Un razionalismo illuminista, immaginifico e paradossale. Sulla peculiare epistemologia narrativa di Italo Calvino

Author di Andrea Velardi

Non solo leggerezza. L’illuminismo immaginifico elabora la molteplicità

Il nostro contributo vuole essere al contempo un’indagine sull’opera di Italo Calvino e un’indagine sulle possibilità di una filosofia della letteratura, attraverso lo studio di un classico paradigmatico sia per quanto riguarda la dimensione narrativa sia per quanto riguarda l’integrazione di questa dimensione con una visione del mondo e con la creazione di quella che, in relazione alla Trilogia dei Nostri antenati e in generale di tutta l’opera di Calvino nel susseguirsi delle varie fasi, può essere considerata un’“opera mondo” benché non ci sia, secondo la precisa definizione di Moretti[1], un’opera singola nell’intero corpus che rappresenti questo ideale.

Il nostro obiettivo è, dunque, esplicitare le potenzialità speculative della letteratura senza ridurle né a una mera filosofia letteraria né a una mera letteratura filosofica, ma a una filosofia che si integra con la letteratura utilizzando appieno il suo peculiare metodo narrativo, immaginativo, intuitivo e descrittivo integrabile, però, con una prospettiva più strettamente sistematica e argomentativa.

Da questo punto di vista tutto l’itinerario di Calvino dal Neorealismo alla semiologia, dalla prospettiva combinatorio-postmoderna a quella cosmica, rivela paradigmaticamente quelle potenzialità e quell’integrazione. Anche nella sua eccentricità, nelle sue spinte e fughe creative e centrifughe, la razionalità di Calvino mantiene la qualità illuminista e classica che le è stata attribuita, manifestata appieno nelle figure di forte densità etica e allegorico-simbolica, non solo trasparenti e lineari ma fortemente problematizzanti e imperfette dei Nostri antenati; e nell’elaborazione delle nozioni, spesso incongruamente separate della “leggerezza” e della “molteplicità” nei Six Memos, in cui trova esplicitazione l’intreccio della “leggerezza” di Calvino con il Gadda teorico dello “gnommero” causale inestricabile, dando vita a una straordinaria apertura autoconsapevole ai due versanti, lineare e complesso, della conoscenza e dell’ontologia, rappresentati da Gadda e da Calvino o meglio dall’intreccio Calvino-Gadda di cui stiamo parlando e che ha avuto il suo interprete più acuto e consapevole in Gianfranco Contini, così come per il solo Gadda lo è stato Gian Carlo Roscioni. Costruendo una razionalità che va oltre quella lineare, discorsiva, argomentativa, sillogistica di una filosofia speculativa semplicistica, spesso invece invade il territorio della filosofia accademica, senza tentare una trattazione filosofica esplicita come nemmeno Gadda farà, se non negli scartafacci giovanili della Meditazione milanese, poi pubblicati dallo stesso Roscioni nel 1974, privilegiando al contrario la forma narrativa del Pasticciaccio e della Cognizione per esemplificarla letterariamente.

Il percorso di Calvino avrà un culmine nella declinazione fantascientifica del razionalismo fantastico-immaginativo delle Cosmicomiche e in Ti con Zero, nel periodo semiologico-combinatorio dell’Oulipo e di quel metaromanzo che è Il castello dei destini incrociati e per finire nelle Città invisibili, vero luogo di elaborazione epistemologico della relazione e dell’opposizione tra modelli e dominio del mondo, tra mappa e territorio[2].

Il contributo intende ipotizzare connessioni speculative tra questi periodi, fino a delineare una filosofia continua e coerente del reale: nonostante i limiti di questo approccio, considereremo dunque l’opera di Calvino nella sua unitarietà, piuttosto che nelle sfaccettature delle varie fasi o delle varie opere. Il nostro obiettivo, infatti, è quello di ritornare sul tema della razionalità calviniana, di quell’illuminismo che la caratterizzata profondamente, accomunato e differenziato da altri progetti letterari contemporanei[3].

