Italo Calvino e l’estetica dell’intelligenza artificiale: giochi linguistici, morte dell’autore e teoria della ricezione

Author di Daniel Raffini

L’attenzione al legame tra scienza e cultura e lo sguardo analitico sul mondo rendono Calvino uno scrittore in grado di prevedere fenomeni sociali e culturali. È il caso della rivoluzione digitale, di cui è uno dei primissimi osservatori[1]. La preveggenza calviniana si dimostra anche nel campo dell’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda l’interazione con la produzione artistica e l’immaginario culturale. Il tema torna in diversi saggi ed è presente anche nella scrittura finzionale[2]. All’interno di questa vasta produzione, il saggio Cibernetica e fantasmi affronta in maniera estesa il rapporto tra essere umano e macchine dal punto di vista della scrittura. Continua a leggere Italo Calvino e l’estetica dell’intelligenza artificiale: giochi linguistici, morte dell’autore e teoria della ricezione

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

“Poetry matters”. Croce e il valore civile della comprensione

Author di Fabrizia Giuliani

Comunicare e comprendere

Nella raccolta di studi pubblicata nel 1999 in occasione del settantesimo compleanno di Gennaro Sasso, una Festschrift che anticipa fin dal titolo l’ampiezza degli ambiti trattati, Tullio De Mauro torna su temi crociani affrontando il tema della comprensione[1]. A rigore, non si tratta di una novità: la comunicazione è un nodo sul quale il linguista ha sempre insistito, dai primi lavori all’Introduzione alla semantica, agli ultimi interventi[2].

Nessuna discontinuità, dunque? Uno sguardo superficiale, fermo alla scelta del tema, potrebbe confermare il giudizio; se invece si osserva lo sviluppo dell’analisi, si comprende rapidamente come queste pagine rappresentino un vero e proprio tornante teorico, che tocca il giudizio sulla filosofia del linguaggio crociana, il modo d’intenderla e periodizzarla, il suo rapporto con le scienze del linguaggio. Ma andiamo per ordine, seguendo il testo e soprattutto i luoghi ai quali l’autore rinvia: saranno essi, infatti, a offrirci la chiave interpretativa corretta.

Il punto di partenza è la Filosofia della pratica: se De Mauro ha sempre riconosciuto un ruolo centrale al testo che chiude la trilogia sistematica, in queste pagine ne sottolinea soprattutto il carattere di apertura. Ribadisce che lo sviluppo teorico previsto e auspicato da Croce in ogni ambito della riflessione, il “Continua tu” che ritorna in più scritti, non esclude il linguaggio, ma anzi lo riguarda in modo particolare. Il linguista esclude una lettura rigida, statica, del

pensiero linguistico crociano, sostenendo, com’è noto, che l’identificazione di linguistica ed estetica propria del sistema e incompatibile con “qualunque linguistica possibile”, secondo il noto giudizio di Lepschy, viene poi superata nella fase più matura[3].

Questa interpretazione, diventata un punto di riferimento nella letteratura critica a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, sembrava destinata a non incorrere in ripensamenti e revisioni. Nel saggio citato si osserva uno sguardo diverso, se non un vero e proprio cambio di passo. Scrive De Mauro: «già mentre andava delineando il suo sistema, Croce elaborava in materia di linguaggio, di parole e loro senso e uso, riflessioni collaterali tanto acute quanto difficili da raccordare con la visione sistematica del linguaggio come arte e del parlare come poetare»[4].

Due ordini di considerazioni discendono da questo giudizio: non vi è più solo una “seconda” linguistica ma “un’altra” linguistica crociana che si sviluppa a partire dagli anni del sistema. Il linguista parla di riflessione “collaterale”: se è esclusa la successione, è ribadita l’alterità, l’assenza di conciliazione con la teoria delineata nella Filosofia dello Spirito.

Una periodizzazione da ripensare

Vediamo dunque quali sono i concetti coinvolti nello sviluppo di questa linguistica “altra”. Croce, afferma De Mauro, elabora una teoria attenta e articolata della comprensione linguistica: riconosce la natura processuale dell’accertamento del senso, la continua correzione in corso d’opera[5].

Il punto di svolta, sostiene, si osserva nelle pagine dedicate alla Poesia di Dante, pagine note, alle quali filosofia e critica letteraria hanno dedicato nel tempo riflessioni importanti, ma che gli studi filosofico-linguistici hanno invece trascurato[6].. La scelta di porre al centro le parole, la possibilità di ricostruirne e accertarne il senso, rappresenta una novità rispetto all’assetto definito nel sistema, che porta a riconoscere la necessità delle conoscenze necessarie ai processi di comprensione e interpretazione dei testi. Ma vediamo il passaggio:

E se io dovessi designare in qualche modo l’interpretazione storica che è propria dell’interpretazione storico-estetica, ossia il momento analitico che precede quello sintetico, direi che è l’explanatio verborum, l’interpretazione, largamente intesa, del senso delle parole: senso che, come tutti sanno, si trae non dalla loro etimologia e dalla sequela di concetti e dei sentimenti che hanno concorso a formarle e che ne costituiscono una sorpassata pre-istoria, ma dall’uso generale dei parlanti in un dato tempo, dall’ambiente in cui sono adoperate e si determina e individua poi in relazione alla nuova frase che è composta di esse e insieme le compone e crea. Proposizioni filosofiche, nomi di persone, accenni a casi storici, giudizi morali e politici e via dicendo, sono, in poesia, nient’altro che parole, identiche sostanzialmente a tutte le altre parole, e vanno interpretate in questi limiti. Nella interpretazione allotria non sono più, e non debbono essere, parole, ossia immagini, ma cose[7].

Qui, l’autore dell’Estetica, fermo assertore dell’inconsistenza dei tentativi di distinguere e segmentare le classi di espressione, mostra un’oscillazione significativa rispetto alle affermazioni del sistema, secondo le quali:

É falso che il nome o il verbo si esprimano con determinate parole. L’espressione è un tutto indivisibile; il nome e il verbo non esistono in essa, ma sono astrazioni che vengono da noi forgiate col distrugger la sola realtà linguistica ch’è la proposizione, ossia l’espressione. Ciò suona paradossale ma è verità semplicissima[8].

Non vi è dubbio sul fatto che nel passaggio osservato più su si registri una considerazione nuova rispetto al ruolo delle parole e dunque della lingua, intesa come tessuto comune, patrimonio condiviso, termine di riferimento per ogni atto di produzione e comprensione.

Questa linea di riflessione, come noto, si svilupperà ulteriormente nel libro del ’36, La Poesia; occorre però chiedersi da dove tragga origine e, soprattutto, se sia interpretabile solo in chiave diacronica. Nelle prossime pagine proveremo a misurarci con questi interrogativi, assumendo una prospettiva che non oppone sincronia e diacronia. Come ha affermato Marcello Mustè, la “svolta” è già implicita negli studi preparatori dell’estetica ma manifesta le sue conseguenze teoriche solo in un secondo tempo – ossia dopo gli studi hegeliani. Serve uno sguardo d’insieme, capace di seguire l’intreccio che lega la riflessione sul linguaggio al pensiero etico-politico, tratto distintivo di tutta la filosofia crociana[9].

Le Parole da capire

Come emerge con chiarezza nelle pagine della Poesia, l’autonomia del giudizio estetico non va intesa come affermazione dell’irrilevanza delle conoscenze necessarie alla sua formulazione, a cominciare, nel caso dei testi poetici e letterari, dalle conoscenze linguistiche. Nel celebrare la grandezza di Dante e della Commedia, «opus poèticum cui si consertano l’opus philosophorum e l’opus praticum», se da un lato Croce condanna le «interpretazioni allotrie», gli studi fondati su aspetti esterni al momento poetico ‒ dove prevalgono analisi politiche, morali, filosofiche ‒, dall’altro ne sottolinea la necessità, data la vastità dei riferimenti contenuti e la molteplicità dei livelli di lettura dell’opera. L’esortazione non va fraintesa: il giudizio estetico è e resta prioritario rispetto alla sfera logica e pratica ‒ «anche se tutte le allegorie di tutte le liriche e di tutti i luoghi della Commedia fossero spiegate resterebbe poi sempre da interpretare quelle liriche, prescindendo cioè dalle allegorie come inutili e dannose distrazioni, e ricercandone il vero ‘senso specifico’»[10].

