Calvino e la pena «per la propria incompletezza». Attualità del “Visconte dimezzato”

Author di Paola Culicelli

Negli anni ’50 Calvino è alla ricerca del romanzo sulla contemporaneità. Nel 1947 ha esordito come romanziere con un’opera neorealista, Il sentiero dei nidi di ragno, che però già nel titolo sembra richiamare un immaginario fantastico e che, raccontando la Resistenza come «una favola di bosco», gli vale la definizione di «scoiattolo della penna»[1] da parte di Pavese.

In quegli stessi anni Giuseppe Berto, precisamente nel dicembre 1946, dà alle stampe Il cielo è rosso con l’editore Longanesi. Entrambi raccontano l’esperienza del conflitto non attraverso gli occhi dell’adulto ma dalla prospettiva dell’adolescente. Si tratta di romanzi sulla guerra picareschi, in cui i ragazzi che si muovono tra le macerie, isolati, orfani, ricordano i bimbi sperduti nell’isola che non c’è raccontati da Barrie nelle Avventure di Peter Pan[2]. Qual è la guerra dei bambini? È quella che nessuno, in genere, racconta. E il Novecento è stato il secolo in cui in maniera più urgente gli scrittori si sono posti questo interrogativo.

Risulta fondamentale lo scenario delle città distrutte, ridotte in macerie, che appaiono emblematiche. La letteratura si origina dalle macerie, il bisogno di scrivere nasce da lì, dalla distruzione, con l’intento di salvare, simile al graffito nella caverna della preistoria. In merito alle macerie, si rivela particolarmente significativo un racconto di Calvino, inserito nella raccolta Un dio sul pero, dal titolo E il settimo si riposò, in cui ritroviamo l’immagine delle rovine e delle case da riedificare[3]. Risulta icastica all’interno della narrazione la ricostruzione di un tetto sormontato dalla bandiera italiana, dove la casa che viene riedificata sembra rappresentare l’Italia che si ricostruisce all’indomani della guerra, quando lo scorrere del tempo non si misura più «a domeniche, ma a case»[4]: «Ora Pin vede già il tetto finito con la bandiera sopra, e loro muratori seduti sulle tegole, vestiti a festa, e altri tetti con altri muratori vestiti a festa, da tutte le parti della città, una festa di tetti fiammeggianti di bandiere»[5]. È significativo che il protagonista sia un ex partigiano divenuto muratore: finita la guerra, è giunto il tempo di riedificare. Le macerie, così come la ricostruzione, riguardano le case, le cose, ma anche le persone.

Nel Visconte dimezzato le macerie riguardano l’individuo, l’uomo nella sua interezza e complessità. In esso Calvino, fuor di metafora, parla dell’impatto che la guerra può avere su una persona, del suo essere stato un partigiano, della guerra civile che ha insanguinato l’Italia, della guerra fredda che poi ha dilaniato l’Europa, tagliandola in due di netto con un muro. Sugli anni del secondo dopoguerra in Europa sotto il segno di un «dilaniamento sordo», citiamo lo stesso Calvino:

Certo risentivo, pur senza rendermene ben conto, dell’atmosfera di quegli anni. Eravamo nel cuore della guerra fredda, nell’aria era una tensione, un dilaniamento sordo, che non si manifestavano in immagini visibili ma dominavano i nostri animi. Ed ecco che scrivendo una storia completamente fantastica, mi trovavo senz’accorgermene a esprimere non solo la sofferenza di quel particolare momento ma anche la spinta a uscirne; cioè non accettavo passivamente la realtà negativa ma riuscivo a riimmettervi il movimento, la spacconeria, la crudezza, l’economia di stile, l’ottimismo spietato che erano stati della letteratura della Resistenza[6].

Dunque, la guerra che effetto ha sull’individuo? Come quel colpo di cannone che dopo poche pagine deflagra nel Visconte dimezzato, letteralmente lo divide in due[7]. È come se Calvino ci volesse dire in forma fiabesca quello che succede con la guerra. La scissione non è all’esterno, manichea, ma è dentro ognuno di noi. A proposito di come si originano le sue opere e prende avvio la sua scrittura, Calvino osserva:

All’origine di ogni storia che ho scritto c’è un’immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. A poco a poco mi viene da sviluppare questa immagine in una storia con un principio e una fine, e nello stesso tempo – ma i due processi sono spesso paralleli e indipendenti – mi convinco che essa racchiude qualche significato. Quando comincio a scrivere però, tutto ciò è nella mia mente ancora in uno stato lacunoso, appena accennato. È solo scrivendo che ogni cosa finisce per andare al suo posto[8].

