Tra le carte calviniane si conserva un elenco autografo di «libri da scrivere»[1]. La lista contiene anche la voce cassata «Scritti su Pavese», che testimonierebbe la volontà di Calvino di dedicare un volume a Cesare Pavese, probabilmente raccogliendo gli scritti già pubblicati. L’ipotesi è confermata dal fatto che nell’abitazione romana di Calvino è conservata una cartelletta che contiene materiali di Pavese e su Pavese, tra cui anche un abbozzo manoscritto di indice. L’elenco, descritto da Mario Barenghi[2], contiene quindici titoli, ciascuno preceduto dall’anno di composizione e seguito dal numero di pagine (e non esaurisce, naturalmente, gli scritti di Calvino su Pavese).
Tra i due scrittori corre un incrocio tra biografie personali e artistiche che dura ben oltre gli anni della collaborazione editoriale (1947-1950)[3]. Pavese, del resto, era stato il primo a leggere ogni pagina scritta da Calvino, il primo a dargli un “mestiere” a Torino presso la casa editrice Einaudi; era stato responsabile della sua formazione come scrittore[4], fondamentale «esempio di lavoro» per la sua capacità di coniugare cultura letteraria e sensibilità di poeta con «lavoro produttivo», «organizzazione e commercio d’idee», addirittura con «tutte le tecniche in cui consiste una civiltà culturale moderna»[5].
Dopo la morte di Pavese, Calvino torna a più riprese a frequentarne l’opera, scrivendone, e soprattutto in qualità di editore-curatore, pubblicandone anche gli inediti in prosa e in versi. Riordina le opere pavesiane e interviene sulla loro organizzazione interna, seguendo criteri propri, preferendo non l’ordine dei testi che rispecchiava l’ultima volontà dell’autore, ma l’ordine cronologico, e inserendo gli inediti fra i testi editi. Il suo obiettivo è riordinare l’archivio pavesiano e presentare al lettore l’attività di scrittura nel suo svolgersi. Procede secondo questo metodo con le Poesie edite e inedite (1962)[6], giustificando le sue scelte editoriali nelle note introduttive: il volume non ha la pretesa di essere un’edizione critica, ma un «primo strumento»[7] per chi vuole avvicinarsi alla poesia di Pavese seguendola «nel suo svolgimento»[8]. Nell’edizione dei Racconti[9] Calvino segue lo stesso criterio cronologico, smembrando Feria d’agosto; esclude dai Racconti le prose che non hanno carattere esplicitamente narrativo, che erano state collocate nel volume Letteratura americana e altri saggi (1951)[10]: Del mito, del simbolo e d’altro, Stato di grazia, L’adolescenza e Mal di mestiere.
Per Calvino, Pavese è «il più importante, complesso, denso scrittore italiano»[11] del suo tempo. Ha il merito di essere stato promotore della letteratura americana in Italia con Vittorini, di essere tra gli artisti che si sono sforzati di definire l’uomo della sua epoca[12]. Durante la visita di Calvino negli Stati Uniti, in diverse occasioni gli è richiesto di parlare della letteratura italiana contemporanea; nasce così l’intervento Tre correnti del romanzo italiano d’oggi[13]. Calvino nota che di volta in volta, nel tentativo di inquadrare e definire la produzione letteraria italiana del suo tempo, sente la necessità di «impostare un nuovo discorso, di formulare una definizione diversa»[14]; avverte alcune difficoltà nell’individuare una vera e propria scuola letteraria. Uno dei pochi movimenti italiani riconosciuto dal pubblico internazionale, scrive Calvino, è il Neorealismo, nell’ambito del quale egli ha esordito come narratore. È «improprio»[15] parlare di Neorealismo per Pavese e Vittorini; Pavese accettò solo negli ultimi anni quella definizione, mentre Vittorini la utilizzava sempre in senso negativo. Non si può parlare di scuola, ma di un’epoca, di un clima che aveva influenzato gli scrittori del tempo e che aveva come punto di partenza l’interesse per la letteratura americana[16]. L’America era diventata «una gigantesca allegoria dei problemi nostri»[17], e la letteratura americana consentiva di riaccostarsi alla tradizione (e anche di rileggere Giovanni Verga) con «occhi diversi»[18]. Nella produzione pavesiana, l’America aveva permesso di creare «miti nuovi della vita moderna»[19] come la pesca delle balene, i campi di granoturco o le città industriali. Il clima del Neorealismo, alimentato dalla Resistenza, si era interrotto con la morte di Pavese e il silenzio creativo di Vittorini, che non aveva più scritto opere narrative[20]. Il langarolo è dunque inquadrato come scrittore di importanza cruciale nella letteratura italiana del dopoguerra.