Questa razionalità cristallina, trasparente, che utilizza le allegorie e l’immaginazione per esemplificare attraverso i modi dell’arte ideali e valori, è peculiare. In Calvino, infatti, questa trasparenza illuministica si è intrecciata anche con tematiche più postmoderne che hanno a che fare con un’idea labirintica di approccio alla verità e ai valori. Si tratta in qualche modo di reintegrare due versanti di Calvino e di ricomprendere anche un’intertestualità aperta, oltre il corpus ristretto delle sue opere, con la visione filosofica del mondo e le opere di un altro classico con cui, come abbiamo detto, è in profonda interazione e ha influenzato profondamente il suo pensiero e cioè Gadda.

La disarmonia prestabilita e la figura dello “gnommero” gaddiano, dell’intreccio inestricabile di cause, è uno sfondo con cui la razionalità calviniana dialoga più intimamente di quanto sia sembrato fino a oggi e, pur non essendoci una sovrapposizione piena di queste tematiche e un’adesione esplicita alla visione della disarmonia prestabilita, d’altra parte c’è l’idea che la razionalità si debba costruire non soltanto in modo lineare e sillogistico, ma attraverso uno scavo non prevedibile a priori, attraverso un’immersione nella molteplicità che non consente l’utilizzo di un metodo univoco e precostituito. Si può dire, quindi, che sia Calvino sia Gadda difendono le potenzialità epistemologiche della letteratura e la specificità dell’approccio narrativo che affronta un mondo complesso attraverso strumenti che vanno oltre i metodi filosofici troppo totalizzanti del ragionamento per argomentazione sistematico-deduttiva.

Il progetto del “pensare l’universo”, il dialogo con la scienza del periodo cosmico e i legami a ritroso con il corpus calviniano

Questa tensione è presente in Calvino a partire dai Nostri antenati fino al progetto più ampio e tardivo di una “letteratura cosmica” di cui parla in una lettera a Umberto Eco del 9 maggio 1962, quando Calvino comincia a guardare ai metodi emersi dalla rivoluzione di Galileo per analizzare le immagini fornite dalla scienza per comprendere «il nostro inserimento nel mondo»[4]. Un programma di immaginazione e di scrittura, come lo ha chiamato Massimo Bucciantini[5], in cui lo scrittore si rivolge alla scienza per analizzare il linguaggio e le immagini del campo di conoscenza più preciso e predittivo che l’uomo sia riuscito a costruire per “pensare l’universo”. Questo itinerario lo condurrà a nuovi modi di intendere sia la razionalità sia la narrazione, ripensando radicalmente il tema della condizione umana in un mondo che ormai deve fare i conti con una rivoluzione copernicana. Ripenserà anche l’idea di un universo che intreccia inestricabilmente “entropia e ordine” e al quale l’essere umano può contrapporre soltanto la «fabbrica di parole»[6], una letteratura che non si limiti soltanto alla narrazione, ma che in questa travasi anche un’idea di letteratura e una visione del mondo.

C’è anche una critica a un certo linguaggio non consapevole e che non mette a tema il sentimento ambivalente di “stare a casa” e contemporaneamente di “sentirsi a disagio” nel linguaggio. Da qui la giustificazione e la motivazione per quello sperimentalismo che caratterizzerà queste fasi dell’opera di Calvino, uno sperimentalismo legato sia a quel “fare lo scrittore” più che “essere uno scrittore” già sottolineato da Mario Barenghi sia a quel fare che, attraverso l’artigianato della scrittura, perviene a nuovi modi di conoscere e interpretare il mondo.

Anche nella fase cosmica torna la razionalità illuminista, stavolta in esplicita complicità con la scienza. Ma essa torna sempre all’interno di un limite che la creatività narrativa elabora insieme con l’esattezza programmatica. Per questo possiamo certamente dire che «Calvino è uno scrittore sperimentale nel senso più pieno del termine, che ha in odio tutto ciò che è fumoso e approssimativo perché sfugge a qualsiasi conferma o falsificazione»[7]; per il quale: «L’inesattezza, la genericità, l’approssimazione, la sensazione di essere sulle sabbie mobili, ecco quel che mi irrita della parola. È per questo che scrivo: per dare a questa cosa approssimativa una forma, un ordine, una razionalità»[8].

