«All’interno d’un occhio che guarda se stesso». La teatralità di Italo Calvino fra comico e introspezione

Author di Silvia Manciati

Il rapporto di Calvino[1] con il teatro è un “territorio” in parte ancora inesplorato, fatto di silenzi e omissioni da parte dello stesso autore, di vocazioni sottese, di timidi approdi alla scena[2]. Eppure, è un rapporto che corre lungo tutta la sua carriera, benché si manifesti in forme poliedriche – dall’attività librettistica alle scritture per la radio, il cinema, la televisione, oltre alla teatralità insita nella sua produzione narrativa.

Come già sondato dalla critica, il teatro è spesso al centro della sua riflessione, diventa meccanismo creativo e strumento di comunicazione elettivo, in cui il destinatario assume un ruolo attivo e centrale[3]. È quest’ultimo aspetto, unitamente alla tensione all’oralità e alla dimensione del visivo che contraddistinguono la sua scrittura, a consentire un legame più profondo tra Calvino e il teatro, che si manifesta in una complessa e articolata rete di relazioni con tecniche, dispositivi e strumenti utilizzati dall’autore, di cui, senza pretesa di esaustività, si cercherà di indagarne qualche esito.

Come anticipato, il teatro è fortemente presente nella riflessione e nell’immaginario calviniani, una presenza costante e sottotraccia che, in alcuni casi, emerge in superficie nella saggistica, nelle lettere e nella narrativa, regalandoci, ad esempio, le meravigliose pagine del racconto Dall’opaco, in cui il paesaggio ligure assume la forma di un teatro che diventa metaforicamente «luogo della massima capacità dell’udito, […] orecchio che ascolta se stesso»[4]. In questo passaggio Calvino non soltanto richiama l’attenzione sull’oralità, ma individua nel teatro uno strumento d’introspezione che porterà con sé, come vedremo, fino agli anni Ottanta. Questo legame è esplicitato anche in Una pietra sopra, in cui Calvino identifica l’autore dell’opera narrativa nella figura dell’attore:

La condizione preliminare di qualsiasi opera letteraria è questa: la persona che scrive deve inventare quel primo personaggio che è l’autore dell’opera […]. È sempre solo una proiezione di se stesso che l’autore mette in gioco nella scrittura, e può essere sia la proiezione d’una vera parte di se stesso come la proiezione d’un io fittizio, d’una maschera. […] L’autore è autore in quanto entra in una parte, come un attore, e si identifica con quella proiezione di se stesso nel momento in cui scrive[5].

Se in questi esempi la presenza del teatro è tangibile ed esplicita, molto più numerosi sono i luoghi della narrativa calviniana in cui il teatro diventa un potente dispositivo creativo. Si pensi, ad esempio, all’uso degli oggetti come strumento cardine dell’azione, come la pistola nel Sentiero dei nidi di ragno, aspetto, questo, presente sin dagli esordi e che vedremo tornare con prepotenza nei progetti degli anni Settanta. Si osservi, inoltre, la forte permeabilità fra teatro e narrativa nei dialoghi, che spesso veicolano anche le azioni[6], e nelle descrizioni, che rievocano una «comunicazione diversa», affidata al gesto, alle immagini, agli oggetti[7].

In molte opere la teatralità è rintracciabile anche nella scelta delle coordinate spazio-temporali e nel frequente ricorso alle unità aristoteliche, sebbene questi siano strumenti congeniali anche alla forma breve del racconto. Si pensi non soltanto a Marcovaldo[8], ma anche alla Giornata di uno scrutatore, ambientato in una sola giornata, in un unico spazio, in cui, come sostenuto da Ferrara, è ben evidente l’uso di un altro dispositivo teatrale determinante per inquadrare l’opera di Calvino: lo straniamento brechtiano[9]. Se in questo romanzo il rapporto fra il lettore e i personaggi è simile a quello che a teatro si attua fra attore e spettatore, in altri luoghi della produzione calviniana lo stesso dispositivo è interno alla finzione narrativa: si pensi a come Cosimo nel Barone rampante possa osservare dal suo punto di vista tutti gli altri personaggi, esattamente come uno spettatore a teatro (posizione, questa dello spettatore, che emerge spesso nella riflessione dell’autore). Quello che si vuole sottolineare, dunque, è come Calvino prenda in prestito dal teatro espedienti, strumenti, tecnicismi, punti di fuga, anche quando l’opera di approdo è narrativa, e li utilizzi con costanza.