In quanto prodotto pratico, atto di volontà, l’allegoria è frutto di una decisione arbitraria – convenzione, diremmo oggi attingendo al lessico semiotico ‒ con cui si “decreta che questo debba significare quello”; altra cosa è la poesia, dove non c’è rigidità nel rinvio da un piano all’altro e non sono necessarie istruzioni: ciò che precede il giudizio è solo la conoscenza degli elementi del «vivo linguaggio che in quei luoghi si atteggiano a nuova sintesi»[11].

Non casualmente, nella parte della Poesia dedicata al tema della rievocazione e della traducibilità, torna ancora la metafora dell’albero per descrivere il lavoro di restituzione dei testi poetici che la filologia svolge: «niente è nell’universo che sia meramente naturale e non storico, e di una preparazione maggiore o minore o minima c’è sempre bisogno per ripigliare e continuare il lavoro della vita». Lo sforzo individuale di un autore che cerca di farsi tornare alla mente l’espressione originaria, quando ormai «son venute meno, in tutto o in parte, le condizioni soggettive e oggettive che possedeva al momento della creazione», è paragonabile al ruolo di ricostruzione del filologo, che opera per riparare allo smarrimento o alla dispersione provocati dallo scorrere del tempo e degli eventi, consentendo quei ritrovamenti o “scoperte” necessari alla costruzione del sapere e della tradizione. Va poi ricordato, prosegue il filosofo, lo sforzo delle discipline che insieme alla filologia concorrono all’accertamento del senso, come la paleografia e la critica del testo

alla quale seguono i glossari dei suoni e delle forme per singole opere e autori, e lessici di una lingua di un popolo, o più lingue insieme, in cui i vocaboli sono messi in corrispondenza tra loro e morfologie e sintassi e metriche e altri simili istrumenti, e commenti letterari e storici, in cui si determina il significato di vocaboli e frasi, che si pongono in relazione con notizie di cose, di fatti e di idee[12].

La forma espressiva che la lingua concorre a costruire non è mai individuale. Questo punto è dirimente: nella letteratura non è in gioco l’opera del singolo ma il “genio dell’umanità”. Per comprendere lingue lontane nello spazio e nel tempo non bastano i saperi; serve il “consenso” dei parlanti che partecipano all’atto comunicativo:

Per opera di questa magia si compie quotidianamente il miracolo dell’apprendere lingue che chiamiamo straniere: al quale effetto niente varrebbe avere innanzi ai sensi e all’intelletto gli oggetti, le costumanze. gli eventi, le persone di cui in quelle lingue si parla, né conoscere le approssimative e astratte corrispondenze di significato dei loro suoni articolati gli astratti suoni articolati desunti dal modo di parlare che ci è solito. Tutte le cognizioni forniteci dalla filologia, utilissime certamente, resterebbero disgregate e inerti se non ci fosse il fondamentale ed essenziale esercizio che noi siamo esseri parlanti e il nostro interlocutore di lingua straniera è un essere parlante, e che le vibrazioni nostre e quelle di lui sono omogenee, le une e le altre vibrazioni della comune umanità, e perciò, per consenso o simpatia quelle dell’uno finiscono con l’essere risentite dall’altro […][13].

Vale la pena tornare alle riflessioni sulla traduzione che attraversano, come noto, tutto il pensiero crociano con qualche ambivalenza. Se da un lato il filosofo sembra ammetterla solo per la prosa, dall’altro sottolinea la necessità di rendere accessibili in lingue diverse le stesse opere poetiche. Il punto, ribadisce, è comprendere a fondo quali siano il significato e la funzione del tradurre: non si capirebbe, oggi, ciò che Vico intendeva quando parlava di “certo del conoscere” distinguendolo e contrapponendolo al “vero”, perché quelle parole oggi hanno un senso diverso, sono pensate ed espresse con altri vocaboli. Il lavoro del traduttore consiste in questa ricerca e si misura costantemente con l’incertezza e l’errore. L’utopia della lingua comune, la “dotta lingua franca” finalizzata a stabilire un’equivalenza più stabile tra i segni è una risposta al riconoscimento di questo rischio, ma resta, appunto, un’utopia:

sebbene le proposte di unificazione abbiano avuto qualche pratica attuazione nelle scienze astratte, e sebbene le altre naturali si aiutino col latino e col greco, e sebbene la compenetrazione delle culture renda in un certo senso d’uso internazionale le stesse lingue nazionali, tanto da non far sentire urgente il bisogno di artificiali unificazioni, la varietà dei segni, e la conseguente necessità delle traduzioni persisterà sempre, perché i nuovi concetti sorgono sempre, nonché nella diversità dei popoli e dei loro linguaggi, negli individui, che sempre coi nuovi concetti creano nuovi segni[14].

Ancora sulla Communicatio idiomatum

Tradurre vuol dire, dunque, raggiungere un punto di mediazione tra le esigenze della comunicazione – “il reciproco intendimento” ‒ e il rispetto della diversità delle lingue. Come afferma De Mauro, si tratta di un processo «forzatamente non lineare» perché mira a circoscrivere e afferrare un senso particolare, dove i bisogni espressivi del passato s’incontrano con le forme linguistiche del presente

condizionate queste sia dall’ambiente e dall’uso generale, sia […] dal loro particolare comporsi e riattualizzarsi con modalità non interamente predeterminabili, ma piuttosto con un nodo di molti fili da rintracciare e sciogliere, come l’avvincersi e sorreggersi reciproco di molti tralci in una pergola[15].

Torniamo alla comprensione. Nell’Estetica Croce rifiuta la possibilità di collocare il processo su un terreno radicalmente arbitrario – convenzionale – che definisce un errore al quale è quasi preferibile la dottrina della “communicatio idiomatum”, rappresentazione in forma “mitologica” di quell’intendersi su basi comuni – universali – appena osservato[16]. Il problema della reciproca comprensione va posto nel luogo che gli è proprio, aveva affermato a proposito delle teorie di Hamann, ossia sul piano teoretico: si corre il rischio, altrimenti, di un approccio “mistico” quale quello dell’autore tedesco che individua la risposta del problema della comprensione nella “communicatio idiomatum con Dio”.

La posta in gioco è sempre l’autonomia della lingua: nell’interpretazione di Hamann, Croce legge la necessità di affrontare in maniera radicale la questione, andando oltre le teorie convenzionaliste che finiscono per rinviare, alla fine, «all’inconoscibile»[17]. Se non si riconosce che il linguaggio è «segno a sé stesso», il rischio di misticismo è inevitabile, come Croce spiega con chiarezza in questo passo tratto dal Breviario:

L’immagine significante è l’opera spontanea della fantasia, laddove il segno, nel quale l’uomo conviene con l’uomo, presuppone l’immagine e perciò il linguaggio; e, quando si insista a spiegare mercé il concetto di segno il parlare, si è costretti alfine a ricorrere a Dio, come datore dei primi segni, cioè a presupporre in altro modo il linguaggio, rinviandolo all’inconoscibile[18].

Non è diverso il riferimento che troviamo nelle Postille al capitolo dedicato all’Interpretazione storico-estetica nel libro del ’36: a paragone degli insufficienti tentativi delle «associazioni, inferenze o convenzioni», è preferibile ciò che, sia pure in «forma “mitologica”», esprime il fatto che ci si intenda sul «fondamento della nostra comune umanità». Se inizialmente il rinvio alla “communicatio idiomatum” è utilizzato in chiave polemica, contro le visioni convenzionali della lingua, nella fase più matura tali richiami vanno ricondotti al tentativo compiuto dal filosofo di misurarsi con il problema “pratico” della comunicazione[19]. Come afferma Marcello Mustè:

Osservato dal lato dell’estetica, il linguaggio, anche nella sua versione comunicativa, appariva come una medesimezza di contenuto teoretico traslata in una forma differente. Osservato, invece, dal lato della praxis, che ne era l’autentica artefice, la comunicazione non poteva che rivelare il volto della differenza, nel contenuto oltre che nella forma, quindi una radice convenzionale, persino arbitraria, esposta al fraintendimento e all’errore. Questo era il problema che si apriva a partire dalla Logica. La comunicazione, come si diceva, non presupponeva per Croce intersoggettività e pluralità di parlanti, né una vera e propria comunità̀ umana. Fu appunto sul versante dello storicismo e della riflessione etico-politica, più̀ che in quello strettamente linguistico, che questo aspetto venne ripreso e ripensato, perché, come scrisse nel libro su La poesia, «tutti sono, vivono e si muovono in Dio»[20] .