Riguardo a questa immagine che in qualche modo potrebbe averlo ossessionato nella scrittura del Visconte dimezzato, citiamo questo passo che è tratto da un’intervista a Calvino con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983:

Avevo questa immagine dell’uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato, fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non un’altra[9].

Il tema dell’uomo «tagliato in due» risulta significativo perché assurge a simbolo dell’uomo contemporaneo. L’immagine, oltre a svolgere una funzione narrativa – rappresenta la rottura dell’equilibrio da cui prende avvio la storia –, affonda le radici nella sentenza di Salomone, nel calderone delle fiabe italiane raccolte da Calvino e nella letteratura romantica. Nel Primo libro dei re, si narra della sentenza proverbiale di Salomone che come stratagemma, per capire tra due madri che si contendevano lo stesso bambino a quale realmente appartenesse, stabilì di tagliare in due il neonato con una spada. All’interno di Fiabe italiane, invece, annoveriamo Il dimezzato, una sorta di variante al maschile di Raperonzolo che, conteso tra la vera madre e una strega, viene tagliato in due e, mentre una metà vivrà con la donna, l’altra apparterrà alla megera. Infine, un altro antecedente è rappresentato dai contrasti messi in scena da Stevenson nei suoi romanzi, Dr Jeckyll and Mr Hyde e Master of Ballantrae, citati da Calvino nella Nota 1960, che vedono l’individuo contrapporsi a sé stesso o al proprio fratello.

Ritorniamo alle nostre premesse, a quello che avevamo affermato all’inizio. Calvino è alla ricerca della sua storia, della sua voce di scrittore e del romanzo sulla contemporaneità, sui conflitti della contemporaneità all’indomani della Seconda guerra mondiale. Ecco che, sedimentando in lui queste suggestioni, trova la chiave del fiabesco, una lente per staccarsi dalla brutalità della guerra quasi fosse uno schermo protettivo, un antidoto per non caderne vittima nel maneggiarne i veleni.

Quel colpo di cannone che dilania Medardo all’inizio del romanzo sembra fare eco e rispondere ad altre bombe, ad altri colpi di pistola che risuonano in altre narrazioni dell’autore. Sono le esplosioni, le fucilazioni, le deflagrazioni cui Calvino ha assistito durante la guerra, che lo hanno suggestionato e che si sono depositate sulla pagina. L’immagine della pistola è presente nel Sentiero dei nidi di ragno ma anche altrove, sotto forma di fucile, di cannone, di mina, o di arma tout court, senza specifiche connotazioni. Alla radice di tutto ci sono le scene di guerra cui ha assistito, un evento rimosso la cui memoria è depennata nei racconti, ma che come un sasso, una volta inghiottito da un’acqua profonda, lascia traccia di sé nelle vibrazioni della superficie[10].

L’evento autobiografico cui facciamo riferimento consiste nella prima volta in cui Calvino, alias Santiago, assistette all’uccisione di alcuni fascisti, rimanendone traumatizzato. Una scena di fronte alla quale perse i sensi. Fu quello il momento in cui, pur trovandosi dalla parte giusta della storia, mettendosi nei panni dell’altro, sentì di essere, anche solo per un attimo, dalla parte sbagliata, a perdere la bussola tra nord e sud, giusto e sbagliato, un po’ come fa Natale, il protagonista demente del racconto Come un volo d’anitre: «perché lui fosse di qui, nel giusto, loro di là, nello sbagliato: questo Natale non lo capiva: era il volo d’anitre; questo era, nient’altro»[11]. Un frullare d’ali nella testa, simile a un susseguirsi di spari.

