Le promesse della letteratura. Riflessioni sul concetto di letterarietà nelle “Lezioni americane”

Author di Cecilia Regni

Il laboratorio della letteratura, proposte per il futuro tra visione e utopia

È il 2024 e l’essere umano non si trova alle soglie di un nuovo millennio come accadeva quando Italo Calvino, nell’estate del 1985, rimetteva a posto il piano delle Norton Lectures, meglio conosciute come Lezioni Americane, le Poetry Lectures che l’autore era stato invitato a tenere durante l’anno accademico 1985-1986 alla Harvard University e a cui dedicò la sua concentrazione nell’ultimo anno di attività prima della morte. Nonostante la mancanza attuale di un limite temporale che traghetti l’umanità verso altri millenni, sembra sempre più centrale la questione «della sorte della letteratura» e insieme a essa la riflessione intorno alle «cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici». Nell’incipit all’opera l’autore riflette sul destino della letteratura: «la mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici. Vorrei dunque dedicare queste mie conferenze ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che mi stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio»[1].

Le Lezioni americane sono state definite da alcuni come un testamentum, una riflessione autobiografica: in esse emerge, più che in altre opere di carattere saggistico che conservano il sapore di raccolte di scritti preesistenti, la vocazione pedagogica in cui l’autore si esercita cesellando, piuttosto che una lezione dotta da consegnare ai posteri, un percorso fatto di sollecitazioni letterarie per le menti dei viventi del terzo millennio, per chi produrrà letteratura, ma anche per chi quella letteratura la incontrerà forse in un’aula di scuola.

Nel titolo della prima edizione americana che Calvino stesso aveva pensato per l’opera, Six Memos for the Next Millenium, con l’uso del termine memo, appunto, ‘promemoria’, viene posto l’accento sul carattere estemporaneo, fugace, quasi privato di uno scritto; allo stesso tempo, la parola “millennio” apre a un viaggio nel futuro che diventa universale. Ed è proprio per la loro natura schietta e priva di enfasi, ma allo stesso tempo preziosa e collettiva che le Lezioni americane, forse la prima opera saggistica organica dell’autore, contengono proposte che si offrono a una lettura didattico-educativa.

Spaziando tra le opere di Ovidio e Lucrezio, Boccaccio e Dante, W. Shakespeare, E. Dickinson; passando per i capolavori italiani di G. Galilei, G. Cavalcanti, G. Leopardi, E. Montale, ma anche facendosi strada tra miti e leggende di varie parti del mondo, Calvino si fa «acrobata del tempo»[2], come chiamerà Günther Anders, qualche anno più tardi, quelle persone in grado di mettersi nei panni delle generazioni che verranno, di quei posteri che, anche per Berthold Brecht in An die Nachgeborenen[3], rappresentano il lato più concreto della specie umana.

«Dove falliscono la politica, l’economia, il diritto e altri saperi specializzati, può forse riuscire la parola poetica inseparata, il pensiero incarnato, l’arte? […] La convinzione di avere dei posteri è da sempre il presupposto implicito su cui poggia ogni agire umano»[4]. La citazione appartiene a un meraviglioso saggio di Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, in cui il contatto con il testo e l’educazione letteraria appaiono come processi in grado di smuovere le strutture di pensiero e di aiutare a ripensare il mondo, che è alle prese con una crisi anche climatica inedita, causata dalla stessa azione umana[5].

L’esperienza della letteratura, quella pratica antica e viva che i Greci univano alla filosofia, in un tutt’uno fatto di parola e pensiero, la poiesis, era un’esperienza potente, di segno opposto a quella di una cultura umanistica che non si fa carico della reale condizione dell’uomo e continua piuttosto a parlare d’altro, con quel tipo di parola poetica che non poteva più essere pronunciata, come sosteneva T.W. Adorno, dopo gli orrori di Auschwitz. Gli esempi di narrazione che Calvino seleziona appartengono, al contrario, a quella letteratura, la parte creatrice della mimesis aristotelica, che da sempre è in grado di sostenere la visione dell’essere umano e della sua misera condizione e di accompagnare coloro che verranno.