Nell’avvicinarsi (o riavvicinarsi) alle opere pavesiane, l’impegno politico-sociale è per Calvino una chiave di lettura sempre indispensabile, com’è evidente già nel primo saggio dedicato allo scrittore, Pavese in tre libri, uscito su «Agorà» nell’agosto 1946. Per Calvino, Pavese opera una scelta opposta rispetto a chi preferisce «motivi ermetici, metafisici e introspettivi»[21]: mentre questi ultimi corrispondono a una posizione di astensionismo politico, Pavese sceglie di prendere posizione, sceglie l’antifascismo; da qui la preferenza per «motivi realistici e lirico-narrativi»[22] di matrice nord-americana. In Pavese in tre libri, Calvino si sofferma su Lavorare stanca, Paesi tuoi e Feria d’agosto – dedicando maggiore attenzione, tra le tre opere, alla prima. La lettura proposta da Calvino pone l’accento sulla capacità di Pavese di dare voce a figure come contadini, vagabondi, operai e prostitute, ai loro bisogni più elementari; il poeta, scoprendo cosa lo accomuna a queste figure, scopre anche sé stesso[23]. I protagonisti pavesiani sono lavoratori e fannulloni, con i lavoratori che hanno sempre «un fondo di fannullonaggine addosso»[24]; sentono maggiormente l’insoddisfazione morale sottesa alla necessità di lavorare, più dell’insoddisfazione economica. I due poli della poesia pavesiana sono quindi l’ozio e il lavoro. Altri due poli della raccolta poetica, ma anche di Paesi tuoi e Feria d’agosto, sono naturalmente città e campagna, due “semi-mondi” che non riescono a essere pienamente complementari e lasciano quindi l’uomo sempre insoddisfatto. Il «denominatore comune tra città e campagna»[25] risiederebbe invece nei personaggi femminili e nel loro bisogno sessuale, contrapposto alla solitudine delle figure virili; solitudine che non ha, però, una valenza esclusivamente negativa, ma che può essere anche «soddisfatta di bisogni appagati e fatiche compiute»[26].
Anche il tema dell’infanzia è fondamentale; attraversa trasversalmente Lavorare stanca e Feria d’agosto e ne costituisce lo “scheletro segreto”. Calvino individua inoltre nel gruppo di liriche «Legna verde» l’elemento della denuncia sociale, e nelle liriche del confino il momento in cui la virata verso “il dato individuale” rappresenta un’assunzione di responsabilità e non una scelta egoistica. I componimenti più riusciti, che rappresentano la vera essenza del Pavese poeta, sono per Calvino Paesaggio II, Gente che c’è stata, Paesaggio III, Tempo passato, Legna verde, Paesaggio V, Semplicità, Lo steddazzu, poesie in cui «i colori delle sue vigne si confondono coi colori dei suoi vagabondi»[27]. Esprime un giudizio di valore leggermente negativo per quanto riguarda I mari del Sud e i componimenti immediatamente successivi, perché in questi l’autore cadrebbe nella tentazione di un «facile gozzanismo»[28].
Quasi vent’anni dopo, nel saggio Le poesie politiche di Cesare Pavese[29] Calvino si concentra sul Pavese politico, partendo dalle stesure scartate di alcuni componimenti di Lavorare stanca scritti tra il 1932 e il 1934, incentrati sulle lotte degli operai torinesi, vittime della repressione fascista, e sulla vita clandestina e carceraria degli antifascisti (e nota per primo, tra l’altro, che il personaggio dei versi di Fumatori di carta è Nuto della Luna e i falò). Calvino in quest’occasione parla di distacco e di estraneità di Pavese rispetto alla politica, atteggiamento che muterebbe solo dopo la Liberazione.