Questo trauma nella sua esperienza resistenziale affiora in alcuni racconti per poi essere rimosso e trasfigurato[12]. Le sequenze in cui compare sono puntualmente depennate e gli stessi racconti vengono espunti dalle raccolte[13]. In Come un volo d’anitre a sentirsi sbagliato, abbiamo visto, è Natale, mentre in Andato al comando come un fiume carsico, epurato dei detriti autobiografici, alla fine l’episodio riemerge, seppure narrato in chiave surreale e a tratti favolosa. In quest’ultimo racconto, i due personaggi rimangono anonimi; designati dal narratore semplicemente come «l’armato» e «il disarmato», sono contraddistinti unicamente dall’essere muniti o no di un’arma. L’azione si svolge in un bosco: l’uomo armato, un partigiano, deve condurre quello disarmato, «grande kamarad», come si definisce in una fantasticheria, al comando, o almeno così dice. Altri prima di lui sono stati portati via e non sono più tornati ‒ il segretario, i fratelli del mulino e la maestra ‒, perciò l’uomo inerme domanda di loro, nel tentativo di intuire quale sarà la sua sorte. Al di là degli schieramenti, della parte sbagliata o della parte giusta della storia, sembra che la guerra dilani e porti distruzione. Anche il bosco appare deturpato, segnato dalle tracce dei combattimenti: «Il bosco era rado, quasi distrutto dagli incendi, grigio nei tronchi bruciati, rossiccio negli aghi secchi dei pini. L’uomo armato e l’uomo senz’armi se ne venivano a zig-zag tra gli alberi, scendendo»[14]. La guerra miete vittime nel bosco, così come nelle città, e anche gli alberi non sono semplicemente bruciati dagli incendi, ma «uccisi», per cui il participio «caduti» assume uno spettro più ampio di significato e si carica di connotazioni: «Erano in una grande radura, con pini e larici magri, uccisi dagli incendi, ingombra di rami caduti»[15]. Alla fine del racconto l’uomo armato sparerà alle spalle all’uomo disarmato, che fino all’ultimo si illuderà di potersi salvare. Lo sparo del racconto, nel folto della vegetazione, fa eco, nel ricordo dello scrittore, alle fucilazioni che in quel periodo avvenivano nella boscaglia o sul limitare dei boschi, cui Calvino assistette, uno sparo cui probabilmente seguiva il frullo degli uccelli messi in fuga, che ritorna – abbiamo visto – nel racconto Come un volo d’anitre.

Un altro racconto in cui si assiste a una fucilazione di tre uomini nudi e inermi, che pure hanno dato fuoco a un paese e ucciso, è Uno dei tre è ancora vivo. Anche lì la differenza è tra chi imbraccia i fucili e chi è disarmato, e tra gli stessi uomini della Resistenza ci sono «angeli buoni con corde e angeli cattivi con bombe e fucili»[16]. Come in Andato al comando, Calvino sul finire del racconto, e in particolare dopo la fucilazione, fa coincidere il punto di vista con chi è dall’altra parte della barricata; se prima si trattava di un fascista, che finiva a terra ricoperto di formiche, ora si tratta di un nazista, che rocambolescamente si sottrae a una pioggia di spari, dopo essersi gettato in una grotta verticale, chiamata Culdistrega. La guerra è un inferno, quale che sia il punto di vista, come arriva a concludere il narratore mettendosi nella pelle del «nudo», in un passo che anticipa quello delle città invisibili: «La vita, pensò il nudo, era un inferno, con richiami d’antichi felici paradisi»[17].

Anche nel Sentiero dei nidi di ragno Lupo rosso racconta della fucilazione di Pelle. Nella memoria familiare di Calvino, è particolarmente rilevante, com’è noto, un episodio dell’ottobre 1944, in cui i tedeschi, dopo aver catturato i genitori, avevano inscenato per tre volte di fucilare il padre, di fronte agli occhi della madre, per estorcere loro informazioni[18].

Nel 1943, quando viene firmato l’armistizio, Calvino ha vent’anni. Il suo nome di battaglia come partigiano garibaldino era Santiago e alcuni documenti ne attestano il prezioso contributo dato alla Resistenza, tuttavia, nei suoi racconti di guerra non c’è spazio per una narrazione agiografica ed edulcorata degli avvenimenti. Prendendo in prestito le parole di Gianluca Cinelli riguardo alla memorialistica di guerra, possiamo dire che l’aver preso parte alla Resistenza ha rappresentato per Calvino un rito di passaggio, iniziatico, e nel racconto che fa di quanto esperito emerge «la coscienza di una frattura, di una crisi, a seguito della quale non ci si orienta più con i criteri precedenti»[19]. Si tratta di un’esperienza traumatica, che accomuna molti autori, come lui, appartenenti alla “generazione degli anni difficili”[20], i quali si fecero portatori nella loro scrittura di un «sentimento della colpa», vero e proprio «archetipo narrativo»[21].

