In una lunga lettera del 15 luglio 1974 a Giovanni Falaschi[1], che sta preparando per Einaudi un importante studio sulla letteratura della Resistenza[2] – Calvino, oltre a essere fra gli autori analizzati nel libro, è anche l’editor incaricato di seguirne l’iter redazionale –, tra le numerose correzioni, integrazioni e indicazioni di metodo, struttura e stile che Calvino dispensa al giovane studioso, troviamo anche una preziosa riflessione sul rapporto tra autobiografia e storia collettiva. Scrive Calvino che le opere dei memorialisti «appartengono a una storia privata che si aggancia alla storia pubblica, collettiva e la esemplifica, la spiega dal di dentro»[3], e l’esperienza di ciascuno «ha valore nel quadro della propria maturazione di persona umana, e diventa collettiva come esempio d’una tra le tante esperienze individuali di cui è fatto un avvenimento storico»[4].
A riprova di come spesso il lavoro di Calvino editore comunichi e si leghi a filo doppio a quello di Calvino narratore, nella raccolta delle Lettere si può osservare il carteggio editoriale con Falaschi intrecciarsi con quello legato alla raccolta di documentazione per la stesura d’un racconto in prima persona, col quale Calvino, per la prima volta, intendeva offrire la propria personale testimonianza della lotta per la Liberazione[5]. Il «Corriere» ne aveva pubblicato un primo abbozzo rimasto senza seguito, Ricordo di una battaglia, nell’aprile 1974: in realtà una battaglia col ricordo, in cui i conati di rievocazione finivano per arrendersi alla constatazione di un’impasse («tutto quello che ho scritto fin qui mi serve a capire che […] non ricordo più quasi niente»[6]), di fatto confermando quanto scritto dieci anni prima in chiusura della Prefazione al Sentiero dei nidi di ragno: letteratura e memoria non possono conciliarsi perché la prima «diventa subito un diaframma tra te e l’esperienza, taglia i fili che ti legano ai fatti, brucia il tesoro di memoria», e «l’esperienza, che è la memoria più la ferita che ti ha lasciato, […] appena ha dato forma a un’opera letteraria insecchisce, si distrugge»[7]. Quanto al primo e unico volume di contenuto esplicitamente memorialistico licenziato da Calvino, L’entrata in guerra (1954), l’autore l’avrebbe definito, nel 1968, «un’involuzione mia e del clima letterario italiano di quegli anni»[8]. Per comprendere la portata di questa affermazione, che sembra non limitarsi alla palinodia di un’opera irrisolta, ma investire un giudizio più ampio su un intero «clima letterario», vale la pena continuare a intrecciare l’officina narrativa di Calvino col parallelo lavoro editoriale, ricordandone l’impegno nell’ambito della collana einaudiana dei «Gettoni» diretta da Elio Vittorini, presso cui L’entrata in guerra era apparso nel 1954, seguendo di due anni Il visconte dimezzato.