A contribuire all’attrazione per la scena e i suoi linguaggi vi è senz’altro l’esperienza di spettatore teatrale che Calvino compie intensamente fra gli anni Quaranta e Cinquanta, durante il viaggio in Russia[10] e in qualità di recensore per la sezione torinese dell’«Unità». L’esperienza di spettatore teatrale ha concorso a forgiare il suo gusto per la scena, a far sì che si riconoscesse in specifici modelli ed estetiche; ha focalizzato l’attenzione dell’autore sulle radici popolari del teatro, sul gusto per il travestimento, per la spettacolarità della scena, per la commistione di musica e danza. Non è un caso, dunque, se nelle recensioni ritornano i richiami al teatro della Commedia dell’Arte e di Goldoni; e che fra i contemporanei apprezzi il teatro ebreo, Katherine Dunham, Maurice Chevalier, Tatiana Pavlova[11]. E non è un caso se negli stessi anni Calvino sintetizza questi elementi nel Visconte dimezzato, primo approdo a un registro comico-grottesco[12]:

Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo […]. Era tutta una costruzione narrativa basata sui contrasti. […] Io credo che il divertire sia una funzione sociale, […]; questa è la mia morale: uno ha comprato il libro, ha pagato dei soldi, ci investe del suo tempo, si deve divertire. Non sono solo io a pensarla così, ad esempio anche uno scrittore molto attento ai contenuti come Bertolt Brecht diceva che la prima funzione sociale di un’opera teatrale era il divertimento. Io penso che il divertimento sia una cosa seria[13].

In questa vera e propria dichiarazione di poetica Calvino esplicita il ricorso a elementi tipici della tradizione italiana del comico – come il contrasto e il ribaltamento del topos del doppio –, sottolineando la funzione sociale del divertimento; tutti elementi che, a partire dal Visconte, troveranno una sintesi ancor più compiuta nel Barone rampante. «Il mio ideale sarebbe di riuscire a scrivere in pari misura, e magari con pari facilità, cose “utili” e cose “divertenti”. E possibilmente “utili” e “divertenti” insieme»[14]: delectare aut prodesse, riallacciandosi, dunque, a una genealogia che da Orazio arriva a Goldoni, passando per i Comici dell’Arte[15]. Nel corso degli anni Cinquanta questi elementi saranno fortemente presenti non soltanto nella narrativa, ma nei poliedrici progetti che caratterizzano l’officina dello scrittore e che si rivolgeranno al teatro, alla radio, alla televisione, alla musica, in un processo di interscambio, a volte di vera e propria transcodifica, di prestiti e migrazioni che andrebbero ancora approfonditi[16].

Un’opera in cui questi elementi sono fortemente presenti è Allez-hop, un racconto mimico scritto nel 1952 per le musiche di Luciano Berio, che debutta il 23 settembre 1959 al Teatro La Fenice di Venezia[17], per la regia e le coreografie di Jaques Lecoq, di cui Calvino ebbe già modo di apprezzare l’operato nell’Amante militare di Goldoni, allestito da Strehler con la collaborazione del mimo francese al Piccolo Teatro di Milano nel 1951[18].

Allez-hop si configura insieme come «metaforma politica e divertimento teatrale»[19], in cui l’espediente della pulce che sfugge al controllo del suo domatore conserva una forte assonanza con i lazzi dei Comici dell’Arte e, in particolare, con quanto Calvino potrebbe aver visto dall’Arlecchino Marcello Moretti[20]. L’autore si serve, inoltre, di un meccanismo metateatrale per richiamare alla necessità di un ruolo attivo dello spettatore, che si fa ancor più efficace nella versione del 1968:

Gags della pulce invisibile che passa dall’uno all’altro tra i cameramen, gli artisti, i suonatori, inseguita dal domatore. […] Tutti i telespettatori si sentono morsi dalla pulce, si agitano, cominciano a contorcersi, a trasfigurarsi. […] Il domatore adesso ha capito qual è la soluzione: seminare il mondo di pulci perché i prostrati possano sollevarsi a volo di pulce in salti altissimi e travolgano ogni ostacolo: è la rivoluzione[21].