Solo chi si sente in difetto, chi si sente incompleto, chi avverte la propria fragilità e le proprie colpe, può perdonare l’imperfezione negli altri, rivolgendo loro uno sguardo pietoso. La pietas provata dal Medardo buono nei confronti dell’altro, perfino del gramo, si carica di connotazioni evangeliche e rappresenta uno degli aspetti e delle riflessioni presenti nel romanzo che scavano più in profondità nell’animo umano. Il sentimento dell’imperfezione che ci accomuna gli uni agli altri rappresenta il collante dell’esperienza umana[22].

Nel Visconte dimezzato all’inizio, com’è noto, si combatte una guerra. Si tratta di una guerra contro i Turchi. Calvino, dunque, si stacca dalla realtà della Seconda guerra mondiale, operando uno spostamento letterario analogo a uno spostamento onirico. Trova la propria voce di scrittore a metà tra realismo e favola. Per parlare di ciò di cui intende parlare, con urgenza, si allontana, discostandosi sia a livello temporale sia a livello spaziale. Si allontana in altezza perché racconta dalla rarefatta leggerezza aerea della fiaba, così come si allontana lungo la linea del tempo perché fa retrocedere la propria storia collocandola nella cornice di una cavalleresca chanson de geste. C’è un fondale cavalleresco che, ovviamente, come ha già registrato la critica, complici le dichiarazioni dello stesso Calvino, presuppone l’influenza di Ariosto, così come di Tasso[23]. Si ravvisa anche un’atmosfera da teatro dei pupi che attinge sempre le radici nel fantastico ariostesco che suggestiona Calvino. C’è una guerra, dunque, e questa guerra che effetto ha sulle persone, gli animali, le cose? Produce macerie[24]. Quando Medardo attraversa il campo, il deserto prodotto dalla guerra, per raggiungere il campo, lo scenario che si prospetta ai suoi occhi risulta icastico. Rileggendo le prime pagine, viene in mente Guernica di Picasso. Si descrivono cadaveri e carcasse, quindi resti di uomini e di animali. È evidente, anche in questa occasione, l’attenzione al mondo animale e a quello vegetale, che rappresenta una cifra della scrittura di Calvino. Lasciando trasparire una grande sensibilità per la sorte della flora e della fauna, siano esse minacciate dalla guerra, dall’inquinamento o dalla violenza perpetrata dall’uomo, lo scrittore accomuna tutti in questo suo sguardo pietoso ed empatico, che si rivolge alla carcassa del cavallo così come al cadavere dell’uomo. In maniera emblematica si offrono alla vista agglomerati di animali, uccelli e cavalli in particolare, e uomini, confusi tra di loro, per cui risulta labile il confine tra zoomorfia e antropomorfia.

Attraversato questo scenario bellico dalle tinte apocalittiche, appena giunto in prossimità del fronte, Medardo viene investito da una cannonata. E qui c’è tutta la leggerezza di Calvino nel trasfigurare le cannonate della sua guerra. La guerra è come quel colpo di cannone: quando ti travolge ti segna irrimediabilmente, ti divide in due, ti dimezza, e tu non puoi più sentirti completo, non puoi più sentirti intero e perfetto come individuo. I tre romanzi del ciclo dei nostri antenati sono romanzi di formazione sull’imperfezione, o meglio sul percorso e sulla ricerca che ci permettono di capire, di accettare la nostra imperfezione e quella degli altri. In questi romanzi della contemporaneità, l’eroe, sia esso il visconte, il barone o il cavaliere, non è qualcuno che si forma nell’accezione canonica del termine, ma è qualcuno che fa un percorso di consapevolezza, di coscienza, attraverso il quale si capisce di non essere perfetti e si accetta questa imperfezione come qualcosa che è connaturato con l’umano, con l’esistenza, e riguarda tutti, le cose, le case, gli uomini e gli animali: «Dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a sé stesso è l’uomo contemporaneo»[25].