Se nel risvolto di copertina redatto da Vittorini per il Visconte compariva la celebre definizione di Calvino come scrittore che si esprime su un doppio binario, «sia in un senso di realismo a carica fiabesca sia in un senso di fiaba a carica realistica», e il Visconte era «un libro in quest’ultimo senso», il «nuovo passo avanti» compiuto con L’entrata in guerra consisteva, per Vittorini, nell’aver «saputo risolvere interamente in realtà i bagliori e il fumo della sua memoria»[9]. Tale dicotomia individuata da Vittorini nella narrativa calviniana, pur nel suo forzoso schematismo, è in qualche modo idealmente sovrapponibile alle due linee progettuali, opposte e complementari, che guidavano la selezione dei «Gettoni». Nel dare spazio ad autori giovani, esordienti o in via di affermazione, attenti a cogliere dalla più urgente attualità gli stimoli che ponessero le basi per una nuova idea di letteratura, lontana dai risaputi moduli neorealisti quanto dalle concessioni al pubblico dei più commerciali «Coralli», Vittorini guardava infatti, da un lato, agli esiti sperimentali di «una prosa eccentrica, culta, letteratissima»[10]; dall’altro, a generi di schietta valenza cronachistico-documentaria quali «la testimonianza, il diario, l’autobiografia genuina»[11]. «Due sono in effetti i motivi per cui un manoscritto può diventare un “gettone”», scriverà per il Catalogo generale delle edizioni Einaudi del 1956: «o la sua innocenza, e cioè la sua validità documentaria; oppure la forza, anche artificiosa, o bizzarra, ma comunque creativa, che l’autore dimostri di possedere attraverso le sue pagine»[12]. L’11 giugno 1952, un verbale del Consiglio editoriale Einaudi sanciva l’attenzione della collana verso «opere di carattere diaristico, autobiografico e documentario in modo da arrivare a poco a poco a creare una specie di cronaca dell’epoca a più voci, psicologica e di costume»[13]; e di lì a poco, nel risvolto di Diario di un soldato semplice (1952) di Raul Lunardi, Vittorini dichiarava:
In Italia si ha bisogno di autobiografia. Né il saggio storico né la letteratura creativa possono adempiere al compito di registrare i mutamenti cellulari della storia in seno alla vita privata. Resta l’autobiografia esplicita a poterlo svolgere, con le sue capacità descrittive e le sue intenzioni saggistiche. E […] noi accogliamo l’autobiografia tra la narrativa per incoraggiare i giovani a coltivarla nella sua genuinità, senza travestimenti[14].
Che su queste basi la collana contribuisse non poco a rilanciare il genere della memorialistica di guerra, ospitando le testimonianze di numerosi scrittori-reduci – da Lunardi a Mario Tobino, Renzo Biasion, Mario Rigoni Stern, Giampiero Carocci – era del resto inevitabile, stante la premessa che Vittorini faceva presentando il primissimo «Gettone», I compagni sconosciuti (1951) di Franco Lucentini: «I giovani che scrivono oggi hanno la guerra dietro le spalle, e il mondo comincia, per essi, dalla lacerazione che è stata la guerra»[15]. Se dunque Il visconte dimezzato, che trasfigurava appunto la «lacerazione che è stata la guerra» nella lacerazione fantastica del reduce, viene accolto nella linea «creativa», i ricordi d’adolescenza avanguardista dell’Entrata in guerra sono perfetti per infoltire il filone «documentario». Per quest’ultima, tra le carte di Calvino si rinviene la stesura di una scheda editoriale – divenuta, nelle più recenti riedizioni, l’introduzione al volumetto – che esordisce in perfetta sintonia con le indicazioni di Vittorini:
Questo libro tratta insieme d’un trapasso d’adolescenza in gioventù e d’un trapasso di pace in guerra: come già per moltissimi, per il protagonista del libro “entrata nella vita” e “entrata in guerra” coincidono. Qui la guerra è una cosa di cui ancora poco si sa […] e il protagonista è un ragazzo sotto vari riguardi privilegiato, sottratto al dramma dei problemi urgenti, e che – forse proprio per questo – poco sa ancora di se stesso. Ma i fatti narrati già contengono prefigurata e implicita in sé molta parte del futuro; e già in essi opera, col suo ritmo discontinuo, l’eterna interferenza tra le spinte della storia collettiva e il maturarsi delle singole coscienze,
salvo poi chiudere con un’apologetica presa di distanza dal genere della «letteratura della memoria»:
Il libro può essere considerato anche […] un’incursione che l’autore ha compiuto nel territorio, a lui fondamentalmente straniero, della “letteratura della memoria”, per misurarsi – da avversario che non teme gli scontri corpo a corpo – col lirismo autobiografico, e cercare anche laggiù le vie di quella narrativa di moralità e d’avventura che gli sta a cuore. Come chiunque compie incursioni, egli s’augura di tornare carico di bottino, non d’arricchire delle sue spoglie l’avversario[16].
Quando molti anni dopo parlerà di «involuzione mia e del clima letterario italiano di quegli anni», è forse implicito un giudizio limitante anche rispetto a linee editoriali come quella dei «Gettoni», con cui Calvino, che della collana era uno dei più attivi consulenti nonché il principale interlocutore e referente presso la redazione torinese, si trovò spesso in aperto e combattivo dissenso.