Non basta più riconoscere la natura categoriale del linguaggio e “presupporre” la comunicazione; se non si vuol restare “disarmati”, occorre provare a comprendere concretamente come tale processo si determina, individuare gli strumenti di cui si avvale:

La coscienza estetica, come la coscienza morale, è disarmata e non può combattere: solo la critica è armata e combattente. I moti del gusto e del disgusto, per vivacissimi che siano, tutto potranno operare, ma non già quell’unico atto che il giudizio compie e che è, semplicemente di dare il nome alle cose, e aprire così la via al modo di comportarsi verso di esse[21].

Riprendendo le parole demauriane con le quali avevamo aperto la nostra riflessione, la “ricchezza e fecondità” di queste riflessioni è evidente, com’è evidente la loro attualità. Non mi riferisco solo alle teorie linguistiche, alla traduzione, ma al presupposto che rende possibile il riconoscimento del ruolo della lingua, il valore delle parole, la necessità della loro condivisione; per riprendere un altro momento cruciale della filosofia crociana: le ragioni della Difesa della poesia[22].

Non appaia irrituale, allora, concludere queste pagine ricordando alcuni luoghi dove la «concreta arte e poesia»[23] confermano la teoria di Croce, mostrando la spinta alla traduzione impossibile ma necessaria, la scoperta delle parole da condividere nei momenti estremi, quando i moti «inferiori e barbarici»[24] sembrano prendere il sopravvento. Torna il racconto insuperato di Primo Levi, che nei campi di Auschwitz ricorda e traduce i versi dell’Inferno per l’amico francese: «Come se anche io sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono»[25]. Riecheggiano ora gli stessi versi e lo stupore che li accompagna nelle pagine di Ilya Kaminsky, poeta ucraino già tradotto in molte lingue. Scrive dell’incontro con Dante a Kyiv, di come anche nei rifugi antiaerei Virgilio appaia una guida salda, capace di immaginare il mondo oltre il buio[26]:

Dante has no need to defend his art. Poetry matters: he sees it as a primal ancient force and art form, one that’s been here long before our individual lifetimes and will stay long after (Vergil, who lived centuries before him, guides him into the present). What we need, Dante’s journey shows us, is to defend ourselves with it: a tune to walk to, even in the underworld, as long as one still walks[27].

Bibliografia

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  1. T. De Mauro, Le porte della comprensione, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, Napoli, Bibliopolis, 1999; il saggio è stato ripubblicato nello stesso anno anche nella raccolta Capire le parole, Bari-Roma, Laterza, 1999, pp. 151-58.
  2. A titolo esemplificativo si vedano: T. De Mauro, Origine e sviluppo della linguistica crociana, in «Giornale critico della filosofia italiana», 15, 1954, pp. 376-91; Id., Croce la linguistica e noi (intervista ad Arturo Martone, in «Nord e Sud», 39, n. s., 1992, pp. 23-40.
  3. Cfr. G. Lepschy, Linguistica strutturale, Torino, Einaudi, 1965. Sulla periodizzazione vedi T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Bari-Roma, Laterza, 1989, pp. 103-26; cfr. anche G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 103-17 e G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino, Einaudi, 1989, pp. 50-51. Nella direzione opposta la lettura di G. Sasso, Croce: la questione del linguaggio, in Id., Filosofia e idealismo, VI. Ultimi paralipomeni, Napoli, Bibliopolis, 2012, pp. 107-54.
  4. T. De Mauro, Le porte della comprensione, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, op. cit., p. 848.
  5. «Forse il Prezzolini esagera quando afferma che la filosofia bergsoniana, la filosofia della Contingenza, ha intrapreso una guerra contro la parola. Si può dire che la filosofia non abbia fatto altro, da quando è al mondo, che battagliare contro i concetti empirici, i nomina realizzati e introdotti nel mondo del pensiero»: B. Croce, Il linguaggio come causa d’errore. Henri Bergson, in «La Critica», 1904, pp. 50-53, poi ristampato in Id., Conversazioni Critiche, vol. I, pp. 105-107, da cui si cita.
  6. Cfr. lo studio recente Pro e contro Dante, a cura di E. Giammattei, Roma, Treccani, 2021, pp. 30-36.
  7. B. Croce, La poesia di Dante, Bari-Roma, Laterza, 1921, p. 24.
  8. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale [1909], Napoli, Bibliopolis, 2014, p. 167. Cfr. anche B. Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, a cura di M. Tarantino, Napoli, Bibliopolis, 1996, dove la comunicazione si identifica con l’errore, pp. 60-61.
  9. In altra prospettiva cfr. G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 103-17 e G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, op. cit., pp. 50-51.
  10. B. Croce, La Poesia di Dante, Bari-Roma, Laterza, 1921, p. 9.
  11. Ivi, pp. 12-21.
  12. I brani sono tratti da La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, Bari, Laterza, 1946, pp. 68-69.
  13. Ivi, pp. 78-79.
  14. Ivi, p. 101. Interessante il confronto con la Logica: “ogni vocabolo porta seco, in maniera maggiore o minore, l’appiccico dei vocaboli, perché si aggira in questo basso mondo ch’è pieno di tranelli; e la ricerca di vocaboli che impediscano assolutamente gli equivoci” non è che il sospiro di “molte anime candide” Logica come scienza del concetto puro, a cura di C. Farnetti, Napoli, Bibliopolis, 1996.
  15. T. De Mauro, Le porte della comprensione, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, op. cit., p. 851.
  16. Cfr. B. Croce, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura [1936], Bari-Roma, Laterza, 1946, p. 270.
  17. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Napoli, Bibliopolis, 2014, p. 287. Sul segno cfr. M. Salucci, Segno ed espressione in Benedetto Croce, Città di Castello, Arnaud, 1987, p. 30. Si rinvia poi, ovviamente al commento di De Mauro al Corso di linguistica generale sul punto relativo all’arbitrarietà: «certo, anche nelle concezioni convenzionalistiche, da Aristotele a Whitney, il consenso sociale ha una parte: ma trova un limite nel fatto che la lingua, concepita come una nomenclatura ingloba una parte dei “significati” che coincidono con le “cose” e sono dunque dei dati precostituiti». Si veda F. De Saussure, Corso di linguistica generale [1967], introduzione, traduzione e commento a cura di T. De Mauro, Bari-Roma, Laterza, 1983, pp. XVII e pp. 141-42.
  18. B. Croce, Breviario di estetica, Bari-Roma, Laterza, 1913, p. 51.
  19. Paradigmatiche, a proposito, le interpretazioni di T. De Mauro, Introduzione alla semantica [1965], Bari, Laterza, 1989, pp. 124-26; M. Boncompagni, Ermeneutica di Benedetto Croce, Napoli, Loffredo, 1980, pp. 78-100 e P. D’Angelo, L’Estetica di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1982, pp. 113-18.
  20. Cfr. F. Giuliani, Croce filosofo del linguaggio. Dialogo tra Fabrizia Giuliani e Marcello Mustè, in «Filosofia Italiana», XVII, I (2023), p. 26.
  21. B. Croce, Sulla natura e l’ufficio della linguistica, in Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e critica della poesia, Bari, Laterza, 1950, p. 249.
  22. B. Croce, Difesa della poesia (lettura tenuta a Oxford il 17 ottobre 1933), in «La Critica», I, XXXII, 1934, pp. 1-15, poi in Id., Ultimi saggi, Bari, Laterza, 1935. Cfr. ancora Pro e contro Dante, a cura di E. Giammattei, op. cit., p. 22.
  23. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro [1909], a cura di C. Farnetti, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 354.
  24. B. Croce, Filosofia e storiografia, a cura di Stefano Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005, p. 209.
  25. P. Levi, Se questo è un uomo [1958], Torino, Einaudi, 2014, p. 111.
  26. Il nesso tra poesia, letteratura e civiltà è ribadito a più riprese, a partire dal volume del ’36. Qui ne troviamo forse la definizione più chiara: «la luce che la poesia ha acceso nell’anima e che è luce inestinguibile […] E quella luce che li ha rivestiti, o che li rivestirà, li ingentilisce, sgombra da essi la barbarie, li rende “urbani” (άστεΐοι, come dicevano i greci); e la letteratura che compie tale opera e rende civili le espressioni immediate o naturali, è parte di quella che si chiama appunto civiltà» (B. Croce, Filosofia. Poesia. Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore [1948], op. cit., p. 358). Mi permetto, a proposito, di rinviare anche a F. Giuliani, Espressione ed éthos, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 114-34.
  27. I. Kaminsky, Reading Dante in Ukraine, in «Asymptote Journal», Jan 2024, consultabile sul sito https://www.asymptotejournal.com/search/?query=kaminsky (ultima consultazione: 10 febbraio 2024).