Dopo il secondo conflitto mondiale, dopo la Shoa, si dice che l’idea stessa di Dio sia morta. Quando il visconte viene travolto dal colpo di fuoco, sembra che sopravviva alla guerra solo la metà oscura, malvagia, mentre sembra che abbia dovuto soccombere irrimediabilmente la metà buona. In apparenza, è come se la guerra non potesse lasciare dietro di sé niente se non reduci segnati per sempre, mutilati della propria umanità. A poco a poco, seguendo gli sviluppi della storia, invece, si capisce che è sopravvissuto anche il bene. Si scopre che, in realtà, ci sono due visconti, il buono e il gramo. Ci sono queste due metà, che sono agli antipodi, diversissime, ma in realtà sono la stessa persona, come in fondo torna a ricordarci il titolo. Chi si accorge che sono la stessa persona nel romanzo? Le figure legate alla crescita, alla formazione e all’amore: i personaggi della balia e di Pamela. È l’amore che può ricomporre le nostre parti. Il Medardo buono e il gramo sono stati cresciuti dalla stessa donna e amano la stessa giovane. È significativo che la balia si trovi a rimproverare, in maniera apparentemente assurda, il Medardo buono delle malefatte commesse dal gramo, mentre Pamela ride perché ha capito ciò che «fa andar matti tutti gli altri», «che voi – dice al Visconte – siete un po’ buono e un po’ cattivo»[26].

In quegli anni in cui si ha l’impressione che il mondo sia «fatto a pezzi», nella vita reale, a Calvino sembra che Elsa Morante, sempre una figura femminile, abbia la capacità di ricondurre le cose a unità e di «far tornare sempre i conti», come le scrive in una lettera del 2 marzo 1950:

tu ti leghi per la vita e per la morte, quasi t’identifichi con le cose che fai. Ma vedi, tu appunto hai questo dono di ricondurre ad unità gli elementi più disparati […]. Tu senti che il mondo è fatto a pezzi, che le cose da tener presente sono moltissime e incommensurabili tra loro, però con la tua lucida e affezionata ostinazione riesci a far tornare sempre i conti[27].

Rivolgendosi a Pamela, la donna di cui si è innamorato, il Medardo buono afferma: «O Pamela, questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo. Se verrai con me, Pamela, imparerai a soffrire dei mali di ciascuno e a curare i tuoi curando i loro»[28]. Solo chi è dimezzato, chi sa di esserlo, risulta capace di vedere quello che gli altri non vedono, può provare compassione, avere uno sguardo pietoso nei confronti degli altri e insieme curare la propria ferita. Il dimezzato in fondo chi è? Un essere fragile, imperfetto, con una disabilità, ma paradossalmente è quello che con un solo occhio vede più degli altri, è quello che, proprio perché consapevole della propria imperfezione, è in grado di capire e di strappare il velo della presunta perfezione. Viene in mente Svevo, quando afferma che solo chi sperimenta la malattia arriva a sapere qualcosa di sé stesso.

Ritorniamo all’empatia di Calvino nei confronti degli animali, che lo accomuna, come altri aspetti, al Leopardi delle Operette morali, per cui possiamo dire che favoloso è quell’autore che, con l’atteggiamento aurorale del bambino, sa dare parola agli animali. Penso, in particolare, al Dialogo tra due bestie, p. e. un cavallo e un toro, e al Dialogo tra un cavallo e un bue, animali parlanti, che dialogano davanti ai resti di un esemplare umano, domandandosi di che animale si tratti, in un tempo in cui l’uomo è ormai estinto, come se gli uomini si trovassero a parlare di un mammut, effetto che in un’annotazione lo stesso Leopardi si prefigge di raggiungere. C’è lo stesso ribaltamento antropocentrifugo innescato nell’episodio del gorilla albino, all’interno del capitolo Palomar allo zoo[29], in cui lo sguardo pietoso di Calvino si rivolge alla diversità e alla solitudine di Copito de Nieve, «unico esemplare al mondo di una forma non scelta»[30]. Mentre tutti gli altri lo guardano dall’esterno, è come se Palomar assumesse il suo punto di vista e partecipasse della sua imperfezione, del suo essere «considerato un fenomeno vivente»[31].