La fedeltà a un ideale illuministico si mantiene, dunque, forte anche in queste successive fasi di elaborazione immaginativa e sperimentale e ha come obiettivo quello di chiarire non soltanto una visione del mondo, ma anche lo stesso linguaggio attraverso il quale si può pervenire a questa visione, nonostante i limiti epistemologici dell’essere umano. C’è, dunque, una prospettiva metalinguistica importante che chiarisce uno degli elementi chiave del razionalismo calviniano e cioè una disciplina, un metodo nell’utilizzo del linguaggio della narrazione, un atteggiamento programmatico non solo sperimentale, ma etico, che riguarda la parola e il linguaggio come strumenti e non solo i contenuti. Da qui la famosa risposta alla conversazione con Marco D’Eramo per cui la scrittura è il luogo nel quale questa parola può diventare «qualcosa di esatto e di preciso»[9], e la ricerca di questa esattezza «lo scopo di una vita»[10]. Il Calvino che ama definirsi “empirico” è fanatico dell’esattezza, cultore delle immagini della scienza, scrittore morale avulso dall’atteggiamento moralistico e volontaristico della sinistra sessantottina, che gli sembrava “campato per aria”.

Un tema, quello della morale, molto legato all’empirismo, ma in un modo veramente originale e coerente con la prospettiva del razionalismo paradossale e immaginifico che vogliamo delineare in queste poche pagine. L’empirismo, infatti, coincide anche con quello scetticismo nobile, elegante, per nulla alieno dalla ricerca della verità e dei valori che è uno dei lasciti più importanti della riflessione dell’autore. Se da una parte c’è la ricerca dell’esattezza, dall’altra l’empirismo coincide con una letteratura del dubbio che «deve avanzare a tentoni, insegnare alle altre discipline che si può avanzare solo brancolando, tenendo conto di tutte le facce della realtà»[11]. Un empirismo che non cede al verificazionismo semplicista, ma si apre al senso del limite, assolutamente centrale nell’opera di Calvino e legato a nostro avviso alla tematica filosofica e teologica del negativo di Montale e dell’inestricabilità della molteplicità gaddiana. I due grandi scrittori italiani con cui Calvino è in dialogo sono perfettamente integrati in una filosofia letteraria razionalista ed empirista, ma non in modo elementare.

Il ricorso al fantastico serve nell’una e nell’altra direzione: a fornire l’esattezza e a definire l’orizzonte del limite, del dubbio. Come suggerisce Bucciantini, questa letteratura sperimentale, empirista e scettica insieme, si esplicita come letteratura figurale, ariostesca, portata all’esplicitazione delle potenzialità del pensiero «per figure e immagini»[12]: quel pensiero ariostesco che ci trascina e che è «una bella terapia, soprattutto contro i malanni del pensiero discorsivo, del pensare per generalità»[13] ‒ espressione questa di Gianni Celati che sicuramente Calvino avrebbe condiviso, come sembra suggerire il passaggio di una conversazione con Ferdinando Camon del 1973: «solo se il discorso è figurato, indiretto, non riducibile a termini generici, facilonerie concettuali, cosciente delle proprie implicazioni, ambiguità, esclusioni, solo allora dice veramente qualcosa, non mente»[14].

Nella sua riflessione sulla razionalità di Calvino, Bucciantini mostra come questa idea del limite, dell’incapacità di interezza, sia già presente nel sistema figurale valoriale della Trilogia. Opportunamente egli cita la conversazione tra Italo Calvino e Daniele Del Giudice, pubblicata nel gennaio del 1978, in cui il giovane scrittore fa risalire il nucleo originario delle tematiche cruciali del maestro a quell’invenzione fantastica ed emblematica che è la palla di cannone che squarcia in due il visconte Medardo di Terralba. In quel colpo di cannone, e nei suoi esiti, si trovano intrecciati inestricabilmente i versanti opposti dell’Io di Calvino, quelli che comunque diventano insieme terreno di rielaborazione narrativa e di tensione insuperabile oltre una paralizzante dicotomia. Tensione che viene elaborata in tutto il futuro dell’opera. Quel colpo simbolizza «molte divisioni possibili: soggetto/oggetto, ragione/fantasia, la “via di fuori”, come Vittorini chiamava la politica, e quella di dentro; il Calvino articolista sull’Unità di Torino e quello che già andava per immagini nel Medio Evo. L’armonia per te è perduta dall’inizio»[15].