L’interesse di Calvino verso un teatro «più colorato, movimentato, divertente […] di grande fantasia e gusto»[22] diviene manifesto, come ricostruito da Barenghi, anche nei progetti pensati per la televisione a partire dagli anni Cinquanta[23], tra cui quello delle cosiddette “Comiche Tv”:

Devono essere qualcosa di mezzo tra i lazzi d’un Arlecchino (non a caso avevo pensato di scegliere come interprete Marcello Moretti) e le gags delle comiche del cinema muto. L’azione quasi esclusivamente muta e mimica viene accompagnata – oltre che da musichette – da una voce fuori campo […]. Il protagonista, ultima incarnazione d’una classica maschera moderna, è il piccolo uomo combattuto tra lo slancio dei grandi sentimenti e la grottesca miseria della sua esistenza[24].

La sua attrazione verso «un teatro diverso dal solito»[25], e la conseguente scelta di una linea comico-grottesca orientata alla spettacolarità del linguaggio teatrale, emerge fortemente anche in un progetto successivo che Calvino condivide con Toti Scialoja, il cosiddetto Teatro dei ventagli[26], che porterà alla realizzazione di una serie di fiabe teatrali destinate al pubblico televisivo[27]. Il progetto, che non andrà mai in onda[28], testimonia di come Calvino nel corso degli anni Settanta riesca a esplorare più liberamente il congegno teatrale[29], allentando l’attenzione verso il fine sociale e politico da dare al messaggio e sperimentando le possibilità dei linguaggi scenici, come dimostra in primis il procedimento creativo utilizzato assieme a Scialoja[30]:

Toti ha scritto una lista di oggetti a coppie, per esempio una grossa biglia e una piuma di struzzo, oppure una specchiera e un bersaglio. Io riflettevo su ognuna delle coppie di oggetti e lasciavo che nella mia immaginazione nascesse una storia teatrale. Toti, su questo mio testo, trovava dei pretesti mimici e studiava la possibilità di una regia antinaturalistica e anticonvenzionale. Il progetto si è poi ampliato, Toti ha disegnato delle scene molto suggestive, così è successo che invece di essere il testo a ispirare la scenografia era la scenografia a ispirare il testo[31].

Sarà Calvino stesso nelle Lezioni americane a riconoscere l’immagine e il «campo di analogie, simmetrie, di contrapposizioni»[32] che vi si genera attorno come fondante del suo processo di scrittura; questo aspetto è molto evidente nel Teatro dei ventagli, dove gli stessi elementi, meccanismi ed espedienti ritornano tra una fiaba e l’altra. È necessario sottolineare come qui la scrittura di Calvino sia più orientata alla scena e riveli la tentazione di voler giocare con i suoi linguaggi. Si osservi la didascalia iniziale delle Porte di Bagdad, in cui l’autore suggerisce la posizione degli elementi scenografici: «Porte Cerimoniali, Porte Ritmiche, Porte Trappola. (Le Porte Cerimoniali secondo me dovrebbero stare al centro)»[33]. Analogamente, in una lettera a Scialoja del dicembre 1977 suggerisce alcuni oggetti per l’allestimento:

Direi che la formula ideale del nostro lavoro potrebbe essere: oggetto scenografico + oggetti mimici. Il primo è determinante per l’invenzione del testo mentre gli (uno o più) oggetti mimici possono essere decisi anche in sede di allestimento secondo le convenienze sceniche. Per esempio nella prima fiaba che ho scritto, quella lunare, la grande biglia è un oggetto scenografico anche se mobile e mi domando se non potresti farla entrare nel bozzetto – mentre la piuma è oggetto mimico[34].

Nel Teatro dei ventagli, dunque, Calvino sembra sperimentare in prima persona quel teatro «più colorato»[35] di cui era stato spettatore sin dagli anni Cinquanta. Infatti, tutte le fiabe sono caratterizzate da lazzi, «gags grottesche»[36], dal travestimento come cardine dell’azione, dai contrasti come espediente comico. A tal proposito, in alcune delle fiabe le coppie antinomiche di personaggi, come Il pessimista e L’ottimista delle Porte di Bagdad, si fanno veicoli del comico. Anche nell’Ussaro e la luna i contrasti regolano l’impalcatura narrativa: due Innamorati (Casimiro e Consuelo) sono ostacolati da due Vecchi (il Generale Gaston Bombard de la Mitraille e la principessa Donna Inés), quasi a richiamare gli scenari dell’Arte. In questa fiaba la volontà di Calvino di realizzare una scena antinaturalistica e anticonvenzionale[37] si riscontra non solo nell’uso di una «grande biglia e una piuma di struzzo»[38] come motori creativi e immagini sceniche, ma anche nella compresenza di molteplici linguaggi espressivi, come la danza[39].