Anche osservando la corsa delle giraffe, affascinato dalla disarmonia dei loro movimenti, sembra che Palomar si concentri sul loro essere imperfette. Le loro gambe gli appaiono come fossero di legno, simili a «stampelle che arrancano» e sembra non sussista in loro la minima coordinazione. Il corpo della giraffa, pur funzionando perfettamente, sembra essere il risultato di un agglomerato di parti anatomiche di diversa origine, «pezzi provenienti da macchine eterogenee», una sorta di creatura del dottor Frankenstein degli animali. Tuttavia Palomar, forse per il desiderio di cogliere nei movimenti disarmonici del mondo intorno a lui una segreta armonia, un disegno, anche nella corsa sgraziata e scoordinata delle giraffe coglie una grazia complessiva, che si configura come il risultato di molteplici imperfezioni:

Il signor Palomar, continuando a osservare le giraffe in corsa, si rende conto d’una complicata armonia che comanda quel trepestio disarmonico, d’una proporzione interna che lega tra loro le più vistose sproporzioni anatomiche, d’una grazia naturale che vien fuori da quelle movenze sgraziate. L’elemento unificatore è dato dalle macchie del pelo, disposte in figure irregolari ma omogenee, dai contorni netti e angolosi; esse si accordano come un esatto equivalente grafico ai movimenti segmentati dell’animale. Più che di macchie si dovrebbe parlare d’un manto nero la cui uniformità è spezzata da nervature chiare che s’aprono seguendo un disegno a losanghe: una discontinuità di pigmentazione che già annuncia la discontinuità dei movimenti[32].

È il neo, la macchia, l’imperfezione, a conferire paradossalmente armonia al disegno complessivo. Come ha osservato Pierangeli, entrambi gli episodi, quello del gorilla albino e quello della corsa delle giraffe, «esplorano l’armonia aritmica e il disagio di “forme sempre in qualche modo imperfette”»[33].

L’ultima immagine che voglio richiamare alla memoria è quella presente nell’episodio Il marmo e il sangue, che fa parte del capitolo Palomar fa la spesa, dove è presente il bue dimidiato, e c’è l’occhio, la riflessione dell’uomo sulla macellazione dell’animale. E siamo a un nodo cruciale della riflessione di Calvino, quello della catena alimentare di violenza e sopraffazione che è alla base del nostro essere carnivori, dominati da un istinto trofico:

Occorre dire che la simbiosi uomo-bue ha raggiunto nei secoli un suo equilibrio (permettendo alle due specie di continuare a moltiplicarsi) sia pur asimmetrico (è vero che l’uomo provvede a nutrire il bue, ma non è tenuto a darglisi in pasto) e ha garantito il fiorire della civiltà detta umana, che almeno per una sua porzione andrebbe detta umano-bovina (coincidente in parte con quella umano-ovina e ancor più parzialmente con l’umano-suina, secondo le alternative d’una complicata geografia d’interdizioni religiose). Il signor Palomar partecipa a questa simbiosi con lucida coscienza e pieno consenso: pur riconoscendo nella carcassa di bue penzolante la persona del proprio fratello squartato, nel taglio della lombata la ferita che mutila la propria carne, egli sa d’essere carnivoro, condizionato dalla sua tradizione alimentare a cogliere da un negozio di macellaio la promessa della felicità gustativa, a immaginare osservando queste trance rosseggianti le zebrature che la fiamma lascerà sulle bistecche alla griglia e il piacere del dente nel recidere la fibra brunita[34].

Un sentimento non esclude l’altro: lo stato d’animo di Palomar che fa la fila nella macelleria è insieme di gioia trattenuta e di timore, di desiderio e di rispetto. Di preoccupazione egoistica e di compassione universale, lo stato d’animo che forse altri esprimono nella preghiera.

