Le promesse della letteratura. Riflessioni sul concetto di letterarietà nelle “Lezioni americane”

Author di Cecilia Regni

Il laboratorio della letteratura, proposte per il futuro tra visione e utopia

È il 2024 e l’essere umano non si trova alle soglie di un nuovo millennio come accadeva quando Italo Calvino, nell’estate del 1985, rimetteva a posto il piano delle Norton Lectures, meglio conosciute come Lezioni Americane, le Poetry Lectures che l’autore era stato invitato a tenere durante l’anno accademico 1985-1986 alla Harvard University e a cui dedicò la sua concentrazione nell’ultimo anno di attività prima della morte. Nonostante la mancanza attuale di un limite temporale che traghetti l’umanità verso altri millenni, sembra sempre più centrale la questione «della sorte della letteratura» e insieme a essa la riflessione intorno alle «cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici». Nell’incipit all’opera l’autore riflette sul destino della letteratura: «la mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici. Vorrei dunque dedicare queste mie conferenze ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che mi stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio»[1].

Le Lezioni americane sono state definite da alcuni come un testamentum, una riflessione autobiografica: in esse emerge, più che in altre opere di carattere saggistico che conservano il sapore di raccolte di scritti preesistenti, la vocazione pedagogica in cui l’autore si esercita cesellando, piuttosto che una lezione dotta da consegnare ai posteri, un percorso fatto di sollecitazioni letterarie per le menti dei viventi del terzo millennio, per chi produrrà letteratura, ma anche per chi quella letteratura la incontrerà forse in un’aula di scuola.

Nel titolo della prima edizione americana che Calvino stesso aveva pensato per l’opera, Six Memos for the Next Millenium, con l’uso del termine memo, appunto, ‘promemoria’, viene posto l’accento sul carattere estemporaneo, fugace, quasi privato di uno scritto; allo stesso tempo, la parola “millennio” apre a un viaggio nel futuro che diventa universale. Ed è proprio per la loro natura schietta e priva di enfasi, ma allo stesso tempo preziosa e collettiva che le Lezioni americane, forse la prima opera saggistica organica dell’autore, contengono proposte che si offrono a una lettura didattico-educativa.

Spaziando tra le opere di Ovidio e Lucrezio, Boccaccio e Dante, W. Shakespeare, E. Dickinson; passando per i capolavori italiani di G. Galilei, G. Cavalcanti, G. Leopardi, E. Montale, ma anche facendosi strada tra miti e leggende di varie parti del mondo, Calvino si fa «acrobata del tempo»[2], come chiamerà Günther Anders, qualche anno più tardi, quelle persone in grado di mettersi nei panni delle generazioni che verranno, di quei posteri che, anche per Berthold Brecht in An die Nachgeborenen[3], rappresentano il lato più concreto della specie umana.

«Dove falliscono la politica, l’economia, il diritto e altri saperi specializzati, può forse riuscire la parola poetica inseparata, il pensiero incarnato, l’arte? […] La convinzione di avere dei posteri è da sempre il presupposto implicito su cui poggia ogni agire umano»[4]. La citazione appartiene a un meraviglioso saggio di Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, in cui il contatto con il testo e l’educazione letteraria appaiono come processi in grado di smuovere le strutture di pensiero e di aiutare a ripensare il mondo, che è alle prese con una crisi anche climatica inedita, causata dalla stessa azione umana[5].

L’esperienza della letteratura, quella pratica antica e viva che i Greci univano alla filosofia, in un tutt’uno fatto di parola e pensiero, la poiesis, era un’esperienza potente, di segno opposto a quella di una cultura umanistica che non si fa carico della reale condizione dell’uomo e continua piuttosto a parlare d’altro, con quel tipo di parola poetica che non poteva più essere pronunciata, come sosteneva T.W. Adorno, dopo gli orrori di Auschwitz. Gli esempi di narrazione che Calvino seleziona appartengono, al contrario, a quella letteratura, la parte creatrice della mimesis aristotelica, che da sempre è in grado di sostenere la visione dell’essere umano e della sua misera condizione e di accompagnare coloro che verranno.

Poco più di un ventennio prima dell’estate in cui Calvino era alle prese con la composizione delle Norton Lectures, nell’inverno del 1960, una delle maggiori poetesse della letteratura in lingua tedesca, Ingeborg Bachmann, delineava nelle Frankfurter Vorlesungen un’idea di letteratura come atto di responsabilità vicina alle tesi calviniane[6]. Come Calvino, anche Bachmann si appoggia a suggestioni e accostamenti per tracciare il suo discorso, in cui, come nelle Lezioni americane, la letteratura diviene molto di più della somma di tutte le opere che vengono citate o della somma di tutti coloro che hanno prodotto quelle opere[7].

La riflessione della poetessa austriaca viene articolata intorno alla parola “letteratura”: «e sempre ricompare la stessa luminosa parola “letteratura”, questa omnicomprensiva, elastica definizione di una cosa apparentemente chiara […] Che cosa questa parola magica significhi, che cosa essa riveli, su quali regni spalanchi il nostro sguardo, non ha bisogno – si direbbe – di chiarimenti»[8]. Bachmann esprime la possibilità di una dimensione utopica, di un «cronotopo dell’utopia»[9] che dovrebbe assumere le caratteristiche di una direzione, di un percorso, piuttosto che di una meta, e che dovrebbe nascere da un preciso progetto umano. Su questa base si sviluppa la definizione di letteratura come rinnovamento continuo, perpetuato attraverso la rilettura dei testi, da parte di ogni generazione. L’autrice, che, come Calvino, fa della riflessione intorno alla natura della letteratura il costante sostegno teorico della sua attività anche di scrittura, sottolinea che non è la parola spenta nel passato a essere fondante, ma la parola in cui il sogno del futuro si accende, attraverso gli elementi utopici che ogni grande opera letteraria racchiude in sé. Solo se la letteratura non verrà circoscritta in un Pantheon al tempo passato sarà in ogni tempo e in ogni luogo e attraverso la sua inafferrabilità si conserverà il suo cuore vivo e la sua dimensione utopica. Anche Calvino, ha sottolineato Mario Barenghi[10], scorgeva, dunque, nella letteratura la rappresentazione del rapporto fra esistenza del singolo e movimento della storia, pensiero espresso, attraverso gli spunti di Musil, anche da Bachmann, che segna la via concettuale da seguire senza esitazione:

in Musil si incontrano i termini “Utopie”, “utopisch” anche in relazione alla letteratura, all’esistenza di chi scrive; Musil non ha sviluppato sino in fondo il suo pensiero, ha solo dato lo spunto che oggi ho cercato di raccogliere […] Ma se coloro che scrivono avessero il coraggio di dichiararsi in favore di un’esistenza utopica, essi stessi non avrebbero più bisogno di rifugiarsi in quella terra di dubbia Utopia – qualcosa che si è soliti definire cultura, nazione, e così via, e nella quale sino a oggi hanno dovuto lottare per conquistarsi un posto[11].

L’utopia vive nella storia ancora non scritta e nei puntini di sospensione che separano il conosciuto da quello che ancora deve essere anche solo pensato o compreso, quello per cui non si possederà mai il giusto strumento di analisi. Spiega Bachmann: «certo, continueremo a tormentarci con la parola “letteratura” e con la letteratura stessa, con quello che essa è e con quello che noi crediamo che sia, e spesso proveremo ancora un grande fastidio per l’inaffidabilità dei nostri strumenti critici dalla cui rete la letteratura continuerà a sfuggire»[12]. L’immagine di una letteratura esule che fugge da chi la vuole ingabbiare in una definizione è per Bachmann rivelatrice della missione dell’umanità, «ma di questo dobbiamo rallegrarci, perché se ci sfugge è per amor nostro, per rimanere in vita e legare la nostra vita alla sua in quelle ore in cui noi scambiamo il nostro respiro col suo»[13]. Quelli che Bachmann chiama i presupposti utopici diventano i valori, le qualità, le specificità di cui Calvino tratterà nelle Norton Lectures: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e l’incompiuta Consistency, tradotta come coesione, coerenza.

Riflessioni (glotto)didattiche sui valori e le specificità della letteratura

Qual è dunque il ruolo della letteratura, del testo letterario in un’ottica didattico-educativa? In che modo i valori della letteratura, della letterarietà espressi da Calvino possono ancora guidare gli esseri umani nelle sfide della complessità? Ma soprattutto perché la letteratura acquista un ruolo chiave in particolare nel discorso glottodidattico?

Dalla prospettiva calviniana la letteratura e la sua «esistenza scoscesa»[14] appaiono come un osservatorio privilegiato per vedere in che modo interagiscono i diversi discorsi: quello degli studi letterari e della didattica della letteratura che, in una realtà scolastica sempre più votata all’interculturalità e al plurilinguismo, si traduce anche nella necessità di riflessione intorno alla didattica della letteratura in lingua straniera. Leggerezza, molteplicità, esattezza sono solo alcuni tra gli aspetti che la letteratura, nell’attuare la sua “funzione esistenziale”, è in grado di veicolare anche nell’ottica di un’ermeneutica interculturale e plurilingue.

La riflessione intorno al tema della letteratura non può non includere i concetti di letterarietà, poeticità, funzione poetica[15]. Tali categorie, largamente usate nel dibattito contemporaneo, rifuggono da una precisa definizione, evocando vaghezza e indefinitezza e permanendo in un’indeterminatezza così insondabile, ma allo stesso tempo affascinante, da essere state paragonate all’idea della «ricerca della teoria del tutto»[16]. L’importanza del contatto con il testo letterario è dunque un tema di grande attualità nel dibattito glottodidattico, in particolare nel contesto DaF (Deutsch als Fremdsprache), e sono numerose le teorie che in tempi più recenti hanno ripreso e sviluppato il concetto di letterarietà e poeticità come gli studi degli anni Settanta e Ottanta, durante il cosiddetto “cambio di paradigma”, di Harald Weinrich, che riconosce nel testo letterario quella fonte di ispirazione da contrapporre alla noia della lezione di lingue[17]; l’analisi di Neva Šlibar che individua nello spazio aperto della letteratura le basi per la costruzione di fondamentali competenze che l’apprendente sviluppa, superando i molteplici tipi di estraneità generati dall’incontro con il testo letterario, e coltivando un’educazione dello sguardo[18]; le teorie di Claire Kramsch, che sottolinea la necessità di coniugare la competenza comunicativa con quella che chiama la competenza simbolica, rendendo accessibile il processo di costruzione del significato e sensibilizzando gli apprendenti al meccanismo creatore della lingua[19]; l’opera di Michael Dobstadt e Renate Riedner, che lavorano a una nuova interpretazione del concetto di letterarietà e alla sensibilizzazione degli apprendenti alla dimensione estetica del linguaggio[20].