Poco più di un ventennio prima dell’estate in cui Calvino era alle prese con la composizione delle Norton Lectures, nell’inverno del 1960, una delle maggiori poetesse della letteratura in lingua tedesca, Ingeborg Bachmann, delineava nelle Frankfurter Vorlesungen un’idea di letteratura come atto di responsabilità vicina alle tesi calviniane[6]. Come Calvino, anche Bachmann si appoggia a suggestioni e accostamenti per tracciare il suo discorso, in cui, come nelle Lezioni americane, la letteratura diviene molto di più della somma di tutte le opere che vengono citate o della somma di tutti coloro che hanno prodotto quelle opere[7].

La riflessione della poetessa austriaca viene articolata intorno alla parola “letteratura”: «e sempre ricompare la stessa luminosa parola “letteratura”, questa omnicomprensiva, elastica definizione di una cosa apparentemente chiara […] Che cosa questa parola magica significhi, che cosa essa riveli, su quali regni spalanchi il nostro sguardo, non ha bisogno – si direbbe – di chiarimenti»[8]. Bachmann esprime la possibilità di una dimensione utopica, di un «cronotopo dell’utopia»[9] che dovrebbe assumere le caratteristiche di una direzione, di un percorso, piuttosto che di una meta, e che dovrebbe nascere da un preciso progetto umano. Su questa base si sviluppa la definizione di letteratura come rinnovamento continuo, perpetuato attraverso la rilettura dei testi, da parte di ogni generazione. L’autrice, che, come Calvino, fa della riflessione intorno alla natura della letteratura il costante sostegno teorico della sua attività anche di scrittura, sottolinea che non è la parola spenta nel passato a essere fondante, ma la parola in cui il sogno del futuro si accende, attraverso gli elementi utopici che ogni grande opera letteraria racchiude in sé. Solo se la letteratura non verrà circoscritta in un Pantheon al tempo passato sarà in ogni tempo e in ogni luogo e attraverso la sua inafferrabilità si conserverà il suo cuore vivo e la sua dimensione utopica. Anche Calvino, ha sottolineato Mario Barenghi[10], scorgeva, dunque, nella letteratura la rappresentazione del rapporto fra esistenza del singolo e movimento della storia, pensiero espresso, attraverso gli spunti di Musil, anche da Bachmann, che segna la via concettuale da seguire senza esitazione:

in Musil si incontrano i termini “Utopie”, “utopisch” anche in relazione alla letteratura, all’esistenza di chi scrive; Musil non ha sviluppato sino in fondo il suo pensiero, ha solo dato lo spunto che oggi ho cercato di raccogliere […] Ma se coloro che scrivono avessero il coraggio di dichiararsi in favore di un’esistenza utopica, essi stessi non avrebbero più bisogno di rifugiarsi in quella terra di dubbia Utopia – qualcosa che si è soliti definire cultura, nazione, e così via, e nella quale sino a oggi hanno dovuto lottare per conquistarsi un posto[11].

L’utopia vive nella storia ancora non scritta e nei puntini di sospensione che separano il conosciuto da quello che ancora deve essere anche solo pensato o compreso, quello per cui non si possederà mai il giusto strumento di analisi. Spiega Bachmann: «certo, continueremo a tormentarci con la parola “letteratura” e con la letteratura stessa, con quello che essa è e con quello che noi crediamo che sia, e spesso proveremo ancora un grande fastidio per l’inaffidabilità dei nostri strumenti critici dalla cui rete la letteratura continuerà a sfuggire»[12]. L’immagine di una letteratura esule che fugge da chi la vuole ingabbiare in una definizione è per Bachmann rivelatrice della missione dell’umanità, «ma di questo dobbiamo rallegrarci, perché se ci sfugge è per amor nostro, per rimanere in vita e legare la nostra vita alla sua in quelle ore in cui noi scambiamo il nostro respiro col suo»[13]. Quelli che Bachmann chiama i presupposti utopici diventano i valori, le qualità, le specificità di cui Calvino tratterà nelle Norton Lectures: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e l’incompiuta Consistency, tradotta come coesione, coerenza.