Ecco emergere, anche nella prospettiva dell’Io, un intreccio tra armonia e disarmonia prestabilita, quell’intreccio Calvino-Gadda di cui abbiamo già parlato e che ha anche l’Io come tema complesso. Ecco l’emergere, da una prospettiva intera, autobiografica, che però si trasfonde nella tessitura della narrazione, di un’incrinatura nell’ideale di razionalità piena, illuminista e cristallina di cui Calvino è pure fautore ma nella prospettiva del paradosso, dell’immaginazione e del senso del limite di cui stiamo parlando.

Per questo il colpo di cannone del Visconte dimezzato è il punto di non ritorno di una presa di coscienza della «dissoluzione della categoria di integrità e interezza, anzi il punto d’inizio della consapevolezza che ogni idea di totalità sia solo un simulacro, un’illusione che contenga in sé qualcosa di falsamente vero, e dunque di dannoso e controproducente»[16]. Ed è proprio contro il simulacro della totalità, che una certa filosofia invece ipostatizza, che si muove tutta la razionalità di Calvino, dispiegando la sua forza narrativa, immaginativa e speculativa.

È interessante, infatti, che, a margine della considerazione sul colpo di cannone e in relazione a quell’armonia “perduta dall’inizio”, Del Giudice chieda a Calvino: «L’hai più ritrovata?»[17]. La risposta dell’autore è precisa tanto quanto lo è la disarmonia, e il suo rigore è una perfetta sintesi di questo ideale di razionalità composita, non lineare, non argomentativa in senso pieno, eccentrica e paradossale come l’abbiamo definita:

Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l’aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso, e te lo auguro, ragazzo, capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai perso metà di te e del mondo, ma la metà rimasta sarà mille volte più profonda e preziosa. E tu pure vorrai che tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine, perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che è fatto a brani[18].

E riecheggia la consapevolezza della bivalenza di Medardo:

questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo[19].

È senza dubbio Medardo-Calvino a rivelare il senso di questa disarmonia presente nello scrittore, ma anche relativa a tutta la sua opera e alla realtà in generale. Una disarmonia che sicuramente nella «coscienza della lacerazione porta il desiderio d’armonia»[20].

Come osserva Bucciantini, dopo aver scritto le Cosmicomiche e Ti con zero, il giudizio non sarà cambiato, anzi rafforzato, ma quel desiderio di armonia che avrebbe cercato nella prospettiva cosmica e nel progetto “pensare l’universo” avrebbe accentuato ancora di più gli aspetti di privazione, di assenza, di smarrimento e di incatturabilità e inintelligibilità del mondo, nonostante lo sforzo illuministico di cercare il metodo migliore per la sua conoscenza.

Così anche gli ultimi esperimenti cosmicomici come Il niente e il poco e l’Implosione definiscono questo senso del limite che viene elaborato lontano dalla bramosia di totalità di una razionalità onnicomprensiva di cui in un primo momento è invaghito il lucreziano Qfwfq, ma facendo propria la lezione di quelli che Bucciantini chiama “poeti-filosofi” ovvero Montale e Caproni. Il primo, già da noi citato, aiuta Calvino a elaborare il senso del limite e quella poetica del negativo nel quale ci si può situare per comprendere la realtà soltanto in maniera sottrattiva e residuale, ma valorizzando pienamente quel residuo che rimane alla portata della conoscenza umana. Caproni gli insegna il segreto di quel residuo che sta al di là della contrapposizione tra nulla e tutto, perché quello che realmente si contrappone al nulla è il “poco”. Quel “poco” che è comunque espressione di una nostra straordinaria capacità di comprensione della realtà. Questo “poco” non impedisce di elaborare lo “gnommero” gaddiano per cui la scrittura è il luogo in cui l’inestricabilità deve essere dispiegata, distesa, razionalizzata senza perdere il senso del limite, del dubbio, dell’ambiguità.