Destinatari di tali riflessioni glottodidattiche sono i giovani, e proprio ai giovani, come “zona” della cultura meno sorvegliata e per questo in grado di grandi intuizioni e sogni, dovrebbe essere riconosciuta una “particolare forza suscitatrice” e questa loro condizione dovrebbe essere preservata e curata[21]. Nel famosissimo articolo Perché leggere i classici, di qualche anno precedente alle Lezioni americane, Calvino si sofferma sul rapporto tra giovani e opere letterarie, in particolare i classici:

la gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza […] Infatti le letture di gioventù, possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienza future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano ad operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla […] C’è una particolare forza dell’opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme[22].

Le sfide a cui il contatto con la letteratura porta diventano dunque strumenti potenti contro l’impotenza della cultura di fronte alle sfide della contemporaneità, strumenti che prendono la forma dei valori descritti da Calvino, che, nella “selva di antinomie”, non si dimentica dei loro opposti, altrettanto importanti nel suo discorso.

La prima categoria, la Leggerezza, significava per l’autore «un alleggerimento del linguaggio per cui i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso, fino ad assumere la stessa rarefatta consistenza»[23]. Quella che Calvino chiama “la suggestione verbale” più che la dimensione semantica assume un ruolo fondamentale nel primo contatto con il testo letterario. Interpretando così in chiave didattica la prima lezione, la letterarietà, insediata a livello fonico, ritmico, ma anche visuale, apre alla concretezza del segno linguistico, mostrando il significante nella sua materialità. La forma prevale sul significato, rendendo la percezione un atto complesso, in cui le tracce da seguire sono leggere e rarefatte, ma rappresenta anche uno “gioco linguistico”, come lo definiva L. Wittgenstein, che genera un desiderio sensibile nei confronti del linguaggio, ingrediente imprescindibile nella lezione di letteratura. Nella storia dell’umanità, vista dall’autore come continuo inseguire qualcosa di affiorante, la parola poetica diventa «un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto»[24] che le nuove generazioni potranno percorrere.

La Rapidità, descritta da Calvino nella seconda lezione, analizzata assieme alla lentezza, caratteristica centrale nel pensiero calviniano[25], è una specificità del testo letterario e in particolare del testo narrativo:

in letteratura, il tempo è una ricchezza di cui disporre con agio e distacco: non si tratta di arrivare prima a un traguardo stabilito; al contrato l’economia di tempo è una buona cosa perché più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere. La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura[26].

Nelle fiabe, il cui modello è fatto di economia, ritmo ed essenzialità, ad esempio, si uniscono concisione e massima efficacia narrativa, e tutto quello che compare e viene verbalizzato ha una funzione necessaria. Insegnare la rapidità attraverso la forza della letterarietà significa provocare un «eccitamento d’idee simultanee» che deriva dalle parole isolate e potenti nella loro essenza materiale, ma anche nel loro significato metaforico e nella loro collocazione. Nel cronotopo letterario, quell’inscindibile legame tra tempo e spazio di cui parla M. Bachtin, la narrazione acquista valore universale. Nel panorama contemporaneo, attraversato da forze di segno opposto che da un lato sospingono la letteratura e le discipline legate a essa in spazi marginali del sapere e dall’altro donano rinnovata attenzione in un “grande rimescolamento” alla dimensione letteraria, sono molte le categorie che hanno avuto origine nel discorso letterario e che oggi hanno un ruolo fondamentale in numerosi contesti sociali. Storytelling, narrazione, funzione narrativa sono solo alcuni degli strumenti letterari entrati nel gergo comune e utilizzati in ambiti molto lontani da quelli delle discipline della letteratura[27]. L’essere umano è stato definito homo narrans proprio perché la narrazione è per l’umanità un equipaggiamento antropologico di base[28] e la letteratura un’“invenzione di specie”, come spiega Benedetti: «la specie umana ha inventato questo incredibile mezzo di “trasmissione psicofisica” di sogni e di ferite che si svolge attraverso lo spazio e il tempo, una “comunione chimica” di pensieri tra individui, lontani tra loro anche millenni»[29]. Anche secondo Calvino le fiabe sembrano rispondere ai bisogni emotivi e immaginativi più profondi dell’essere umano[30] ed è attraverso il contatto con la rapidità che la didattica della letteratura acquista un particolare significato educativo.

Con la terza categoria, l’Esattezza, si entra nel vivo di quello che la letteratura può rappresentare per l’essere umano:

esattezza vuol dire per me […] un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione […] Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze[31].

La letteratura diviene quel luogo e quel tempo potenziale per la cui realizzazione si è chiamati a impegnarsi: «la letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere»[32]. Si può ricorrere nuovamente alle parole di Ingeborg Bachmann, la cui definizione di letteratura è altrettanto visionaria, ma allo stesso tempo tangibile:

ma la letteratura, che da sé non sa neanche definirsi, che si dà a conoscere solo come affronto più che millenario e mille volte compiuto contro una lingua brutta – perché la vita possiede soltanto una lingua brutta – e con questo affronto contrappone alla vita una utopia della lingua; questa letteratura […] deve essere lodata per il suo disperato muoversi verso quella utopia e solo così essa può dirsi vanto e speranza degli esseri umani[33].

La lingua della letteratura partecipa così a un sogno linguistico con ogni suo vocabolo, interpunzione, metafora; in essa si articola e si realizza qualcosa di un sogno di espressione[34]. La riflessione intorno alle sfumature della lingua, che forse solo attraverso il testo letterario può essere protratta in ambito educativo, è un atto doveroso nei confronti del linguaggio come umana caratteristica o forse è un atto egoistico di sopravvivenza o di affermazione e preservazione di quella capacità che più di tutte ci rende umani. Perché la lezione letteraria possa diventare quel cantiere della metamorfosi occorre ragionare sull’uso del linguaggio non esclusivamente in termini di economia comunicativa e non credere in un uso del testo letterario che sia esclusivamente strumentale, in cui i grandi classici «servano a qualcosa»[35], ma di fedeltà alla realtà, di un linguaggio che possa rendere, nelle infinite possibilità linguistiche, la varietà del pensiero e del mondo.

La lezione intitolata Visibilità inizia così: «quando imparai a leggere, il vantaggio che ricavai fu minimo: quei versi sempliciotti a rime baciate non fornivano informazioni illuminanti […] io preferivo ignorare le righe scritte e continuare nella mia occupazione favorita di fantasticare dentro le figure e nella loro successione»[36]. Attraverso questo episodio Calvino invita a riflettere sull’importanza dell’incontro con una parola letteraria potente e evocatrice. La letteratura, come «antica pratica di parola»[37], sta alla base di un ripensamento necessario della sua funzione nell’ambito didattico. La parola letteraria viene investita da Calvino di un ruolo chiave, di farsi cioè una «parola suscitatrice»[38], una parola che possa risvegliare l’essere umano e guidarlo lungo il percorso esistenziale. I testi letterari possiedono quel sussurro ispiratore che altri testi di carattere informativo non hanno.

C’è uno splendido scritto nelle lettere di Franz Kafka nel quale egli parla del libro come di un’ascia che può rompere il ghiaccio in noi[39]. Il paesaggio ghiacciato del sonno e dell’ignavia in cui l’essere umano sembra giacere è quello di cui parla anche Calvino attraverso l’autore praghese, che compare in chiusura della prima lezione con il racconto Il cavaliere del secchio, «a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi»[40].

Di tale funzione rivelatrice scrive V. Sklovskij, tra i pionieri della teoria letteraria novecentesca, definendo la deautomatizzazione e l’effetto di straniamento a cui il lettore è sottoposto attraverso il contatto con la lingua letteraria. Il testo letterario distoglie dagli automatismi del percepire quotidiano e dona una rinnovata e più autentica visione della realtà. Senza la potenza della parola letteraria la vita scomparirebbe, inghiottita nel nulla, e con essa tutti gli oggetti e le emozioni umane. Solo rendendo visibile, più lento e difficile, il processo di percezione, l’oggetto artistico verrà sottratto a questo annientamento[41]. Dello stesso tipo è anche lo straniamento che auspica Federico Bertoni nel saggio Letteratura. L’autore, riferendosi ai collegamenti ipotetici tra letteratura e rivoluzione digitale, spiega l’incompatibilità che si genera tra una fruizione tradizionale della letteratura e la percezione a cui il mondo contemporaneo obbliga l’essere umano. La simultaneità di esperienze diametralmente opposte diventa così una grande sfida: «è soprattutto l’opportunità di metterle in attrito, di farle appunto sfrigolare, gemere, sprigionare scintille: è la sfida di straniare la nostra attuale percezione del mondo con un’esperienza che ci costringe ad altri ritmi di vita e di pensiero, ad altre forme di attenzione»[42].

L’ultimo valore della letteratura espresso da Calvino è la Molteplicità: «tra i valori che vorrei fossero tramandati al prossimo millennio c’è soprattutto questo: d’una letteratura che abbia fatto proprio il gusto dell’ordine mentale e della esattezza, l’intelligenza della poesia e nello stesso tempo della scienza e della filosofia». Quanto sapere si pretende ancora di accumulare a scuola? Quanti metodi si sommano e si intrecciano a tal punto da non lasciare più traccia del loro originario scopo e delle loro peculiarità? È questa la molteplicità di cui tratta Calvino nella quinta lezione? La riflessione intorno alla didattica della letteratura che si perpetua nelle scuole e nelle università è oggetto di diretta critica e la sollecitazione educativa, già espressa alcuni anni prima, include l’importanza di ripristinare una scala di valori:

per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C’è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l’introduzione, l’apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui[43].

Tale riflessione si conclude nell’ottavo punto: «un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso»[44]. Il “pulviscolo” di cui si parla è lo stesso tipo di impedimento visivo che genera l’opacità e quella successiva vaghezza a cui, anche nei termini leopardiani, Calvino contrappone l’esattezza.

