A futura memoria: la lezione di Calvino su sostenibilità e globalizzazione

Author di Daniela Privitera

Se nel mio lavoro ho mai colto un qualche mutamento dell’uomo contemporaneo, non potrò saperlo da me né dai miei contemporanei. È raro che i mutanti riconoscano la mutazione che portano in sé; saranno poi i mutati, divenuta la mutazione un’acquisizione stabile della specie, a riconoscere guardandosi indietro i loro profeti e i loro arcangeli[1].

Era il 1966, e Calvino dalle colonne della «Nazione» si esprimeva con queste parole, parlando del romanzo contemporaneo e del suo legame con l’uomo di oggi. Immaginando i termini di un rapporto tra lo scrittore e la sua creazione, pur senza lasciarsi imbrigliare dalle mode, coglieva già in nuce le trasformazioni che avrebbero riguardato il Postmoderno. In altre parole, Calvino, virando verso la fase combinatoria della sua poetica, non smetteva di rimanere uno scrittore sapiente e saggio, presentando il gioco come un’infinita possibilità di invenzione. Se egli riconosceva, nel candore della sua onestà intellettuale, l’impossibilità di stabilire il valore del cambiamento in atto, affidava, però, ai posteri l’ardua sentenza di decretare la portata della sua profezia assieme alla lezione di buoni e cattivi maestri.

La mutazione, come ben sappiamo, non riguardò solo i destini della scrittura, ma anche la dimensione biologica e antropologica, il rapporto fra l’uomo e la sua conoscenza del mondo e la natura in un’ottica che, nella poetica calviniana, non esiteremmo a definire “straniante”. Oggi, tuttavia, col sorriso disincantato dello “scetticismo attivo” che Calvino si augurava «continuasse a svolgersi nel prossimo millennio»[2], tale ottica induce a riflettere su un’altra mutazione in atto che coinvolge le questioni ambientali, il clima e il supposto antropocentrismo nel dialogo tra soggetto e mondo, di cui Calvino aveva ampiamente disquisito nelle fasi della sua stagione letteraria.

Lo scrittore coglieva il senso di un cambiamento che avrebbe investito in modo violento la natura, sconvolgendone gli equilibri a causa della spregiudicatezza umana, ma la perenne sfida al labirinto che informa il suo ambizioso progetto letterario fu sempre quella di domandarsi che cosa possiamo chiedere alla letteratura, nel tentativo di costruire un mondo migliore fra quelli possibili.

La sua risposta non tardò ad arrivare, come egli stesso affermò nello Sguardo dell’archeologo (1972), asserendo che «le poetiche letterarie possono rimandare a una poetica del fare, anzi: del farsi»[3]. La “poetica del fare” oggi ci chiama in causa come spettatori, lettori e autori di quella dimensione labirintica dell’esistenza in cui «i moventi storici e quelli naturali diventano uno sfondo comune per ogni ragionamento sull’uomo che si va dissipando in una contemporaneità inspiegabile, ricca di impreviste opportunità e di incontrollabili pericoli»[4]. È su questo terreno che i confini tra letteratura e ambiente accorciano le distanze, mentre l’antropocentrismo letterario rivela i suoi limiti, pensando il non umano come qualcosa di secondario e di irrilevante da strumentalizzare a proprio uso e consumo.

Siamo di fronte agli scenari della moderna ecocritica in cui «il ruolo della letteratura è cruciale perché la pervasività delle questione ambientale contribuisce a fare dell’ecologia una grande narrazione collettiva che la nostra cultura adotta per rappresentarsi»[5]. E, tuttavia, Calvino aveva intuito e previsto tutto, molto prima dell’ecocriticism o della tendenza attuale del nature writing. Egli, infatti, con la precisione dello scienziato e il disincanto del pensatore, aveva raccontato emergenze ecologiche e sociali già nelle storie di Marcovaldo (1963); tra le chiome arboree del Barone rampante (1957); nella Speculazione edilizia (1957) fino all’«Inferno dei viventi» delle Città invisibili (1972), solo per fermarci ad alcuni esempi.

Se torniamo alla domanda di senso che lo stesso Calvino si era posto sulla letteratura come àncora di salvezza o via di fuga per un disagio che investe l’intera società, comprenderemo come per il Nostro la questione ambientale non potesse essere separata da quella etica. Alla luce di queste considerazioni sarebbe pertanto utile, oggi, interrogarsi su che cosa Calvino intendesse quando scriveva: «Vogliamo dalla letteratura un’immagine cosmica, cioè al livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco»[6].

