(An)estetizzazione della violenza. Il topos della manifestazione di piazza attraverso le “labour narratives”

Author di Carlo Baghetti

Il termine γενεά può indicare due fenomeni differenti, ma strettamente connessi: da una parte, esso indica l’‘origine’, la ‘nascita’, cioè il punto di partenza, la radice, qualcosa che è precedente e magari nascosto agli occhi dell’osservatore poco attento o troppo concentrato su ciò che è visibile; dall’altro, esso indica la ‘stirpe’, la ‘discendenza’, ovvero ciò che è successivo, derivato, posteriore, ma che conserva un legame, sempre più labile e tuttavia presente, con la propria progenie. La specola da cui vorremmo osservare l’articolarsi di queste genealogie dei violenti anni Settanta sono le labour narratives e, in particolare, un topos molto radicato in questo genere di rappresentazioni culturali: la manifestazione di piazza, i cortei che sfilano nelle città d’Italia; essi, infatti, sono assurti a simbolo dell’intero decennio di lotte. La nostra analisi procederà confrontando brevissimi campioni testuali, alcuni estrapolati dai romanzi degli anni Settanta (Vogliamo tutto [1971] di Nanni Balestrini; Tuta blu [1978] di Tommaso Di Ciaula), altri ricavati da romanzi più recenti (soprattutto Mammut [1994] di Antonio Pennacchi), con lo scopo di mostrare come, sebbene il topos letterario della manifestazione rimanga vivo, la sua declinazione preveda una progressiva rarefazione ed estetizzazione della violenza.

La doppia accezione del termine “genealogia” ci consente una certa mobilità cronologica e semantica nell’affrontare le rappresentazioni che vedono gli operai scendere nelle piazze; un’agilità necessaria per comprendere la raffigurazione letteraria di un fenomeno molto complesso e che certamente non nasce negli anni Settanta, ma ha origini più lontane e profonde. E bisogna, del resto, notare immediatamente come ci sia una certa disparità tra l’attenzione che hanno dedicato gli storiografi alle manifestazioni di piazza degli anni Settanta e lo spazio che queste ottengono nelle rappresentazioni letterarie. Chiara Basso fa notare «quanto [sia] scarsa la produzione letteraria su un periodo [tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta] che non solo aveva segnato la storia della Repubblica e un’intera generazione, ma aveva anche tutte le caratteristiche per stimolare la penna di scrittori e sceneggiatori»[1] e lo stesso fenomeno viene messo in evidenza anche da Raffaele Donnarumma quando, parlando più specificamente della memoria del 1968, scrive:

In tutti gli ambiti del discorso pubblico, ma anche nella musica e nel cinema, quegli eventi, quei dibattiti, quelle lotte hanno avuto uno spazio enorme; invece, la scrittura letteraria ne conserva tracce scarse e frammentarie. Racconti e rappresentazioni del Sessantotto in presa diretta, come Vogliamo tutto (1971) di Balestrini, Cani sciolti (1973) di Paris, o il breve apologo La decapitazione dei capi di Calvino (1969), sono sporadici ed eccezionali[2].

Entrambi i critici portano all’attenzione del lettore un tratto caratteristico della storia letteraria italiana che meriterebbe di essere approfondito dalla critica: lo iato esistente tra una vasta produzione saggistica che ha esplorato le ragioni e i modi in cui i movimenti di piazza di quegli anni cambiarono il volto della società italiana e la scarsità delle tracce letterarie che questi fenomeni hanno lasciato. Sembrerebbe quasi che, invischiati nel presente, solo pochissimi scrittori siano riusciti a prendere la distanza necessaria alla trasposizione letteraria. Le citazioni dimostrano anche che, per comprendere fenomeni che si sviluppano lungo gli anni Settanta, è impossibile non guardare al decennio precedente. Per quanto riguarda il motivo letterario dello sciopero, la memoria va naturalmente al secondo biennio rosso[3], oppure la possiamo far retrocedere agli eventi che si svolsero a Piazza Statuto nel 1962[4] o, perché no, al luglio del 1960 quando a Genova la «dicotomia fascismo/antifascismo risorge per incanto, tutt’altro che logorata e desueta. E piazza De Ferrari […] vede per qualche giorno ristabilirsi visibilmente quella centralità operaia che spesso ci si limita a rivendicare come un presupposto teorico»[5], e si potrebbe ancora procedere a ritroso. Furono questi i momenti chiave per lo sviluppo della conflittualità operaia, ognuno dei quali metteva in luce un elemento problematico specifico (l’antifascismo; il disaccordo tra sindacati; lo scollamento della base), elementi perfettamente visibili nel romanzo di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto.