Riflessioni (glotto)didattiche sui valori e le specificità della letteratura

Qual è dunque il ruolo della letteratura, del testo letterario in un’ottica didattico-educativa? In che modo i valori della letteratura, della letterarietà espressi da Calvino possono ancora guidare gli esseri umani nelle sfide della complessità? Ma soprattutto perché la letteratura acquista un ruolo chiave in particolare nel discorso glottodidattico?

Dalla prospettiva calviniana la letteratura e la sua «esistenza scoscesa»[14] appaiono come un osservatorio privilegiato per vedere in che modo interagiscono i diversi discorsi: quello degli studi letterari e della didattica della letteratura che, in una realtà scolastica sempre più votata all’interculturalità e al plurilinguismo, si traduce anche nella necessità di riflessione intorno alla didattica della letteratura in lingua straniera. Leggerezza, molteplicità, esattezza sono solo alcuni tra gli aspetti che la letteratura, nell’attuare la sua “funzione esistenziale”, è in grado di veicolare anche nell’ottica di un’ermeneutica interculturale e plurilingue.

La riflessione intorno al tema della letteratura non può non includere i concetti di letterarietà, poeticità, funzione poetica[15]. Tali categorie, largamente usate nel dibattito contemporaneo, rifuggono da una precisa definizione, evocando vaghezza e indefinitezza e permanendo in un’indeterminatezza così insondabile, ma allo stesso tempo affascinante, da essere state paragonate all’idea della «ricerca della teoria del tutto»[16]. L’importanza del contatto con il testo letterario è dunque un tema di grande attualità nel dibattito glottodidattico, in particolare nel contesto DaF (Deutsch als Fremdsprache), e sono numerose le teorie che in tempi più recenti hanno ripreso e sviluppato il concetto di letterarietà e poeticità come gli studi degli anni Settanta e Ottanta, durante il cosiddetto “cambio di paradigma”, di Harald Weinrich, che riconosce nel testo letterario quella fonte di ispirazione da contrapporre alla noia della lezione di lingue[17]; l’analisi di Neva Šlibar che individua nello spazio aperto della letteratura le basi per la costruzione di fondamentali competenze che l’apprendente sviluppa, superando i molteplici tipi di estraneità generati dall’incontro con il testo letterario, e coltivando un’educazione dello sguardo[18]; le teorie di Claire Kramsch, che sottolinea la necessità di coniugare la competenza comunicativa con quella che chiama la competenza simbolica, rendendo accessibile il processo di costruzione del significato e sensibilizzando gli apprendenti al meccanismo creatore della lingua[19]; l’opera di Michael Dobstadt e Renate Riedner, che lavorano a una nuova interpretazione del concetto di letterarietà e alla sensibilizzazione degli apprendenti alla dimensione estetica del linguaggio[20].

Destinatari di tali riflessioni glottodidattiche sono i giovani, e proprio ai giovani, come “zona” della cultura meno sorvegliata e per questo in grado di grandi intuizioni e sogni, dovrebbe essere riconosciuta una “particolare forza suscitatrice” e questa loro condizione dovrebbe essere preservata e curata[21]. Nel famosissimo articolo Perché leggere i classici, di qualche anno precedente alle Lezioni americane, Calvino si sofferma sul rapporto tra giovani e opere letterarie, in particolare i classici:

la gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza […] Infatti le letture di gioventù, possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienza future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano ad operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla […] C’è una particolare forza dell’opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme[22].

Le sfide a cui il contatto con la letteratura porta diventano dunque strumenti potenti contro l’impotenza della cultura di fronte alle sfide della contemporaneità, strumenti che prendono la forma dei valori descritti da Calvino, che, nella “selva di antinomie”, non si dimentica dei loro opposti, altrettanto importanti nel suo discorso.