Probabilmente, l’immagine cosmica coincideva con un’idea di narrazione in cui, al di là della tradizionale separazione tra uomo e società, natura e cultura, antropocentrismo e non umano, occorresse ridiscutere l’idea stessa di materia in una prospettiva di perenne ibridazione con il mondo animato. Quando, infatti, nelle Lezioni americane egli stesso parlava di «un’opera concepita al di fuori del self […] per far parlare ciò che non ha parole»[7], compiva un’operazione etica e politica insieme.

L’anti-antropocentrismo calviniano di cui parla Lobascio[8] è infatti, da un lato, la critica alla centralità dominante del soggetto separato dall’altro da sé, l’inquieta ma vitale riflessione sull’allegoria del non umano come prospettiva di una felice contaminazione e non di un’opposizione con l’uomo. A tal proposito, non è senza significato che nel percorso narrativo di Calvino non vi sia pagina in cui non avvenga un’osmosi tra la letteratura e l’ambiente, o a una crisi ecologica non corrisponda una deriva di natura culturale, e a una critica spietata al “mare dell’oggettività” non corrisponda uno scatto di una nuova morale e di una nuova libertà.

Quelle di Calvino ci appaiono oggi come riflessioni estremamente attuali, se pensiamo ai problemi non meno complessi che ci affliggono come gli equilibri geopolitici internazionali, l’allarme climatico e una rivoluzione tecnologica non meno incisiva di quella che si apriva proprio sotto gli occhi di Calvino.

In un certo senso, si potrebbe affermare che nella misura in cui tutta l’opera di Calvino è informata da quella spinta a sconvolgere paradigmi estremamente radicati nel tempo, come, per esempio, la relazione uomo-natura o la supposta superiorità dello sguardo umano come dominio sull’ambiente, l’intento dell’autore sarebbe quello di uscire fuori dai libri scritti e da quelli letti per trasformare un fenomeno letterario in una sorta di eco-consapevolezza dai risvolti percettivi, etici ed estetici[9]. A tal proposito, si legga la riflessione di Calvino sul rapporto tra uomo e ambiente, e tra uomo e animali: «propendo per una concezione dell’uomo come non staccato dal resto della natura, di animale più evoluto in mezzo agli altri animali, e mi sembra che una tale concezione non abbassi l’uomo, ma gli dia una responsabilità maggiore, lo impegni a una moralità meno arbitraria, impedisca tante storture»[10].

L’idea calviniana di immaginare l’essere umano non staccato dall’“ambiente” ‒ parola-chiave, la cui etimologia rimanda a tutto quello che ci sta intorno e non necessariamente a un luogo dove la presenza antropica sia l’unica o la più dominante ‒ è già presente all’altezza dei racconti di Ultimo viene il corvo (1949), ove il motivo della natura campeggia, centrale. Paragonate, da Vittorini, per l’eclettismo dei contenuti e la freschezza delle descrizioni a «un mazzo di fiori di campo»[11], alcune delle storie ci presentano un punto di vista “ecoconsapevole” da parte dell’autore, che vede il soggetto come immerso in una comunione con la natura e non in contrapposizione.

Si pensi alla novella Un pomeriggio Adamo[12], ove la percezione dell’ambiente come ecosistema unico in cui è immerso anche l’umano si sviluppa attraverso la figura di Libereso, il giovane protagonista dal nome parlante che veicola l’idea di “liberta” perché, come si legge nella novella, «il nome in esperanto significa libertà». Assieme a lui c’è anche un personaggio femminile: Maria Nunziata. Libereso è un giardiniere, lei lavora come domestica nella casa di una ricca signora. Il ragazzo le regala spesso animali (rospi, lucertole etc.) come dono della natura, con la quale il giovane ha un rapporto simbiotico ed empatico: «Libereso innaffiava le piante di nasturzio, piano piano, come versasse caffelatte […] aveva le mani piene di cetonie: cetonie di tutti i colori. Le più belle erano le verdi, poi ce n’erano di rossicce e di nere, e una anche turchina»[13].

Libereso non fa solo il giardiniere, ma è parte integrante del giardino che governa e accudisce, come accadeva con la rosa di cui si prendeva cura il Piccolo Principe di Sant’Exupery. Al contrario, Maria Nunziata, cresciuta in un sistema di gerarchie e di coercizioni, pensa che la natura e l’ambiente vadano soggiogati e dominati per esorcizzare le paure dell’umano, come quando intima a Libereso di uccidere il rospo perché lo teme, mentre dichiara di preferire come doni «un tubetto di rossetto, e dipingermi le labbra alla domenica per andare a ballare»[14].