Per quanto riguarda Paesi tuoi, in Pavese in tre libri Calvino pone l’accento sulla ricerca linguistica. Rispetto alle poesie, il romanzo rappresenta un importante punto di approdo. Pavese, prendendo le mosse da «un verso scavato nel grosso della lingua parlata»[30], si serve del gergo urbano, «da barabba torinese»[31], per accompagnare il «torbido dramma campagnolo»[32]. Nel romanzo si scontrano il mondo urbano del protagonista, interessato solo alle donne e al tabacco, e il mondo contadino, più vicino alle bestie che all’uomo. È uno scontro che non ha soluzione, a differenza che nella letteratura nordamericana; il mondo urbano e il mondo contadino sono dominati rispettivamente dalla disonestà e dall’ignoranza.
Feria d’agosto vede invece l’irrompere dell’io che era stato volutamente abolito in Paesi tuoi e in Lavorare stanca (dove era presente talvolta sotto forma di “io fanciullo”, di memoria dell’infanzia, proprio come avviene nella raccolta di prose). Nei racconti il passato dell’infanzia si manifesta non attraverso il ricordo, ma sotto forma di illuminazioni. Si tratta di una ricerca proustiana «delle sensazioni come le provammo allora»[33], e di una ricerca nel presente di ciò che accompagna l’uomo adulto fin dall’infanzia; «la prima ricerca di chi fummo, la seconda ricerca di chi siamo»[34]. Per concludere, Calvino evidenzia come Feria d’agosto non rappresenti affatto un punto di arrivo per Pavese, che non può fermarsi ai risultati raggiunti, ma – come gli altri scrittori della sua generazione letteraria – dovrà proseguire nella sua indagine, nell’«approfondire una tematica che pare non debba esaurirsi mai»[35].
Nella recensione dedicata al Compagno, uscita su «L’Unità» del 20 luglio 1947, Calvino si sofferma sulla genesi dell’opera, sottolineando come i romanzi di Pavese gli crescano «addosso come funghi»[36] senza sollecitarli o forzarli; portano a frutto tutto ciò che di volta in volta l’autore ha imparato dalla vita nell’intervallo tra un libro e l’altro. Nell’attesa di un libro che fosse un proseguimento della linea inaugurata con Paesi tuoi, Pavese aveva letto libri di etnologia e scriveva qualcosa di completamente diverso: “dialoghetti mitologici”. Stava cioè preparando i Dialoghi con Leucò.
Il compagno nasce quasi inaspettatamente, «tutt’a un tratto»[37], mentre Pavese stava lavorando ad altro, a una materia totalmente diversa. Secondo Calvino, nel Compagno Pavese ha scoperto due cose: Torino, intesa come città di autorimesse sulle vie di periferia, di biliardi e piole in collina; e i meccanici, «uomini in tuta», «guidatori d’autocarri», «aggiustatori di biciclette», i «veri uomini di natura d’oggi»[38] – una natura fatta di asfalto e ciminiere. Pavese rappresenta insomma un’umanità che lavora, servendosi del racconto della formazione di Pablo. Calvino si sofferma sempre sulla componente politica del romanzo: è meno presente rispetto al tema amoroso, ma non dipende da questo il valore del Compagno, il cui nodo cruciale risiede nella «necessità morale»[39] e nell’«attaccamento appassionato alla vita»[40], assieme al superamento del regionalismo, «richiamo all’unità in tempi in cui ce n’è bisogno»[41].
Nella recensione a Prima che il gallo canti, uscita su «L’Unità» del 30 dicembre 1948, Il compagno è invece inquadrato non più come il proseguimento della via imboccata con Paesi tuoi, ma come naturale conseguenza del Carcere. Quest’ultimo romanzo esce solo nel ’48, ma è in realtà il primo scritto da Pavese. L’evoluzione nel Compagno risiede nel percorso compiuto da Pablo: a differenza dello Stefano del Carcere, riesce a essere un “buon discepolo”. Prima che il gallo canti è per Calvino il libro di un autore anti-ermetico che appartiene però, inevitabilmente, alla generazione ermetica. Pavese è un uomo ermetico dal punto di vista biografico: come gli altri poeti ermetici, poteva «trovarsi in piena lotta antifascista e finire in prigione»[42] e adeguarsi nella scrittura a suggerimenti «delle stagioni e della memoria»[43], aspetto che dimostra in maniera particolare nel Carcere e nella Casa in collina[44]. Quest’ultimo romanzo, per Calvino, non si limita ad avere un valore dal punto di vista letterario; ha anche valore documentale, di «testimonianza letteraria»[45] della guerra e della Resistenza, eventi annotati attraverso «i discorsi e gli umori della gente»[46], servendosi quindi di un punto di vista corale e “dal basso”.