(fasc. 51, 25 febbraio 2024)

Pomilio, Petrarca e l'”humanitas”

Author di Cecilia Gibellini

Ragioni di un recupero

Il presente contributo prende le mosse dal recupero di uno studio giovanile di Mario Pomilio su Petrarca, rimasto inedito per oltre sessant’anni e pubblicato a mia cura, nel 2016, per Studium[1]. Le ragioni di interesse di questo recupero, alla luce anche dei nuovi apporti della critica su Pomilio, addensatisi negli ultimi anni e in particolare in corrispondenza del centenario della nascita dell’autore, sono più di una. Innanzitutto si tratta dell’opera di uno dei maggiori narratori del Novecento italiano, che fu anche figura luminosa di intellettuale dall’“impegno totale”; ma gli studi petrarcheschi di Pomilio meritano considerazione anche in sé, per l’originale interpretazione del pensiero estetico di Petrarca e per il metodo seguìto dal giovane studioso, che fonda l’intero discorso su concreti riscontri testuali da cui riesce a far lievitare una sintesi critica di ampio respiro. Soprattutto, questo studio petrarchesco ruota intorno al riconoscimento del valore conoscitivo della poesia, della capacità del poeta di cogliere la verità e di dialogare spiritualmente con il lettore, idee che hanno favorito la conversione di Pomilio dall’attività di studioso a quella di narratore animato da una forte tensione etico-conoscitiva. Egli non mancherà di mettere a frutto l’esperienza di lettura e interpretazione dei documenti del passato nei suoi romanzi misti di storia e invenzione, come Il quinto evangelio e Il Natale del 1833. Insomma, dal cimento con Petrarca Pomilio esce forse sconfitto come accademico, ma nasce a se stesso, riconoscendo la propria vocazione di scrittore.

Pomilio tra Bruxelles e Parigi

Passato da Orsogna, in Abruzzo, dove era nato nel 1921, a Lanciano e ad Avezzano, Pomilio era stato ammesso, dopo il Liceo classico, alla Scuola Normale Superiore come studente di lettere dell’ateneo pisano. Interrotti gli studi per il servizio militare, aveva partecipato dopo l’8 settembre al movimento resistenziale, nelle file del Partito d’Azione, continuando a dedicarsi alla politica, con i socialisti, fino al 1948: dopo la sconfitta del Fronte Popolare interruppe infatti la militanza civile, pur rimanendo fedele agli ideali di un socialismo umanitario sempre più coniugato con le ritornanti «certezze cristiane»[2]. Laureatosi a Pisa nel 1945, discutendo con Giovanni Macchia una tesi sulla narrativa di Pirandello, ed entrato presto nella scuola, si era trasferito nel 1949 a Napoli come insegnante di lettere nei licei.

Nel 1950, alla soglia dei trent’anni, ottenne delle borse di perfezionamento che lo portarono a Bruxelles e poi a Parigi, oltre che nelle biblioteche di Gand, Liegi e Lovanio. Fu in quegli anni che, come si ricava dalle lettere scritte a Dora Caiola, sua fidanzata e dal settembre 1951 sua moglie, progettò uno studio sull’estetica platonica in Francia del quale restano materiali tra le sue carte, e avviò in parallelo, o forse come trasformazione del primitivo disegno, una massiccia ricerca intorno all’estetica di Petrarca, all’interno di un più ambizioso progetto, irrealizzato, sulla nozione del furor ispirativo e sulla poetica dell’entusiasmo dal Medioevo all’età moderna[3].

Tornato a Napoli nel ’52, riprese l’insegnamento di lettere nei licei e poi quello di poetica e drammatica nel Conservatorio di San Pietro a Maiella, abbandonando progressivamente l’intenzione di mantenere qualche contatto con l’università partenopea. Venne così maturando «la sua crisi di uomo di studio, che, negli anni della letteratura come “documento”, del “realismo socialista”, nel ristagno socio-politico del momento storico, è in cerca di una personale soluzione umana e artistica, che non può appagarsi nella sola letteratura di ricerca, ma ha bisogno di un suo naturale sbocco creativo»[4]. Abbandonate le ricerche accademiche, Pomilio si applicò a un’attività pure volta a traguardi conoscitivi e spirituali, tanto attraverso la scrittura narrativa quanto attraverso la riflessione sulle opere altrui, funzionale anche all’elaborazione di una propria estetica, da lui sentita come una stringente necessità. Agli studi saggistici in senso lato, dei quali raccolse i risultati in Contestazioni (1967) e Scritti cristiani (1979), affiancò in varie sedi studi specificamente letterari la cui sezione più rilevante, quella sugli autori dell’ultimo Ottocento, è stata meritoriamente riunita in un volume uscito nel 2017[5].

L’autografo

La ricerca sulla poetica di Petrarca, robusta seppure mai completata, venne affidata a una serie di manoscritti, ora conservati nel Fondo Pomilio al Centro manoscritti dell’Università di Pavia. Prima del passaggio a Pavia, Dora, la moglie di Pomilio, trasse dai manoscritti delle fotocopie, che riunì in sei fascicoli cui appose numeri romani progressivi, non si sa se prima o dopo la morte del marito; nel Fondo pavese gli autografi sono riuniti e disposti in altro modo. Nell’edizione del 2016, dopo aver valutato varie ipotesi di ordinamento, ho deciso di rispettare la successione del testo come si presenta in quei plichi, dal momento che potrebbe essere stata suggerita dall’autore. Questi i titoli dei saggi, che per comodità possiamo chiamare capitoli:

I. Le prime enunciazioni del principio dell’allegoria. La formula dell’Orazione del Campidoglio.

II. L’idea della renovatio: il Petrarca e l’antichità classica.

III. L’umanità della poesia.

IV. Poesia e sapienza.

V. La Pro Archia, l’ingenium e il furor.

VI. La nuova estetica dell’Africa.

La diversa disposizione della materia nei tanti schemi tematici lasciati da Pomilio, che prevedono anche la trattazione di temi non sviluppati nelle pagine a noi pervenute, rende evidente che il saggio configurato nei sei faldoni ha una forma provvisoria e una struttura in divenire. Ad esempio, il sesto capitolo (La nuova estetica dell’Africa), quello di maggiore entità materiale, differisce fortemente dagli altri nell’aspetto, perché rimasto a uno stadio di elaborazione più arretrato, e si conclude, nell’ultima carta, con una serie di appunti disordinati che sembrano preludere a una continuazione non realizzata (o a noi non pervenuta).

Per il resto, le singole parti del saggio si presentano come unità in sé compiute e ben collegabili l’una all’altra, anche se non necessariamente nella sequenza proposta nel volume. Due immagini possono calzare a quest’opera e alla sua struttura: quella dei pannelli di un polittico ancora da comporre, che sarebbero combinabili in disegni diversi e comunque sensati; e quella di un edificio esagonale al quale si può accedere da uno qualunque dei sei ingressi, senza che il risultato complessivo della visita sia compromesso. Sicché si addice perfettamente al tragitto mentale dell’autore quanto egli scrive di Petrarca, che non procede linearmente, ma intrecciando e ampliando via via i suoi nuclei problematici e concettuali:

I motivi del Petrarca si inseriscono sempre l’uno nell’altro, s’addizionano l’uno all’altro in un processo assai vario, e il voler dedurre, da esigenze isolate, tutt’intero un sistema, porterebbe a falsare interamente il significato del suo pensiero: il quale procedeva piuttosto per via di addizioni successive e, poco preoccupato di riordinare e sistemare quanto era già acquisito […], si veniva piuttosto, man mano che gli orizzonti e gli interessi culturali si allargavano, appropriando di nuovi temi e scopriva nuovi campi di ricerca per entro il mondo culturale nel quale si muoveva[6].

Ogni tentativo di esporre schematicamente il pensiero di Petrarca, constata Pomilio, urta contro la difficoltà di armonizzare quanto resta «apparentemente contraddittorio», che «si spiega soltanto tenendo presente la doppia tradizione, quella classica e quella patristica, che in lui confluisce e tenta di fondersi». E conclude:

Tuttavia com’è possibile ritrovare presso di lui un problema dominante, quello della giustificazione della poesia, e un tono predominante, quello polemico, così è possibile isolare alcuni motivi fondamentali, sui quali e attorno ai quali il suo edificio si costruisce[7].

Sono affermazioni che illustrano alla perfezione l’accessus ad auctorem praticato da Pomilio, e mostrano come la struttura costitutivamente aperta del suo saggio fosse strettamente legata, quasi determinata, dallo sfuggente oggetto da lui trattato.