Ha ben ricostruito la questione Luisa Mangoni[17], rivelando un Calvino attivo promotore di una linea dichiaratamente alternativa a quella memorialistico-testimoniale, volta a maneggiare la documentazione degli anni bellici e resistenziali con gli strumenti della ricerca storica: «Il nostro interesse»[18], scriveva in una lettera del dicembre 1953, «gravita in questo periodo più sulla ricerca e documentazione storica che sulle testimonianze di carattere – non diciamo letterario, che qui la parola avrebbe un senso limitativo – morale e sentimentale»[19]. Si devono a Calvino, su questa linea, l’iniziativa e la cura redazionale di volumi quali Storia della Resistenza italiana (1953) di Roberto Battaglia e il dittico a cura di Malvezzi e Pirelli Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (1952) e Lettere di condannati a morte della Resistenza europea (1954), nonché il progetto, avviato nell’ottobre 1952 e mai condotto a termine, di un’ampia antologia di «racconti partigiani […] usciti dal ’45 a oggi, sui vari giornali del partito e dell’ANPI», volta a offrire «un quadro documentario, immediato di tutti gli aspetti della Resistenza», escludendo però «i racconti “di scrittori” o comunque scritti con intenzioni o compiacimenti letterari»[20].
Era, insomma, «la storia contro la memoria, se la memoria assumeva le tonalità prescelte da Vittorini nei Gettoni»[21] e rivendicate nei programmatici “risvolti”: come quello, esemplare, del Sergente nella neve di Rigoni Stern, «l’unica testimonianza del genere da cui si riceva un’impressione più di carattere estetico che sentimentale o polemico, o insomma pratico»[22], dal momento che l’autore «non testimonia per rendersi utile a una causa o a un’altra, ma per il semplice gusto che prova […] a testimoniare»[23]. Non va omesso qui di ricordare che gran parte delle caratteristiche che Vittorini loda in libri come il Sergente – estraneità dell’autore alla cerchia e ai modi tipici dell’intellettuale di professione, e conseguente «innocenza» della testimonianza in quanto non indirizzata a fini pratici, ideologici o strumentali, ma alla sola «impressione estetica» – sono spesso il risultato di un accurato editing compiuto da Vittorini stesso sui manoscritti originari[24]. Se si aggiunge che fino almeno al 1956 Calvino è ancora un intellettuale organico al Pci, mentre Vittorini ha ormai maturato il suo distacco dal Partito e dalla politica dopo lo scontro con Togliatti, si può ben capire come la battaglia editoriale si giocasse in gran parte sulla «discriminante ideologica e politica», e sulla conseguente «valutazione diversa e talora opposta […] della letteratura impegnata»[25]. Ecco allora, nel grande manifesto dell’engagement calviniano di quegli anni, Il midollo del leone (1955), la dura stoccata a Vittorini e ai suoi «Gettoni», emblema di una preoccupante deriva della narrativa contemporanea che avrebbe sacrificato la propria dimensione intellettuale sull’altare della nuda cronaca:
In questo clima, Vittorini bandisce dai suoi «risvolti» la crociata per il trionfo del vitalismo vergine e irriflesso, della spontaneità non contaminata da schermi culturali, della testimonianza ancor calda di vita: poetica che ha una sua storia ben definita nella letteratura dell’ultimo mezzo secolo, e che pare proprio fatta apposta per esprimere l’annichilimento del poeta, dell’uomo, di fronte al sovrastare delle cose. Ma questa resa alla vitalità e all’incultura non è solo un postulato critico di Vittorini: è qualcosa che è nell’aria, un attuale male del secolo che dilaga nelle carte dei giovani[26].