In quanto uomo ermetico Pavese si colloca, con Prima che il gallo canti, nel clima di un’«infinita possibilità di rinuncia»[47]. Questa chiave di lettura è presente anche nel saggio La letteratura italiana sulla Resistenza del luglio 1949[48]. Prima che il gallo canti è citata come ultima opera sulla Resistenza (il primo è Uomini e no di Vittorini); si configura per Calvino come una storia di “non-adesione”, di rifiuto, soprattutto nella Casa in collina (mentre Il carcere è la storia di «un confinato che non vuol più lottare»[49]); ci sarebbe però non solo una consapevolezza, una “lucidità morale” nell’identificare l’atteggiamento di non adesione, ma anche una chiara condanna di questo aspetto, espressa dall’allusione biblica del titolo[50]. Nel saggio Calvino – attraverso precise riprese lessicali – torna infine sulla Casa in collina come “documento” che testimonia discorsi e umori della gente torinese del 1943-1944.
In un intervento successivo[51] il personaggio di Corrado della Casa in collina è accostato, come «uomo al margine», «d’opposizione passiva», «contemplativo»[52], al Michele degli Indifferenti e al Silvestro di Conversazione in Sicilia.
Nel Midollo del leone[53], trovandosi a riflettere sul «problema del personaggio nella nostra letteratura d’oggi»[54], Calvino si sofferma sui personaggi pavesiani e sul loro posizionarsi al margine, sia nei versi sia nei romanzi: protagonista delle poesie «non è l’operaio o il barcaiolo o il bevitore, ma l’uomo che li sta guardando in tralice dal tavolo opposto dell’osteria, e vorrebbe esser come loro e non sa»[55]. I personaggi di Pavese sono «il confinato Stefano», «il professor Corrado di Prima che il gallo canti, l’uomo che sa di dover stare in margine a leggere la storia che gli altri vivono, con gli occhi metastorici del poeta intellettuale»[56]. Contestualmente, Calvino rileva che anche il Silvestro di Conversazione in Sicilia e l’Enne Due di Uomini e no si muovono al margine della tragedia storica.
In Natura e storia nel romanzo[57] accosta Pavese a Pasternak e in particolare Corrado, protagonista della Casa in collina, al dottor Živago. Entrambi gli scrittori sono mossi dalla pietà per il sangue versato durante la guerra; mentre, però, la pietà di Pasternak incarna la tradizione russa di un «rapporto mistico col prossimo»[58], quella di Pavese incarna la tradizione «d’umanesimo stoico»[59] tipicamente occidentale. In Pavese, inoltre, la natura e il paesaggio sono inestricabilmente legati al ricordo dell’infanzia e al mito. Anche Corrado, come il dottor Živago, vorrebbe sfuggire alle responsabilità che derivano dalla storia e cerca di vivere come se la guerra non lo riguardasse. Nella conclusione del romanzo, però, Corrado è chiamato a partecipare attivamente alla storia per «placare»[60] il sangue versato; il suo impegno civile risiede nel dare una ragione alla violenza del conflitto, nella «coscienza d’una riaffermata fraternità umana»[61].
Nel saggio Pasternak e la rivoluzione, uscito pochi mesi dopo su «Passato e presente» (n. 3, maggio-giugno 1958), Calvino in una nota riprende pressoché integralmente le considerazioni di Natura e storia nel romanzo su Pavese e Pasternak, aggiungendo però una considerazione: «quando il libro uscì, nel ’48, ci parve avesse toni quasi di rinuncia, invece oggi rileggendolo pensiamo che lì Pavese andò più avanti di tutti, nella strada di una coscienza morale impegnata nella storia, e proprio in un terreno che è stato quasi sempre dominio degli altri, di concezioni del mondo mistiche e trascendenti»[62].