La prima categoria, la Leggerezza, significava per l’autore «un alleggerimento del linguaggio per cui i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso, fino ad assumere la stessa rarefatta consistenza»[23]. Quella che Calvino chiama “la suggestione verbale” più che la dimensione semantica assume un ruolo fondamentale nel primo contatto con il testo letterario. Interpretando così in chiave didattica la prima lezione, la letterarietà, insediata a livello fonico, ritmico, ma anche visuale, apre alla concretezza del segno linguistico, mostrando il significante nella sua materialità. La forma prevale sul significato, rendendo la percezione un atto complesso, in cui le tracce da seguire sono leggere e rarefatte, ma rappresenta anche uno “gioco linguistico”, come lo definiva L. Wittgenstein, che genera un desiderio sensibile nei confronti del linguaggio, ingrediente imprescindibile nella lezione di letteratura. Nella storia dell’umanità, vista dall’autore come continuo inseguire qualcosa di affiorante, la parola poetica diventa «un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto»[24] che le nuove generazioni potranno percorrere.

La Rapidità, descritta da Calvino nella seconda lezione, analizzata assieme alla lentezza, caratteristica centrale nel pensiero calviniano[25], è una specificità del testo letterario e in particolare del testo narrativo:

in letteratura, il tempo è una ricchezza di cui disporre con agio e distacco: non si tratta di arrivare prima a un traguardo stabilito; al contrato l’economia di tempo è una buona cosa perché più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere. La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura[26].

Nelle fiabe, il cui modello è fatto di economia, ritmo ed essenzialità, ad esempio, si uniscono concisione e massima efficacia narrativa, e tutto quello che compare e viene verbalizzato ha una funzione necessaria. Insegnare la rapidità attraverso la forza della letterarietà significa provocare un «eccitamento d’idee simultanee» che deriva dalle parole isolate e potenti nella loro essenza materiale, ma anche nel loro significato metaforico e nella loro collocazione. Nel cronotopo letterario, quell’inscindibile legame tra tempo e spazio di cui parla M. Bachtin, la narrazione acquista valore universale. Nel panorama contemporaneo, attraversato da forze di segno opposto che da un lato sospingono la letteratura e le discipline legate a essa in spazi marginali del sapere e dall’altro donano rinnovata attenzione in un “grande rimescolamento” alla dimensione letteraria, sono molte le categorie che hanno avuto origine nel discorso letterario e che oggi hanno un ruolo fondamentale in numerosi contesti sociali. Storytelling, narrazione, funzione narrativa sono solo alcuni degli strumenti letterari entrati nel gergo comune e utilizzati in ambiti molto lontani da quelli delle discipline della letteratura[27]. L’essere umano è stato definito homo narrans proprio perché la narrazione è per l’umanità un equipaggiamento antropologico di base[28] e la letteratura un’“invenzione di specie”, come spiega Benedetti: «la specie umana ha inventato questo incredibile mezzo di “trasmissione psicofisica” di sogni e di ferite che si svolge attraverso lo spazio e il tempo, una “comunione chimica” di pensieri tra individui, lontani tra loro anche millenni»[29]. Anche secondo Calvino le fiabe sembrano rispondere ai bisogni emotivi e immaginativi più profondi dell’essere umano[30] ed è attraverso il contatto con la rapidità che la didattica della letteratura acquista un particolare significato educativo.

Con la terza categoria, l’Esattezza, si entra nel vivo di quello che la letteratura può rappresentare per l’essere umano:

esattezza vuol dire per me […] un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione […] Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze[31].

La letteratura diviene quel luogo e quel tempo potenziale per la cui realizzazione si è chiamati a impegnarsi: «la letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere»[32]. Si può ricorrere nuovamente alle parole di Ingeborg Bachmann, la cui definizione di letteratura è altrettanto visionaria, ma allo stesso tempo tangibile:

ma la letteratura, che da sé non sa neanche definirsi, che si dà a conoscere solo come affronto più che millenario e mille volte compiuto contro una lingua brutta – perché la vita possiede soltanto una lingua brutta – e con questo affronto contrappone alla vita una utopia della lingua; questa letteratura […] deve essere lodata per il suo disperato muoversi verso quella utopia e solo così essa può dirsi vanto e speranza degli esseri umani[33].