Sviluppare la molteplicità significa liberare innanzitutto i significati plurimi e la complessità, come scrive Calvino: «la scrittura è un sistema di convenzioni, non c’è che moltiplicare queste convenzioni, questi approcci al mondo cercando di inseguire questa molteplicità»[45]. Con la diffusione del metodo comunicativo in ambito glottodidattico, con cui si mira molto spesso alla costruzione di significati univoci per arrivare alla comprensione, si è forse perso di vista quello che Kramsch chiama “vuoto simbolico” e la sensibilizzazione linguistica necessaria per colmare quel vuoto e per rafforzare la competenza simbolica. Liberare dunque la molteplicità nel contesto didattico-educativo, per poi affrontarla e domarla, acquisendo una competenza linguistica che faccia delle sfumature di significato la propria arma: «non date ai vostri pensieri un unico fondamento – ammoniva Bachmann – potrebbe essere pericoloso – dategliene più di uno»[46]. La quinta lezione di Calvino è così, più delle altre, la presentazione di una condizione dell’opera letteraria, terreno fertile per la “moltiplicazione dei possibili”. Tale complessità non può che tradursi in campo didattico nell’elaborazione e nell’utilizzo di un concetto di letteratura che faccia della polisemia e della pluralità strumenti che possano garantire autenticità all’educazione letteraria. Il testo letterario, anche in lingua straniera, diviene pertanto luogo ideale di riflessione collettiva e di partecipazione a discorsi plurimi. Non solo dunque le convenzioni, a cui l’apprendente è a volte spinto per uniformarsi a uno standard linguistico, ma quella creatività linguistica che porta invece, uscendo da una cornice di riferimento, alla fruttuosa molteplicità. Una molteplicità creativa che ancora anche l’intelligenza artificiale, e l’algoritmo metonimico alla base del suo funzionamento, non sembra essere in grado di eguagliare.

Iniziare per non finire, la letteratura come spazio dei possibili

L’idea di letteratura che Calvino porta avanti in quest’opera postuma parte dunque dal presupposto che essa sia ancora in grado di portare un messaggio sul mondo, superando quell’ostacolo che si pone tra il linguaggio e le cose e «gli automatismi linguistici, i filtri deformanti della comunicazione»[47]. La chiave interpretativa che si è cercato di fornire non vuole “far grondare suggestioni” o creare accostamenti insoliti, critica mossa a suo tempo anche alla ricchezza di riferimenti bibliografici a volte molto distanti delle Lezioni americane stesse[48], ma inserirsi nell’ottica di una riflessione interdisciplinare, di environmental humanities, di un’ecologia dell’essere umano in cui campi del sapere diversi vengono messi a confronto, generando sinergie adeguate a sottolineare la «funzione esistenziale» della letteratura.

Com’è noto, delle sei lezioni previste da Calvino soltanto cinque sono state portate a termine. Cominciare e finire, immaginata come la lezione che avrebbe dovuto aprire il ciclo e poi scartata, è un testo dal quale l’autore avrebbe sicuramente tratto spunto anche per la sesta lezione. Di questa lezione sono state fatte solo congetture e si sa purtroppo ben poco. Si pensa che Calvino abbia voluto in conclusione lodare il valore della coesione, quel carattere di univocità e coerenza che viene dopo la pluralità e la molteplicità. L’autore riflette sul significato di inizio, quel momento necessario in ogni processo autoriale, declinando il termine in una lunga riflessione:

ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili […] l’inizio è anche l’ingresso in un mondo completamente diverso […] l’inizio è il luogo letterario per eccellenza perché il mondo di fuori per definizione è continuo, non ha limiti visibili. Studiare le zone di confine dell’opera letteraria è osservare i modi in cui l’operazione letteraria comporta riflessioni che vanno al di là della letteratura ma che solo la letteratura può “esprimere”[49].

Consistency apre alla riflessione sul significato della letteratura nel plasmare l’abilità di aver a che fare con la molteplicità del vissuto, delle storie della memoria, dell’universo, e di racchiuderle in qualcosa di coeso e coerente. La sua incompiutezza dunque, come afferma Barenghi nell’introduzione ai «Meridiani» in cui Cominciare e finire viene pubblicata per la prima volta nel 1995, dieci anni dopo la scomparsa dell’autore, lascia un grande vuoto:

la lacuna è più grave di quanto possa sembrare a prima vista. A mancare non è infatti la sesta parte di una serie omogenea, ma l’acme di una progressione, l’obiettivo verso cui gravitano gli elementi precedenti. Quella che noi leggiamo […] è perciò un’opera decisamente mutilata […] il significato complessivo del ciclo rimane almeno in parte in ombra: è un progetto interrotto, un “macrotesto” sospeso, privo di scioglimento[50].

A quasi trent’anni da queste affermazioni, quali considerazioni possono essere fatte riguardo all’incompiutezza dell’opera? La chiusura del cerchio può essere solo immaginata dal lettore e le domande che il testo suscita, nei termini della sua completezza, anche nei giovani lettori, sono destinate a premere contro la soglia del presente su cui sostiamo come esseri umani. Questo il senso della letteratura, insieme sempre nuovo di opere passate e opere riscoperte, e del suo offrirsi come sorgente inesauribile. I presupposti utopici, i valori di leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità, e spesso anche dei loro opposti, fanno sì che la letteratura non si riduca a un triste cimitero in cui le nuove opere seppelliscono le vecchie[51]. Questo il senso della parola “proposta”, traduzione che Esther Calvino sceglie per il termine memo: la proposta di un Calvino che riflette in senso pedagogico sulla funzione della letteratura similmente a come aveva fatto in uno dei suoi primi scritti di carattere saggistico, Il midollo del leone. Questo scritto, come sosteneva Calvino stesso in un’intervista del marzo 1981, si situava ancora nell’ottica di una letteratura impegnata, in un «quadro generale che da allora è esploso varie volte», ma quello che rimane costante in lui è il credere nel potere della letteratura, anche come narrazione[52]:

noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibile […] La letteratura deve rivolgersi a quegli uomini […], deve – mentre impara da loro – insegnar loro, servire a loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti. Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo[53].

Una proposta, dunque, che le nuove generazioni saranno portate ad approfondire e accettare, come se fosse una sfida, nella scuola del futuro, per scrivere o leggere con coerenza l’ultima delle sei lezioni di Italo Calvino che conclude, ma allo stesso tempo apre alla via ininterrotta della parola letteraria: «ma sempre ancora qualcosa forse resta da dire in attesa di quella frase. Forse per la prima volta al mondo c’è un autore che racconta l’esaurirsi di tutte le storie. Ma per esaurite che siano, per poco che sia rimasto da raccontare, si continua a raccontare ancora»[54].

 

  1. I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1993, p. 3.

  2. G. Anders, Nemmeno “soltanto che saremo stati”, in Brevi scritti sulla fine dell‘uomo, a cura di D. Colombo, Trieste, Asterios Editore, 2016.

  3. Cfr. B. Brecht, Svendborger Gedichte, Berlin, Suhrkamp, 1979, p. 22.

  4. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Torino, Einaudi, 2021, p. 40.

  5. Ivi, p. 18.

  6. Cfr. I. Bachmann, Letteratura come utopia [1980], trad. it. di V. Perretta, Milano, Adelphi, 1993, pp. 105-106.

  7. Ivi, p. 107.

  8. Ivi, pp. 105-106.

  9. C. Regni, Dialogismo, confine e cronotopo. Leggere Virginia Woolf e Ingeborg Bachmann attraverso Michail Bachtin, Perugia, Università degli Studi di Perugia, 2021, p. 126.

  10. M. Barenghi, Calvino, Bologna, il Mulino, 2009, p. 114.

  11. Cfr. I. Bachmann, Letteratura come utopia, op. cit., p. 122.

  12. Cfr. I. Bachmann, Letteratura come utopia, op. cit., p. 116.

  13. Ibidem.

  14. M. Foucault, Le parole e le cose [1966], trad. it. di E. A. Panaitescu, Segrate, Rizzoli, 2016, pp. 58-324.

  15. Cfr. R. Jakobson, Saggi di linguistica generale [1963], trad. it. di L. Heilmann, L. Grassi, Milano, Feltrinelli, 1983.

  16. S. Winko, Auf der Suche nach der Weltformel. Literarizität und Poetizität in der neueren literaturtheoretischen Diskussion, in Grenzen der Literatur. Zum Begriff und Phänomen des Literarischen, a cura di S. Winko, F. Jannidis, G. Lauer, Berlin, De Gruyter, 2009, pp. 374-96: 380, trad. di C. R.

  17. Cfr. H. Weinrich, Von der Langeweile des Sprachunterrichts, in «Zeitschrift für Pädagogik», XXVII, 1981, pp. 169-85.

  18. Cfr. N. Šlibar, Im Freiraum Literatur, Ljubljana, Università di Ljubljana, 1997.

  19. Cfr. C. Kramsch, From communicative competence to symbolic competence, in «The Modern Language Journal», 90, 2, 2006, pp. 249-51.

  20. M. Dobstadt, R. Riedner, Grundzüge einer Didaktik der Literarizität, in Deutsch als Fremdsprache, a cura di B. Ahrenholz, I. Oomen-Welke, Baltmannsweiler, Schneider Verlag Hohengehren, 2013, pp. 231-41.

  21. Cfr. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, op. cit.

  22. I. Calvino, Italiani, vi esorto ai classici, in «L’Espresso», 28 giugno 1981, pp. 58-68: 58.

  23. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 19.

  24. Ivi, p. 30.

  25. In un’intervista del 1979 Calvino dichiarava: «io credo soltanto nei movimenti lenti […] Se non ci sono dei cambiamenti nella società a livello profondo, con tempi molto lenti, come di movimenti degli strati geologici, tutto il resto sono futilità, frivolezze» (I. Calvino, Sono nato in America. Interviste 1951-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 2002, p. 324).

  26. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 48.

  27. F. Bertoni, Letteratura. Teorie, metodi, strumenti, Roma, Carocci, 2018, p. 22.

  28. Cfr. A. Koschorke, Wahrheit und Erfindung, Fischer, Berlin, 2021.

  29. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, op. cit., pp. 121-22.

  30. Cfr. I. Calvino, Sono nato in America, op. cit., p. 167.

  31. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 59.

  32. Ibidem.

  33. I. Bachmann, Letteratura come utopia, op. cit., p. 120.

  34. Ibidem.

  35. I. Calvino, Italiani, vi esorto ai classici, art. cit., p. 62.

  36. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 95.

  37. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, op. cit., p. 118.

  38. Ivi, p. 119.

  39. Cfr. F. Kafka, Briefe, Berlin, Fischer, 1983, trad. it. di C. R.

  40. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 32.