Il travestimento come motore dell’azione contraddistingue in particolare La città abbandonata, in cui Anacleto e Polidoro, come due Zanni, sono protagonisti di una serie di gags generate dal metamorfismo di Polidoro, allo stesso tempo ladro, poliziotto, cameriere, cuoco, maggiordomo, maestro di musica:

Fiordispina: Maggiordomo, chiamatemi il capocuoco.

Polidoro: Sì, altezza. (Si toglie la parrucca e si mette un berretto da cuoco, che si toglie subito inchinandosi)

[…]

Fiordispina: Maggiordomo! (Polidoro si rimette la parrucca) Chiamatemi il maestro di musica! (Polidoro cambia la parrucca e s’inchina)

[…]

Polidoro: (cambiandosi ripetutamente copricapo e parrucca, ripete la frase come se i vari servitori si passassero la voce fino a che il maggiordomo non la comunica alla principessa) […] (con berretto da cuoco) Siamo indietro col pranzo per mancanza di sguatteri. (La frase viene ripetuta sempre da lui, con vari copricapi e parrucche)[40].

Se in alcune delle fiabe teatrali i contrasti diventano un efficace espediente comico, in altri casi si fanno strumenti di conoscenza e introspezione. Il naufrago Valdemaro, ad esempio, ricerca la salvezza nella Città sommersa e nella Città sospesa, due luoghi opposti che, oltre a rimandare alle ben note Città invisibili, forniscono al protagonista una chiave d’accesso a un luogo interiore, che si concretizza attraverso un’incursione metateatrale:

Valdemaro: Adesso voglio entrare in questo teatro… C’è un cantante che sta mandando in visibilio il pubblico, ah! Sono io! Con la voce che sapevo d’avere e nessuno ha mai voluto ammettere che avessi […]. No, questo non mi piace… Non era così che volevo quello che volevo… Mi sto muovendo in mezzo alle ombre d’un miraggio! Basta! Come posso fuggire a quest’angoscia?[41]

Anche nella più libera sperimentazione dei linguaggi della scena, il teatro diventa nuovamente una chiave d’accesso ai territori dell’inconscio, come accadrà anche nello Specchio e il bersaglio, il brano più «metafisico»[42] del Teatro dei ventagli, in cui le smorfie del protagonista Fulgenzio sono, al tempo stesso, generatrici di comico e di introspezione:

Nella mia giovinezza passavo ore e ore davanti allo specchio a fare smorfie. […] cosicché potevo credermi un’altra persona, molte persone d’ogni genere, una folla d’individui che a turno diventavano me, cioè io diventavo loro, cioè ognuno di loro diventava un altro di loro, e io intanto era come se non ci fossi […] nelle cose così com’erano non riuscivo a trovarci proprio niente di straordinario. Invece, dietro alle cose forse si nascondevano altre cose, e quelle, quelle sì potevano interessarmi, anzi, mi riempivano di curiosità. […]. Ma quando riuscivo a raggiungere il rovescio, capivo che quello che cercavo io era il rovescio del rovescio, anzi il rovescio del rovescio del rovescio, no; il rovescio del rovescio del rovescio del rovescio[43].

Nello Specchio e il bersaglio, come in altri luoghi della produzione dell’autore, il “meccanismo del rovescio” diventa uno strumento di conoscenza, che vedremo tornare negli anni Ottanta anche in Un re in ascolto[44], in cui protagoniste sono le voci, reali e del subconscio, che si rivolgono al protagonista, attraverso un dispositivo narrativo di forte efficacia teatrale: l’orecchio di chi ascolta diventa la chiave per accedere all’inconscio, rendendo il Re al tempo stesso attore e spettatore di sé stesso.

Questo racconto, come il Teatro dei ventagli, diviene la sintesi di come l’esplorazione verso il colorato e multiforme congegno teatrale abbia ricondotto Calvino ad affermare il ruolo introspettivo del teatro, «un interno che pretende di contenere in sé il mondo esterno»[45], che, attraverso il ricorrente “meccanismo del rovescio”, apre le porte alla conoscenza del mondo esteriore e interiore, poiché «il teatro è fatto in modo […] che tutti i possibili sguardi siano contenuti e condotti come all’interno d’un unico occhio che guarda se stesso»[46].