La lingua della letteratura partecipa così a un sogno linguistico con ogni suo vocabolo, interpunzione, metafora; in essa si articola e si realizza qualcosa di un sogno di espressione[34]. La riflessione intorno alle sfumature della lingua, che forse solo attraverso il testo letterario può essere protratta in ambito educativo, è un atto doveroso nei confronti del linguaggio come umana caratteristica o forse è un atto egoistico di sopravvivenza o di affermazione e preservazione di quella capacità che più di tutte ci rende umani. Perché la lezione letteraria possa diventare quel cantiere della metamorfosi occorre ragionare sull’uso del linguaggio non esclusivamente in termini di economia comunicativa e non credere in un uso del testo letterario che sia esclusivamente strumentale, in cui i grandi classici «servano a qualcosa»[35], ma di fedeltà alla realtà, di un linguaggio che possa rendere, nelle infinite possibilità linguistiche, la varietà del pensiero e del mondo.

La lezione intitolata Visibilità inizia così: «quando imparai a leggere, il vantaggio che ricavai fu minimo: quei versi sempliciotti a rime baciate non fornivano informazioni illuminanti […] io preferivo ignorare le righe scritte e continuare nella mia occupazione favorita di fantasticare dentro le figure e nella loro successione»[36]. Attraverso questo episodio Calvino invita a riflettere sull’importanza dell’incontro con una parola letteraria potente e evocatrice. La letteratura, come «antica pratica di parola»[37], sta alla base di un ripensamento necessario della sua funzione nell’ambito didattico. La parola letteraria viene investita da Calvino di un ruolo chiave, di farsi cioè una «parola suscitatrice»[38], una parola che possa risvegliare l’essere umano e guidarlo lungo il percorso esistenziale. I testi letterari possiedono quel sussurro ispiratore che altri testi di carattere informativo non hanno.

C’è uno splendido scritto nelle lettere di Franz Kafka nel quale egli parla del libro come di un’ascia che può rompere il ghiaccio in noi[39]. Il paesaggio ghiacciato del sonno e dell’ignavia in cui l’essere umano sembra giacere è quello di cui parla anche Calvino attraverso l’autore praghese, che compare in chiusura della prima lezione con il racconto Il cavaliere del secchio, «a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi»[40].

Di tale funzione rivelatrice scrive V. Sklovskij, tra i pionieri della teoria letteraria novecentesca, definendo la deautomatizzazione e l’effetto di straniamento a cui il lettore è sottoposto attraverso il contatto con la lingua letteraria. Il testo letterario distoglie dagli automatismi del percepire quotidiano e dona una rinnovata e più autentica visione della realtà. Senza la potenza della parola letteraria la vita scomparirebbe, inghiottita nel nulla, e con essa tutti gli oggetti e le emozioni umane. Solo rendendo visibile, più lento e difficile, il processo di percezione, l’oggetto artistico verrà sottratto a questo annientamento[41]. Dello stesso tipo è anche lo straniamento che auspica Federico Bertoni nel saggio Letteratura. L’autore, riferendosi ai collegamenti ipotetici tra letteratura e rivoluzione digitale, spiega l’incompatibilità che si genera tra una fruizione tradizionale della letteratura e la percezione a cui il mondo contemporaneo obbliga l’essere umano. La simultaneità di esperienze diametralmente opposte diventa così una grande sfida: «è soprattutto l’opportunità di metterle in attrito, di farle appunto sfrigolare, gemere, sprigionare scintille: è la sfida di straniare la nostra attuale percezione del mondo con un’esperienza che ci costringe ad altri ritmi di vita e di pensiero, ad altre forme di attenzione»[42].

L’ultimo valore della letteratura espresso da Calvino è la Molteplicità: «tra i valori che vorrei fossero tramandati al prossimo millennio c’è soprattutto questo: d’una letteratura che abbia fatto proprio il gusto dell’ordine mentale e della esattezza, l’intelligenza della poesia e nello stesso tempo della scienza e della filosofia». Quanto sapere si pretende ancora di accumulare a scuola? Quanti metodi si sommano e si intrecciano a tal punto da non lasciare più traccia del loro originario scopo e delle loro peculiarità? È questa la molteplicità di cui tratta Calvino nella quinta lezione? La riflessione intorno alla didattica della letteratura che si perpetua nelle scuole e nelle università è oggetto di diretta critica e la sollecitazione educativa, già espressa alcuni anni prima, include l’importanza di ripristinare una scala di valori:

per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C’è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l’introduzione, l’apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui[43].