  41. V. Šklovskij, L’arte come procedimento [1929], trad. it. di C. de Michelis, R. Oliva, in I formalisti russi [1965], a cura di T. Todorov, trad. it. di G. L. Bravo, Torino, Einaudi, 2003, pp. 73-94: 82.

  42. F. Bertoni, Letteratura, op. cit., p. 31.

  43. I. Calvino, Italiani, vi esorto ai classici, art. cit., p. 59.

  44. Ivi, p. 60.

  45. I. Calvino, Sono nato in America, op. cit., p. 320.

  46. I. Bachmann, Letteratura come utopia, op. cit., p. 30.

  47. M. Barenghi, Calvino, op. cit., p. 117.

  48. Cfr. C. Giunta, Le “Lezioni americane” 25 anni dopo: una pietra sopra?, in «Belfagor», LXV, 2010, 6, pp. 649-66.

  49. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 124.

  50. M. Barenghi, in I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 629-753.

  51. Cfr. I. Bachmann, Letteratura come utopia, op. cit., p. 110.

  52. Cfr. I. Calvino, Sono nato in America, op. cit., p. 417.

  53. I. Calvino, Il midollo del leone [1955], in Id., Saggi 1945-1985, op. cit., pp. 9-27: 22.

  54. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 142.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Il narratore assente e la fotografia: tra Virginia Woolf e Luigi Ghirri

Author di Massimo Scotti

Tanto tempo fa, in gioventù, avevo scoperto un piccolo, prezioso volume di ballate inglesi[1], e trovavo che le più belle fossero le prime, firmate tutte Anon. Dopo aver cercato inutilmente in varie enciclopedie notizie su quel bardo a me ignoto, mi ero reso conto di esser stato molto ingenuo, perché non si trattava di un nome proprio, bensì dell’abbreviazione di Anonimo. E ho la presunzione di immaginare – ingenuo lo sono rimasto – che anche Virginia Woolf abbia commesso il mio identico errore. In tal caso, potrebbe essersi senz’altro divertita constatando che quel poeta non esisteva o, meglio, era esistito eccome, ma non aveva lasciato traccia della sua personalità artistica, confondendosi con le sterminate schiere di ideatori non identificabili che hanno preceduto le ere delle figure autoriali definite con precisione, e orgogliose della propria individualità letteraria; autoironica com’era, Virginia Woolf avrà deciso forse proprio per questo di dedicare a lui, Anon, il cantore anonimo, il primo capitolo di un’opera concepita per raccontare la storia delle lettere inglesi ai suoi amici artisti, primo fra tutti il cognato Clive Bell.

L’opera è purtroppo rimasta incompiuta. Non ne rimane che quel primo capitolo, semifinito, l’inizio di un secondo e vari appunti sparsi. Ma anche solo l’esordio è notevole, per intensità e luce, nonché per la sua peculiare forma di saggio romanzesco, un po’ narrazione pura e un po’ trattato fantasioso, un po’ divagazione colta e un po’ “selva” letteraria, come si diceva un tempo, quando le definizioni erano immaginose e non, come oggi, severamente tecnicistiche.

«For many centuries after Britain became an island» the historian says «the untamed forest was king» […]. On those matted boughs innumerable birds sang; but their song was only heard by a few skin clad hunters in the clearings. Did the desire to sing come to one of those huntsmen because he heard the birds sing, and so rested his axe against the tree for a moment? […] The voice that broke the silence of the forest was the voice of Anon. Some one heard the song and remembered it for was later written down, beautifully, on parchment. Thus the singer had his audience, but the audience was so little interested in his name that he never thought to give it. The audience was itself the singer […]. Every body shared in the emotion of Anon song, and supplied the story. Anon sang because spring has come; or winter is gone; because he loves; because he is hungry, or lustful; or merry: or because he adores some God. Anon is sometimes man; sometimes woman. He is the common voice singing out of doors, he has no house. He lives a roaming life crossing the fields, mounting the hills, lying under the hawthorn to listen to the nightingale. […] But shutting out a chimney or a factory we can still see what Anon saw – the bird haunted reed whispering fen, the down and the green scar not yet healed along which he came when he made his journeys. He was a simple singer, lifting a song or a story from other people lips, and letting the audience join the chorus. Sometimes ha made a few lines that exactly matched emotion[2].

Prima ancora della propria interiorità, quello che Anon sceglie di descrivere è lo spettacolo del mondo: la natura, il trascorrere delle stagioni, il profilo segreto di una coscienza collettiva che scruta l’esistenza degli uomini e delle donne, degli animali e delle piante, cogliendone le leggi di mutamento e ricorrenza, di unità e conflitto. La cultura orale di Anon (the common voice) possiede un’oggettività di sguardo che l’individualità autoriale sembra aver rinnegato in seguito, per privilegiare l’espressione del genio singolo, con la sua sensibilità unica e inimitabile, cara al Romanticismo e dal Romanticismo idolatrata fino al paradosso.

Eppure, per le contraddizioni tipiche di ogni epoca, furono proprio i romantici a osannare quella coscienza collettiva dei popoli nazionali, il canto antico degli avi senza nome, dei narratori assenti dalla Storia, incollocabili se non in un territorio dai confini linguistici definiti, ma comunque non rintracciabili biograficamente, quindi inafferrabili.

Oralità e anonimato formano un binomio pressoché inscindibile. Questo è il fascino della tradizione che Virginia Woolf ha colto nel suo ultimo scritto, non concluso e destinato forse non per caso a essere pubblicato solo postumo. La “postumità” – se così si può dire – è il terzo elemento che forma la qualità dell’opera di Anon, registrata e resa pubblica in forma scritta solo dopo la scomparsa del suo autore, con la cui morte infatti, che coincide con l’avvento della stampa, si conclude il primo capitolo dell’opera woolfiana. Si tratta di una libertà mitopoietica che l’autrice si è concessa, perché sapeva bene che la fine della civiltà orale era stata decretata, molto prima, dall’invenzione della scrittura: il passaggio dalla chirografia alla tipografia avviene quando l’oralità si è già da tempo spenta.

Quella espressa da Virginia Woolf è senza dubbio una visione romantica dell’oralità – romantica, e anche idealizzata, sì, ma non superficiale. Forse anche più vicina alla realtà di quanto non lo siano, né possano esserlo, le teorizzazioni tecniche degli esperti successivi (Havelock, Ong e molti altri). Una visione condivisa da tanti artisti, perché è la visione che tutti ne abbiamo – e Virginia Woolf, identificandosi nel common reader, non poteva fare a meno di condividerla, a un livello alto ed “ecumenicamente emotivo”.

Nelle culture orali, scriveva Walter Ong, «l’originalità narrativa, per esempio, non sta nell’inventare nuove storie, ma nel creare una particolare interazione con il lettore»[3]. In questa frase sono contenuti due elementi essenziali dell’oralità, come possiamo dedurla, o solo ipotizzarla, dalle sue tracce rimaste nella cultura scritta: il “pensare per storie”, quindi la costruzione narrativa del reale e la perpetuazione attraverso miti e archetipi delle verità raccolte durante il processo dell’esperienza umana; il ricorso all’attenzione di chi quelle storie le ascolta, le vede narrare, cioè al solo mezzo in grado di ritrovarvi o scoprirvi un significato, una sapienza originaria, il momento epifanico in cui il senso delle cose viene percepito (per un istante, e per sempre).

Ora, propongo un passaggio cruciale che equivale a un vertiginoso salto logico, benché gli ardimenti delle analisi inter artes siano già considerati leciti da tempo: che rapporto può esistere fra la cultura dell’oralità, l’assenza di un autore individuabile, e la tecnica della fotografia? Sarebbe facile stabilire tale rapporto di continuità tenendo conto del fatto che – gli storici della fotografia lo sottolineano spesso, e anche alcuni autori in veste di storiografi e teorici – l’autorialità in quest’arte è circondata da una vasta nebulosa di anonimato. Accanto a ciascuno dei maestri riconosciuti esistono almeno mille, o diecimila, artefici del tutto ignoti. E non meno abili o notevoli: è la situazione affascinante dei pittori sconosciuti a cui si dà una definizione quale “Maestro degli angeli cantori” o “Maestro delle mezze figure femminili”, “Maestro dei crocifissi blu” o “Maestro delle arciduchesse”, “Maestro delle Palazze” o “Maestro delle Vele”, basata su certi elementi dei loro dipinti, sulla presunta provenienza territoriale, sull’anno della composizione delle opere o su qualche vago dettaglio biografico (il “Parente di Giotto”, il “Pensionante dei Saraceni”)[4].

No, il discorso è differente: vorrei cercare di spiegare – anche temerariamente – come all’interno di un’opera dalle caratteristiche riconoscibili, per esempio quella di autore singolare qual è Luigi Ghirri, si possano rintracciare almeno le sfumature di un linguaggio che vuol rendersi coscientemente anonimo per somigliare il più possibile a quello della tradizione orale. E sarà necessario farlo osservando le sue opere, seguendo i suoi testi teorici e ascoltando le parole da lui scritte o registrate durante alcune lezioni di cui parleremo in seguito[5].

Quello di Ghirri è uno sguardo che si impone di rendersi in tutto simile alla voce dell’Anon woolfiano. E che cerca di addentrarsi, di identificarsi nell’antica “oralità primaria” della fotografia, momento aurorale esplorato con passione in alcune delle sue lezioni, soprattutto quelle riunite nella sezione intitolata «Storia»[6].

Oggi siamo entrati in un tempo di “oralità secondaria” della fotografia, arte in cui i primi creatori furono anonimi, quanto lo sono ora gli innumerevoli dilettanti, a vario grado di abilità, che scattano miliardi di fotografie ogni secondo sul pianeta (opere che si consumeranno nell’oblio senza lasciare traccia, e fra le quali pochissime resteranno). È come se Luigi Ghirri aspirasse, con il suo lavoro, a dissimulare la propria individualità autoriale riproducendo immagini che tutti potrebbero cogliere, tutti hanno forse colto prima o poi, senza far ricorso ad artifici o limitandoli il più possibile: «Dimenticare sé stessi» è il titolo della prima sezione delle su Lezioni di fotografia[7]:

Non mi ha mai interessato quello che comunemente si definisce come ‘stile’; stile è una lettura in codice, e la fotografia ritengo sia un linguaggio senza codice, pertanto anziché diminuzione, allargamento di ‘comunicazione’… Ho sempre affrontato la ‘scena da rappresentare’ in modo diretto, mi sono posto di fronte agli eventi in maniera frontale, evitando tagli o fughe di qualsiasi tipo. Ho sempre affidato sviluppo e stampa a laboratori standard, non mi ha mai interessato la produzione di oggetti da collezionismo, né tantomeno fare operazioni di ‘maquillage’. Il gesto estetico e formale è già compreso in quello da fotografare… Il problema della forma fotografica, con gli inevitabili rimandi alle cure esasperate in sede di stampa, viraggi, mascherature per ottenere un risultato ulteriormente ‘oltre’, non mi ha mai affascinato. Fotografo a colori, perché il mondo reale non è in bianco e nero e perché sono state inventate le pellicole e le carte per la fotografia a colori… Uso prevalentemente l’obiettivo normale, e poi in egual misura grandangolo e medio tele, non uso filtri, e lenti particolari. Non mi piace far vedere l’obiettivo usato. L’obiettivo vero è sempre stato un altro e non quello ottico. Ho cercato di non chiudermi in filoni o generi, per questo contemporaneamente ho lavorato in diverse direzioni, in un processo di attivazione del pensiero, non ho cercato di fare delle fotografie, ma delle carte, delle mappe che fossero contemporaneamente fotografie[8].