Tale posizione è il risultato di un dibattito lungamente condotto con Vittorini e con gli autori dei «Gettoni», che emerge dai carteggi legati all’allestimento della collana fin dai primi anni: da quando, nel maggio 1951, Calvino confessava la propria diffidenza per le forme del diario, in cui «la cosa più difficile è sceverare in mezzo ai milioni di fatti e notizie della propria vita quei pochi che siano necessari e legati in modo da “far racconto”», e del cattivo Bildungsroman dove il protagonista «se ne sta lì come con un imbuto in testa, aspettando che gli altri e la vita gli versino dentro esperienza e saggezza» – «un uomo è modificato», spiegava, se «insieme modifica l’ambiente, impara e insegna al momento stesso, se no non è uomo»[27] –; fino a quando, nel gennaio 1955, esprimeva a Vittorini il suo «giudizio assolutamente negativo sulla letteratura di questi giovani: questo assoluto cronachismo, questo partito preso di non esprimere idee […], questo abbandono a un ritmo vitale, animale, questo modo di vivere sociologicamente la società»[28].
Non è un caso che i chiari termini con cui la «poetica di collana» dei «Gettoni» viene dichiarata nel Catalogo Einaudi scaturiscano proprio da una polemica con Calvino: quella attorno al libro I coetanei di Elsa de’ Giorgi. Era stato Calvino a proporre per la collana, nel novembre 1954, l’opera prima dell’attrice marchigiana alla quale, per i successivi quattro anni, l’avrebbe legato una tormentata relazione sentimentale[29]: un memoriale ispirato, come gli spiega l’autrice, «alla osservazione e alla meditazione di dieci anni di vita italiani visti dall’insolito osservatorio di una donna attrice […] la quale si è posta il problema morale e sociale degli intellettuali della sua generazione»[30], e che racchiude «il pensiero, il turbamento, di quasi tutti gli artisti nostri coetanei i quali – nati col Fascismo – hanno lottato per espellerlo, raccogliendo poi la delusione della constatazione di una società deformata, costituzionalmente avversa a porsi e a risolvere problemi spirituali»[31]. Il memoir, dalla specola dello star system romano e dell’esclusivo salotto fiorentino dell’autrice e del marito, il collezionista d’arte Sandrino Contini Bonacossi, offre un ritratto amaro del decennio 1940-50 vissuto da protagonisti d’eccezione: dalla Diva Anna Magnani allo stesso Sandrino, di cui si ripercorrono le avventure di comandante partigiano sulle colline toscane; dall’amico Carlo Levi, cui il libro è affettuosamente dedicato, a Cesare Pavese, sul cui suicidio si conclude il racconto. Dei Coetanei, che mutua forse il titolo da una suggestione di Vittorini[32], Calvino sembra apprezzare soprattutto la dimensione di privilegiato distacco che consente all’autrice, dal suo punto d’osservazione speciale – un po’ quel «pathos della distanza» caro alla critica calviniana – di «affronta[re] la materia della propria disillusione attraverso la lente dell’ironia, che è forse la sublimazione di un distacco elaborato dolorosamente»: così secondo Roberto Deidier, che osserva che molte pagine narrative di Calvino stesso «nascono dalla medesima semenza»[33].
La bocciatura di Vittorini è, comunque, esemplare. I coetanei, scrive a Calvino, è un libro «non bello», che soffre un linguaggio «convenzionale» e un fastidioso «intellettualismo da salotto» che, lungi dall’essere «effettivamente giustificato, e cioè elevato, sottile o razionalmente persuasivo», risulta invece «una sterile inclinazione di tipo mondano, riflesso dell’abitudine che si ha nei salotti a tradurre in concetti più o meno brillanti o paradossali anche i ricordi personali, col risultato di uccidere ogni innocenza di fantasia o di cronaca»: così, il libro «resta sommerso dalla presunzione di sentenziare e di spiegare, di giudicare, di teorizzare fino a sembrare imbalsamato». E sulla collana chiarisce:
Ora i «Gettoni» sono combinati in modo da accettare: 1) o libri che si impongono per la loro forza o poetica o intellettuale; 2) o libri che riescono, mancando di forza, ad essere almeno «innocenti» e cioè ad avere un’inerme validità documentaria. […] Questo libro da dilettante non innocente è fuori da entrambe le strade che percorriamo[34].
