzano in Chianti, 20-21 novembre 2009), a cura della Comunità di San Leolino, Panzano in Chianti, Edizioni Feeria, 2010, pp. 149-79. Sull’«ibridismo» dei generi come dato strutturale del romanzo si è soffermata anche A. Montariello, Mario Pomilio: la ricerca della Verità…, op. cit., pp. 121-33. Giustamente, poi, Wanda Santini ha ricondotto il “miscuglio di generi” sperimentato da Pomilio nel Quinto evangelio alla descrizione della Bibbia che Northrop Frye ha fatto in Anatomia della critica: cfr. W. Santini, Mario Pomilio. Un impegno totale, op. cit., pp. 145-47. Per una lettura a tutto tondo del romanzo cfr. inoltre W. Rupolo, Umanità e Stile. Studio su Mario Pomilio, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 1991, pp. 77-102.
  79. M. Pomilio, Preistoria d’un romanzo, op. cit., p. 138.
  80. Ivi, p. 132.
  81. Lo ha ampiamente dimostrato A. Montariello, Mario Pomilio: la ricerca della Verità…, op. cit., pp. 111-18. Molti preziosi riscontri e considerazioni calzanti anche in W. Santini, Mario Pomilio. Un impegno totale, op. cit., pp. 149-54.
  82. M. Pomilio, Preistoria d’un romanzo, op. cit., p. 139.
  83. Ibidem.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023)