L’accento non è più posto sulla non-adesione e sul tradimento, che risiede nel non prendere posizione e nella mancata partecipazione alla Resistenza. Pavese non viene più collocato nel clima dell’infinita possibilità di rinuncia; è, al contrario, pienamente cosciente e impegnato nella storia e dunque nella lotta politico-sociale. È una posizione che Calvino dimostra di iniziare a maturare nella conclusione del Midollo del leone: qui mette a confronto Pavese con Thomas Mann e Picasso, ai quali i lettori continuano ad accostarsi per il «nucleo di umanità razionale»[63] che questi artisti conservano, perché «partirono in lotta contro i mostri, ora fronteggiandoli impassibili sul terreno nemico, ora travestendosi da mostri essi stessi, ora sfidandoli, ora soccombendo»[64]; per la loro capacità di resistere sono in grado di indicare «la trincea morale in cui difenderci»[65] e passare al contrattacco nel contesto di decadenza, irrazionalità, crudeltà «che leggiamo continuamente nella vita degli uomini e dei popoli»[66] e che caratterizzano il presente, il momento storico in cui Calvino scrive.
Un altro romanzo sul quale Calvino ritorna spesso nelle pagine dei saggi è Tra donne sole. Lo aveva già letto nel 1949, scrivendone proprio a Pavese il 27 luglio di quell’anno. Nella lettera definisce il romanzo «un viaggio di Gulliver, un viaggio tra le donne, o meglio tra strani esseri tra la donna e il cavallo»[67], esseri «orribilmente schifosi come tutti i popoli incontrati da Gulliver»[68]. Calvino esprime inoltre un’idea che svilupperà nel Midollo del leone, e cioè che di fatto la «donna-cavallo pelosa, con la voce cavernosa e l’alito che sa di pipa»[69] non è altro che Pavese «con la parrucca e i seni finti»[70]. Il parere sul romanzo è complessivamente negativo. Calvino dichiara infatti esplicitamente di non aver gradito il libro: non lo convince, soprattutto, la rappresentazione dei borghesi, che risulta poco credibile, come il lesbismo. Apprezza invece «il vero messaggio del libro»[71], incentrato sul lavoro e sui rapporti umani che nascono dal lavoro, e nota un parallelismo con Paesi tuoi, in particolare tra i personaggi di Talino e Momina[72]. Pavese il 29 luglio ’49 gli risponde sinceramente: «non mi dispiace che Tra donne sole non ti piaccia»[73]; lo rimprovera di aver applicato «due schemi, come due occhiali»[74] al libro, ricavandone impressioni discordanti senza curarsi di ricomporle («Ma tu – scoiattolo della penna – calcifichi l’organismo scomponendolo in fiaba e in tranche de vie. Vergogna»[75]). Gli è grato, però, per la scoperta del legame fra Paesi tuoi e Tra donne sole[76].
Nel Midollo del leone Calvino rileva che «il personaggio più bello d’uno scrittore che non credeva nei personaggi»[77] è Clelia di Tra donne sole; per Calvino si tratta di un personaggio particolarmente riuscito, «donna autosufficiente, amara, esperta», che «si è fatta da sé»[78]. Ed è anche il personaggio più pavesiano, più autobiografico («Clelia c’est moi!»), come indica anche l’attaccamento al lavoro, «ancora di salvezza»[79] che Pavese divide con il suo personaggio. Per Calvino il fatto che lo scrittore abbia avuto la necessità di identificarsi con un personaggio femminile e non con un personaggio maschile è indicativo dello “scacco”, della mancata integrazione del poeta con la realtà, una prova della sconfitta della figura tradizionale dell’intellettuale[80]. Significa che il «personaggio dell’io-lirico-intellettuale»[81] non esiste più, ed è stato abolito a favore della rappresentazione del mondo degli «altri»[82].
Calvino mostra particolare interesse nei confronti di Clelia anche nella lettera aperta a Michelangelo Antonioni, Le amiche e Pavese[83]. Si esprime nel complesso positivamente sul film tratto da Tre donne sole, ma lo preoccupa la resa del personaggio di Clelia, sulla quale avanza alcune riserve: “chiave di volta” del romanzo, è invece «il punto debole del film»[84] perché si è scelto di rappresentarla più giovane e meno disillusa e saggia. Nel libro, secondo Calvino, Clelia esita a lungo tra le possibilità di vita che le si propongono, scegliendo alla fine la via della realizzazione professionale: si tratta di un aspetto che invece nel film «resta confuso»[85].