Calvino resta tuttavia convinto del valore del libro, che per lui va letto «come si leggono le memorie o gli epistolari delle dame del Settecento», in cui la mondanità, il salotto, è un dato di partenza che non si può non accettare, ed è attraverso esso che ci vien presentata la cronaca della cultura e della politica e delle «passioni del secolo»[35]. A giugno, la decisione viene rimessa al Consiglio editoriale, che esprime un giudizio tiepido[36] ma favorevole alla pubblicazione.
Il libro esce, nel luglio 1955, con copertina di Carlo Levi e prefazione di Gaetano Salvemini, in una vecchia collana riesumata per l’occasione: quella delle «Testimonianze», che tra il 1945 e il 1946 avevano ospitato opere di carattere memorialistico sul fascismo, sulla guerra e sulla lotta partigiana. Calvino scrive la scheda per il «Notiziario Einaudi», in termini assai consonanti con quelli usati per L’entrata in guerra: se quest’ultima coincideva con l’«entrata nella vita» di «un ragazzo sotto vari riguardi privilegiato, sottratto al dramma dei problemi urgenti, e che – forse proprio per questo – poco sa ancora di se stesso», I coetanei, che prende l’avvio dallo stesso fatidico giugno 1940, «è la storia di come una donna, a cui un’esistenza tanto privilegiata pareva consentire ogni distrazione dalla realtà, prende coscienza del tragico mondo che la circonda e impara a vedere e a capire»[37]. L’accoglienza del libro premia la fiducia di Calvino: vincerà, nel 1960, uno speciale Premio Viareggio dedicato alla memoria dell’otto settembre.
Meno fortunato, ma altrettanto paradigmatico, è il caso editoriale dei Lunghi fucili. Il manoscritto delle memorie della guerra in Russia di Cristoforo Moscioni Negri viene trasmesso a Einaudi da Rigoni Stern, e non a caso, perché l’autore è quel «tenente Moscioni» già memorabilmente ritratto fra i comprimari del Sergente nella neve. Il 29 settembre 1955 Calvino scrive all’autore, elogiando la presenza di «quelle doti di asciuttezza memorialistica che hanno fatto la fortuna di Rigoni», ma con in più «un chiaro senso polemico verso le cose che vede», e consigliando – evidentemente già in funzione di un’accoglienza nei «Gettoni» – di «intervenire il meno possibile con commenti e riflessioni […] e lasciar parlare il più possibile i fatti»[38]; e a Rigoni, col quale condivide invece una lucida previsione: «non avrà il successo del tuo libro, perché la figura dell’ufficiale che racconta è meno nuova di quella del sergentmagiù»[39].
La struttura del racconto ricalca in effetti dei moduli canonici della memorialistica di guerra, quelli legati alla presa di coscienza morale e politica del giovane intellettuale attraverso il contatto vivo con la classe popolare rappresentata dai soldati; ma la novità del libro di Moscioni – che anticipa per molti versi lo schema narrativo di quello che sarà uno dei memoriali più noti e celebrati del catalogo einaudiano, La guerra dei poveri (1962) di Nuto Revelli – sta nell’interpretazione del massacro sul fronte orientale, narrato impietosamente e senza sconti per i responsabili istituzionali e militari, ma anche per le proprie rimordenti responsabilità, come movente di un percorso esistenziale che conduce direttamente all’adesione alla causa partigiana[40]. Il libro, nelle intenzioni dell’autore, dovrà essere la prima parte di un dittico, da completarsi con un volume di memorie della lotta partigiana, combattuta da Moscioni con le Brigate Garibaldi sul versante adriatico della Linea Gotica; sempre ammesso che l’editore, preoccupato da «un argomento che certamente non piacerà alle superiori gerarchie», non voglia «trovare motivi di impedimento per ragioni politiche»[41]. Calvino lo rassicura: «Non abbia paura per le polemiche. Mi pare tutto così giusto», salvo dargli indicazioni per attenuare, «per motivi oltretutto “di stile”», un paio di passaggi particolarmente duri[42].