L’idea di natura nel racconto è legata al concetto di rinascita, di vita e di simbiosi con il soggetto, come si evince dall’immagine finale del rospo che Maria Nunziata si ritrova in cucina come ultimo dono di Libereso, a cui la ragazza non rimarrà insensibile: «doveva essere una femmina perché dietro le veniva tutta la nidiata, cinque rospettini in fila, che avanzavano a piccoli balzi»[15].

Una diversa condizione è, invece, quella descritta nella novella omonima della raccolta, Ultimo viene il corvo, ambientata durante la Seconda guerra mondiale, dove la profanazione e la violenza operate da un ragazzo senza nome (simbolo di una perdita di identità e di umanità) segnano un rapporto di disparità tra la natura e il potere dell’uomo su di essa. Il racconto inizia con la descrizione della natura, veicolata dall’immagine di alcune trote colpite in acqua dal fucile del ragazzo senza nome. L’uccisione ingiustificata dei pesci incrina l’idillio tra umano e non umano, spezzandone per sempre il legame. La logica del potere umano trasformata dalla guerra nella brama insensata di uccidere s’impossessa del ragazzo che continua a sparare indiscriminatamente contro tutti gli animali del bosco, segnando una distanza incolmabile fra uomo e natura. Il processo di reificazione investe tutto l’ambiente circostante e gli animali diventano solo oggetti.

Sul piano letterario, la metafora vitale della nidiata di rospi su cui si era chiusa la novella di Un pomeriggio Adamo regredisce ora al corvo, simbolo di morte su cui si chiude la novella: «Forse chi sta per morire vede passare tutti gli uccelli: quando vede il corvo vuol dire che è l’ora»[16]. L’inconciliabilità tra uomo e natura era stata, del resto, formulata da Calvino, sempre attento in termini di precisione linguistica, tanto da inserire i precedenti racconti nella silloge intitolata Idilli difficili (1950), quasi a sottolineare che «il tema generale della raccolta è l’impossibilità dell’armonia naturale con le cose e con gli uomini»[17]. E, tuttavia, l’epiteto “difficile” non esclude la possibilità della sua eccezione, quasi a voler anticipare quella sfida al labirinto che, come lo stesso Calvino dirà più avanti, fa parte della vita e della capacità umana di cercare ciò che inferno non è.

Proseguendo nel percorso ecologico della narrativa calviniana, lo sguardo straniante di un “coltissimo Tarzan in versione illuminista” sarà la risposta del Barone rampante, appollaiato per protesta sugli alberi contro un mondo ingrato e impositivo. Nella fiaba per adulti che Calvino proietta nella parodia degli “Antenati” è possibile leggere in prospettiva ecocritica «i tentativi di collocare l’essere umano nel mondo definendone il grado di alterità o consustanzialità»[18] e facendo della natura lo sfondo su cui proiettare riflessioni etiche e politiche. L’immersione nella natura di Cosimo Piovasco di Rondò assume il valore di una direzione alternativa nella costruzione di un mondo nuovo, senza dittature e gerarchie; un mondo di inclusione ispirato dai principi di una razionalità illuminista in cui il rispetto per la natura è un diritto acquisito:

Cosimo […] aveva scritto e diffuso un Progetto di Costituzione per Città Repubblicana con Dichiarazione dei Diritti degli Uomini, delle Donne, dei Bambini, degli Animali Domestici e Selvatici, compresi Uccelli Pesci e Insetti, e delle Piante sia d’Alto Fusto sia Ortaggi ed Erbe. Era un bellissimo lavoro, che poteva servire d’orientamento a tutti i governanti; invece nessuno lo prese in considerazione e restò lettera morta[19].