La tesi: Petrarca profeta dell’umanesimo cristiano

Se la struttura del saggio è fluida, la prospettiva è solida: proviamo a sintetizzarne la tesi, nei suoi principali elementi di originalità. Riunendo le disiecta membra depositate da Petrarca negli scritti latini, Pomilio ricostruisce la sua idea di poesia che, a dispetto dell’apparente affinità con l’estetica medievale, gli fa compiere un passo pionieristico in direzione dell’umanesimo. I cenni contenuti nel saggio all’eredità lasciata a Boccaccio, agli umanisti, alla cultura rinascimentale e al nuovo programma elaborato in quella stagione sono importanti quanto le precisazioni sui rischi di confondere gli elementi di modernità di Petrarca con tratti della sensibilità moderna a lui estranei. Pomilio sottolinea che un elemento determinante del suo rinnovamento teoretico è rappresentato dalla presa di distanza dall’allegoresi medievale, anche dantesca, fino ad allora egemone, dall’idea del polisenso allegorico e dalla contrapposizione dell’allegoria in factis dei testi sacri a quella in verbis dei testi poetici, relegati su un gradino più basso. Petrarca riscatta l’allegoria verbale e la metafora, intese come velamen che aiuta a intravedere la verità e anzi a evidenziarla sensibilmente: di conseguenza, esse non si riducono a espedienti della retorica, intesa tradizionalmente come ars pragmatica, ma diventano consustanziali alla poesia, concepita nel senso più nobile di ricerca di verità e ascesi sapienziale. Per maturare questa idea, osserva Pomilio, Petrarca risale alla patristica, in particolare a Lattanzio e a Macrobio, che lo aiutano a svincolarsi dall’allegorismo tardo-medievale e a recuperare, sdoganandole, le fonti classiche del suo pensiero, tra le quali spicca Cicerone. Pomilio non trascura gli scritti polemici di Petrarca, le Invective contra medicum, l’epistola metrica contro Zoilo e quella al cardinal Bernardo, tappe di una consolidata consapevolezza dell’alto seggio in cui l’autore poneva la letteratura, non più subordinata al sapere scientifico né ancella di valori estrinseci. E non dimentica l’impegno creativo e riflessivo dell’Africa, che rappresenta, se non il culmine, un traguardo importante del tragitto petrarchesco.

Se la renovatio della lezione classica consente a Petrarca di prendere le distanze dalle idee circolanti, la visione cristiana gli serve anche a far lievitare l’ansia di immortalità, che negli antichi si manifestava soprattutto nella speranza di ottenere la fama imperitura grazie alla bellezza artistica che consacra la virtù. Evocando le figure di Orfeo e di Omero, fondative di miti di secolare durata, Pomilio fa di Petrarca l’alfiere di un riscatto del patrimonio classico e della mitologia, attraverso la distinzione delle fabulae insensate dalle finzioni sapienziali, recuperando la figura originaria del poeta come vate o profeta, che apre la strada, per intenderci, alla linea Vico-Foscolo. La visione cristiana integra e arricchisce quella classica, sostituendo la laurea sempreverde della gloria poetica, oggetto precipuo dei testi petrarcheschi per l’incoronazione in Campidoglio, con la gloria celeste, che supera pure la caduca Fama post mortem, erosa dal Tempo (e di qui l’intenzione di Pomilio, non realizzata ma testimoniata dagli appunti, di lavorare sui Trionfi). Ma Petrarca, osserva Pomilio, non manca di enucleare e potenziare la convinzione che una componente divina sia insita già nella concezione ciceroniana dell’ispirazione poetica. In questo modo egli inscrive Petrarca nella linea di umanesimo cristiano che vedeva nell’eredità classica l’altro Antico Testamento, l’altro preannuncio di verità che avrebbe raggiunto la pienezza del senso con il messaggio evangelico. Pomilio dedica varie pagine al tema del furor ispirativo, serpeggiante nell’estetica antica e destinato a fluire carsicamente fino all’età romantica. Acquistano allora un rilevo particolare la valorizzazione dell’ingenium nel senso etimologico, innatistico, e la conseguente svalutazione della poetica dell’artificio, della techne fondata su una retorica scorrettamente intesa come disciplina pratica.

L’idea della poesia come humanitas, espressione di una verità che abita agostinianamente in interiore homine e testimonia quanto di divino c’è nell’uomo, rappresenta dunque il nucleo gravitazionale del saggio pomiliano, racchiuso nel quarto capitolo, intitolato Poesia e sapienza, centrale anche nella collocazione, cerniera tra il versante dei precedenti, prevalentemente orientati sulle auctoritates cristiane, e quello dei successivi, giocati sul confronto con le poetiche classiche. Lungi dal configurare un passaggio rettilineo dal polo medievale a quello umanistico e dall’universo cristiano a quello classico, Pomilio insiste sulla dialettica dei due scenari mentali: il progressivo distacco dall’allegoria non sfocia nel rifiuto delle istanze etiche a vantaggio di quelle estetiche, ma comporta una conciliazione tra la poesia concepita come gloria dalla cultura classica e la poesia come interiorità, propria della dimensione cristiana. Il capitolo è proprio bipartito dall’autore nei paragrafi A. L’interiorità e B. La gloria, diciture che indicano come l’opzione del modello classico o di quello cristiano-medievale non sia per Pomilio questione di cultura o di gusto, ma di spinte ideali, di pulsioni psichiche e morali che convivono e interagiscono.

Sul metodo: gli appoggi testuali

Per enucleare concetti di carattere generale, Pomilio ricorre con singolare abbondanza e puntigliosità, nel testo o in nota, a citazioni di opere di Petrarca e dei suoi precursori classici e cristiani. Tra i latini domina Cicerone, richiamato una quarantina di volte, specialmente per la Pro Archia, una celebrazione del valore della poesia che aveva alimentato il pensiero di Petrarca, il quale ne aveva riscoperto un esemplare nel 1333 a Liegi, in quel Belgio in cui Pomilio risiedeva mentre lavorava al saggio. Cicerone è citato anche per altre opere: il De divinatione e il De inventione, veicoli dell’idea della soprannaturale creatività della parola; il De Oratore e l’Orator, confacenti alla disquisizione sull’eloquenza; il De officiis, funzionale al riconoscimento di un carattere etico all’attività letteraria, e le Tusculanae disputationes, orientate a quello conoscitivo. Dato l’oggetto della sua ricerca, Pomilio non può prescindere dalla Poetica di Aristotele, citato mediatamente come Platone, ma anche direttamente in greco, e neppure dall’Ars poetica di Orazio, convocato anche per le Odi e le Satire. Non possono mancare rinvii ai due auctores privilegiati dal Medioevo, Ovidio innanzitutto, e Virgilio. E se Svetonio interessa per il De poetis, richiamato nei paragrafi sul concetto di gloria presso i gentili, la riflessione di Petrarca sul potere rasserenante o consolatorio della poesia lo induce a richiamare più volte Seneca. Più sporadiche le menzioni di altri autori, quali Lucrezio e Persio, mentre Ennio è evocato senza appoggi ai suoi versi superstiti, ma per quanto ne scrive il poeta dell’Africa.

Gli autori cristiani più citati sono Lattanzio e Macrobio, i pilastri su cui, secondo Pomilio, Petrarca costruisce la sua sommessa ma radicale rivoluzione estetica. Collocando Petrarca, intento a recuperare l’eredità classica al nuovo sapere cristiano, nel solco di Lattanzio, retore convertito, Pomilio riporta passi delle Divinae institutiones, uno dei quali riconosce la capacità di vedere la luce divina ai poeti e ai filosofi pagani che non conobbero la verità[8]. A questo «Cicerone cristiano» associa Macrobio – la cui adesione al cristianesimo è oggi controversa –, per il suo Commentarium al ciceroniano Somnium Scipionis, testo che deve la sua fortuna medievale all’idea “pre-cristiana” del premio immortale riservato ai benefattori della patria e ai campioni di virtù. Ripetuto è anche il rinvio alle Ethymologiae di Isidoro di Siviglia, che offrono il destro per riscattare le favole antiche e toccare la questione mitologica per la quale entrano in gioco anche Giovanni di Salisbury e il Boccaccio delle Genealogie deorum gentilium. Agostino, il pensatore prediletto da Petrarca e collocato al centro del paragrafo sull’interiorità, prevale su Gerolamo, menzionato nei passi che trattano il tema del valore letterario alla Bibbia, per il quale è richiamato anche il De schematis et tropis Sacrae Scripturae di Beda. Le fitte citazioni della Summa di Tommaso servono invece a definire la nozione egemone di allegoria medievale, contro la quale si indirizza il pensiero di Petrarca.