Come afferma e sottolinea più e più volte, Luigi Ghirri rifugge dall’uso dei ritocchi tecnici alle stampe o alle lastre, come dallo spostamento di oggetti nella stanza che sta ritraendo, o dal taglio di elementi casuali rientrati nel campo del suo obiettivo, perché sa bene, e lo ripete spesso, che la fotografia non è altro se non un ritaglio all’interno della realtà visibile, o invisibile. «La fotografia è sempre un escludere il resto del mondo per farne vedere un pezzettino»[9]. Lo spiega con un esempio significativo, parlando di come ha ritratto lo studio di Giorgio Morandi a Grizzana, nel 1989:

Avevo iniziato facendo immagini più dilatate, ma procedendo, andando più in fondo, entrando all’interno di questo spazio dello studio, percepii che tutto era stato lasciato com’era alla morte del pittore: sembrava che lui fosse ancora lì, che fosse appena uscito di casa. Quindi le foglie secche, i barattoli, gli oggetti ridipinti, il nastro, lo scotch, la sedia sulla quale si sedeva. Avrei potuto ripulire l’immagine togliendo, per esempio, questo pezzo di seggiola, che può apparire fastidioso. Ho scelto invece di suggerire, conservando questo elemento che può essere definito un piccolo incidente all’interno della rappresentazione, un rapporto con un contesto più vasto[10].

Questa assenza di artificio è paragonabile al rifiuto di ogni addobbo, ornamento, ritocco letterario che sembra consustanziale ai testi della letteratura orale (in questo senso, le formule ricorrenti per esempio nella poesia omerica non si devono considerare “artifici” ma tecniche mnemoniche, strumenti d’ausilio per l’improvvisazione del canto).

Ma non si tratta solo di questo: Luigi Ghirri si pone di fronte al mondo nello stesso spirito di Anon, con l’ansia di catturare un frammento dell’esistenza in un’immagine, quel che fa il bardo woolfiano senza nome con le proprie emozioni di fronte ai misteri del creato, cercando di definire i contorni di uno specifico momento che ha una sua ben poco definibile particolarità.

Anzitutto, l’attenzione di Anon è rivolta – Virginia Woolf lo dice chiaramente – al trascorrere del tempo, all’atmosfera tipica di una stagione, che si traduce, in fotografia, in un particolare tono della luce[11]. La poesia proveniente dalla cultura orale – almeno quella che è stata tramandata, di cui quindi abbiamo testimonianza – appare profondamente legata ai cicli stagionali, di cui ama riprodurre le immagini ma a cui appartiene anche nelle forme: significativo, in questo senso, è il legame dei generi letterari con i periodi dell’anno, individuato da Northrop Frye nella sua Anatomia della critica, mediante la connessione con il rito, l’andamento del tempo e la progressione dell’esistenza umana (cioè dell’eroe) dall’infanzia alla vecchiaia[12]. L’essenziale archetipo che coglie la similitudine fra l’arco del giorno e la vita individuale è del resto alla base della struttura di un vertice dell’opera woolfiana, il romanzo The waves (Le onde, 1931).

Il paragone fra oralità e fotografia è comunque doppiamente curioso, lo ammetto, anche perché essenzialmente improprio. La fotografia è di per sé scrittura (il termine deriva dal sostantivo greco phōs, photós, ‘luce’, e dal verbo grápho, ‘scrivere’, appunto, o ‘disegnare’). Quest’arte fissa immagini che la memoria dovrebbe conservare, idealmente, senza essere impresse su una lastra o una stampa, ma la mente non può trattenere tutto e quindi ferma le immagini su un supporto, dando spazio così a una composizione artistica “concreta”, riproducibile, visibile, comunicabile.

Il pensiero e la musica, la parola e il canto erano liberi, momentanei, volatili, prima dell’avvento della scrittura, così come le parvenze della vita prima della pittura e poi della fotografia, o della registrazione per il suono; si può istituire una similitudine in tal senso: «La scrittura, Platone fa dire a Socrate nel Fedro, è disumana, poiché finge di ricreare al di fuori della mente ciò che in realtà può esistere solo al suo interno»[13].

Dalle brevi analisi che seguiranno si potrà stabilire se il paragone è pretestuoso oppure no.

Un esempio invernale: la fotografia intitolata semplicemente Cittanova di Modena, con il sottotitolo, Chiesa sulla Via Emilia[14], forse spurio. Le fotografie di Ghirri hanno notoriamente titoli reticenti, formati solo dall’indicazione di luogo e nient’altro. Questa caratteristica non fa che aumentare il potere evocativo dell’immagine, senza minimamente indirizzare la fantasia dell’osservatore: un’altra analogia, direi, con le caratteristiche della cultura orale e del suo aspetto anonimo. L’analisi, l’astrazione, la teoria, i modelli speculativi, l’elucubrazione intellettuale nascono con la civiltà della scrittura (e ne fanno parte).

Sul far della sera, una pallida luna piena si fa strada nel cielo avvolto da una foschia compatta e morbida, sopra una chiesetta solitaria. Fa pensare a una di quelle piccole cappelle sperdute sulle soglie dei boschi, nominate da Ladislao Mittner nella sua Storia della letteratura tedesca e care al Romanticismo devoto, ma qui non c’è alcun bosco, solo qualche albero spoglio sulla destra dell’inquadratura: una pianura brulla e vuota. Il cielo è pallidissimo, di una tonalità appena distinguibile dalla sfumatura della lieve coltre di neve che lo riflette: un celeste incanutito, similissimo alla giada del suolo, sorta di turchese Tiffany estremamente slavato. La facciata della chiesa, sporca e rosa, fa pensare alle indimenticabili lune verlainiane:

Et leurs molles ombres bleues
tourbillonnent dans l’extase
d’une lune rose et grise,
et la mandoline jase
parmi les frissons de brise
[15].

Le luci si accendono nelle case, e sono di un arancio leggero, come i fari stellanti di un’automobile che spunta sotto una volta; c’è un annuncio funebre che si intravede appeso al muro accanto alla chiesa. La neve del campo di fronte è già torbida, confusa con la terra e la ghiaia. Natale deve essere già passato (non ci sono luminarie e il primo plenilunio, nel 1985, fu il 16 gennaio). C’è un’atmosfera insieme d’attesa e di compimento, una pace gentile e malinconica. La malinconia è uno dei tratti generali della fotografia di Ghirri. Potrebbe essere un qualunque passante a vedere questo spettacolo, che probabilmente è lì per noi ogni anno, verso quell’ora, nei pleniluni d’inverno: basta che ci sia solo un po’ di neve, fatto ahimè sempre più raro.

Il fotografo ha colto un momento del tempo, ripetibile per quanto unico: non aggiunge e non toglie niente a ciò che vede, come farebbe un poeta della civiltà orale; descrive e non interpreta, ricorda senza commenti. Eppure questa apparente esilità di intervento ha il potere di sprigionare nello spettatore un’emozione dinamica, profondamente forte e coinvolgente: tutta la solitudine invernale è compresa in questa immagine, abbacinante nella sua desolazione.

Un altro esempio, questa volta di interni: Boretto. Albergo “Il Bersagliere”, camera n. 8[16]. Un letto matrimoniale, o meglio due letti singoli appaiati, con comodini annessi, visti dal fondo. Sopra, un’immagine della Madonna attorniata da vignette che forse ne raccontano la storia; i toni sono quelli del legno, probabilmente di ciliegio; l’atmosfera sembrerebbe quella di un pomeriggio estivo, la luce è calda, appena smorzata. La fotografia non dice nient’altro, eppure racconta con discrezione vicende andate: il punctum, nucleo focale dell’immagine secondo Roland Barthes, sarebbe forse il filo elettrico che regge l’interruttore “a peretta”, avvolto intorno a due pomelli dei letti, per stringerli in un nodo che è una sorta di abbraccio: quante coppie avranno dormito in quei letti? Quante teste hanno riposato su quei guanciali candidi che si vedono appena sotto le spalliere bombate? Lo stile è rustico ma anche, a suo modo, pretenzioso; racconta di un tempo in cui l’albergo ebbe un suo prestigio, vicino com’è alla stazione ferroviaria; dunque vite di passaggio, momenti fugaci. Eppure quel letto dà la sensazione della stabilità della vita contadina, quando i viaggi erano rari e gli spostamenti obbligati solo da circostanze fortuite, magari poco liete, talvolta uniche nelle vite di individui anonimi e stanziali. «Queste immagini riprendono una tradizione iconografica, un aspetto della memoria collettiva», scrive Ghirri[17]. «È evidente un richiamo non tanto al passato quanto piuttosto a un certo modo di vivere, culturalmente molto connotato».

Senza l’indicazione offerta dal sottotitolo, si potrebbe pensare semplicemente a una camera da letto contadina fra le tante, in una regione agricola come l’Emilia Romagna, o in una qualunque zona rurale d’Italia. Il dettaglio dell’albergo impone qui una deviazione suggestiva, che conduce verso le aree attigue alle stazioni, i cui esterni sono stati così minuziosamente descritti nei dipinti di Paul Delvaux. Ma qui è la vita intima di una stanza che si dischiude agli occhi della mente, con la sua solennità e il suo enigma – e la stanza è vuota. Il letto è preparato per accogliere altri ospiti, ma apprendiamo che l’albergo è ora dismesso. Una pagina di Facebook ci invita a celebrare un minuscolo “Come eravamo”[18]. Il sito del FAI ne racconta in breve la storia[19].