  1. La citazione del titolo è tratta da I. Calvino, Dall’opaco, in Id., Romanzi e racconti, a cura di C. Milanini, M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2022, vol. III, p. 94.
  2. La critica ha già dimostrato che c’è una linea di continuità nell’interesse che Calvino dimostra per il teatro, dai lavori e progetti drammaturgici degli anni Quaranta, di cui restano pochissime tracce, fino all’esperienza di critico teatrale per «L’Unità» (fra l’ottobre del 1949 e il maggio del 1950) e all’esordio ufficiale nel 1955 con l’atto unico La panchina. Il teatro non abbandona lo scrittoio dell’autore nemmeno successivamente, sebbene occorra ampliare l’orizzonte al di fuori dell’attività strettamente drammaturgica. Un contributo determinante per ricostruire i legami di Calvino con il teatro è quello di Enrica Maria Ferrara che, oltre a definirne i contorni, si concentra sui motivi di quella che definisce la «strategia del silenzio» dell’autore, l’opera di rimozione attuata nei confronti del teatro, che ha contribuito a offuscare la sua attività per la scena anche agli occhi della critica: E. M. Ferrara, Calvino e il teatro: storia di una passione rimossa, Oxford, Peter Lang, 2011, p. 4. Oltre alle Note e notizie sui testi in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. III cit., sull’attività drammaturgica e librettistica di Calvino cfr. inoltre: L. Berio, La musicalità di Calvino, in Il teatro musicale contemporaneo, a cura di R. Dalmonte, Modena, Mucchi, 1988, pp. 9-12; M. Corti, Un modello per tre testi: le tre “Panchine” di Italo Calvino, in Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978, pp. 201-20; E. M. Ferrara, Il realismo teatrale nella narrativa del Novecento: Vittorini, Pasolini, Calvino, Firenze, Firenze University Press, 2014; C. Varese, Calvino librettista e scrittore in versi, in Italo Calvino. Atti del Convegno Internazionale (Firenze, 26-28 febbraio 1987), a cura di G. Falaschi, Milano, Garzanti, 1988, pp. 352-53.
  3. Nella sua produzione, infatti, emergono costantemente alcuni elementi centrali nella comunicazione teatrale: l’oralità, l’immagine, il ruolo attivo dato al destinatario. Se l’importanza dell’immagine è evidente e confermata dallo stesso autore, che le riconosce un nevralgico ruolo formativo, in diversi luoghi della sua produzione l’attenzione converge sulla dimensione dell’ascolto: «Quando ritornerai al Ponente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai a me? – Io parlo parlo – dice Marco, ma chi mi ascolta ritiene solo le parole che aspetta. […] Chi comanda il racconto non è la voce: è l’orecchio». È l’ascoltatore, dunque, che “ritiene” – che trattiene con sé – solo le parole che aspetta e, così facendo, completa e rende possibile la comunicazione. Cfr. I. Calvino, Le città invisibili, in Id., Romanzi e racconti, op. cit., vol. II, p. 473 (corsivo di chi scrive). Al suo apprendistato all’immagine Calvino dedica alcune pagine delle Lezioni americane (in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, p. 709).
  4. I. Calvino, Dall’opaco cit., p. 95.
  5. I. Calvino, Una pietra sopra, in Id., Saggi 1945-1985, op. cit., vol. I, p. 390.
  6. Un noto esempio è quello dell’incontro tra Cosimo e Napoleone nel Barone rampante: «Era già mezzogiorno, Napoleone guardava su tra i rami verso Cosimo e aveva il sole negli occhi. […] – Posso fare qualcosa per voi, mon Empereur? – Sì, sì, – disse Napoleone, – statevene un po’ più in qua, ve ne prego, per ripararmi dal sole, ecco, così, fermo»: I. Calvino, Il barone rampante, in Id., Romanzi e racconti, op. cit., vol. I, p. 766.