Si tratta, quindi, di un razionalismo fantastico, allusivo, figurale, scettico, illuminista e postmoderno insieme. Un razionalismo originale, le cui unicità e complessità non sono state fino ad oggi ancora messe a tema né dalla critica letteraria né dalla filosofia. C’è un Calvino “filosofo” che può insegnare molto ai nostri metodi di indagine e alla conoscenza umana in un dialogo con la migliore tradizione italiana che parte da Pirandello arrivando a Calvino tramite Montale e Gadda.

Abbiamo già detto che questa tematica non appartiene solo alla fase della Trilogia, ma la continuità di questa razionalità e di questo smarrimento è un dato molto chiaro, condiviso da tanta critica, che ci mette in condizioni di poter parlare in modo più generale della razionalità calviniana integrando leggerezza e molteplicità, illuminismo e scetticismo, realismo e immaginazione, linearità ed eccentricità.

La letteratura come “mappa del mondo e dello scibile” e il senso del limite

Come abbiamo già visto, l’integrazione tra leggerezza e molteplicità, razionalità e scetticismo porta a una poetica del limite e a una consapevolezza delle ambiguità contenute non solo nella realtà, ma anche in quell’impresa di dispiegamento di una visione del reale che è la narrazione e la visione più tecnico-sperimentale che sta dietro all’impresa della scrittura letteraria.

Questo tema del limite riecheggia negli studi di Mario Barenghi e soprattutto nella Postfazione alla raccolta di articoli Mondo scritto e mondo non scritto, pubblicata da Mondadori nel 2023. L’autore rielabora una relazione presentata al convegno internazionale alla New York University dal titolo Future Perfect. Calvino and the Reinvention of Literature dell’aprile del 1999 e si sofferma sul fatto che, per Calvino, la definizione di letteratura è essenzialmente una questione di frontiera o, meglio, al plurale, di frontiere. Si tratta, quindi, di una poetica del limite che declina al plurale i vari versanti nei quali questo limite si incarna e comunque ha come obiettivo, come abbiamo detto sopra, quello di non perseguire, almeno nei contenuti, un’idea totalizzante della letteratura. Rimane il carattere totalizzante di un’impresa che prende sul serio il proprio metodo e il proprio tema alla luce di una disciplina etica, narrativa e sperimentale che al contempo si basa su una visione del mondo e la motiva. Barenghi sottolinea come Calvino ha «della letteratura un’idea non totalizzante. La letteratura per lui non coinvolge la totalità della realtà e dell’esperienza»[21]. Essa è autonoma, ma né autosufficiente né compiuta. C’è un carattere duplice e non eludibile, dunque, di limite intrinseco e di apertura continua. D’altra parte, c’è l’ideale di quell’impresa di cui abbiamo parlato e lo stesso Barenghi deve riconoscere che sin dalla metà degli anni Sessanta Calvino coltiva una nozione epistemologica di letteratura come “mappa del mondo e dello scibile” che prende corpo nelle Due interviste su scienze e letteratura pubblicate in Una pietra sopra[22], molto legata a quel progetto cosmico del “pensare l’universo” di cui abbiamo parlato sopra, sulla scia di Bucciantini.

Calvino non rinuncia alla pretesa della letteratura di apportare una qualche conoscenza del mondo, anche se intrinsecamente parziale. L’aspetto decisivo è che essa sia consapevole di questa parzialità e che questa consapevolezza si approfondisca progressivamente. Per questo «le cose che la letteratura può insegnare, sono poche ma insostituibili»[23], come recita il saggio Il midollo del leone del 1955, non a caso posto in apertura di Una pietra sopra. Il resto delle cose va trovato nella scienza, nella storia e nella vita, ma anche la scienza e la vita sono segnate da un limite e pure la prospettiva posteriore del “pensare l’universo”, più aderente al progetto galileiano della scienza esatta, prenderà consapevolezza di un destino di parzialità e di naufragio. Quelle cose “poche ma insostituibili” riecheggiano il “poco” di Caproni, residuo segreto e prezioso, scrigno ambito, bottino del periplo e delle avventure per i mari tribolati e inquieti della conoscibilità e della narrazione. Di fatti, la letteratura insegna a comprendere non solo i suoi confini, ma anche i confini di qualsiasi pretesa epistemologica, mette in guardia dall’illusione di costruire modelli esaustivi della realtà, di ridurre la realtà a modello precostituito e preconfezionato. Tematica su cui Calvino ritornerà nelle Città invisibili in riferimento al tappeto che rappresenta la città di Eudossia.