Ma l’edificio di Pomilio si appoggia più massicciamente, come è ovvio, sulle parole del Petrarca latino, in prosa e in versi. Dell’opera in cui il poeta ripose la sua speranza di gloria, l’Africa, sono riportati passi del II, III e soprattutto del IX libro, che definiscono un’estetica in divenire. Legato a questo poema incompiuto – messo in stretto rapporto con il Bucolicum carmen, specialmente per l’egloga Dedalus – è il rinvio alle Historiae di Tito Livio, che vi sono rielaborate e ampliate.

Pomilio non manca di citare la Collatio laureationis, chiave di volta nella crescita dell’autocoscienza poetica di Petrarca, e di rinviare al Privilegium laureae, che considera erroneamente di diretta paternità petrarchesca. E a corroborare l’idea che la fama poetica è garantita dal ricordo dei posteri sono evocati i Rerum memorandarum libri, specie il II e il IV, e la Praefatio del De viris illustribus.

Per documentare la maturata consapevolezza di un’estetica umanistica da parte di Petrarca, Pomilio rinvia anche ai suoi interventi polemici, cui attribuisce un ruolo decisivo. Si pensi alle citazioni dal De sui ipsius et multorum ignorantia (in particolare di IV, 32) e soprattutto delle Invective contra medicum, richiamate ripetutamente nel ventaglio dei primi quattro capitoli e con maggiore insistenza nel III. Segnalate sono anche le parti polemiche delle Epystole metrice; le più citate, quella diretta al cardinal Bernardo (II, 3) e ancor più quella contro Zoilo (II, 11 nell’edizione da lui usata, II 10 in quella corrente). Abbondanti sono pure i rinvii alle Familiares, specialmente alla X, 4 e alla X, 5 dirette al fratello Gherardo; più raro il ricorso alle Seniles, tra le quali spiccano la I, 5 e la II, 1, indirizzate a Boccaccio. Il De remediis utriusque fortune è richiamato per un solo passo (I, 9), e generici sono i pochi cenni al Secretum. Il De vita solitaria, opera assegnata convenzionalmente al versante medievale della cultura petrarchesca, viene interpretato da Pomilio in chiave personale, per cui la predilezione per la vita solitaria rappresenterebbe una strategia conoscitiva connessa all’idea che la letteratura persegua la sapienza.

Il numero consistente dei testi latini citati rende ancor più sorprendente la rarità dei riferimenti alle opere volgari di Petrarca, in un saggio inteso a ricostruirne la concezione estetica. Marginali restano le osservazioni sul sonetto «Passa la nave mia colma d’oblio» (RVF 189), che servono a indicare il carattere metaforico del vascello, per contrapporlo a quello realistico o visionario del Purgatorio dantesco. Ancora più corsive sono le menzioni di altri quattro sonetti e di una canzone: «La gola e ’l sonno et l’otïose piume», richiamato ad attestare l’identificazione, frequente in Petrarca, tra poesia e filosofia (RVF 7); «Arbor victorïosa triumphale», collegato all’orazione per la laurea in Campidoglio nella comune celebrazione del potere glorificante dell’alloro (RVF 263); «S’i’ fussi stato fermo a la spelunca», citato come esempio di platonismo in chiave cristiana (RVF 166); infine «Spirto gentil», canzone cui Pomilio accenna in nota, a proposito di un analogo passo dell’Africa sul destino di Roma (RVF 53).

Ma poteva Pomilio scordarsi dell’opera volgare di Petrarca, mentre studiava nel latino la sua concezione di poesia? Certamente no. In un indice da lui stilato, riferibile a una prima stesura del saggio[9], figura una sezione dedicata ai versi italiani, «Sonetto La gola e il sonno. Trionfo della Fama. Sapienza e ispirazione», un motivo che ricompare in un’altra sua scaletta tematica, «I Trionfi come duplicato dell’atteggiamento delle Rime», nonché nel sommario posto in capo al quarto capitolo: «I sapienti nel Trionfo della Fama». Delle Rime e dei Trionfi l’autore parla anche in un appunto steso sul verso di due fogli del saggio, paragonando il simbolismo di Petrarca a quello di Dante e di Cavalcanti[10]. Da ciò si ricava che l’esiguità dei cenni ai versi volgari nel saggio sull’estetica petrarchesca è attribuibile alla sua incompiutezza. D’altra parte Pomilio insiste ripetutamente sull’inscindibilità delle sue opere latine e volgari. Nel Fondo manoscritti pavese una serie di carte testimonia l’intenzione pomiliana di procurare un’antologia commentata, composta da ventun testi del Canzoniere e da un passo dei Trionfi, per cui aveva già steso il commento di tre sonetti e due canzoni[11].

Pomilio e la critica petrarchesca

L’intero saggio pomiliano è attraversato da polarità concettuali, che trovano il loro perfetto correlato espressivo nelle coppie verbali antitetiche: interiorità/gloria, utile/dulce, scienza/sapienza, filosofia/devozione; è bene notare che di lì a poco la critica stilistica avrebbe identificato nell’antitesi la cifra caratteristica del Canzoniere[12]. Ma dall’analisi pomiliana, volta a indagare il ruolo della poesia nella visione di Petrarca, dunque interessata all’intellettuale più che al lirico, le Rime restano o sono tenute volutamente al di fuori, sebbene siano più volte richiamate. Le poesie in volgare risultano già investite indirettamente della stessa dialettica dal giovane filologo, che fa affiorare la loro memoria quale ideale controcanto allo squadernamento della poetica petrarchesca.

Collegando passi delle Familiares, dei Rerum memorandarum, delle Invective contra medicum e del Sui ipsius et multorum ignorantia, e associandole a passi di Cicerone e di Orazio, di Lattanzio e di Agostino, di Tommaso e di Giovanni di Salisbury, Pomilio tocca la questione fondamentale della legittimazione della poesia, sospesa tra mondana vanitas e alta aspirazione etica e noetica, che la critica dei decenni successivi avrebbe rilevato proprio nella struttura del Canzoniere e nel suo dinamico diagramma, dal sonetto proemiale alla canzone alla Vergine, anzi fino a quei Trionfi che vennero a lungo sentiti, trascritti e stampati come ideale séguito dei Fragmenta lirici, e la cui struttura Pomilio intendeva collegare all’ordinamento delle Rime.

Il saggio di Pomilio merita dunque un posto di rilievo nella critica perché anticipa spunti e ipotesi sviluppate più tardi, e si spinge nello spazio della poetica, o meglio dell’idea petrarchesca di letteratura, tuttora poco frequentato dagli studiosi del settore[13]. Pomilio dimostra pure che Petrarca si interrogò precocemente sulle favole antiche, liberandole dalla taccia di fole menzognere nate al tempo degli dèi falsi e bugiardi. Al patrimonio mitologico pagano la civiltà medievale aveva potuto accostarsi forzandone l’interpretazione – con la lettura evemeristica, la chiave naturalistica, il velame allegorico, l’esegesi moralizzante –, mentre Petrarca, trovandovi verità e bellezza, preparò con diverse strategie la loro piena rigenerazione in età umanistica. Su questo tema si sono infittiti in tempi recenti gli studi, anche specificatamente dedicati a Petrarca[14], per esempio inseguendo il mito dafneo che corre lungo il Canzoniere o mettendo in luce il riflesso di Ovidio nella canzone delle metamorfosi (RVF 23); mentre nel saggio Pomilio si concentra sulla figura di Orfeo, promossa a esemplare dell’alto rango della poesia.

Anche di un’altra linea Pomilio viene a porsi come iniziatore. Leggendo le pagine dedicate al rapporto tra poesia e verità, e alla funzione religiosa e conoscitiva assegnata agli antichi vates, filosofi o teologi sub specie poetica, egli fa schiudere a Petrarca un quaderno su cui scriveranno pagine capitali Vico e i grandi fautori dell’omerismo, Foscolo compreso («l’Omero sapienziale che resterà vivo nella coscienza europea almeno fino al Vico, e di cui il padre va considerato senz’altro il Petrarca»)[15].