  7. «Quando a fare il suo resoconto era il giovane veneziano, una comunicazione diversa si stabiliva tra lui e l’imperatore. […] Marco Polo non poteva esprimersi altrimenti che con gesti, grida di meraviglia e d’orrore, latrati o chiurli d’animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce […], l’ingegnoso straniero improvvisava pantomime che il sovrano doveva interpretare»: I. Calvino, Le città invisibili, op. cit., p. 373.
  8. Non a caso Varese per primo legge l’intera raccolta di Marcovaldo come un «progetto più o meno consapevole, teatrale, mimico e scenografico»: C. Varese, Calvino librettista e scrittore in versi, op. cit., p. 353.
  9. Per la «fascinazione di Calvino per le teorie brechtiane del realismo “epico”» e per la sua profonda influenza sulla sua produzione cfr. E. M. Ferrara, Calvino e il teatro, op. cit., pp. 13 e sgg.
  10. Come sottolinea Ferrara, il viaggio in Russia compiuto fra ottobre e novembre del 1951 ha concorso a stabilire un’importante connessione fra teatro e politica. Si pensi, ad esempio, al teatro politico delle marionette sovietiche che dovette «incoraggiare lo scrittore a camuffare i contenuti politici con l’espediente retorico del travestimento allegorico» (ivi, p. 174). Rimando inoltre all’autrice per un’esaustiva trattazione dei legami fra politica e teatro in Calvino.
  11. Questo è quanto emerge dalle recensioni che l’autore scrisse per «L’Unità», in particolare in: I quadri folcloristici et etnologici di Katherine Dunham (07/02/1950, a. 26, n. 32), Maurice Chevalier all’Alfieri (25/02/1950, a. 27, n. 48), Il Teatro d’Israele in “Geremia” di Zweig (16/04/1950, a. 27, n. 92). L’ammirazione per Tatiana Pavlova emerge in diverse recensioni (ad esempio in 17/01/1950 e 18/01/1950, a. 26, n. 14 e n. 15); fra queste elogia lo «spettacolo gustoso e colorito» Luciana e il macellaio di Marcel Aymé, il cui merito sta «nell’avere aperto il palcoscenico goldonianamente sulla pubblica via, sui giardini pubblici, sui discorsi dei passanti» (in Luciana e il macellaio di Marcel Aymé, 14/05/1950, a. 27, n. 116). Per quanto riguarda Goldoni, di cui constaterà con piacere, durante il suo viaggio, l’influenza sul teatro russo, Calvino ebbe modo di vedere il Servitore di due padroni e L’amante militare, assieme al Medico volante di Molière, al Piccolo di Milano, con Marcello Moretti nei panni di Arlecchino e Sganarello, come riporta egli stesso sulla rivista «Sipario» (a. VII, n. 74, giugno 1952, p. 4). Ai fini del nostro discorso è utile ricordare anche l’interesse che Calvino ha per il teatro dialettale, come dimostra l’apprezzamento per la compagnia Micheluzzi in scena al Carignano con La gran giornata di Ludro di Francesco Augusto Bon (in «L’Unità», 18/11/1949, a. 25, n. 273).
  12. Su Calvino e il comico cfr. almeno Calvino e il comico, a cura di L. Clerici e B. Falcetto, Milano, Marcos y Marcos, 1994.
  13. Così Italo Calvino nell’intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983, ora in Italo Calvino, in «Il gusto dei contemporanei», Quaderno n. 3, 1987, p. 9.
  14. I. Calvino, Lettera a Carlo Salinari, 7/08/1952, ora in Id., Lettere 1940-1985, op. cit., pp. 354-55.
  15. Sull’influenza brechtiana rispetto alla funzione sociale del divertimento a teatro cfr. ancora E. M. Ferrara, Calvino e il teatro, op. cit., pp. 13 e sgg.
  16. Che la narrativa degli anni Cinquanta abbia una forte vocazione alla scena e all’oralità è dimostrato anche dalle arie per l’opera buffa del Visconte dimezzato, scritte da Calvino nel 1958 sulle musiche di Bruno Gillet, oltre che dalla trasposizione per la radio o la televisione di molti dei racconti, come Ultimo viene il corvo, Un pomeriggio, Adamo, Luna e gnac, che andò in onda nel 1965 per la regia di Ernesto Cortese. Uno studio esaustivo sul processo di transcodifica operato da Calvino è ancora da svolgere, anche a causa del difficile accesso ai dattiloscritti, ancora inediti. Si spera di darne presto in altra sede alcuni primi risultati.