L’ecologismo engagé di un Calvino attento ai problemi sociali come quelli della cementificazione edilizia trova, invece, spazio nel romanzo La Speculazione edilizia (1963), il cui titolo è già tutto un programma. Ambientato nella Liguria degli anni ’50, in piena era di ricostruzione, il romanzo racconta la storia di Quinto Anfossi, l’intellettuale comunista emulo della Resistenza che, attratto dalla febbre del guadagno, in piena era di boom economico, va incontro al pieno fallimento di sé stesso e del sogno economico. Combattendo contro le ritrosie materne, Quinto, allettato dal miraggio del guadagno, si lascia convincere da un impresario a trasformare il suo terreno in spazio edificabile per alloggi turistici, ma si perde nei mille anfratti della burocrazia e finisce col soccombere alla volontà dello scaltro costruttore. Anticipando il fenomeno della cosiddetta “rapallizzazione”[20], lo sguardo di un Calvino profetico e universale dalla Speculazione edilizia si allunga fino alle spiagge o ai siti protetti, sventrati e dilaniati dalla cementificazione selvaggia. Quella raccontata nel romanzo, del resto, per l’uomo è l’inizio di una perdita immedicabile non solo in termini estetici ma soprattutto etici, se è vero che, in un’intervista sul romanzo, Calvino diceva: «Nella Speculazione edilizia ho raccontato la storia di un fallimento (un intellettuale che si costringe a fare l’affarista, contro le sue più spontanee inclinazioni) l’ho raccontata (legandola molto a un’epoca ben precisa, all’Italia degli ultimi anni) per rendere il senso di un’epoca di bassa marea morale»[21].

E, nel clima di «bassa marea morale» tipico del boom economico, dell’inurbamento e dell’alienazione industriale si snoda la tragicomica storia del personaggio forse più ecologico di tutta la narrativa calviniana: Marcovaldo. «Ultimo eroe alla Charlie Chaplin, Marcovaldo ha la particolarità – secondo Calvino – di essere un uomo di Natura, un Buon selvaggio esiliato nella città industriale»[22]. Maldestro fino all’inverosimile, allampanato e povero in canna, Marcovaldo è l’antenato agreste di Fantozzi che cerca disperatamente tra le luci della “Sbav” o la “Luna e Gnac” il mondo edenico della Natura. In seguito al suo trasferimento dalla campagna in una non meglio identificata citta del Nord Italia, nel bel mezzo del boom economico, ignaro del paesaggio industriale, Marcovaldo «aveva un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, vetrine, insegne luminose […] mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto»[23]. Al contrario, si mostra attento ai simboli del mondo naturale: «una foglia che ingiallisse, una piuma che si impigliasse ad una tegola non gli sfuggivano mai»[24]. Marcovaldo è l’antitesi del manager, ma anche dell’operaio che vede nella fabbrica il futuro della sua esistenza; non capisce il consumismo, non mangia cibi in scatola e sogna il ritorno a uno stato aurorale di natura primigenia: «oh potessi dormire qui, in mezzo a questo verde, […] nel buio naturale della notte e non in quello artificiale di queste persiane, oh potessi aprire gli occhi vedendo foglie e cielo»[25].

Dalla sua ricerca forsennata e disperata della natura in città spesso derivano comportamenti controproducenti e persino dannosi per sé e per la sua famiglia: come si ricorderà, Marcovaldo più volte si trova coinvolto in situazioni solo apparentemente esilaranti, che suscitano attraverso il tocco straniante di Calvino amare riflessioni sul rapporto uomo-natura. Non sono peregrine le scene nelle quali Marcovaldo s’imbatte in vicende che si rivelano contrarie allo scopo di valorizzare gli elementi della natura a discapito dell’ambiente urbano, come quelle di raccogliere funghi per poi finire in ospedale; di pescare trote in un fiume blu cobalto, avvelenato dagli scarichi di vernice; di portare a casa un coniglio contaminato da un virus; di tagliare della legna arrampicato su un cartellone pubblicitario, scambiando gli alberi stampati per arbusti reali.

Il messaggio ecologico di Calvino è chiaro: il connubio tra città industrializzata e natura è impossibile e tentare di preservarne il senso estetico ed etico è una battaglia persa, in partenza. A tal proposito, Calvino afferma: «In mezzo alla città di cemento e asfalto, Marcovaldo va in cerca della Natura. Ma esiste ancora, la Natura? Quella che egli trova è una Natura dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale»[26].

Ulteriori riflessioni “ecoconsapevoli” sul futuro distopico dei paesaggi urbani nei quali, oggi, viviamo immersi sono quelli della cornice antirealistica e deliberatamente iperletteraria delle Città invisibili (1972). Visionaria, ironica e profetica, la lezione di Calvino appare critica non solo sul piano ecologico ma anche su quello etico. Apparenti e spettacolari, a partire dall’onomastica citatoria e necrofila di un passato austero, le città visitate da Marco Polo svelano il vuoto interno a partire dal nome, inteso come mera etichetta denotativa utile a distinguerle l’una dall’altra, ma non a caratterizzarle simbolicamente[27].