Quel sentimento di pietas che il Medardo buono estendeva a tutti, persino al gramo, la propria metà malvagia, è lo stesso che il signor Palomar prova per la carcassa del bue, ravvisando in lui il «proprio fratello squartato», dimidiato e mutilato al pari del Visconte dimezzato. La guerra è una macelleria e la macelleria in Palomar è come uno scenario di guerra; simboleggia quel teatro della violenza che è la storia in ogni tempo, e il bue è la vittima sacrificale di fronte alla quale il sentimento di Palomar, che pure è in fila per cibarsi delle sue carni, è simile a quello che si può provare nel ritiro della preghiera. Il bue dimidiato si presenta come un’immagine gemella e speculare del Visconte dimezzato, incarna quella grande compassione nei confronti dell’altro, qualsiasi forma di vita esso assuma, e riteniamo che questa sia la grande eredità di Calvino, che ne dimostra la grande attualità, tanto che arriva a mettersi nei panni di una pietra nel breve scritto Essere pietra. Anche la pietra, come il visconte, è una parte di un tutto dal quale si è separata:

Ma il mio essere pietra implica pure l’esser parte d’una pietra più grande da cui mi sono distaccata, montagna o falesia o catena rocciosa o strato basaltico o mantello terrestre, cioè il partecipare della natura di tutto ciò che è pietra, appartenere alla pietra unica che continua a esistere pur nella frantumazione delle singole pietre[35].

L’ultima immedesimazione, l’ultima metamorfosi, l’ultima forma di empatia e di fratellanza vede Calvino regredire allo stato minerale di una pietra.