  17. I. Calvino, Allez-hop, in Id., Romanzi e racconti, vol. III cit., pp. 678-83; si rimanda, inoltre, alle Note e notizie sui testi (ivi, pp. 1275-82) e a L. Berio, La musicalità di Calvino, op. cit.; M. Kaltenecker, Allez-hop, in Le théâtre musical de Luciano Berio, a cura di G. Ferrari, Parigi, L’Harmattan, 2016, pp. 15-45; T. Pomilio, Scrittura dell’ascolto: Calvino in Berio (ivi, pp. 117-43).
  18. Lecoq lavorò in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, collaborando con Strehler al Piccolo Teatro di Milano fra il 1951 e il 1953.
  19. B. Falcetto, Note e notizie sui testi, op. cit., p. 1275. Per una lettura della metafora socio-politica presente in Allez-hop cfr. E. M. Ferrara, Calvino e il teatro, op. cit., p. 225.
  20. Come ricostruito da Varese, la gag della pulce riprende il celebre sketch di Charlot in Luci alla ribalta, ma è anche un motivo presente nel Barone rampante (cap. XXVII) e nel racconto La formica argentina, scritto nel 1952: cfr. C. Varese, Calvino librettista e scrittore in versi, op. cit., p. 353. La gag dimostra una forte assonanza con alcuni lazzi della Commedia dell’Arte e, in particolare, con il lazzo della mosca, che Calvino potrebbe aver visto compiere all’Arlecchino Moretti nel Servitore di due padroni (cfr. «Sipario» cit., p. 4).
  21. I. Calvino, Allez-hop cit., pp. 680-81. Per la versione originale cfr. ivi, p. 678.
  22. Così Calvino definisce gli spettacoli di Goldoni e Molière di cui è stato spettatore; trova in Chevalier un buon esempio di «una compagnia di questo tipo [che] sarebbe l’equivalente della Commedia dell’Arte», in cui l’improvvisazione diventa «tecnica calcolata al millimetro»: «ogni sua mossa è decisa una volta per tutte, […], il suo bilanciarsi sulle ginocchia; ogni suo lazzo, anche il più buffonesco è contenuto in una economia precisa, senza una sbavatura» (cfr. I. Calvino in «Sipario» cit., p. 4; I. Calvino, Maurice Chevalier all’Alfieri, op. cit.).
  23. «Il mio intento è trovare la formula di una produzione televisiva che non parta dal dialogo teatrale ma dal “racconto”, affidandosi all’immagine, all’azione e al suo ritmo, e si differenzi dal cinema per il suo muoversi in uno spazio simbolico»: I. Calvino, Lettera a Sergio Pugliese, 08/02/1954, ora in Id., Lettere 1940-1985, op. cit., pp. 392-93. Le prime testimonianze in merito alle “Comiche Tv” sono del 1953; il progetto non sarà realizzato dalla Rai, che, invece, produrrà nel 1970 una serie in cinque puntate ispirata a Marcovaldo (cfr. E. M. Ferrara, Calvino e il teatro, op. cit., p. 175).
  24. I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. III cit., pp. 1261-62.
  25. «Per un teatro così, credo verrebbe voglia di scrivere, che verrebbero idee, idee insieme di testo e di spettacolo, e si potrebbe scoprire un nuovo modo di trasfigurazione fantastica del nostro mondo e dei nostri problemi»: così Calvino in «Sipario» cit., p. 4.
  26. Per notizie esaustive sul progetto si rimanda alle curatele di Barenghi in I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., vol. III, pp. 1267-74 e in I. Calvino, Il teatro dei ventagli, con i bozzetti di Toti Scialoja, Milano, Mondadori, 2023, pp. 23-30. Sul nome dato al progetto è Calvino, in una lettera a Scialoja del 1978, a illuminarci: «Mi è venuta un’idea per il titolo della serie – e del libro che ne faremo: IL TEATRO DEI VENTAGLI, richiamo allo stile mimico con oggetti gestuali, omaggio ai “no” giapponesi e a questo oggetto nobile e desueto» (ivi, p. 16).
  27. Va sottolineato che ciò che spinge Calvino verso la televisione è l’interesse per il pubblico: «mi interessa molto collaborare alla nascita d’un nuovo linguaggio espressivo, che deve parlare a un pubblico così vasto e vario». Secondo l’autore la televisione offriva la possibilità di rimettere al centro un nuovo spettatore a differenza del teatro, fossilizzato sul pubblico borghese. Cfr. I. Calvino, Lettera a Sergio Pugliese, 07/04/1954, ora in Id., Lettere 1940-1985, op. cit., p. 393.