Entusiasta del suo spessore etico e umano – «C’è dentro un uomo», commenterà, scrivendo sia all’autore sia a Vittorini[43] –, Calvino vuole il libro nei «Gettoni», anche se «ha una carica polemica più esplicita, che il sergente non aveva», aveva anticipato a Vittorini, «e ogni tanto bisognerà un po’ tagliarlo»[44]. Vittorini, partito prevenuto («spero che non faccia dell’intellettualismo, perché non potrebbe, un tipo così, non farlo del genere che sfonda le porte aperte»[45]), conferma poi il suo rifiuto: «Manca proprio di quel tanto di inaspettato che ha giustificato Rigoni Stern»[46]; e alle pressioni di Calvino, che vuole un «Gettone» a tutti i costi visto che «Giulio [Einaudi] vuole riestinguere le “Testimonianze”»[47], rimane inflessibile: il libro «risulterebbe proprio un doppione», e per giunta non ha nulla della felice riuscita estetica e poetica del Sergente[48]. A questo punto Calvino mette in campo l’opportunità di sfruttare il successo del Sergente come traino promozionale («Ci potremmo mettere una fascetta: “Il tenente del sergente”»[49]), e la palla passa al Consiglio editoriale: a fine febbraio 1956, Calvino potrà annunciare a Vittorini che «l’idea (proposta da Bollati) di pubblicare I lunghi fucili nei “Saggi” e tentare un successo d’altro tipo […] ha preso piede e creato le sue “ragioni”»[50], e a Moscioni che «I lunghi fucili usciranno nei “Saggi” a fine giugno» con un «lancio strepitoso»[51]. Ma Moscioni è scontento, tanto della collocazione nei «Saggi», che «dà l’impressione di una relazione tecnica ma non di un libro di lettura», facendo assumere al volumetto «un aspetto intellettuale che non credo sia nello spirito del racconto e non credo possa piacere a quel genere di lettori cui avevo pensato di rivolgermi»[52], quanto della scelta di basare l’intera promozione del libro su una presunta, diretta derivazione – uno spin-off ante litteram – da una costola del Sergente nella neve. A tale scopo, Calvino chiede e ottiene che la scheda per il «Notiziario Einaudi» venga redatta da Rigoni Stern, col titolo Il tenente del «sergente nella neve» ha scritto il suo libro e la promessa di ritrovarvi «gli stessi uomini che i lettori del Sergente nella neve già conoscono: Pintossi, Moreschi, Antonelli, il Capitano, Cenci e tutti gli altri»[53], e scrive di proprio pugno il risvolto di copertina, che mette in evidenza il legame col Sergente («Incoraggiato dall’esempio di Rigoni Stern, […] l’ex tenente di quell’ex sergente […] ha scritto anch’egli le memorie del caposaldo»), ma anche lo scarto con quest’ultimo, nel tema dominante della «disillusione giovanile che diventa serena, ferma polemica morale e lezione umana»[54].
Le vendite sono però modeste e l’accoglienza tiepida, tanto che in un’ultima, scomposta lettera a Calvino, nel dicembre 1957, un irato Moscioni lamenta l’incomprensione del proprio libro e la sconsiderata propensione per scelte editoriali che lo avrebbero «massacrato»[55]. Quanto al libro di memorie partigiane, Moscioni lo consegnerà solo nel 1974, per vederselo rispedire al mittente da Guido Davico Bonino: il «messaggio di disillusione» che vi traspare, per cui dopo la Liberazione «la vita civile ricomincia con i soliti compromessi e la povera gente è la sola che ha pagato e paga sempre per tutti […] non arricchisce di una prospettiva nuova la rilettura della Resistenza», tanto più che «forse è oggi impossibile scrivere un racconto partigiano con “idee” nuove»[56].