Quale sia la posizione di Pomilio nel panorama degli studi petrarcheschi del tempo lo si ricava dai rinvii bibliografici a lavori critici nel saggio, che sono di numero nettamente inferiore rispetto alle citazioni di opere di Petrarca e dei suoi auctores – molti di più se ne trovano, va detto, negli appunti preparatori e nei quaderni di lavoro, dai quali emerge appieno lo scrupolo citazionale e documentario del giovane studioso. Da quei richiami si ricava che Pomilio resta al di fuori della linea stilistico-variantistica che in quegli anni brillava grazie a contributi principalmente dedicati alle rime volgari, per esempio quelli di Alfredo Schiaffini sul Lavorio della forma in Francesco Petrarca (1941) e di Gianfranco Contini nel Saggio di un commento alle correzioni del Petrarca volgare (1943) – il nome di Contini spunta più volte nel commento ad alcune poesie del Canzoniere cui si è accennato. Pur non citando espressamente Benedetto Croce, autore di un saggio sul Canzoniere, Pomilio non esita a usare la distinzione crociana tra «poesia» e «letteratura»[16].

Nel saggio non sono menzionati neppure Attilio Momigliano e Umberto Bosco, che nel 1946 aveva pubblicato la monografia su Petrarca registrata invece da Pomilio nei quaderni di lavoro e negli appunti preparatori. Egli si mostra maggiormente attratto dagli aspetti concettuali dell’umanesimo che da quelli filologici: cita Giuseppe Billanovich come curatore di testi e non come autore delle monografie sullo Scrittoio del Petrarca (1947) e su Petrarca letterato (1946), che pure segnala nelle sue carte di lavoro. Come ex studente pisano non può esimersi dal rinviare un paio di volte a Luigi Russo per l’articolo sulla Poetica del Petrarca, con cui peraltro non consente appieno (era apparso su «Belfagor» nel 1948). Pure per l’omogeneità tematica richiama un saggio meno recente di Sebastiano Scandura, L’estetica di Dante, Petrarca e Boccaccio (1928).

Ma lo studioso più citato è il fiammingo Edgar De Bruyne, autore delle Études d’esthétique médiévale e dell’Esthétique du Moyen Âge (1946-1947), opere robuste e allora recenti che si imponevano al giovane italiano trasferito in Belgio per la sua ricerca su un terreno confinante. Pomilio nomina più volte anche il fondamentale lavoro su Pétrarque et l’humanisme di Pierre de Nolhac (1892), che tocca un tema cui si era applicato anche Giuseppe Toffanin, allora docente nell’università napoletana, in La fine dell’Umanesimo (1920), nella Storia dell’Umanesimo dal XIII al XVI secolo (1933) e nel Secolo senza Roma (1942). Pomilio richiama i saggi di Toffanin principalmente per l’attenzione prestata ai contatti tra il mondo classico e quello cristiano, argomento che gli fa richiamare il capitolo del Trecento vallardiano in cui Natalino Sapegno propone un superamento delle antitesi tra l’umanista e il cristiano, tra il poeta e il letterato (1934). Più o meno per le stesse ragioni Pomilio cita Nella selva del Petrarca (1942), il saggio in cui il cattolico Carlo Calcaterra indaga sui rapporti tra Petrarca e Agostino, mettendo a fuoco l’elevazione morale di un umanesimo che unisce il culto degli scrittori antichi a quello degli autori cristiani. Non stupisce allora il rinvio al lavoro sul Sentimento politico del Petrarca di Rodolfo De Mattei (1944), che insiste sulla conciliazione del cristianesimo agostiniano con la cultura classica, rinvio che potrebbe leggersi come segno del precoce interesse etico-civile del futuro narratore e saggista.

Pomilio rinvia ripetutamente a Eugenio Garin per la sottolineatura della spiritualità e dell’interiorità della poesia, e per il riconoscimento del valore pedagogico degli studi umanistici che caratterizzano il saggio su Umanesimo e Rinascimento (uscito nelle Questioni e correnti di Marzorati nel 1949), e cita il coevo volume su Petrarca e il Rinascimento di John Humphreys Whitfield. Più strettamente connessi al tema del saggio sono i richiami allo scritto di Roberto Weiss su Barbato da Sulmona, il Petrarca e la rivoluzione di Cola di Rienzo (1950), e il Saggio sull’‘Africa’ premesso da Nicola Festa all’edizione critica del poema da lui procurata (1926). Pomilio non manca di menzionare i meritori curatori o traduttori ottocenteschi del Petrarca latino – Attilio Hortis per l’edizione del testo e la prefazione alla Collatio laureationis (1874), Domenico Rossetti per la pubblicazione dei tre volumi dei Poemata minora (1829-1834) –, ma rinvia a edizioni più vicine, se esistenti, come quella dei Rerum memorandarum libri di Billanovich (1943) e quella del Canzoniere di Contini (1949).

Si può concludere che i rinvii di Pomilio configurano un selezionato pacchetto di sussidi precisamente orientati, chiamati in causa solo a ragion veduta, e mai abusando di sfoggio citazionista, nella persuasione che i materiali testuali per la costruzione del suo edificio critico andassero tratti direttamente dalle miniere dei testi d’autore: da Petrarca, cioè, e dalle sue letture.

Petrarca negli altri scritti letterari di Pomilio

Gli scritti critici sparsi di Pomilio trattano di Dante, Boccaccio, Leonardo da Vinci, Cellini; passano a Manzoni, al Naturalismo, al Verismo, a De Roberto, Verga, d’Annunzio, Pirandello, infine alla «Voce», a Svevo, Alvaro, Brancati e Rea.

Il saggio sull’estetica di Petrarca si colloca così tra la lettura del canto sulla «candida rosa» di Dante e lo studio sul tono basso del Decameron di Boccaccio, autore indagato non solo come novelliere. Questo è già il segno di un’attitudine a studiare anche opere diverse dal capolavoro riconosciuto, che si trova confermata dall’intervento sul Manzoni «minore» – le virgolette messe nel titolo dall’autore segnalano la sua presa di distanza dalla divisione manichea tra opere principali e secondarie[17].

Negli altri saggi letterari di Pomilio poco o nulla si trova su Petrarca. Dopo il cimento con l’estetica del trecentista, che diede un impulso vigoroso alla sua conversione alla narrativa, Pomilio si applicò ad auctores a lui ben più congeniali. Su tutti Manzoni, di cui condivideva la fame di realtà e l’impegno sociale, ma ancor più la fede problematica, vissuta con l’inquietudine partecipe che conoscono i lettori del Natale del 1833. L’istanza sociale e realistica di Pomilio era frutto di una religiosità che, come ammette egli stesso, era più portata all’umana solidarietà che alla speculazione teologica: predilezione che lo mette in sintonia con scrittori e pensatori veristi, specie se radicati nel Mezzogiorno, e in certo senso neoverghiani come Alvaro e Brancati.

Fame di realtà, nella scrittura di Petrarca, ce n’era davvero poca. Da lui Pomilio sembra aver tuttavia mutuato l’idea di una letteratura che non si riduca a retorica ma produca un incremento conoscitivo, una promozione morale di sé e degli altri; così come la vocazione umanistica conciliata con quella cristiana. Nella prefazione al volume sulla pittura di Leonardo definisce le sue immagini «finestra dell’anima»[18], e nella monografia su Pirandello parla di «interiorità della forma»[19], mostrando che le pagine petrarchesche sull’interiorità come luogo abitato dalla verità e soggetto di una scrittura letteraria intesa come quête restano punti di riferimento anche nella sua attività saggistica.

Riflessi del saggio petrarchesco nel Pomilio narratore

Nel Quinto evangelio (1975) e nel Natale del 1833 (1983), vertici della sua scrittura creativa, Pomilio mostra che sopravvivono in lui il mestiere e il gusto acquisiti da giovane nel lavoro su Petrarca, ossia l’abilità nel condurre il filo diegetico analizzando e collegando tra di loro citazioni, testi e documenti, ora reali ora fittizi – per cui si è potuto parlare di «filologia fantastica»[20]. Nel ricostruire l’anno più doloroso per Manzoni, il 1833, egli esamina e interpreta gli abbozzi del mirabile frammento dell’inno sacro, e le lettere vere o congetturate del suo entourage; e nell’inchiesta sulle tracce del misterioso quinto ma non apocrifo vangelo, condotta da uno studioso ed ex-ufficiale americano, suo trasparente doppio, non fa che trasportare sul piano della fictio il procedimento praticato nella ricostruzione dell’inafferrabile estetica di Petrarca.

Il carattere per eccellenza problematico del saggio critico Pomilio lo estende alla scrittura narrativa, perché l’opera romanzesca, scrive, non gli «si presenta mai bell’e fatta al momento di cominciare, anzi! […] è un nucleo di fatti che, quanto a significato […] è oscuro. Scavare per entro di esso, cercarne il significato, la verità che […] propone, è la condizione del […] lavoro»[21].