In questo romanzo, il narratore è l’incarnazione letteraria dell’operaio-massa, ovvero un «operaio dequalificato ad alta produttività, gettato nella produzione come pura forza-lavoro, che si ribellava a questo destino, e che lo faceva portando lo sciopero a forme molto alte di tensione»[6]. Il protagonista proviene dalle terre agricole del Meridione e tale origine non è irrilevante, anzi mette in luce un primo fattore “genealogico” delle rivolte che si svolsero durante tutti gli anni Settanta: esse affondano le radici nell’indocile cultura dei braccianti meridionali, i quali fin dalla fine degli anni Quaranta diedero vita a rivolte e occupazioni dei latifondi chiedendo, in maniera spontanea o talvolta più organizzata, grazie al sostegno dei partiti politici, delle riforme strutturali e una revisione dell’organizzazione produttiva in agricoltura[7]. Nelle prime pagine di Vogliamo tutto, il narratore è molto lucido a questo proposito e attraverso le sue parole si potrebbero leggere tutti gli sviluppi che avranno luogo nel decennio successivo:

Nel sud la parola d’ordine del Pci era La terra a chi lavora. Ma che cosa gliene poteva fregare ai braccianti della terra della proprietà della terra. Quello che gli fregava a loro erano i soldi che non avevano […]. Per cui è finito il Pci nel sud […]. Mentre intanto scoppiano le grandi lotte a Battipaglia e Reggio che per il Pci sono sottoproletari di merda. […] Chi ha fatto lo sviluppo del nord tutto lo sviluppo dell’Italia e dell’Europa? Noi lo abbiamo fatto noi i braccianti del sud. Come se fossero una cosa diversa gli operai del nord e i braccianti del sud. Altro che sottoproletariato. Perché siamo noi che siamo gli operai del nord. Perché cosa è Torino se non una città del sud? Chi ci lavora? Come Salerno e Battipaglia. Dove poi infine capita lì corso Traiano come capita Battipaglia quando si accorge che non ne può più la gente. […] Allora si comincia a capire che l’unica è bruciare tutto[8].

Al di là dell’analisi politica poco profetica circa il declino del Partito comunista nel Meridione[9], il narratore ci offre un’importante analisi antropologica e sociologica dell’Italia del “miracolo economico”: uno dei motori dello sviluppo senza precedenti vissuto tra il 1956 e il 1963[10] è l’afflusso dei contadini del Sud che emigrarono in massa verso le città del triangolo industriale, rendendo disponibile forza lavoro a basso costo. La prosa balestriniana ci rivela però due aspetti centrali per comprendere il decennio di proteste che si sta aprendo: da una parte, le manifestazioni dei braccianti, i rituali, i simboli, persino il linguaggio e le metafore («Gli metto un piede davanti e gli do una spallata. Pùnfete cade per terra come una merda di vacca»)[11] sono emigrati al Nord assieme alla popolazione che ne faceva uso; i cortei, narrati (raramente) nelle opere letterarie, non sono il frutto di un’autonoma e autosufficiente cultura operaia, ma dobbiamo porli in linea di continuità con le lotte dei contadini. In secondo luogo, si coglie la diffidenza verso gli apparati di rappresentanza ufficiali della classe operaia, con il PCI e il sindacato (spesso aspramente criticato in altri passi del romanzo) bollati come troppo riformisti ed estranei alla lotta operaia, che sarà tipica dell’Autonomia operaia, organizzazione che si strutturerà nel corso del decennio successivo e prenderà sempre più distanza dal sindacato, fino ad arrivare allo scontro aperto con la cacciata di Lama del 1977 dalla Sapienza occupata. In Vogliamo tutto si percepiscono già in filigrana i segni delle future fratture.