Calvino torna ancora su Tra donne sole nel saggio Pavese: essere e fare[86]. Dieci anni dopo la morte dell’autore, tenta di definire il senso della sua «operazione poetica e morale»[87]; il compito che Pavese si prefisse fu quello di trovare uno stile, inteso però come «scelta d’un sistema di coordinate essenziali per esprimere il nostro rapporto col mondo»[88]. Pavese non è un poeta, ma un “giovane” che tenta di autodefinirsi approdando all’espressione di un’immagine di sé stesso che, in qualche modo, riesce a rappresentare una condizione universale che ha il «sapore tipico di quel tempo»[89]: una gioventù che da un lato «soffre il fatto d’esser giovane più di quanto non lo goda»[90], dall’altro vive il «vagheggiamento di come si dovrebbe essere»[91], dunque una tensione nell’acquisire nel proprio modo di essere una “durezza”. Il caso di Clelia di Tra donne sole in questo senso è esemplare: rappresenta per Calvino il vero «ideale pavesiano»[92] che possiede da una parte «tutta la triste saggezza di chi sa», dall’altra «la sicura autosufficienza di chi fa»[93]. Nelle opere narrative di Pavese bisogna «imparare […] come si soffre, come ci si comporta di fronte alle ferite che si ricevono»[94]; del resto la letteratura, sottolinea Calvino, non può insegnare metodi pratici, non può fornire ricette su come affrontare la vita, ma solo “atteggiamenti”; il resto «è la vita che deve insegnarlo»[95]. Calvino evidenzia inoltre come spesso, pensando a Pavese, ci si focalizzi esclusivamente sul suo gesto estremo, ci si soffermi sul suo suicidio senza porre invece attenzione «alla battaglia vinta giorno per giorno sulla propria spinta autodistruttiva»[96] mediante l’operosità, il lavoro creativo e il lavoro editoriale. «La sua morale» non fu una corazza esterna contro il dolore, ma un «ferreo guscio interno, per poter contenere il dolore come il fuoco d’una fornace»[97].
Individua inoltre due vie della letteratura moderna, incarnate da Gide e Pavese: da un lato l’identificarsi con il tutto, il fluire vitale e cosmico; e dall’altra una scelta di attrito, di riduzione all’osso. Insiste anche in questo saggio sulla morte di Pavese come limite cronologico di una stagione della cultura mondiale; a dieci anni dalla morte sembra prevalere la via incarnata da Gide, ma per Calvino la presenza pavesiana tornerà a farsi sentire quando il passare del tempo darà la possibilità di staccarlo dalla contemporaneità per riproporlo ai lettori «in una nuova vicinanza»[98]. L’attenzione dei pavesisti, fra l’altro, si è fino a quel momento concentrata più sulle vicende biografiche che sulle opere; è su queste ultime, dice Calvino, che è necessario polarizzare di nuovo l’attenzione, «riportare il fuoco della nostra lente», perché «tutta la carica di Pavese gravitava sull’opera»[99]. In particolare, Calvino si riferisce ai romanzi, pur sottolineando come Lavorare stanca e i Dialoghi con Leucò siano due libri unici nella letteratura italiana e non vadano quindi posti in secondo piano. È nella narrazione, nell’invenzione di un suo genere di romanzo che Pavese ha concentrato i suoi sforzi creativi, e sono dunque i romanzi la carta d’identità dello scrittore.
Calvino individua nei nove romanzi pavesiani un ciclo narrativo[100], il «più denso e drammatico e omogeneo dell’Italia d’oggi»[101], una «Commedia Umana»[102]. Ad avere un valore maggiore sono La casa in collina, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, tre esempi di romanzo ideologico in cui Pavese riesce a raggiungere una forma d’espressione totale, elemento che però manca ai romanzi precedenti, “gradini di approccio” a questa forma, e che in qualche modo manca anche nella Luna e i falò, nel quale «condensazione di lirismo, verità oggettiva e groppo di significati culturali»[103] non si sono attuati appieno.