C’è un sentimento dei confini che lavora in tutta l’impresa della “mappa del mondo e dello scibile” di Una pietra sopra e poi del progetto del “pensare l’universo” della prospettiva cosmica. Non a caso, questo è il tema della conferenza tenuta alla New York University dal titolo Mondo scritto e mondo non scritto, fatta per le James Lectures del 30 marzo 1983. Al cuore c’è il rapporto tra linguaggio e realtà e la necessità da parte della letteratura di approfondire e rinnovare incessantemente questo legame. In un’epoca segnata e sfigurata dall’invasione delle parole occorre recuperare “la soglia del mondo non scritto”, sfuggendo all’usura delle parole e del già detto. La letteratura si muove, infatti, sulla frontiera, nel mondo “da scrivere”, proiettandosi però nell’oltre del “mondo non scritto”.

Del resto, già lo scrittore Silas Flannery, l’alter ego di Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, annotava sul suo diario: «io non credo che la totalità sia contenibile nel linguaggio; il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile»[24]. Non a caso in quel luogo Calvino si pone come autore “anonimo, plurimo, collettivo”, pronto a sperimentare le varie possibilità combinatorie di questo stare sulla frontiera. E nel mentre porta avanti molteplici progetti autobiografici come a indicare questo continuo «straniamento programmatico, ma impregiudicato, mobile»[25], questa tendenza a «mettersi sempre dalla parte di fuori»[26] come scriverà nel saggio Lo sguardo dell’archeologo.

Da queste considerazioni Barenghi deriva una pregnante lettura sulla mancanza come motore della fiaba e sul “desiderare” come dinamica interna alla creatività e alla scrittura che non si appaga mai e ci trasmette «il senso dell’approccio all’esperienza, più che il senso dell’esperienza raggiunta»[27]. E da qui un’idea “agronomica” della letteratura come sfrondare e potare perché la pianta cresca, una tendenza a “ridisegnare i profili, rinnovare i margini”[28]. Tutti i personaggi di Calvino sarebbero il frutto di una “mutilazione strategica”[29]. Dalle figure imperfette, ma linearmente disegnate degli Antenati della Trilogia cavalleresca fino a Palomar, ridotto agli organi della vista e del pensiero e a Qfwfq decontestualizzato da ogni determinazione spazio-temporale.

Il mondo è permeato di confini e viene descritto attraverso una continua «poetica della stilizzazione straniante, della riduzione calcolata. Selezione e allontanamento. Riduzione e messa a fuoco»[30]. Desiderare come continuo stimolo, limitazione come impulso produttivo. E alla selezione e riduzione si aggiunge una continua dissimulazione dell’autore negli alter ego, una disciplinata ipertrofia immaginativa, un estro mai solo arbitrario, ma vincolato forse anche solo dai contraintes estrinseci dell’Oulipo, come a caratterizzare un immaginifico e un fantastico che devono essere sempre funzionali all’ideale della razionalità.