Ma Vogliamo tutto è genealogicamente importante anche per altre due ragioni. La prima è il rapporto che sussiste tra quanto della vita operaia è visibile e quanto invece permane invisibile: il corteo è la manifestazione concreta dell’esistenza d’una comunità operaia organizzata, che avanza delle richieste ed esprime un disagio, una comunità altrimenti esclusa dallo sguardo della società civile. L’identità operaia che viene mostrata all’esterno è stata forgiata tra le linee di produzione, superando gli ostacoli – anche materiali, come cancelli e barriere – che la classe dirigente poneva fra le tute blu. Tale momento fondativo è raccontato nel quinto capitolo, intitolato La lotta:

Noi in una ventina facciamo un altro corteo in un altro posto e recuperiamo altri compagni. Dopo due ore riusciamo a bloccare tutte le linee. Proprio allora arriva il capo delle Carrozzerie il colonnello. […] Lui avanza verso di noi e io avanzo verso di lui col cartello dritto verso la sua faccia. […] Non mi ricordo quale cartello era cosa c’era scritto non mi interessava. A me interessava solo che lui se ne andasse a fare in culo. Fargli capire che non c’era niente da fare con noi. […] Allora dico Compagni qua bisogna intervenire […] dove sta parlando l’ingegnere perché lì è il pesce più grosso. Se riusciamo a mandare a fare in culo l’ingegnere davanti agli operai recuperiamo tutto. Se spacchiamo la gestione capitalistica di questo capannello siamo a posto qua abbiamo vinto la lotta oggi[12].

Gli operai che, durante l’autunno caldo e nei primi anni Settanta, sfileranno per le vie dei centri cittadini e verranno descritti dalla stampa come una «massa compatta, indistinta ed eterodiretta»[13] mostrano un’identità e un’unitarietà che hanno costruito lentamente e con fatica, contrastando i tentativi, compiuti tanto dal sindacato quanto dalla direzione aziendale, di disgiungerli e separarli.

Il secondo motivo d’interesse genealogico verso l’opera di Balestrini risiede nell’aver affiancato, nella rappresentazione della classe operaia, oltre all’unità e alla solidarietà anche l’elemento facinoroso e giacobino; gli operai decidono consapevolmente di servirsi della violenza per difendere i propri diritti e, nel capitolo finale, il furore operaio emerge con maggiore veemenza: la quotidiana e implicita violenza della catena di montaggio viene trasformata e sfogata, prorompendo con forza nelle vie cittadine. Ritroviamo dunque un’immagine della classe operaia che sarà osteggiata tanto dal sindacato quanto dal Partito comunista, i quali cercheranno di offrire un’idea più rassicurante e filo-statale; tenderanno al contrario a porsi in qualità di garanti dell’istituzione democratica, come accadde durante i funerali per le vittime di Piazza della Loggia, nel 1974[14]; oppure in stretta sinergia con le forze dell’ordine, ed è ciò che accadde per i funerali di Guido Rossa, nel 1979[15]. La letteratura, dunque, presenta una rappresentazione alternativa delle tute blu, meno pacifica e doma, ponendosi – già nel 1971 – come interprete di quel desiderio d’innalzamento del livello di scontro che le cronache giornalistiche constateranno anni più tardi.

La letteratura, si diceva, ha raccontato poco le manifestazioni e i cortei negli anni del loro svolgersi, ma recentemente la memoria degli scrittori sembra aver terminato il fisiologico processo di rielaborazione degli eventi e stanno vedendo la luce narrazioni dedicate espressamente al racconto delle lotte politiche degli anni Settanta[16], oltre a numerose rielaborazioni a posteriori su quella decade.

Proseguendo nell’intento d’isolare il topos dello sciopero, possiamo trovarlo in alcune opere recenti ricollegabili alle labour narratives italiane[17], con una variante importante rispetto alla rappresentazione balestriniana: se in quelle pagine gli operai erano agguerriti e disposti a una lotta feroce pur di affermare i propri diritti, nei romanzi successivi i cortei divengono molto più pacifici.