Tale riflessione si conclude nell’ottavo punto: «un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso»[44]. Il “pulviscolo” di cui si parla è lo stesso tipo di impedimento visivo che genera l’opacità e quella successiva vaghezza a cui, anche nei termini leopardiani, Calvino contrappone l’esattezza.

Sviluppare la molteplicità significa liberare innanzitutto i significati plurimi e la complessità, come scrive Calvino: «la scrittura è un sistema di convenzioni, non c’è che moltiplicare queste convenzioni, questi approcci al mondo cercando di inseguire questa molteplicità»[45]. Con la diffusione del metodo comunicativo in ambito glottodidattico, con cui si mira molto spesso alla costruzione di significati univoci per arrivare alla comprensione, si è forse perso di vista quello che Kramsch chiama “vuoto simbolico” e la sensibilizzazione linguistica necessaria per colmare quel vuoto e per rafforzare la competenza simbolica. Liberare dunque la molteplicità nel contesto didattico-educativo, per poi affrontarla e domarla, acquisendo una competenza linguistica che faccia delle sfumature di significato la propria arma: «non date ai vostri pensieri un unico fondamento – ammoniva Bachmann – potrebbe essere pericoloso – dategliene più di uno»[46]. La quinta lezione di Calvino è così, più delle altre, la presentazione di una condizione dell’opera letteraria, terreno fertile per la “moltiplicazione dei possibili”. Tale complessità non può che tradursi in campo didattico nell’elaborazione e nell’utilizzo di un concetto di letteratura che faccia della polisemia e della pluralità strumenti che possano garantire autenticità all’educazione letteraria. Il testo letterario, anche in lingua straniera, diviene pertanto luogo ideale di riflessione collettiva e di partecipazione a discorsi plurimi. Non solo dunque le convenzioni, a cui l’apprendente è a volte spinto per uniformarsi a uno standard linguistico, ma quella creatività linguistica che porta invece, uscendo da una cornice di riferimento, alla fruttuosa molteplicità. Una molteplicità creativa che ancora anche l’intelligenza artificiale, e l’algoritmo metonimico alla base del suo funzionamento, non sembra essere in grado di eguagliare.

Iniziare per non finire, la letteratura come spazio dei possibili

L’idea di letteratura che Calvino porta avanti in quest’opera postuma parte dunque dal presupposto che essa sia ancora in grado di portare un messaggio sul mondo, superando quell’ostacolo che si pone tra il linguaggio e le cose e «gli automatismi linguistici, i filtri deformanti della comunicazione»[47]. La chiave interpretativa che si è cercato di fornire non vuole “far grondare suggestioni” o creare accostamenti insoliti, critica mossa a suo tempo anche alla ricchezza di riferimenti bibliografici a volte molto distanti delle Lezioni americane stesse[48], ma inserirsi nell’ottica di una riflessione interdisciplinare, di environmental humanities, di un’ecologia dell’essere umano in cui campi del sapere diversi vengono messi a confronto, generando sinergie adeguate a sottolineare la «funzione esistenziale» della letteratura.

Com’è noto, delle sei lezioni previste da Calvino soltanto cinque sono state portate a termine. Cominciare e finire, immaginata come la lezione che avrebbe dovuto aprire il ciclo e poi scartata, è un testo dal quale l’autore avrebbe sicuramente tratto spunto anche per la sesta lezione. Di questa lezione sono state fatte solo congetture e si sa purtroppo ben poco. Si pensa che Calvino abbia voluto in conclusione lodare il valore della coesione, quel carattere di univocità e coerenza che viene dopo la pluralità e la molteplicità. L’autore riflette sul significato di inizio, quel momento necessario in ogni processo autoriale, declinando il termine in una lunga riflessione:

ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili […] l’inizio è anche l’ingresso in un mondo completamente diverso […] l’inizio è il luogo letterario per eccellenza perché il mondo di fuori per definizione è continuo, non ha limiti visibili. Studiare le zone di confine dell’opera letteraria è osservare i modi in cui l’operazione letteraria comporta riflessioni che vanno al di là della letteratura ma che solo la letteratura può “esprimere”[49].