  28. Il progetto, destinato alla rete Due della RAI, si sarebbe dovuto chiamare Fiabe bianche ed era inizialmente composto di otto puntate di trenta minuti ciascuna, poi divenute sei, come si evince dal contratto che la RAI mandò a Scialoja nel dicembre del 1977. Non sono chiari, ad oggi, i motivi per cui il progetto non andò in porto, con grande rammarico da parte di Calvino. Del Teatro dei ventagli si dispone dei testi preparati da Calvino e dei bozzetti di scene e costumi disegnati da Scialoja: cfr. I. Calvino, Il teatro dei ventagli, op. cit., pp. 14-17.
  29. Nella metà degli anni Settanta Calvino intensifica la produzione teatrale. Oltre al Teatro dei ventagli, riprende a collaborare anche con Berio, per la stesura del libretto per La vera storia e per Un re in ascolto.
  30. Non a caso Domenico Scarpa parla della produzione teatrale degli anni Settanta di Calvino come del «riavvicinamento a due passioni dell’adolescenza e della gioventù come il teatro e la fiaba»: D. Scarpa, Italo Calvino, Milano, Mondadori, 1999, p. 43.
  31. Così Calvino nell’intervista a Nico Orengo per «Tuttolibri» del 30 settembre 1978, ora in Il teatro dei ventagli, op. cit., pp. 11-12. Gli elenchi contenenti le coppie di oggetti sono conservati fra le carte di Calvino e nell’archivio della Fondazione Toti Scialoja e mostrano come Scialoja lavorasse ulteriormente lo schema, abbinando agli oggetti la scenografia.
  32. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 704.
  33. I. Calvino, Le porte di Bagdad, in Id., Romanzi e racconti, op. cit., vol. III, p. 662.
  34. I. Calvino, Il teatro dei ventagli, op. cit., p. 14.
  35. I. Calvino in «Sipario» cit., p. 4.
  36. I. Calvino, Le porte di Bagdad, op. cit., p. 623.
  37. I. Calvino, Il teatro dei ventagli, op. cit., p. 12.
  38. Ivi, p. 9.
  39. «La luna prese l’aspetto d’una danzatrice che muoveva le braccia, tutte gomiti e polsi»: I. Calvino, L’ussaro e la luna, in Id., Romanzi e racconti, vol. III cit., pp. 607-608. Al riguardo può aver avuto importanza l’esperienza di Calvino spettatore di Kathrine Dunam nel febbraio del 1950: «Quel che ci importa è la sostanza della sua arte di ballerina, di coreografa, di studiosa e interprete del patrimonio folkloristico del suo popolo. E credo che nel quadro generale del teatro italiano odierno, staccato quanto mai (tranne pochi casi di teatro dialettale davvero vivente) dalla ispirazione popolare, dalla felice libertà interpretativa, fatta insieme di improvvisazione istintiva e di studio cosciente, che è il vero, originario fondamento del teatro, la lezione di Katherine Dunham è particolarmente interessante»: I. Calvino, I quadri folcloristici ed etnologici di Katherine Dunham, op. cit.
  40. I. Calvino, La città abbandonata, in Id., Romanzi e racconti, vol. III cit., pp. 616-91. Si osservi l’assonanza con la famosa scena del pranzo del Servitore goldoniano.
  41. I. Calvino, Il naufrago Valdemaro, in Id., Romanzi e racconti, vol. III cit., pp. 632-33.
  42. Così Calvino a Toti Scialoja nella lettera del 27 settembre 1977, ora in Id., Lettere 1940-1985, op. cit., p. 1236.
  43. I. Calvino, Lo specchio e il bersaglio, in Id., Romanzi e racconti, vol. III cit., p. 282.
  44. Un Re in ascolto fu oggetto di diverse trascrizioni narrative e teatrali da parte di Calvino; per le due diverse edizioni del libretto e sul racconto del 1984 si rimanda alle Note e notizie sui testi, in Id., Romanzi e racconti cit., vol. III, pp. 1290-98.
  45. I. Calvino, Dall’opaco, op. cit., p. 93.
  46. Ivi, p. 94.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)