Sul finire degli anni Settanta viene pubblicato Tuta blu di Tommaso Di Ciaula, in cui già si notano i primi segni di uno scollamento rispetto alle descrizioni fatte da Balestrini. In Tuta blu gli operai, nella fabbrica come nella vita privata, sono descritti come aspiranti piccolo-borghesi, più desiderosi di possedere beni di consumo che pronti a impegnarsi nella lotta di classe. Tale evoluzione politica e persino antropologica si rende palese durante i cortei operai, anche quelli più nutriti: «Il corteo è imponente, oltre trecentomila, fa paura a vederlo, se si scatenasse farebbe tremare le strade e i palazzi, ma non si scatena mai, hanno dato a tutti un fischietto e noi fischiamo»[18]. Gli operai, rientrati nei ranghi del sindacato, nonostante l’insofferenza manifestata dal narratore, non assomigliano affatto a quelli descritti appena sette anni prima: hanno perso la vis battagliera e paiono piuttosto simili a scimmie ammaestrate; una metafora, quest’ultima, che non a caso torna poche pagine dopo, quando il narratore vuol descrivere un corteo fallimentare:

Oggi […] 4 ore di sciopero dei metalmeccanici. Al corteo in tutto c’erano, sì e no, un centinaio di metalmeccanici, il resto tutti studenti. Abbiamo sfilato per le vie di Bari come tanti idioti, cantando slogan vecchi e anacronistici. La verità è che lo sciopero non lo sente più nessuno, fatto in questa maniera, e non fa più paura a nessuno. […] Sembravamo la troupe di un circo equestre che fa un giro nella mattinata per pubblicizzare lo spettacolo della serata, con giocolieri, buffoni e scimmie[19].

Mentre il decennio volge al termine e nelle strade italiane incrudelisce la lotta armata, in Tuta blu il narratore sottolinea la necessità di rinnovare le forme di protesta; non solo perché esse appaiono “anacronistiche”, ma perché, riannodando il filo con Vogliamo tutto, non generano apprensione nella classe dirigente e nella società civile. La paura prodotta dalla violenza è dunque ancora considerata utile e feconda, ma sono gli operai rappresentati nel romanzo a non volerla più praticare.

Negli anni Novanta, dopo un decennio in cui hanno scarseggiato i romanzi sul lavoro, la rappresentazione degli operai sembra in linea con quella fatta da Di Ciaula: le tute blu sono colte nella loro indecisione; sono inattuali, timorose di compiere azioni violente, impensierite da eventuali conseguenze giudiziarie. Nel romanzo di Antonio Pennacchi, Mammut (1994), la parabola operaia è visibile nella sua interezza, dagli anni gloriosi all’irreversibile declino: nelle prime pagine si rievoca il 1968, episodi meno virulenti di quelli balestriniani, ma il coefficiente di combattività risulta comunque alto: «Bloccammo tutta la fabbrica per un mese, con scioperi a singhiozzo ed a scacchiera. […] Gli impiegati non volevano seguirci. Allora facemmo un paio di serpentoni in Palazzina, con tutti gli operai incazzati»[20]; una veemenza destinata però ben presto a spegnersi, gli operai si mostrano anche qui indistintamente attratti dall’individualismo tipicamente piccolo-borghese: «Nessuno […] aveva voglia di andargli dietro. E continuare nella lotta, giorno per giorno. Ci eravamo stufati. Noi volevamo solo stare tranquilli. Ed essere lasciati in pace: “Salario e produttività? Va bene, facessero come gli pare. Basta che nessuno tocchi il mio culo”»[21].

Durante gli anni Ottanta cambia l’atteggiamento degli operai nelle fabbriche e cambia quello nei cortei: le manifestazioni diventano simili a parate dimostrative, in cui «ogni fila doveva essere composta, al massimo, da sei elementi, distanziati un metro o due. Tra una fila e l’altra dovevano intercorrere almeno cinque metri»[22]; viene predicata costantemente la calma e il protagonista è spesso impegnato a gettare metaforici «secchi d’acqua»[23] per placare gli animi dei commilitoni. Si notano due elementi di novità rispetto alle rappresentazioni degli anni Settanta che si confermeranno anche in altri romanzi appartenenti al filone della nuova letteratura del lavoro: il primo è il rigetto verso ogni forma di violenza; un corteo riuscito, secondo il protagonista Benassa, è quello in cui non avvengono scontri e il livello dell’affronto rimane entro i limiti della provocazione goliardica. Il secondo elemento è l’estetizzazione della protesta: abbandonate forme più radicali di lotta, gli operai decidono di mettere in scena il loro dissenso ricorrendo a vere e proprie performance: «In mezzo al corteo venivano portate a spalla un paio di bare. Tutte nere. Con la scritta: Qui giace il Gruppo Supercavi. Erano seguite da corone funebri, e uno stuolo di lamentanti»[24]. La morte, concreta e tangibile nei duri scontri con la polizia raccontati da Balestrini, assume una forma simbolica, per significare il fallimento di un’azienda e le sue drammatiche conseguenze economiche, contro cui gli operai protestano pacificamente.