Consistency apre alla riflessione sul significato della letteratura nel plasmare l’abilità di aver a che fare con la molteplicità del vissuto, delle storie della memoria, dell’universo, e di racchiuderle in qualcosa di coeso e coerente. La sua incompiutezza dunque, come afferma Barenghi nell’introduzione ai «Meridiani» in cui Cominciare e finire viene pubblicata per la prima volta nel 1995, dieci anni dopo la scomparsa dell’autore, lascia un grande vuoto:

la lacuna è più grave di quanto possa sembrare a prima vista. A mancare non è infatti la sesta parte di una serie omogenea, ma l’acme di una progressione, l’obiettivo verso cui gravitano gli elementi precedenti. Quella che noi leggiamo […] è perciò un’opera decisamente mutilata […] il significato complessivo del ciclo rimane almeno in parte in ombra: è un progetto interrotto, un “macrotesto” sospeso, privo di scioglimento[50].

A quasi trent’anni da queste affermazioni, quali considerazioni possono essere fatte riguardo all’incompiutezza dell’opera? La chiusura del cerchio può essere solo immaginata dal lettore e le domande che il testo suscita, nei termini della sua completezza, anche nei giovani lettori, sono destinate a premere contro la soglia del presente su cui sostiamo come esseri umani. Questo il senso della letteratura, insieme sempre nuovo di opere passate e opere riscoperte, e del suo offrirsi come sorgente inesauribile. I presupposti utopici, i valori di leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità, e spesso anche dei loro opposti, fanno sì che la letteratura non si riduca a un triste cimitero in cui le nuove opere seppelliscono le vecchie[51]. Questo il senso della parola “proposta”, traduzione che Esther Calvino sceglie per il termine memo: la proposta di un Calvino che riflette in senso pedagogico sulla funzione della letteratura similmente a come aveva fatto in uno dei suoi primi scritti di carattere saggistico, Il midollo del leone. Questo scritto, come sosteneva Calvino stesso in un’intervista del marzo 1981, si situava ancora nell’ottica di una letteratura impegnata, in un «quadro generale che da allora è esploso varie volte», ma quello che rimane costante in lui è il credere nel potere della letteratura, anche come narrazione[52]:

noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibile […] La letteratura deve rivolgersi a quegli uomini […], deve – mentre impara da loro – insegnar loro, servire a loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti. Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo[53].

Una proposta, dunque, che le nuove generazioni saranno portate ad approfondire e accettare, come se fosse una sfida, nella scuola del futuro, per scrivere o leggere con coerenza l’ultima delle sei lezioni di Italo Calvino che conclude, ma allo stesso tempo apre alla via ininterrotta della parola letteraria: «ma sempre ancora qualcosa forse resta da dire in attesa di quella frase. Forse per la prima volta al mondo c’è un autore che racconta l’esaurirsi di tutte le storie. Ma per esaurite che siano, per poco che sia rimasto da raccontare, si continua a raccontare ancora»[54].

 

  1. I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1993, p. 3.

  2. G. Anders, Nemmeno “soltanto che saremo stati”, in Brevi scritti sulla fine dell‘uomo, a cura di D. Colombo, Trieste, Asterios Editore, 2016.

  3. Cfr. B. Brecht, Svendborger Gedichte, Berlin, Suhrkamp, 1979, p. 22.

  4. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Torino, Einaudi, 2021, p. 40.

  5. Ivi, p. 18.

  6. Cfr. I. Bachmann, Letteratura come utopia [1980], trad. it. di V. Perretta, Milano, Adelphi, 1993, pp. 105-106.

  7. Ivi, p. 107.

  8. Ivi, pp. 105-106.

  9. C. Regni, Dialogismo, confine e cronotopo. Leggere Virginia Woolf e Ingeborg Bachmann attraverso Michail Bachtin, Perugia, Università degli Studi di Perugia, 2021, p. 126.

  10. M. Barenghi, Calvino, Bologna, il Mulino, 2009, p. 114.

  11. Cfr. I. Bachmann, Letteratura come utopia, op. cit., p. 122.

  12. Cfr. I. Bachmann, Letteratura come utopia, op. cit., p. 116.

  13. Ibidem.

  14. M. Foucault, Le parole e le cose [1966], trad. it. di E. A. Panaitescu, Segrate, Rizzoli, 2016, pp. 58-324.

  15. Cfr. R. Jakobson, Saggi di linguistica generale [1963], trad. it. di L. Heilmann, L. Grassi, Milano, Feltrinelli, 1983.