Spreco, consumismo, omologazione e rifiuti sono alcune delle tematiche in cui è possibile imbattersi nel corso del racconto di viaggio di Marco Polo. Pertanto, nel visitare Leonia, la città colma di sprechi e dalla produzione enorme di cumuli di spazzatura, nessuno si chiede dove portino «ogni giorno il loro carico gli spazzaturarai»[28]; mentre ad Anastasia[29], volto speculare di Leonia, gli abitanti si ritrovano bombardati da stimoli al consumo che danno l’illusione di godere, rendendo schiavi dei falsi bisogni. Gli effetti di una globalizzazione ante litteram, invece, sono riscontrabili nella città di Trude, la cui particolarità è quella di essere identica alle altre città. A mano a mano che Marco Polo avanza verso la modernità, aumenta la distopia perché nella città di Procopia, nome che indica ‘fortuna, successo, prosperità’, l’omologazione di uomini e donne senza volto o con volti tutti uguali è addirittura causa di sovraffollamento[30].

Nel paesaggio urbano e globalizzato delle metropoli in cui. noi, uomini e donne senza volto, viviamo immersi, non esiste traccia della natura. Dentro la realtà distopica di un paese immaginario qual è quello delle Città invisibili la distopia convive con l’utopia, e quest’ultima non è un sogno irrealizzabile. La natura potrà essere ritrovata e gli uomini potranno, forse, dare voce a quel segreto rimorso del genere umano verso gli animali. Se, infatti, l’invisibilità del titolo si riferisse all’opposto di quello che le città sembrano, «ciò che conta non sono le apparenze superficiali, bensì le qualità o le potenzialità nascoste: una città non è solo quello che si vede, ma anche ciò che essa si accinge a divenire»[31]. Un esempio potrebbe essere Marozia, divisa in due città: quella del topo e quella della rondine. A tal proposito, Calvino si esprime così: «entrambe cambiano nel tempo; ma non cambia il loro rapporto: la seconda è quella che sta per sprigionarsi dalla prima»[32].

Allo stesso modo, in un’immaginaria città dove ci sarà spazio per sconfiggere l’ipocrisia e fare pace con la natura e con gli animali, chiedendo loro scusa per i bombardamenti, le guerre e per tutto quello che magari non li riguarda[33] ma che subiscono per colpa dell’essere umano, forse, in un futuro non distopico, la cinquantaseiesima città che saremo stati capaci di costruire sarà quella che dalla fogna farà nascere un volo. Solo allora, forse, capiremo che tutto quello che dovremmo chiedere alla letteratura è ciò che Calvino aveva già immaginato: ritornare allo scambio, al dialogo, all’uomo, perché «Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili»[34].