A partire dagli anni Novanta gli scrittori modificano profondamente il topos della manifestazione di piazza e, a un primo sguardo, sembrerebbe che il modello “genealogico” di Pennacchi sia da ricercare nell’ala “creativa” del Movimento, nei cosiddetti “indiani metropolitani”, «che [contestavano] capitalismo, consumismo e polizia […], baronie universitarie e […] loro clientele, [che parlavano] di ‘diritto al lusso’, ‘reddito garantito’, ‘antifascismo militante’, ‘liberazione sessuale’»[25]. Ebbene no: le performance descritte in Mammut, così come in altri romanzi successivi appartenenti al filone[26], non hanno un carattere sovversivo e non sono legate alla cultura underground, come invece avveniva in passato[27], non esercitano una critica nei confronti dell’industria culturale, ma, anzi, sembrano inserirsi perfettamente nei meccanismi della matura società dello spettacolo. Non siamo in presenza di una genealogia della continuità, ma del rovesciamento: viene utilizzata una forma simile, ma per ragioni affatto diverse.

Una possibile spiegazione che giustifichi tale scomparsa della violenza la offre Luca Marsi, quando afferma che «si tratta in certo modo di un’operazione di ‘de-violentazione’ e di anestetizzazione mediante la quale si disinnesca il potenziale di violenza anti-sistemica recondito nella comunità»[28]. La letteratura osservata e quella indicata nella bibliografia mettono in forma narrativa ciò che Marsi definisce «de-violentazione»: «Il violento è considerato oggi un antidemocratico, un irragionevole e un retrogrado, essendo la violenza espressione […] di un’epoca andata, fatta di diatribe ideologiche che ci saremmo lasciati alle spalle»[29].

Lontani i tempi in cui dalle case scendevano in strada uomini e donne a sostegno degli operai[30], la letteratura ci mostra la spettacolarizzazione delle proteste. Nell’affermazione di tale modello concorrono due fattori: il primo, quello di una partecipazione che necessita d’essere nutrita e accompagnata dall’intrattenimento; il secondo, l’urgenza di trovare un legame sociale: al tempo della comunicazione di massa pervasiva, a venir meno è proprio il tessuto sociale reale (non virtuale); tali performance tentano quindi di rispondere a queste evoluzioni, di coniugare strumenti di lotta tradizionali con la nuova conformazione sociale e comunicativa. Nell’Italia neoliberale, in cui i diritti dei lavoratori sono sotto attacco, gli scrittori si servono ancora del medesimo topos letterario che abbiamo visto operante negli anni precedenti, sebbene in misura minima e ricorrendo talvolta all’ironia[31], ma si può notare come, da una parte, ne venga rovesciato il significato attraverso la rappresentazione di lavoratori ormai incapaci di riconoscersi e lottare insieme; dall’altra, quella violenza che abbiamo visto affiorare in Balestrini ed evocare nella prosa di Di Ciaula quale rimedio alla perdita di credibilità del movimento operaio appaia oggi quasi completamente rarefatta ed estromessa dalle opere che tematizzano il lavoro. In un contesto storico e sociale in cui alla pesante eredità degli Anni di piombo si aggiunge l’affermazione di fenomeni di radicalizzazione e di terrorismo, il filone a cui ci stiamo interessando associa la violenza piuttosto a formazioni marginali come i Black Block o altre frange implicitamente o esplicitamente giudicate estremiste, gruppuscoli e individui marginali le cui azioni non sono più giudicate in grado di articolarsi con quelle di collettività organizzate.

 

Parole-chiave: labour narratives, manifestazione, piazza, violenza.

Keywords: labour narratives, demonstration, square, violence.