Questa volta, dunque, e almeno per il momento, l’esperienza di visione non è riproducibile: anche se la vecchia locanda fosse restaurata, e perfino se la camera n. 8 venisse riallestita com’era nella fotografia di Ghirri, l’esperienza visiva non potrebbe mai più essere la stessa, perché saremmo consapevoli della sua artificialità. «A questo Ghirri risponde che è anche possibile pensare che il tempo rinnovi, che ogni scarto accidentale rinnovi la percezione, invece d’essere soltanto la pietra tombale dei momenti della vita»[20].

Come accade nella cultura orale, quindi, il documento assume perfino suo malgrado un valore storiografico; sappiamo che l’immagine appartiene inesorabilmente al passato; l’oralità sfugge alla cronologia, la fotografia no. Sappiamo quando è stata scattata: l’anno, almeno, e sappiamo che questo avveniva forse quando già l’albergo era un relitto storico; possiamo supporre che Ghirri stesso abbia osservato gli oggetti di quella stanza con il sentore di una fine – appena avvenuta oppure incombente.

Ma ogni viaggiatore avrà osservato quelle cose e quegli ambienti con lo stesso atteggiamento: niente di durevole, nessun accenno di permanenza; eppure quei letti un po’ tronfi, panciuti, massicci, sembrano raccontarci e volersi dare un’aria di stabilità tetragona e caparbia, rispettabile e immutabile, borghese e ottusa. L’immagine sacra sembra dirci che non si trattava certo di un albergo a ore; se amplessi s’intrecciarono in quei letti gemelli, erano di sicuro benedetti dalla Vergine, quindi non dovevano essere frettolosi e loschi. L’insieme fa pensare piuttosto ai versi di un magnifico poema di Attilio Bertolucci[21]. E l’intera opera fotografica di Luigi Ghirri potrebbe costituire il corredo iconografico del testo del poeta italiano, come la biografia di un uomo in viaggio, colta attraverso i suoi woolfiani “momenti di visione”.

The curtain rises upon play after play. Each time it rises upon a more detached, a more matured drama. The individual on the stage becomes more and more differentiated; and the whole group is more closely related and less at the mercy of the plot. The curtain rises upon Henry the Sixth; and King John; upon Hamlet and Antony and Cleopatra and upon Macbeth. Finally it rises upon the Tempest. But the paly has outgrown the uncovered theatre where the sun beats and the rain pours. That theatre must be replaced by the theatre of the brain. The playwright is replaced by the man who writes a book. The audience is replaced by the reader. Anon is dead[22].

La fine di Anon sarebbe adeguatamente illustrata da un’altra fotografia di Ghirri, intitolata Ravenna. Scenografia di Aldo Rossi, alla Rocca Brancaleone. L’impostazione qui è illusionistica: la scena teatrale, con torri quadrate e contrafforti, è osservata in modo da far apparire le costruzioni fittizie grandi come i palazzi della città sullo sfondo; la realtà è svelata dalle impalcature che sostengono le file di fari che illuminano il palco e, sotto, la buca dell’orchestra, ma l’impressione permane e il cielo del crepuscolo forma un controcanto celeste-violaceo al rosso pallido degli edifici medievaleggianti (benché molto stilizzati). «La tonalità teatrale è bene indicata dall’allestimento scenico di Aldo Rossi, straordinario architetto italiano», scrive Gianni Celati, «dove non si vede bene la differenza tra la messa in scena per l’opera lirica che si recita e le forme architettoniche che l’avvolgono. E una tonalità teatrale è richiamata anche da quella villa nei pressi di Bologna, presentata come un lontano fondale da melodramma, come il segno d’un illusionismo diffuso che domina questo paesaggio»[23].

Il riferimento di Celati è alla fotografia intitolata Bologna. Villa nei pressi di Gaiana. Una visione di sogno, o più semplicemente una ripresa da lontano, in movimento, magari da un’auto in corsa? Da un basso strato di foschia che sembra un velo di fata emerge in una luce d’oro la facciata di una villa signorile, isolata alle spalle di un parco: il palazzo dei Guermantes o la reggia del ballo di Cenerentola? Gli alberi scuri sotto il cielo viola della notte fanno pensare all’Isola dei morti di Arnold Böcklin.

Soprattutto visioni come questa fanno intuire quanto l’immaginario di Ghirri sia prossimo alla cultura popolare e al dominio del fiabesco (mediati da un raffinato patrimonio di letture e di riferimenti visivi), ma soprattutto a una caratteristica tipica dell’oralità: il “pensare per storie”[24].

Lo si sente anche in fotografie apparentemente semplicissime come Spezzano. Castello, Sala delle Vedute: è quasi solo un’inquadratura di un pannello dipinto, la veduta di “Manzina”, come indica il cartiglio; a destra c’è una struttura di metallo, a sinistra si intravede appena una finestra aperta, da cui entrano i riflessi biancoazzurri di una luce estiva; tutto il resto dell’immagine è costituito dalla collina su cui sorgono vecchi edifici, in una tonalità ocra, sotto il cielo terso: è la storia di un passato, di un borgo oggi radicalmente trasformato; la vita di quel luogo appare cancellata perché i suoi abitanti sono assenti. La fotografia parla di una doppia musealizzazione: l’immagine riproduce le moderne strutture in uno spazio concepito come archivio di tenute nobiliari appartenute ad aristocratici di campagna (i Pio di Savoia) e dipinte da Cesare Baglione, pittore di corte dei Farnese, probabilmente fra il 1595 e il 1596. La scelta visiva di Ghirri allude a noi che osserviamo l’immagine, osservata a sua volta (o fantasticata) dall’artista: è in qualche modo la situazione in cui lo studioso cerca di delineare la fisionomia della cultura orale, immerso però nell’odierna condizione della civiltà della scrittura – metapoiesi, quindi, e riflessione sulle modalità della visione e sulla sua storicità.

Questo, però, a un livello per così dire “intellettualistico”.

Il fotografo, anche qui, come fa sempre, “pensa per storie”. Cerca nell’oggetto raffigurato l’archetipo del tempo, la presenza di vicende andate, il lascito delle generazioni, l’ombra dei secoli che si sono accumulati come polvere sulle cose delle sue stanze disabitate. Ghirri ha – si impone di avere o lo ottiene spontaneamente – un approccio “diretto” alla visione, si impone di perseguirlo senza deviazioni, ricercando la gratiam novitatis dell’antico poeta orale, la purezza di sguardo che sa essere inevitabilmente perduto. La sua è poesia “sentimentale”, nel senso dato al termine da Schiller, in contrapposizione alla qualità “ingenua” di un cantore come Anon: capisce perfettamente che quell’ingenuità gli è preclusa, eppure cerca di riprodurla sottraendo il più possibile alla sua composizione visiva ogni addobbo superfluo, ogni inutile sofisticazione.

Le storie, poi, affiorano più agevolmente in fotografie dove la situazione è esplicita, o dove gli oggetti “parlano” a voce più alta, o in una composizione più complessa e rivelatrice: sono le immagini in cui appaiono figure umane, sicuramente, ma non solo.

Qualche esempio in tal senso, iniziando da Bologna, 1973 (qui il riferimento è a Lezioni di fotografia, p. 71). Qui l’ambientazione è ingannevole. Si direbbe un posto di mare, dal momento che un ampio affresco di onde, con vele bianche in lontananza, campeggia dietro le due figure solitarie in primo piano. Invece si tratta probabilmente di una pizzeria urbana, o di un ristorante popolare (nell’angolo in alto a destra si vede parte di una lista di cibi: “Risotto, spaghetti, insalata”). Il locale è semivuoto. L’uomo e la donna non si guardano, sono assorti nei loro pensieri, forse hanno litigato. Lo si intuisce dall’indifferenza forzata con cui fissano direzioni opposte. Forse è il compleanno di lei, che ha accanto una borsa di plastica da cui esce una confezione regalo; o non ha gradito l’omaggio, oppure è infastidita dall’attesa che si protrae: hanno due bicchieri di birra a metà e un piatto colmo di michette intonse. La signora è fresca di parrucchiere, si è fatta gonfiare le chiome come andava di moda all’epoca; il marito molto baffuto, molto rassegnato, appoggia il gomito sul bordo dello schienale della sedia che ha accanto, forse infastidito dal silenzio ostile della signora. C’è una storia che aleggia su quel silenzio, un racconto alla Maupassant o alla Benni, alla Celati o alla Carver. Le immagini, in questo caso, hanno un potere narrativo molto intenso, che si sprigiona da un momento preciso e irripetibile nel tempo per irradiarsi attraverso le vite dei personaggi rappresentati, che sono reali in quel momento e poi svaniscono in una sorta di racconto astratto, pieno di interrogativi e di sospensioni. Dalla sconfinata “cultura orale” che è l’esistenza, la fotografia coglie un istante, lo fissa in un’immagine e lo tramanda per sempre: è uno dei temi più profondi e persistenti di tutta l’opera woolfiana: cogliere l’intensità del singolo momento in rapporto al flusso inarrestabile del tempo[25].

La stessa cosa avviene in un’altra fotografia di Ghirri, famosissima, emblematica: Alpe di Siusi, Ortisei, 1979[26]. Sullo sfondo di una magnifica veduta montana, una coppia di mezza età avanza su un prato, in direzione delle vette: sono due persone viste di spalle, che si tengono per mano, chissà se speranzosi o affaticati. Viaggiano insieme verso quello che sembra un futuro, o la morte. Fanno pensare a quelle coppie di figure sulle tombe etrusche, fissate in eterno nella loro intimità condivisa, segreta e per qualche motivo struggente; l’immagine possiede quella spontaneità miracolosa da cui nascono i simboli nella cultura orale (come la possiamo dedurre dalle sue tracce nella tradizione letteraria, quindi scritta) e, insieme, quella precisione e quella nettezza individuate e definite nella teoria del “correlativo oggettivo” eliotiano.

Si può cogliere solo parzialmente l’origine della suggestione che emana da questa fotografia; c’è un insieme di linee orizzontali e di piani successivi: sembrano evocare le quinte di sabbia che si susseguono nei deserti del tempo di cui parla Thomas Mann all’inizio delle sue Storie di Giacobbe; e ci sono le due figure erette che trovano un corrispettivo nella verticalità delle vette distanti; le ombre sul prato e le nuvole appaiono come tracce e proiezioni evanescenti delle forme solide del mondo; con la semplicità diretta e comunicativa della poesia popolare, l’insieme interpreta l’esperienza ansiosa della percezione umana: il senso del tempo che passa, il tragitto terreno di ogni individuo, l’inizio e la fine della vita, il cammino verso un orizzonte sconosciuto.