Ma il desiderio rimane produttivo anche se non c’è alcun interesse per «un rapporto affettivo con la realtà»[31]. E per questo tutto l’immaginario delle Città invisibili è generato da un impulso verso la felicità e dalla memoria come funzione della felicità sognata, perduta, inventata o rimpianta. Un po’ come il mollusco Qfwfq della Spirale della prima serie delle Cosmicomiche che spiega come l’impulso ad agire sia venuto da una sorta di struggimento iniziale, indefinito, inconsapevole. Tutto questo non ha a che fare con l’irrazionalità, ma manifesta un razionalismo paradossale, eccentrico, fantasioso, favolistico, immaginativo che esplora il mondo ed esprime conoscenza attraverso la dinamica del desiderio e del continuo appagamento senza appagamento, dell’ardimento del conoscere sintetizzato nell’«Habe Mut, dich deines eigenen Verstandes zu bedienen» del Kant interprete dell’Illuminismo e di un senso del limite molto novecentesco associato a questa pretesa inossidabile. Un razionalismo desiderante in cui la narratività convoglia energie primordiali, dando corpo a figure conoscitive che sovrastano il labirinto da sfidare. Non c’è nessuna nostalgia per la totalità, nessuna Sensucht romantica, però c’è l’idea che questa totalità vada in qualche modo appresa secondo una razionalità che, nel distacco illuministico e nella presa di distanza dall’emozione, sappia esprimere tramite la narrazione il dinamismo del desiderio, compreso quello della conoscenza. Come scrive Barenghi, «non solo, dunque, una rinuncia pressoché pregiudiziale alla totalità; ma una concezione della limitatezza, della parzialità, come un dato oggettivo e insieme come un metodo di lavoro, una strategia compositiva»[32]. Da qui anche quel rimando al lettore come chi deve compensare la parzialità e permettere il gioco narrativo di «funzionare come sfida a comprendere il mondo o come distorsione dal comprenderlo»[33].

Un rimando presente anche nella concezione calviniana della mitopoiesi, in “L’universo come specchio”. Saggi sull’opera di Italo Calvino, curati da Marco Föcking e Caroline Lüderssen, dove il mito aiuta la violazione del tabù a diventare canonica, ritualizzata, simbolica, divenendo mito intersoggettivo all’interno di una comunità, in un’interazione tra scrittore e lettore che è la stessa di quella tra sciamano, sacerdote e membri della comunità. Il mito fa emergere e fa crescere il non detto che è presente nell’inconscio sociale e individuale e diventa illuminazione non in antitesi con l’illuminismo: rafforzando il tema del razionalismo eccentrico e paradossale di cui abbiamo parlato in queste pagine.

Le città invisibili sono il manifesto compiuto di questa relazione tra mito e illuminismo, tra desiderio e razionalità nella prospettiva del limite. Zenobia è la città che dà forma al desiderio. L’ultima rubrica è dedicata alle città nascoste in opposizione alla marea delle città continue, insistendo sul limite, sul confine. Eudossia è la rappresentazione di questo limite epistemologico della rappresentazione della realtà e, non a caso, Silvano Tagliagambe apriva con una riflessione su questa città il suo saggio-manifesto L’epistemologia del confine[34].

Eudossia ha al centro un tappeto nel quale è possibile contemplare la vera forma della città. A prima vista, il disegno del tappeto non sembra assomigliarle perché ordina in figure simmetriche e linee rette e circolari un alternarsi di trame che prendono vita nella confusione incarnata di Eudossia immersa fra «i ragli di muli, le macchie nerofumo, l’odore di pesce»[35].

Ma il tappeto ci fornisce uno schema geometrico implicito di ogni dettaglio che riguardi la città. È, dunque, davvero il tappeto più vero della città che rappresenta? Se nell’ordine immobile di quest’ultimo ogni abitante proietta una propria immagine del centro urbano e trova tra gli arabeschi del tappeto il racconto della propria vita, le svolte di un destino, allora il rapporto tra mappa e città è misterioso e l’oracolo interrogato sull’enigma fornisce una risposta bivalente, sibillina. Uno dei due oggetti ha la forma che gli hanno dato gli dei, simile a quella del cielo stellato e delle orbite su cui ruotano i mondi; l’altro è un approssimativo riflesso.

Potrebbe essere di fattura divina l’armonico disegno del tappeto, ma la risposta potrebbe essere più controversa e riguardare una conclusione opposta. La vera mappa dell’universo sarebbe la città di Eudossia intesa come «una macchia che dilaga senza forma, con vie tutte a zig zag, case che franano una sull’altra nel polverone, incendi, urla nel buio»[36].