Bibliografia:

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  1. C. Basso Milanesi, Piazze di carta, in Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà narrativa di inizio millennio, a cura di Luca Somigli, Roma, Aracne, 2013, pp. 357-70: 357.

  2. R. Donnarumma, Ripensandoci: il Sessantotto nel romanzo italiano di oggi. Romano Luperini, Francesco Pecoraro, Elena Ferrante, in Controculture italiane, a cura di Silvia Contarini e Claudio Milanesi, Firenze, Franco Cesati, 2019, pp. 17-31: 17.

  3. Cfr. Due bienni rossi del Novecento, 1919-1920 e 1968-1969. Studi e interpretazioni a confronto, a cura di L. Falossi e F. Loreto, Roma, Ediesse, 2007.

  4. Cfr. D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto. Torino, luglio 1962, Milano, Feltrinelli, 1979.

  5. M. Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Bologna, il Mulino, 2004, p. 448.

  6. N. Balestrini e P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica e esistenziale [1988], Milano, Feltrinelli, 1997, p. 138.

  7. Cfr. P. Pezzino, Riforma agraria e lotte contadine nel periodo della ricostruzione, in «Italia contemporanea», n. 122 (gennaio-marzo 1976), pp. 59-88.

  8. N. Balestrini, Vogliamo tutto [1971], Milano, Mondadori, 2013, pp. 18-19.

  9. Il PCI è in costante crescita nelle elezioni del ’58, ’63, ’68, ’72, ’76, passando dal 22,68% al 34,37% in poco meno di un ventennio, ma l’andamento nelle regioni del Sud non segue quello nazionale durante gli anni Sessanta. Nelle elezioni del 1976, invece, il PCI fa registrare una crescita spesso superiore al 10% nel Sud. Tutti i dati sono estrapolati dall’Archivio storico delle elezioni, consultabile qui: https://elezionistorico.interno.gov.it/index.php.

  10. Cfr. P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Torino, Einaudi, 1998, VII; V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 2013, p. 301.

  11. N. Balestrini, Vogliamo tutto [1971], ed. cit. 2013, p. 93.

  12. Ivi, pp. 88-89.

  13. A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 2006, p. 124.

  14. Cfr. A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, op. cit., pp. 250-51.

  15. Cfr. A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, op. cit., p. 272.

  16. Cfr. In ordine pubblico. 10 scrittori per 10 storie, Roma, Fahrenheit 451, 2005; Fragole e sangue, Marina di Massa, Edizioni clandestine, 2007.

  17. Cfr. C. Baghetti, Works by Vitaliano Trevisan and the representation of work in the neo-liberal age, in Law, Labour and the Humanities, a cura di Angela Condello e Tiziano Toracca, London, Routledge, 2019, pp. 183-98.

  18. T. Di Ciaula, Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del sud [1978], Castelfranco Veneto, Zambon, 2002, p. 69.

  19. Ivi, p. 74.

  20. A. Pennacchi, Mammut [1994], Milano, Mondadori, 2011, p. 41.

  21. Ivi, p. 84.

  22. Ivi, p. 97.

  23. Ibidem.

  24. Ivi, p. 100.

  25. E. Deaglio, Patria 1967-1977, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 525.

  26. Cfr. E. Rea, La dismissione [2002], Milano, Feltrinelli, 2014, pp. 102-107; G. Pispisa, Città perfetta, Torino, Einaudi, 2005, pp. 76-80; A. Ferracuti, Addio, Milano, Chiarelettere, 2016, pp. 159-61.

  27. Cfr. C. Milanesi, L’underground italiano dalle riviste ai festival, in Controculture italiane, a cura di Silvia Contarini e Claudio Milanesi, Firenze, Franco Cesati, 2019, pp. 107-19.

  28. L. Marsi, Estetizzazione e normalizzazione della precarietà, in Precariato. Forme e critica della condizione operaia, a cura di Silvia Contarini e Luca Marsi, Verona, Ombre corte, 2015, pp. 107-22: 112.

  29. Ibidem.

  30. Cfr. N. Balestrini, Vogliamo tutto [1971], ed. cit. 2013, p. 165.

  31. Cfr. M. Desiati, Vita precaria e amore eterno, Milano, Mondadori, 2006, pp. 155-60.

(fasc. 52, 25 maggio 2025)