Calvino ne sa qualcosa, visto che anche il suo tentativo memorialistico coevo resta sostanzialmente fallito. Gli appunti manoscritti per Ricordo di una battaglia[57], uniti a quelli consegnati alle coeve lettere a Falaschi – recentemente raccolte e annotate in un prezioso volumetto[58] – rappresentano, letti assieme, il contributo più interessante e completo del Calvino maturo all’annoso problema della raccontabilità dell’esperienza bellica. Con una preziosa postilla. Nel 1978, Calvino torna a ricordare I lunghi fucili, un «bel libro ingiustamente trascurato», firmando una breve ma densa prefazione a un’edizione Rizzoli dell’Anabasi di Senofonte. La mente corre ancora ai risvolti di Vittorini – la «piccola anabasi dialettale» felicemente riconosciuta in Rigoni Stern[59] – e, di lì, alle memorie dei combattenti della Seconda guerra mondiale, che «nascono dal contrasto d’una Italia umile e sensata con le follie e il massacro della guerra totale»: «per loro come per Senofonte», spiega, «le virtù guerriere, nel crollo generale delle più pompose ambizioni, ritornano virtù pratiche e solidali su cui si misura la capacità di ciascuno d’esser utile non solo a sé ma anche agli altri». Che Calvino, raccontando l’epopea dei mercenari greci in Asia Minore, abbia in mente immagini ben più vicine e mai realmente sbiadite nella memoria personale e collettiva è lampante nella chiusa:
L’esercito degli Elleni che serpeggia tra le gole delle montagne e i guadi, tra continue imboscate e saccheggi, non distinguendo più fin dove è vittima e fin dove è oppressore, circondato anche nella freddezza dei massacri dalla suprema ostilità dell’indifferenza e del caso, ispira un’angoscia simbolica che forse possiamo intendere soltanto noi[60].
- Per la gentile concessione della consultazione di alcuni carteggi inediti conservati nell’Archivio storico della Casa editrice Einaudi presso l’Archivio di Stato di Torino, l’autore ringrazia il Presidente della Casa editrice, Walter Barberis, e la responsabile dell’Archivio, Luisa Gentile. Nelle note si userà l’abbreviatura AE.CA (Archivio Einaudi, sezione Corrispondenza con autori e collaboratori italiani) seguita dal numero del fascicolo e della carta da cui si cita. ↑
- Cfr. G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976. ↑
- I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2023, p. 813. ↑
- Ibidem. ↑
- Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, op. cit., pp. 807-808, 810, 830-31. ↑
- Cfr. I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. diretta da C. Milanini a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, vol. 3, Milano, Mondadori, 1994, pp. 50-58. ↑
- I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 1, Milano, Mondadori, 1991, pp. 1202-203. ↑
- I. Calvino, Lettere, op. cit., p. 653. ↑
- Cfr. La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, a cura di V. Camerano, R. Crovi e G. Grasso, Torino, Aragno, 2007, vol. 1, pp. 279-81. ↑
- G. C. Ferretti, L’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992, p. 251. ↑
- Ibidem. ↑
- E. Vittorini, Lettere 1952-1955, a cura di E. Esposito e C. Minoia, Torino, Einaudi, 2006, p. 375. ↑
- I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952, a cura di T. Munari, Torino, Einaudi, 2011, pp. 410-11. ↑
- La storia dei Gettoni, op. cit., vol. 1, p. 420. ↑
- Ivi, p. 14. ↑
- I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 1, pp. 1316-17. ↑
- Cfr. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 648-701. ↑
- Ivi, p. 688. ↑
- Ibidem. ↑
- I. Calvino, Lettere, op. cit., pp. 226-27. ↑
- L. Mangoni, Pensare i libri, op. cit., p. 688. ↑