L’opzione morale dell’estetica petrarchesca Pomilio l’avrebbe applicata poi a se stesso: «Ormai la letteratura, per me, passa intera attraverso l’etica, deve richiamarsi senza equivoci alle sue responsabilità»[22].

Giacomo Prandolini, anticipando su rivista alcune pagine del saggio, vi trovava già il segno di uno scrittore che era dentro la «storia almeno fino al collo», che vuole rispondere alle aspettative dell’uomo, alle «ansietà del mondo contemporaneo»[23]. E indicava in una frase del saggio una sorta di autoritratto intellettuale:

Al centro degli interessi spirituali del Petrarca sta l’uomo, e l’uomo nel suo farsi, nella conquista ansiosa e pensosa della sua humanitas, l’uomo come problema spirituale e morale, e che proprio nel riconoscimento della sua natura essenzialmente etica ritrova se stesso, i fondamenti cioè della sua origine divina[24].

Se Petrarca abbia lasciato una traccia non effimera nella futura carriera di Pomilio o se Pomilio abbia proiettato su Petrarca l’ombra della propria personalità, i presagi delle sue scelte mature, è arduo stabilirlo. Innegabile, invece, che, nella sua evoluzione intellettuale, artistica e spirituale, la via imboccata con l’interrotto studio giovanile non era un vicolo cieco.

  1. M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia. Una monografia inedita, a cura di C. Gibellini, Roma, Studium, 2016.
  2. Lo rileva Carmine Di Biase, che vede affiorare in Pomilio il coraggio del padre socialista e il fervente cattolicesimo della madre, alimentati poi dalla lettura di autori quali Agostino e Pascal, nella biblioteca di uno zio sacerdote: C. Di Biase, Lettura di Mario Pomilio, Milano, Massimo, 1980, pp. 7-8.
  3. Nel Centro manoscritti dell’Università di Pavia, dove sono conservate le carte di Pomilio, abbondano materiali e appunti di lavoro su Mussato e sugli umanisti (Salutati, Ficino, Landino, Pico, Poliziano, Bruni), ma anche sulle poetiche rinascimentali, sull’Arcadia, su Vico, sui preromantici e i romantici italiani (Monti, Foscolo, Leopardi, Manzoni) e francesi.
  4. Cfr. C. Di Biase, Lettura di Mario Pomilio, op. cit., p. 8.
  5. M. Pomilio, Scritti sull’ultimo Ottocento, a cura di M. Volpi, introduzione di P. Villani, Novate Milanese, Prospero, 2017. Un’accurata Bibliografia degli scritti di Mario Pomilio, allestita da Paola Villani e Giovanna Formisano, è stata pubblicata in appendice al volume Le ragioni del romanzo. Mario Pomilio e la vita letteraria a Napoli. In memoria di Carmine di Biase, a cura di F. Pierangeli e P. Villani, presentazione di L. d’Alessandro, prefazione di M. A. Grignani, Roma, Studium, 2014, pp. 436-94, consultabile anche on-line, tra i materiali del sito «mariopomilio.org», all’url https://mariopomilio.org/bibliografia/ (ultima consultazione: 7 luglio 2023); allo stesso indirizzo sono pubblicati anche gli aggiornamenti della stessa Bibliografia, dal 2015 in poi.
  6. M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia, op. cit., p. 206.
  7. Ibidem.
  8. «Nelle Divinae institutiones egli [Petrarca] assisteva al più grande, forse, sforzo compiuto per riassorbire l’esperienza pagana nella cristiana e di ritrovare nel pensiero, nella filosofia, nelle credenze del mondo greco-romano, una somma di giustificazioni e di prove della nuova fede. Mondo ebraico e mondo pagano cospiravano armoniosamente a delineare un quadro culturale, in cui la poesia dei gentili s’inseriva, alla pari, coi testi dei filosofi e coi libri del Vecchio Testamento, a convalidare la verità̀ rivelata. Tutto il mondo precristiano si disponeva secondo lo schema d’una doppia prerivelazione, quella greco-romana e quella ebraica, ambedue in egual misura operanti a confronto della vera fede. Si trattava, per il Petrarca, d’una sistemazione di portata immensa. Lattanzio, che appoggiava la sua dimostrazione dell’esistenza di Dio su prove storiche e non scientifiche, diventava ai suoi occhi uno dei maggiori veicoli del messaggio umanistico»: M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia, op. cit., pp. 57-58.
  9. Cfr. M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia, op. cit.: Nota al testo, p. 38.
  10. Ivi, pp. 77-78.
  11. Nel fascicolo «Materiali su Mussato e Petrarca» sono elencati i testi del Canzoniere da includere nell’antologia, con titoli e numeri, ossia 1, 12, 16, 32, 35, 53, 62, 81, 90, 126, 128, 129, 189, 234, 272, 279, 292, 302, 310, 311, 364, 365, 366, e «La morte di Laura», versi senz’altro ricavati dai Triumphi. Nel fascicolo «Appunti e commenti ai sonetti di Petrarca» si trovano i commenti a RVF 16, 32, 53, 126 e 319.
  12. Si ricordi almeno il contributo di E. Bigi, Alcuni aspetti dello stile del ‘Canzoniere’ di Petrarca, in «Lingua nostra», 13, 1952, pp. 17-22, poi in Id., Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 1-22.
  13. Tra gli studi che toccano qualche aspetto dell’estetica o della poetica petrarchesca vanno ricordati: G. Ponte, Poetica e poesia nelle ‘Metriche’ del Petrarca, in «Rivista di letteratura italiana», 72, 1968, pp. 209-19; H.-G. Funke, Autoreferenzialità e riflessione metapoetica nel ‘Canzoniere’ petrarchesco, in «Rivista di letteratura italiana», 3, 2003, pp. 9-32; M. Picone, Il tema dell’incoronazione poetica in Dante, Petrarca e Boccaccio, in «L’Alighieri», 25, 2005, pp. 5-26; D. Marsh, Poetics and Polemics in Petrarch’s Invectives, in «Humanistica», 1-2, 2006, pp. 40-46; F. Bausi, Petrarca antimoderno: studi sulle invettive e sulle polemiche petrarchesche, Firenze, Cesati, 2008; V. Fera, Petrarca e la poetica dell’incultum, in «Studi medievali e umanistici», 10, 2012, pp. 9-87.
  14. Cfr. L. Marcozzi, La biblioteca di Febo. Mitologia e allegoria in Petrarca, Firenze, Cesati, 2002; C. Vecce, Il mito nelle ‘Familiari’, in Motivi e forme delle ‘Familiari’ di Francesco Petrarca, a cura di C. Berra, Milano, Cisalpino-Istituto Editoriale Universitario, 2003, pp. 149-65; Id., Francesco Petrarca. La rinascita degli dèi antichi, in Il mito nella letteratura italiana. I. Dal Medioevo al Rinascimento, a cura di G. Alessio, Brescia, Morcelliana, 2005, pp. 177-228.
  15. M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia, op. cit., p. 152.
  16. Ivi, p. 267.
  17. Paradiso XXXI, in La dimensione umana e la prospettiva divina in Dante, a cura di P. Sabbatino, Pompei, Pepe, 1983; Il tono basso-realistico del Boccaccio, in Atti del Convegno di Nimega sul Boccaccio, a cura di C. Ballerini, Bologna, Patron, 1976; A proposito del Manzoni “minore”, in «Il Popolo», 28 luglio 1959.
  18. L’opera completa di Leonardo pittore, presentazione di M. Pomilio, a cura di A. Ottino Della Chiesa, Milano, Rizzoli, 1967.
  19. M. Pomilio, La formazione critico-estetica di Pirandello, Napoli, Liguori, 1966.
  20. P. Gibellini, La filologia fantastica di Mario Pomilio, in «Humanitas», 1, 1992, pp. 28-41.
  21. M. Pomilio, Scritti cristiani, Milano, Rusconi, 1979, p. 25. Già Carmine Di Biase rilevava che con la sua formazione di ricercatore il giovane Pomilio aveva affinato l’attitudine euristica che caratterizza anche la scrittura narrativa per la quale vari critici hanno parlato di romanzi-saggio. Cfr. C. Di Biase, Lettura di Mario Pomilio, op. cit., passim.
  22. M. Pomilio, Scritti cristiani, op. cit., p. 26.
  23. Cfr. G. Prandolini, Petrarca e l’allegoria, in «Rivista di letteratura italiana», 1-3, 1996, p. 253. Le espressioni virgolettate provengono dagli Scritti cristiani cit., p. 23.
  24. M. Pomilio, Petrarca e l’idea di poesia, op. cit., p. 105.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023)