Forse la mappa non è la rappresentazione che ci facciamo del reale, ma il reale stesso? La mappa non “descrive” il reale così come il tappeto non descrive Eudossia, ma la “spiega”, aiutandoci a non smarrirci nei suoi meandri e a comprendere che ogni modello è funzione di un dominio, ma che il vero modello da cercare è il dominio stesso, il territorio, il reale nel quale dobbiamo navigare direttamente per conoscerlo, ricordando che la mappa è un aiuto parziale per la nostra navigazione nell’insostituibile totalità.

  1. Cfr. F. Moretti, Opere mondo: saggio sulla forma epica dal “Faust” a “Cent’anni di solitudine”, Torino, Einaudi, 1994.
  2. Cfr. S. Tagliagambe, L’epistemologia del confine, Milano, il Saggiatore, 1997.
  3. Cfr. I Calvino, L. Sciascia, L’illuminismo mio e tuo. Carteggio 1953-1985, curato da M. Barenghi e P. Squillacioti, Milano, Mondadori, 2023.
  4. I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, p. 706.
  5. Cfr. M. Bucciantini, Pensare l’universo: Italo Calvino e la scienza, Roma, Donzelli, 2007.
  6. Ivi, pp. XV-XVI.
  7. Ivi, p. XVI.
  8. I. Calvino, Sono nato in America. Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2012, p. 337, intervista di C. Delacampagne, in «Le Monde», 16-17 dicembre 1979.
  9. Ivi, p. 286, intervista a M. d’Eramo (1979).
  10. Ibidem.
  11. I. Calvino, Sono nato in America. Interviste 1951-1985, op. cit., p. 107.
  12. M. Bucciantini, Pensare l’universo: Italo Calvino e la scienza, op. cit., p. XVII.
  13. G. Celati, L’assoluto della prosa, conversazione a cura di Andrea Cortellessa, in «Il Verro», 2002, 19, pp. 54-64: 63.
  14. I. Calvino, Sono nato in America. Interviste 1951-1985, op. cit., p. 183, conversazione con F. Camon (1983).
  15. D. Del giudice, Colloquio con Italo Calvino. Un altrove da cui guardare l’universo, in «Paese sera», 7 gennaio 1978, poi col titolo Situazione 1978, in Id., Saggi, a cura di M. Barenghi, 2 voll., Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1995, 2 voll., pp. 2828-34: 2830.
  16. M. Bucciantini, Pensare l’universo: Italo Calvino e la scienza, op. cit., p. XVIII.
  17. D. Del giudice, Colloquio con Italo Calvino, op. cit., p. 2830.
  18. I. Calvino, Il visconte dimezzato [1952], in Id., Romanzi e racconti I, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1991, p. 403.
  19. Ivi, p. 422.
  20. D. Del giudice, Colloquio con Italo Calvino, op. cit., p. 2830.
  21. M. Barenghi, Postfazione a I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, Milano, Mondadori, 2023, pp. 307-22: 307.
  22. I. Calvino, Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, p. 187.
  23. M. Barenghi, Postfazione a I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, op. cit., p. 308.
  24. I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore [1979], in Id., Romanzi e racconti II, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, pp. 789-90.
  25. M. Barenghi, Postfazione a I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, op. cit., p. 313.
  26. I. Calvino, Lo sguardo dell’archeologo, in Id., Una pietra sopra, op. cit., p. 264.
  27. I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, conferenza tenuta presso la New York University per il ciclo delle James Lectures del 30 marzo 1983, poi in I. Calvino, Saggi, op. cit., p. 1874.
  28. M. Barenghi, Postfazione a I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, op. cit., p. 315.
  29. Ibidem.
  30. Ivi, p. 316.
  31. I. Calvino, Una pietra sopra, op. cit., p. 14.
  32. M. Barenghi, Postfazione a I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, op. cit., p. 317.
  33. I. Calvino, Una pietra sopra, op. cit., p. 180.
  34. S. Tagliagambe, L’epistemologia del confine, Milano, il Saggiatore, 1997, pp. 14-20.
  35. Ivi, p. 15.
  36. I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1979, pp. 103-104.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)