- La storia dei Gettoni, op. cit., vol. 2, pp. 567-68. ↑
- Ibidem. ↑
- Cfr. G. C. Ferretti, L’editore Vittorini, op. cit., pp. 256-59. ↑
- Ivi, pp. 224-25. ↑
- I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. 1, p. 16. ↑
- La storia dei Gettoni, op. cit., vol. 2, p. 497. ↑
- L. Mangoni, Pensare i libri, op. cit., p. 673. ↑
- Cfr. E. de’ Giorgi, Ho visto partire il tuo treno [1992], Milano, Feltrinelli, 2017. Su I coetanei cfr. gli apparati di R. Deidier e T. Tovaglieri a E. de’ Giorgi, I coetanei, Milano, Feltrinelli, 2019; e M. Simeone, Elsa de’ Giorgi: la Resistenza come pensiero e come azione, in Raccontare la Resistenza. Studi interdisciplinari, a cura di A. Frabetti e L. Toppan, Firenze, Cesati, 2023, pp. 149-64. ↑
- Lettera inedita, cit. in L. Mangoni, Pensare i libri, op. cit., p. 662. ↑
- Ibidem. ↑
- Sulla «Fiera letteraria», agosto 1952: «Ogni generazione letteraria ha bisogno di una critica che esca dalla sua stessa covata, e che le sia contemporanea, che le sia congeniale. Solo l’incitamento e il dileggio continuo dei nostri coetanei può farci aprire gli occhi sulle nostre reali possibilità e sui nostri difetti, sui nostri limiti» (E. Vittorini, Diario in pubblico, a cura di F. Vittucci, Milano, Bompiani, 2016, p. 375). ↑
- R. Deidier, Prefazione a E. de’ Giorgi, I coetanei, op. cit., pp. 8-9. ↑
- E. Vittorini, Lettere 1952-1955, op. cit., pp. 268-69. ↑
- I. Calvino, Lettere, op. cit., p. 277. ↑
- «Senza essere un libro di grande valore, né letterario né memorialistico, I coetanei ha vivaci episodi che si leggono con interesse ed ha il merito di voler rivendicare […] le speranze deluse della Resistenza» (I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, a cura di T. Munari, Torino, Einaudi, 2013, p. 216). ↑
- I. Calvino, Il libro dei risvolti. Note introduttive, quarte di copertina e altre scritture editoriali, a cura di L. Baranelli e C. Ferrero, Milano, Mondadori, 2023, p. 124. ↑
- AE.CA 2168, c. 1. ↑
- La storia dei Gettoni, op. cit., vol. 2, p. 579. ↑
- Per una rilettura recente dei Lunghi fucili nel quadro della letteratura sulla Seconda guerra mondiale cfr. G. Bartolini, La letteratura della Guerra dell’Asse. Memoria italiana, autoassoluzione, responsabilità (1945-1974), Roma, Carocci, 2023, pp. 208-11. Sul libro cfr. anche gli apparati di U. Berti Arnoaldi a C. Moscioni Negri, I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia, Bologna, Il Mulino, 2005. ↑
- AE.CA 2168, c. 2. ↑
- Cfr. AE.CA 2168, c. 10. ↑
- Cfr. AE.CA 2168, c. 10 e AE.CA 3099, c. 917. ↑
- Ivi, c. 881. ↑
- Ivi, cc. 883-84. ↑
- E. Vittorini, Lettere 1952-1955, op. cit., p. 330. ↑
- AE.CA 3099, c. 927. ↑
- Cfr. E. Vittorini, Dai «Gettoni» al «Menabò». Lettere 1956-1965, a cura di E. Esposito e C. Minoia, Milano, Scalpendi, 2021, pp. 24-25. ↑
- AE.CA 3099, c. 939. ↑
- I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, Milano, Mondadori, 2022, p. 166. ↑
- AE.CA 2168, c. 33. ↑
- Ivi, c. 35. ↑
- Ora in C. Moscioni Negri, I lunghi fucili, op. cit., pp. 131-34. ↑
- I. Calvino, Il libro dei risvolti, op. cit., pp. 132-33. ↑
- Cfr. AE.CA 2168, cc. 63-65. ↑
- Ivi, c. 160. Il libro uscirà nel 1980, col titolo Linea Gotica, da un piccolo editore cuneese, L’Arciere (cfr. oggi C. Moscioni Negri, Linea Gotica, Bologna, Il Mulino, 2006). ↑
- Cfr. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 3, pp. 1205-209. ↑
- Cfr. G. Falaschi, Una lunga fedeltà a Italo Calvino. Con lettere edite e inedite, Perugia, Aguaplano, 2019. ↑
- Cfr. La storia dei Gettoni, op. cit., vol. 2, p. 568. ↑
- I. Calvino, Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 936-41. ↑
(fasc. 53, 25 agosto 2024)