In Pavese e i sacrifici umani[104] Calvino rileva che La luna e i falò è il romanzo più autobiografico di Pavese. Evidenzia come la ricerca di Anguilla segua tre direttrici: memoria, storia ed etnologia[105], con gli ultimi due piani nei quali il protagonista si inoltra con Nuto a fare da Virgilio. Nuto è il “marxista del villaggio” che conosce le ingiustizie del mondo, ma al contempo crede ancora nella luna e nei falò, nell’antistoria mitico-rituale. Infine, nota che quando Pavese accenna alla politica è sempre brusco e tranchant, «a scrollata di spalla»[106], come se «tutto è inteso e non vale la pena di spendere altre parole»[107]. Nel caso della Luna e i falò, però, non c’è nulla che sia già inteso: non è chiaro infatti quale sia il legame, il “punto di sutura” tra la storia della Resistenza, il comunismo, e il recupero di un passato «preistorico e atemporale»[108] dell’uomo. C’è inoltre un’analogia tra i fuochi della guerra e i falò rituali, anche perché i contemporanei hanno perso memoria di entrambi, allo stesso modo.
Nella Sfida al labirinto[109] Calvino sottolinea come la distanza tra lettore e autore sia fondamentale: è possibile valutare integralmente Pavese solo dodici anni dopo proprio perché si è entrati in un’epoca diversa. È necessario, dunque, osservare uno scrittore dalla giusta distanza per comprenderlo.
Ripercorrendo gli scritti calviniani che avrebbero fatto parte del volume dedicato a Pavese è possibile tracciare il ritratto che ne sarebbe emerso: non soltanto quello di un maestro, di un punto di riferimento per Calvino e per una generazione di scrittori, come Calvino ricorda nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno del ’64: «Ci eravamo fatta una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio»[110].
Oscillando nell’interpretazione tra i due poli dell’impegno politico e dell’astensione, Calvino tratteggia la figura di uno scrittore che ha giocato un ruolo cruciale nel panorama letterario del suo tempo. Sempre nella Sfida al labirinto, nota infatti che Pavese è stato un pioniere sotto diversi aspetti. Ha anticipato la «cancellazione del personaggio, della descrittiva pittorica, della psicologia»[111], che non sono novità introdotte dal romanzo francese degli anni successivi alla sua morte. È stato un precursore nel dare rilievo all’elemento antropologico, funzionale tra l’altro a interpretare le esperienze esistenziali e poetiche (divulgate successivamente dalla «voga sociologica»[112]) e, infine, ha anticipato la focalizzazione sulla «più fedele e feroce interiorità individuale»[113], che è poi divenuta addirittura un tema della letteratura mondiale.
- C. Milanini, Introduzione, in I. Calvino, Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1994, pp. XIII-XIV. ↑
- M. Barenghi, Introduzione, in I. Calvino, Saggi, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, pp. LIV-LV. ↑
- G. Bertone, Italo Calvino e Cesare Pavese, in Id., Italo Calvino. Il castello della scrittura, Torino, Einaudi, 1994, pp. 87-118: 87. Si veda il saggio anche per quanto concerne l’influenza di Pavese sulla scrittura calviniana. ↑
- I. Calvino, Questionario 1956, in Id., Saggi, op. cit., pp. 2709-16: 2710. ↑
- I. Calvino, Forestiero a Torino, in «L’approdo letterario», II, 1, gennaio-marzo 1953, pp. 53-54. ↑
- C. Pavese, Poesie edite e inedite, a cura di I. Calvino, Torino, Einaudi, 1962. ↑
- Ivi, p. 211. ↑
- Ibidem. ↑
- C. Pavese, Racconti, Torino, Einaudi, 1960. ↑
- C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, a cura di I. Calvino, Torino, Einaudi, 1951. ↑
- I. Calvino, Questionario 1956, art. cit., p. 2710. ↑
- «Ma la storia della letteratura engagée non si conta seguendo la sua registrazione di avvenimenti o problemi, bensì il suo lavoro nella definizione dell’uomo della nostra epoca (Malraux, Hemingway, Picasso, Sartre, Camus, Vittorini, Pavese)»: I. Calvino, Questioni sul realismo, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 1515-20: 1517. ↑
- Prima lettura il 16 dicembre 1959 alla Columbia University di New York, quindi in altre università statunitensi; pubblicato prima in inglese (in «Italian Quarterly» di Los Angeles, IV, 13-14, 1960) quindi nello stesso anno in italiano (in «Annuario commemorativo del Liceo-Ginnasio “G. D. Cassini” nel primo centenario della fondazione», 1960). ↑
- I. Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 61-75: 61. ↑
- Ivi, p. 62. ↑