  1. L’articolo, pubblicato su «La Nazione» nel 1966 è ora presente in I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, pp. 1537-38, corsivo dell’autore.
  2. I. Calvino, Lezioni Americane. Sei Proposte per il prossimo millennio, pp. 84-85; si legge all’URL: https://www.academia.edu/43937464/Italo_Calvino_LEZIONI_AMERICANE_Sei_proposte_per_il_prossimo_millennio (ultima consultazione: 22/09/2023).
  3. I. Calvino, Lo sguardo dell’archeologo, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, op. cit., p. 327.
  4. V. Noli, Il paesaggio dissipato di Italo Calvino, in Accademia.edu; cfr. l’URL: https://www.academia.edu/33700463/Il_paesaggio_dissipato_di_Italo_Calvino_Quaderni_Letterari_del_Novecento, p. 124 (ultima consultazione: 15/07/2024).
  5. N. Scaffai, Letteratura ed ecologia: questioni e prospettive; cfr. l’URL: https://www .italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/natura-societa-letteratura (ultima consultazione: 29/10/2023). Nello stesso articolo Scaffai precisa che il concetto di ecocritica è piuttosto ampio ed eterogeneo: esso infatti comprende «l’intera gamma dei modi in cui la letteratura (ma anche le altre arti) ha concepito i rapporti tra gli esseri umani e il loro ambiente fisico. […] è un progetto che, in linea di principio, riguarda tutta la storia letteraria».
  6. I. Calvino, La sfida al labirinto, in Id., Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 2011, p. 119.
  7. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 91.
  8. M. Lobascio, Tra il mare dell’oggettività e lo sguardo dell’archeologo. Ambivalenze dell’anti-antropocentrismo di Italo Calvino, in «Italica», Vol. 97, No. 2 (Summer 2020), pp. 237-63; published by American Association of Italian Teacher; cfr. l’URL: https://www.jstor.org/stable/48618575 (ultima consultazione: 14/08/2023).
  9. Per questo argomento cfr. J. Berti, Macchine migliori di noi. Calvino, Levi e Volponi tra memetica, ecologia e fantascienza (Tesi di dottorato), Trieste, Università degli Studi di Trieste, 2017; cfr. l’URL: https://arts.units.it/handle/11368/2908144 (ultima consultazione: 12/10/2023).
  10. I. Calvino, Il marxismo spiegato ai gatti, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, op. cit., pp. 2133-34.
  11. Com’è noto, la definizione si deve a Elio Vittorini, come si legge nel risvolto di copertina di I. Calvino, Entrata in guerra, Torino, Einaudi, 1954.
  12. I. Calvino, Un pomeriggio Adamo, in Id., Ultimo viene il corvo, Milano, Mondadori, 2023, pp. 50-59.
  13. Ivi, pp. 50 e 55.
  14. Ivi, p. 54.
  15. Ivi, p. 59.
  16. Ivi, p. 75.
  17. I. Calvino, G. Tesio, I libri degli altri: lettere 1947-1981, Torino, Einaudi, 1991, p. 262.
  18. J. Berti, Macchine migliori di noi, op. cit., p. 105.
  19. I. Calvino, IL barone rampante, Milano, Mondadori, 2010, e-book scaricabile all’URL: https://www.ibs.it/barone-rampante-ebook-italo-calvino/e/9788852016974, p. 687.
  20. Con questo termine, usato anche da alcuni giornalisti (ad es., Bocca nel 1963) si suole indicare «Lo stravolgimento edilizio a fini speculativi dell’assetto urbanistico dei piccoli centri urbani, in spregio a ogni criterio di pianificazione e alla tutela dei valori paesaggistici». Cfr. il sito Treccani.it.
  21. I. Calvino, Che cosa pensa, che cosa fa. Sei domande a Italo Calvino, citato in C. Milanini, Note e notizie sui testi. Altri ricordi, altre confessioni, in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. III, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, pp. 1340-41.
  22. I. Calvino, Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, a cura di D. Scarpa, Milano, Mondadori, 2002, p. 6 (e-book).
  23. Ivi, p. 7.
  24. Ibidem.
  25. I. Calvino, Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, op. cit., p. 47.
  26. Ivi, p. 3.
  27. Per questo argomento cfr. L. Terrusi, «I nomi non importano». L’onomastica delle Città invisibili di Italo Calvino, 2012; cfr. l’URL: https://www.edizioniets.com/scheda.asp?n=9788846735072 (ultima consultazione: 18/07/2023).
  28. I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 55 (e-book).
  29. Il significato del nome Anastasia, ‘risveglio, resurrezione’, potrebbe alludere al falso risveglio del desiderio.
  30. Per questo argomento vedi R. Caria, Ambiente e globalizzazione ne Le città invisibili di Italo Calvino; cfr. l’URL: https://eicomenergia.it/ambiente-globalizzazione-citta-invisibili-calvino/ (ultima consultazione: 09/07/2023).
  31. M. Barenghi, Leggere le città invisibili; cfr. l’URL: https://www.doppiozero.com/leggere-le-citta-invisibili (ultima consultazione: 19/10/2023).
  32. I. Calvino, Le città nascoste. 3, in Id., Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 75.
  33. La riflessione si collega al pensiero di Calvino sul mondo animale, succube delle azioni scellerate dell’uomo. In un articolo del 1946 intitolato Le capre ci guardano, poi ripubblicato con il titolo Le capre di Bikini, l’autore scrive: «Vi siete mai chiesti che cos’avranno pensato le capre, a Bikini? E i gatti nelle case bombardate? E i cani in zone di guerra? E i pesci allo scoppio dei siluri»? Cfr. G. C. Ferretti, Le capre di Bikini. Calvino giornalista e saggista (1945-1985), Roma, Editori Riuniti, 1989, pp. 2131-32.
  34. Calvino espresse questa riflessione in alcuni articoli e interviste tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973: I. Calvino, Le città invisibili felici e infelici, in «Vogue Italia», n. 253, dicembre 1972, pp. 150-51.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)