Diversa eppure riconducibile a un’ispirazione analoga è Ostiglia, Centrale elettrica (1987)[27]. Così la descrive Andrea Cortellessa:

Pieno giorno, campo medio. La luce è variabile: il cielo si sta rannuvolando e in fondo alla strada le ombre sono meno definite, fra poco questa luce verrà meno. Al centro dell’immagine, di profilo, cammina una bambina in gonna rosa e calzettoni bianchi. Per strada, oltre a lei, solo un ciclista vaga in lontananza. Davanti alla bambina fa angolo una chiesuola senza pretese, schiacciata a una casa dalla verandina probabilmente abusiva. In basso si allunga l’ombra di un lampione, ma il punctum sono le tre gigantesche ciminiere, a strisce orizzontali bianche e rosse, che scandiscono la fuga prospettica sullo sfondo, come colonne che sorreggano il cielo incombente sulla scena. Il titolo, Ostiglia, centrale elettrica; la data, «1987». È un esempio perfetto del paradosso di Ghirri: il quale ha distolto da sé ogni tentazione di tecnicismo e ogni marchio di ‘autorialità’ individuale (quella che definisce «fotografia creativa» ossia, traduco, d’avanguardia) ma che oggi, con ogni probabilità, è il fotografo più riconoscibile in assoluto[28].

In un panorama provinciale e industriale, la bambina procede sola e sicura per la sua strada, di profilo, da destra verso sinistra, incurante dello spazio vuoto e desolato che la circonda: forse è domenica, la vita per lei è piena di promesse, a quel paese apparterrà per sempre oppure lo abbandonerà. Il suo mondo è destinato a trasformarsi, oppure no. Il luogo in cui vive rimarrà sonnacchioso ed eternamente uguale, oppure di colpo, per qualche motivo, si risveglierà; non è dato saperlo e a lei poco importa; la lieta indifferenza a tutto sembra l’insegna, la bandiera della sua passeggiata solitaria.

La traduzione in concetti razionali di tutto ciò che queste fotografie comunicano risulta inevitabilmente enfatica. O, peggio, come una “versione in prosa” della poesia, banale. Può farci immaginare cosa sia stato, per chi ha vissuto la civiltà della cultura orale, il trasferimento nella scrittura di una tradizione ricca e perduta. Perché quel tipo di mutamento fatale riduce inevitabilmente una complessità che rimane per noi inattingibile.

La fotografia di Luigi Ghirri possiede, in qualche modo, o riproduce, la cruda essenzialità del mito che è anche quella della fiaba, come, su un altro piano, quella del fatto di cronaca diffuso e narrato oralmente, o della “leggenda metropolitana”. Si avvicina a questa sobrietà legata unicamente alla linearità narrativa un certo tipo di “giallo classico” che non indulge a descrizioni d’ambiente o psicologismi (penso ad Agatha Christie, ma non solo). Mito, fiaba, racconto orale si limitano alla trama e cancellano ogni altro elemento; quando si trasferiscono nella forma scritta, si arricchiscono – solo allora – di forme e stilemi propri del “letterario”. Ghirri si sforza in ogni modo di rifuggire da quella “letterarietà”, pur risultando, ai nostri occhi di oggi, l’artefice di una fotografia estremamente colta, raffinata e pervasa da allusioni che però, ben lungi dal mostrarsi “erudite”, risultano “archetipiche”.

Da subito, la fotografia sviluppa contemporaneamente due filoni ben precisi. Uno rivela lo sguardo nuovo, di meraviglia nei confronti del mondo, del paesaggio, dell’architettura, della vita nella sua complessità e bellezza; l’altro tende alla creazione di uno sterminato catalogo e di un nuovo modo di vedere l’umanità. Cioè, da una parte c’è una grande attenzione per la bellezza del mondo e dall’altra un desiderio fortissimo dell’uomo di ritrarre sé stesso in maniera analogica, perfetta, di ottenere quasi una copia di sé. Esplodono, anche grazie alla fotografia, alcuni pensieri mitici che erano nell’aria già da tempo: il mito dell’esplorazione, della scoperta, l’indagine della natura, e anche la rappresentazione romantica della natura stessa, e il grande mito di rivedersi e riscrivere la propria storia personale, anche attraverso le immagini, attraverso gli album di famiglia che si diffondono subito dopo la scoperta della fotografia[29].

Queste parole di Ghirri concludono, almeno provvisoriamente, un discorso qui inaugurato e appena accennato, come la sua esperienza artistica si è conclusa prematuramente. Suggestivo e incantevole come pochi altri, uno dei maggiori tra i fotografi italiani del Novecento, nato nel ’43, moriva il 14 febbraio, trentuno anni fa.