- Ivi, p. 63. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 66. ↑
- I. Calvino, Pavese in tre libri, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 1199-1208: 1199. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 1200. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 1201. ↑
- Ivi, p. 1202. ↑
- Ivi, p. 1204. ↑
- Ivi, p. 1203. ↑
- Uscito prima nella Miscellanea per le nozze di Enrico Castelnuovo e Delia Frigessi (Torino 1962), viene poi pubblicato su «Rinascita» del 29 maggio 1965. ↑
- I. Calvino, Pavese in tre libri, art. cit., p. 1204. ↑
- Ivi, p. 1205. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 1207. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 1208. ↑
- I. Calvino, Il compagno, in Id., Saggi, op. cit., pp. 1209-12: 1209. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 1210. ↑
- Ivi, p. 1212. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- I. Calvino, Prima che il gallo canti, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 1213-16: 1214. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 1216. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 1213. ↑
- Saggio pubblicato su «Il movimento di liberazione in Italia», I, 1/07/1949, pp. 40-46. ↑
- I. Calvino, La letteratura italiana sulla resistenza, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 1492-1500: 1497. ↑
- Ibidem. ↑
- I. Calvino, Mancata fortuna del romanzo italiano, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 1507-11. ↑
- Ivi, p. 1510. ↑
- Letto per la prima volta a Firenze il 17 febbraio 1955 per la sezione fiorentina del Pen Club, poi pubblicato su «Paragone» nel giugno 1955, infine incluso in Una pietra sopra. ↑
- I. Calvino, Il midollo del leone, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 9-27: 9. ↑
- Ivi, p. 11. ↑
- Ibidem. ↑
- Letto per la prima volta a Sanremo il 24 marzo 1958, l’intervento rimane inedito fino alla pubblicazione in Una pietra sopra. ↑
- I. Calvino, Natura e storia del romanzo, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 28-51: 47. ↑
- Ivi, p. 48. ↑
- Ivi, p. 49. ↑
- Ibidem. ↑
- I. Calvino, Pasternak e la rivoluzione, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 1361-82: 1374. ↑
- Cfr. I. Calvino, Il midollo del leone, art. cit., p. 26. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 27. ↑
- Ibidem. ↑
- I. Calvino, Lettera a Cesare Pavese, San Remo, 27/07/1949, in C. Pavese, Lettere 1945-1950, a cura di I. Calvino, Torino, Einaudi, 1966, pp. 408-409: 408. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 409. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- C. Pavese, Lettera a Italo Calvino, Torino, 29/07/1949: ivi, p. 408. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- I. Calvino, Il midollo del leone, art. cit., p. 14. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 15. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 16. ↑
- Ibidem. ↑
- I. Calvino, Le amiche e Pavese (lettera aperta a Michelangelo Antonioni), in «Notiziario Einaudi», IV, 11-12, novembre-dicembre 1955, p. 12. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Scritto in occasione della commemorazione di Pavese alla Casa della Cultura di Milano il 26 novembre 1960, esce su «L’Europa letteraria», I, n. 5-6, dicembre 1960. ↑
- I. Calvino, Pavese: essere e fare, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 76-82: 76. ↑
- Ivi, p. 77. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 78. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 79. ↑
- Ivi, p. 81. ↑
- Ibidem. ↑
- È lo stesso Pavese a parlare di un «ciclo storico» del suo tempo che include i romanzi Il carcere, Il compagno, La casa in collina e La luna e i falò: cfr. C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, Torino, Einaudi, 2014, p. 375. ↑
- I. Calvino, Pavese: essere e fare, art. cit., p. 81. ↑
- Ivi, p. 82. ↑
- Ibidem. ↑
- Uscito su «Revue des études italiennes», XII, 2, Avril-Juin 1966; poi in «Avanti!», 12/06/1966. ↑
- I. Calvino, Pavese e i sacrifici umani, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 1230-33: 1232. ↑
- Ivi, p. 1233. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Pubblicato in «Il menabò 5», 1962. ↑
- I. Calvino, Prefazione 1964, in Id., Romanzi, op. cit., vol. 1, 1187-88. ↑
- I. Calvino, La sfida al labirinto, in Id., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 105-23: 115. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
(fasc. 53, 25 agosto 2024)