  16. S. Winko, Auf der Suche nach der Weltformel. Literarizität und Poetizität in der neueren literaturtheoretischen Diskussion, in Grenzen der Literatur. Zum Begriff und Phänomen des Literarischen, a cura di S. Winko, F. Jannidis, G. Lauer, Berlin, De Gruyter, 2009, pp. 374-96: 380, trad. di C. R.

  17. Cfr. H. Weinrich, Von der Langeweile des Sprachunterrichts, in «Zeitschrift für Pädagogik», XXVII, 1981, pp. 169-85.

  18. Cfr. N. Šlibar, Im Freiraum Literatur, Ljubljana, Università di Ljubljana, 1997.

  19. Cfr. C. Kramsch, From communicative competence to symbolic competence, in «The Modern Language Journal», 90, 2, 2006, pp. 249-51.

  20. M. Dobstadt, R. Riedner, Grundzüge einer Didaktik der Literarizität, in Deutsch als Fremdsprache, a cura di B. Ahrenholz, I. Oomen-Welke, Baltmannsweiler, Schneider Verlag Hohengehren, 2013, pp. 231-41.

  21. Cfr. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, op. cit.

  22. I. Calvino, Italiani, vi esorto ai classici, in «L’Espresso», 28 giugno 1981, pp. 58-68: 58.

  23. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 19.

  24. Ivi, p. 30.

  25. In un’intervista del 1979 Calvino dichiarava: «io credo soltanto nei movimenti lenti […] Se non ci sono dei cambiamenti nella società a livello profondo, con tempi molto lenti, come di movimenti degli strati geologici, tutto il resto sono futilità, frivolezze» (I. Calvino, Sono nato in America. Interviste 1951-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 2002, p. 324).

  26. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 48.

  27. F. Bertoni, Letteratura. Teorie, metodi, strumenti, Roma, Carocci, 2018, p. 22.

  28. Cfr. A. Koschorke, Wahrheit und Erfindung, Fischer, Berlin, 2021.

  29. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, op. cit., pp. 121-22.

  30. Cfr. I. Calvino, Sono nato in America, op. cit., p. 167.

  31. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 59.

  32. Ibidem.

  33. I. Bachmann, Letteratura come utopia, op. cit., p. 120.

  34. Ibidem.

  35. I. Calvino, Italiani, vi esorto ai classici, art. cit., p. 62.

  36. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 95.

  37. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, op. cit., p. 118.

  38. Ivi, p. 119.

  39. Cfr. F. Kafka, Briefe, Berlin, Fischer, 1983, trad. it. di C. R.

  40. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 32.

  41. V. Šklovskij, L’arte come procedimento [1929], trad. it. di C. de Michelis, R. Oliva, in I formalisti russi [1965], a cura di T. Todorov, trad. it. di G. L. Bravo, Torino, Einaudi, 2003, pp. 73-94: 82.

  42. F. Bertoni, Letteratura, op. cit., p. 31.

  43. I. Calvino, Italiani, vi esorto ai classici, art. cit., p. 59.

  44. Ivi, p. 60.

  45. I. Calvino, Sono nato in America, op. cit., p. 320.

  46. I. Bachmann, Letteratura come utopia, op. cit., p. 30.

  47. M. Barenghi, Calvino, op. cit., p. 117.

  48. Cfr. C. Giunta, Le “Lezioni americane” 25 anni dopo: una pietra sopra?, in «Belfagor», LXV, 2010, 6, pp. 649-66.

  49. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 124.

  50. M. Barenghi, in I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 629-753.

  51. Cfr. I. Bachmann, Letteratura come utopia, op. cit., p. 110.

  52. Cfr. I. Calvino, Sono nato in America, op. cit., p. 417.

  53. I. Calvino, Il midollo del leone [1955], in Id., Saggi 1945-1985, op. cit., pp. 9-27: 22.

  54. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 142.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)