  1. Antiche ballate inglesi e scozzesi, a cura di Giovanna Silvani, Bologna, Cappelli, 1974.
  2. «“Per molti secoli, dopo che la Britannia fu diventata un’isola,” dice lo storico, “la foresta vergine dominò incontrastata.” […] Su quei rami intrecciati innumerevoli uccelli cantavano; ma il loro canto lo sentivano soltanto pochi cacciatori coperti di pelli d’animali, nelle radure. Forse il desiderio di cantare venne a uno di quei cacciatori sentendo gli uccelli, e allora lui conficcò la sua ascia nel tronco di un albero e si fermò per un momento? […] A infrangere il silenzio della foresta fu la voce di Anon. Qualcuno sentì il suo canto e lo ricordò, perché più tardi fu trascritto, magnificamente, su una pergamena. Quindi il cantore aveva un suo pubblico, ma quel pubblico era così poco interessato al suo nome che non pensò mai di dargliene uno. Il pubblico stesso era il cantore […]. Tutti cantavano e riempivano così le soste nella caccia, in coro. Tutti condividevano l’emozione del canto di Anon, e contribuivano alla sua storia. Anon cantava perché era giunta la primavera; o perché l’inverno era finito; perché era innamorato; perché era affamato, o lascivo; o felice; o perché adorava qualche Dio. Anon a volte era un uomo; a volte una donna. È la voce comune che canta all’aria aperta; non ha una casa. È il vagabondo che cammina fra i campi, sale sulle colline, ascolta l’usignolo disteso all’ombra del biancospino. […] Ignorando una ciminiera o una fabbrica, possiamo ancora vedere quel che vedeva Anon – l’uccello che dondola sulle canne sussurranti della palude, la collina e il sentiero nell’erba, ferita verde non ancora guarita di quando lui compiva i suoi viaggi. Anon era solo un cantore, coglieva una canzone o una storia dalle labbra di altri, e lasciava che il pubblico la intonasse con lui in coro. A volte componeva qualche verso che si adattava esattamente alla sua emozione – ma la sua canzone era anonima». Per il testo originale, si veda B. R. Silver, “Anon” and “The reader”: Virginia Woolf’s last essays, in «Twentieth century literature», vol. 25, nn. 3/4, Virginia Woolf issue, Autumn-Winter 1979, pp. 356-441; i brani citati si trovano qui alle pp. 382-83. Per la traduzione italiana, cfr. V. Woolf, Anon, a cura di M. Scotti, Parma, Nuova Editrice Berti, 215, pp. 31-33.
  3. W. Ong, Orality and literacy: the technologizing of the word, London and New York, Methuen, 1982; trad. it. di Alessandra Calanchi, Oralità e scrittura: tecnologie della parola, revisione di Rosamaria Loretelli, Bologna, il Mulino, 1986, p. 71.
  4. Il mistero che avvolge questi artisti anonimi è profondo e immobile. Finché non si riuscirà a scoprire i loro nomi, resteranno fascinosamente relegati in un limbo dalla duplice connotazione: da un lato, la riconoscibilità precisa; da un altro, la singolarità di una condizione insieme non autoriale ma nemmeno inerente solo a una “scuola” o una “bottega”; artisti originali e individuabili ma nel contempo sfuggenti, biograficamente perduti, non circoscrivibili o catalogabili.
  5. L. Ghirri, Lezioni di fotografia, a cura di G. Bizzarri e P. Barbaro, con uno scritto biografico di G. Celati, Macerata, Quodlibet, «Compagnia Extra», 2010.
  6. Ivi, pp. 103-38.
  7. Ivi, p. 19.
  8. L. Ghirri, Niente di antico sotto il sole: scritti e interviste 1973-1991, Macerata, Quodlibet, 2021, pp. 33-34 (la prima edizione del volume, che aveva un sottotitolo diverso, era Niente di antico sotto il sole: scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di P. Costantini e G. Chiaramonte, Torino, sei, 1997).
  9. L. Ghirri, Lezioni, op. cit., p. 53.
  10. Ivi, pp. 46-47.
  11. La poetica woolfiana è intrisa di suggestioni ricorrenti che derivano dal rapporto spirituale fra l’istante e il flusso del tempo; le sue “visioni”, definite come ‘momenti di essere’, moments of being, sono sostanzialmente traduzioni verbali dell’istante epifanico che la fotografia coglie e imprime sulla lastra.
  12. Cfr. N. Frye, nonché F. Sasso, E. Raimondi, La ‘critica simbolica’ in “Anatomia della critica” di Northrop Frye, in «Retroguardia 3.0-Miscellanea. Quaderno elettronico di critica letteraria», a cura di F. Sasso e G. Panella (2008-2019), 3 febbraio 210; cfr. l’URL: https://retroguardia.net/2010/02/03/e-raimondi-la-critica-simbolica-in-anatomia-della-critica-di-northrop-frye/ (ultima consultazione: 30 settembre 2023). Il breve articolo riprende brani tratti da E. Raimondi, La critica simbolica, in I metodi attuali della critica, a cura di M. Corti e C. Segre, Torino, ERI, 1970, pp. 82 e sgg., in cui l’autore spiega: «Così, nel ciclo solare del giorno, in quello stagionale dell’anno e in quello organico della vita si dà un unico modello di significato, donde il mito costituisce un racconto centrale intorno a una figura che ora è il sole, ora la fertilità vegetale, ora un dio o un eroe. Siccome questo mito solare si distribuisce in quattro fasi, si può ricavarne subito una tavola fondamentale quadripartita. La prima fase corrisponde all’alba, alla primavera e alla nascita; accoglie i miti della nascita dell’eroe, della resurrezione e della vittoria sulle forze delle tenebre, sull’inverno e la morte; ha come personaggi secondari il padre e la madre, e costituisce l’archetipo del romance, o romanzo lirico. La seconda, che è il momento dello zenith, dell’estate e del matrimonio, coi miti dell’apoteosi, delle nozze sacre e dell’ingresso nel paradiso e coi personaggi secondari dell’amico e della sposa, definisce l’archetipo della commedia, della pastorale e dell’idillio. La terza, archetipo della tragedia e dell’elegia, si apparenta al tramonto, all’autunno e alla morte e porta i miti della caduta, della morte violenta, del sacrificio e dell’isolamento, coi personaggi subordinati del traditore e della sirena. La quarta infine suggella l’archetipo della satira come momento dell’oscurità, dell’inverno e della dissoluzione, a cui si accompagnano i miti del diluvio, del ritorno al caos e della sconfitta, sottolineati dalla presenza accessoria dell’orco e della strega. A giudizio del Frye, la tendenza del rito e dell’epifania alla soluzione enciclopedica si attua pienamente nella materia definitiva del mito che struttura tutti i testi sacri della tradizione religiosa, a cominciare, si capisce, dalla Bibbia; e pertanto il critico letterario dovrà partire da essa, appellandosi sempre a questa ‘letteratura’ esemplare, per scendere legittimamente dagli archetipi ai generi e vedere soprattutto come il dramma emerga dal lato rituale del mito e la lirica da quello epifanico, di fronte all’epica che vuole continuare invece una costruzione enciclopedica. In ultima analisi il mito primario della letteratura coincide, nei suoi aspetti narrativi, col mito della ricerca, la ‘quete’, mentre se si ragiona in termini di significato, diviene la visione dello sforzo collettivo, del mondo innocente dei desideri adempiuti, della libera società umana. Tale visione può essere a sua volta comica o tragica secondo che la ricerca s’innalza a un universo redento o segue il tracciato del proprio ciclo naturale».
  13. Ivi, p. 120.
  14. Il riferimento bibliografico è al volume L. Ghirri, Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano, preziosa edizione con testi di Gianni Celati, Milano, Feltrinelli, 1989 (pagine non numerate). I sito della MaisonBibelot, Casa d’aste Firenze-Milano, offre l’utile indicazione della data (1985) e così descrive un esemplare della fotografia: «Stampa fotografica cromogenica vintage, lieve alterazione cromatica altrimenti perfetta, rara immagine in questo formato, i margini sono applicati al passepartout». Cfr. l’URL: https://www.maisonbibelot.com/it/asta-0159/cittanova-di-modena-chiesa-sulla-via-emilia-1–119036 (ultima consultazione: 30 settembre 2023).
  15. Impossibile riprodurre la musicalità dei versi; in ogni caso, questo è il loro significato: «E le loro morbide ombre azzurre / turbinano nell’estasi / di una luna rosa e grigia / mentre il mandolino mormora / fra i brividi della brezza»: P. Verlaine, Mandoline, da Id., Fêtes galantes (Feste galanti, 1869).
  16. Le indicazioni seguenti sono tratte dalle Collezioni digitali degli archivi del Comune di Reggio Emilia: «Boretto. Albergo “Il Bersagliere”: camera n. 8 , 1986 (Modena, Arrigo Ghi, 1989). Fotografia a colori, cromogenico su carta al polietilene; 190×240 mm. Esposizione: Paesaggio italiano. Numero d’archivio 50140». Cfr. l’URL: https://collezionidigitali.comune.re.it/ (ultima consultazione: 30 settembre 2023).
  17. L. Ghirri, Lezioni, op. cit., p. 45.
  18. Cfr. C’era una volta “Al Bersagliere”; URL: https://www.facebook.com › albersagliereboretto (ultima consultazione: 30 settembre 2023).
  19. «Al Bersagliere è un luogo profondamente impresso nella memoria storica dei cittadini di Boretto. Questa locanda, costruita alla fine dell’Ottocento, è stata per molto tempo un elemento di riferimento nel paesaggio borettese e ha ospitato anche personaggi del calibro dello scrittore Giovanni Celati e del fotografo Luigi Ghirri, che qui vi scattò alcune foto. La sua origine è legata a quella della ferrovia Parma-Suzzara, che cambia completamente un’area del paese considerata fino ad allora periferica: inaugurata il 27 dicembre 1883, costruita e inizialmente gestita da una “Società anonima”, nel 1885 la Parma-Suzzara viene presa in subconcessione dalla “Società Veneta per la costruzione e l’esercizio di ferrovie secondarie italiane”. Dal “Bersagliere”, durante la prima guerra mondiale, passarono i tanti soldati in ritirata dopo la disfatta di Caporetto. L’albergo, dalla caratteristica pianta rotonda e dotato di quindici stanze, fu gravemente danneggiato dai bombardamenti durante il secondo conflitto mondiale, per poi essere ricostruito nel dopoguerra. Secondo i racconti dei locali l’albergo ha ospitato anche diversi vip, come Adriano Celentano e Little Tony, oltre che generazioni di borettesi incantanti dalla cucina casalinga della storica proprietaria Maria Moretti. Chiuso alla fine degli anni Settanta Al Bersagliere ora è di proprietà di un privato. Negli ultimi anni il luogo è tornato alla ribalta grazie alla curiosità di alcuni studenti universitari, che, interessati a questo pezzo di storia locale, hanno aperto un blog per raccogliere i ricordi che gli anziani di Boretto hanno di questo luogo e raccontarli alla comunità. La comunità cittadina, insieme al proprietario, sta cercando di reperire i fondi per poter riaprire l’albergo e riportarlo alla ribalta, conservando la memoria storica del paese, motivo per cui ha fatto votare il luogo al censimento». Cfr. FAI-Fondo per l’Ambiente Italiano; URL: https://fondoambiente.it/luoghi/al-bersagliere?ldc (ultima consultazione: 30 settembre 2023).
  20. G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in L. Ghirri, Il profilo delle nuvole, op. cit., p. 5.
  21. Più che poema, romanzo in versi: è La camera da letto, Milano, Garzanti, 1984 (prima parte) e 1988 (seconda parte). Una lunga storia della famiglia Bertolucci, in 9400 versi e 46 capitoli, che è stata letta dall’autore nel documentario omonimo del 1991, con la regia di S. Consiglio e F. Dal Bosco, fotografia di F. Cianchetti, produzione The Film Company (Milano).
  22. «Il sipario si leva su un dramma dopo l’altro. Ogni volta si leva su un’opera più libera, più matura. Sul palcoscenico, la rappresentazione dell’individuo si differenzia sempre di più, dando vita a un mondo coerente, meno asservito alla trama. Il sipario si leva su Enrico VI e re Giovanni; su Amleto; su Antonio e Cleopatra; su Macbeth. Infine si leva su una Tempesta. Intanto il dramma è diventato troppo grande per il teatro all’aperto su cui batte il sole e infuria la pioggia. Quel teatro è sostituito da un teatro della mente; il drammaturgo è sostituito dall’uomo che scrive un libro; lo spettatore è sostituito dal lettore. Anon è morto». (V. Woolf, Anon, op. cit., testo originale, p. 398; in traduzione italiana, p. 77).
  23. G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in L. Ghirri, Il profilo delle nuvole, op. cit., p. 7. Si tratta della scenografia di A. Rossi per la Lucia di Lammermoor di G. Donizetti, Ravenna Festival, stagione 2003/2004; la fotografia è del 1987.
  24. «Esiste un caratteristico modo di pensare narrativo che, come hanno provato gli studi novecenteschi sull’oralità – da Parry a Lord, da Ong a Goody, da Bynum a Havelock – è peculiarmente proprio delle culture orali, e tende a tramontare quando subentra la cultura scritta, portando con sé forme di pensiero più astratte e categorizzanti, e quindi, insieme, più potenti e analitiche… Questo ‘pensare per storie’ è, propriamente, il regno del mito: è in quest’ambito che il mito nasce e si giustifica come spiegazione narrativa di ciò che è, come patrimonio culturale comune e condiviso dalla memoria etnica; in quest’ambito il mito è, saldamente, al centro del sistema delle forme narrative… Se ne può concludere, credo, che il prestigio del mito nasce dal fatto che esso collega e fonde quelli che sembrano essere i tre elementi fondamentali dell’intelletto umano – il linguaggio, la ‘narratività’, e la religione – piegandoli alla soddisfazione di una delle esigenze basilari della psiche: il bisogno di conoscere il perché delle cose»: C. Donà, Se una notte d’inverno: introduzione tendenziosa alla Letteratura comparata, Roma, WriteUp, 2022, pp. 174-75.
  25. Cfr., a questo proposito, il capitolo woolfiano in G. Melchiori, I funamboli: il manierismo nella letteratura inglese contemporanea, Torino, Einaudi, 1963, 2003.
  26. Riferimento online: https://www.artsy.net/artwork/luigi-ghirri-lalpe-di-siusi-ortisei (ultima consultazione: 30 settembre 2023).
  27. Riferimento online: https://www.artuner.com/shop/ostiglia-centrale-elettrica-1987-luigi-ghirri/ (ultima consultazione: 30 settembre 2023).
  28. A. Cortellessa, L’assoluta riconoscibilità del sottrarsi, in «Alias Il Manifesto», 1° agosto 2021, p. 6.
  29. L. Ghirri, Lezioni, op. cit., p. 124. Una splendida chiosa a queste frasi è il commento di Gino Delledonne: «Il filo che collega dialetticamente metodi e mondi intellettuali diversi si potrebbe riassumere nell’intento di stabilire i canoni per una didattica dello sguardo, alla quale Luigi Ghirri ha aggiunto un argomento tanto indispensabile quanto definitivo: lo stupore. Lo stupore che coglie il pittore di Borges quando, alla fine della sua vita, dopo aver dipinto laghi, colline, monti, boschi e uomini, mettendo insieme il compendio delle sue opere si accorse che la somma componeva l’immagine del suo volto. Allo stesso modo, anche quelle 365 fotografie di nuvole cosa sono se non un grande Infinito autoritratto di Luigi Ghirri?»: G. Delledonne, È in quelle nuvole L’infinito ‒ Autoritratto di Ghirri: Versioni doc che si fanno poesia, in «BookCiak Magazine», 19 ottobre 2022; cfr. l’URL: https://www.bookciakmagazine.it/e-in-quelle-nuvole-linfinito-autoritratto-di-ghirri-visioni-doc-che-si-fanno-poesia/ (ultima consultazione: 30 settembre 2023).

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)