  1. C. Pavese, Calvino, in «L’Unità», 26 ottobre 1947; ora in Id., Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1973, pp. 245-47.
  2. Per un approfondimento sulla guerra raccontata da una prospettiva infantile e adolescenziale in Berto e in Calvino, si veda C. Nocentini, L’ottica infantile sulla guerra e sulla violenza, in «Cahiers d’études italiennes», vol. 3, 2005, pp. 23-28. Nel racconto La stessa cosa del sangue i due personaggi, due fratelli dietro la cui sagoma si nascondono Italo Calvino e il fratello minore Floriano, dall’esperienza della guerra sono «colpiti nella loro parte bambina» (I. Calvino, La stessa cosa del sangue, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1991, p. 222).
  3. I. Calvino, E il settimo si riposò, in Id., Un dio sul pero. Racconti e apologhi degli anni Quaranta, a cura di B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2023; già in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 3, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, pp. 833-39. Si rimanda anche all’intervento di B. Falcetto, «Il mondo è fatto a pezzi». Lessico e emozioni del costruire in Calvino, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione.
  4. I. Calvino, E il settimo si riposò, in Id., Un dio sul pero. Racconti e apologhi degli anni Quaranta, op. cit., p. 37. Il racconto era uscito sulle colonne dell’«Unità» il 9 giugno 1946.
  5. Ibidem. Pin è il nome con cui poi Calvino – è noto – avrebbe battezzato il protagonista del Sentiero dei nidi di ragno. Secondo l’auspicio di Falcetto, i racconti di Calvino compresi in Un dio sul pero, unitamente al corpus delle precedenti raccolte, permettono di «estendere lo sguardo», di «guardare meglio Calvino “dall’inizio”» (ivi, p. 37).
  6. I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960), in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., p. 1210.
  7. Sulle figure di eroi «appiedati, disarcionati, dimezzati, senza esercito», si veda B. Sica, I paladini di Calvino, Gianini e Luzzati, e Monicelli: memoria del fascismo, storia delle emozioni, parodia, in «Cahiers d études romanes», vol. 40, 2020, pp. 141-56. Sulle deformazioni della figura umana nella letteratura italiana, si rimanda anche a P. Gervasi, Anger as Misshapen Fear: Fascism, Literature, and the Emotional Body, in «Emotions: History, Culture, Society», vol. 2, 2018, pp. 312-36.
  8. I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960) cit., p. 1210.
  9. I. Calvino, Intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983, trascritta e pubblicata in «Il gusto dei contemporanei», Quaderno n. 3, 1987, p. 9.
  10. Riteniamo significativo che Calvino avrebbe voluto raccogliere sotto il titolo Le memorie difficili alcuni racconti di guerra autobiografici, come scrisse a Citati in una lettera (I libri degli altri. Lettere 1947-1981, nuova ed. a cura di G. Tesio, Milano, Mondadori, 2022, p. 258). Se consideriamo che egli stesso in una lettera a Milanini del 1985 avrebbe definito «nevrotico» il suo rapporto con l’autobiografia (I. Calvino, Lettere 1940-1985, nuova ed. a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2023, p. 1008), possiamo dedurre che quell’esperienza privata fatta della guerra e della violenza abbia rappresentato per lo scrittore un magma di difficile elaborazione.
  11. I. Calvino, Prima che tu dica «Pronto», con uno scritto di P. Citati, Milano, Mondadori, 2010, p. 39; ora in Id., Un dio sul pero, op. cit. Il racconto era uscito in rivista nel 1947 («Il settimanale», 3 maggio 1947).
  12. Per una ricostruzione dell’inabissamento e della riemersione di quest’episodio nelle opere di Calvino si rimanda a B. Falcetto, Prove di immaginazione, in Id., Un dio sul pero, op. cit. Per un’attenta rilettura dell’esperienza resistenziale dello scrittore attraverso i racconti degli anni Quaranta, si veda anche E. Barghini, Le memorie difficili del partigiano Santiago: note sui racconti di guerra di Calvino, in «Studium», vol. 4, 2023, pp. 101-44.
  13. I. Calvino, Andato al comando, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., p. 260.
  14. Ivi, p. 261.
  15. Ivi, p. 272.
  16. I. Calvino, Uno dei tre è ancora vivo, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., p. 279.
  17. Cfr. I. Calvino, Autobiografia politica giovanile, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, p. 2746: «Non posso tralasciare qui di ricordare […] il posto che nell’esperienza di quei mesi ebbe mia madre, come esempio di tenacia e di coraggio in una Resistenza intesa come giustizia morale e virtù familiare, […] nel suo comportarsi con dignità e fermezza di fronte alle SS e ai militi, e nella lunga detenzione come ostaggio, e quando la brigata nera per tre volte finse di fucilare mio padre davanti ai suoi occhi». Cfr. anche l’articolo del 1985 Tante storie che abbiamo dimenticato (ivi, p. 2913) e infine l’intervista del 1983 agli studenti di Pesaro (Sono nato in America. Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2012, pp. 540-41).
  18. G. Cinelli, «Viandante, giungessi a Sparta…». Il modo memorialistico nella narrativa contemporanea, Roma, Sapienza, 2016, pp. 37-38.
  19. L’etichetta “generazione degli anni difficili” si deve al titolo di un’inchiesta condotta nel 1960 dalla rivista «Il Paradosso», raccogliendo le testimonianze di intellettuali e politici cresciuti sotto il Fascismo, poi confluite in un volume (Bari, Laterza, 1962).
  20. G. Cinelli, «Viandante, giungessi a Sparta…». Il modo memorialistico nella narrativa contemporanea, op. cit., p. 38.
  21. Sul tema dell’imperfezione si rimanda all’intervista di F. Pierangeli a M. Belpoliti, «L’incompiutezza non ci esime dal desiderare di compierci», in «Studium», vol. 4, 2023, pp. 657-62, ma anche all’intervento di Pierangeli dal titolo Le forme «sempre in qualche modo imperfette». Dallo zoo di Palomar, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione.
  22. In merito ai legami tra Calvino e Ariosto, rimandiamo a R. Maggiore, «Egli si ostina a disegnare una fiaba». L’Ariosto di Italo Calvino e il suo dialogo con Roberto Battaglia, in «Bollettino ’900», nn. 1-2, 2020; L.W. Petersen, Calvino lettore dell’Ariosto, in «Revue Romane», vol. 26, 2, 1991; G. R. Cardona, Fiaba, racconto e romanzo, in Italo Calvino. Atti del convegno internazionale,
    Milano, Garzanti, 1988, pp. 187-201. Per la presenza di Tasso nel Visconte dimezzato rimandiamo a L. Carpanè, Medardo liberato e ricostruito: per una lettura del Visconte dimezzato attraverso Tasso, in «Studi novecenteschi», vol. 36, n. 77, 2009, pp. 119-35.
  23. Si rimanda ancora agli Atti del convegno sopra citato per l’intervento di B. Falcetto, «Il mondo è fatto a pezzi». Lessico e emozioni del costruire in Calvino.
  24. I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960), op. cit., p. 1211. Questi nobili dimidiati, rampanti, inesistenti lo sono in un’accezione ancora più profonda, se pensiamo che Calvino scrive in un tempo in cui in Italia i titoli nobiliari sono decaduti.
  25. I. Calvino, Il visconte dimezzato, op. cit., p. 420.
  26. I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, op. cit., p. 272.
  27. I. Calvino, Il visconte dimezzato, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., pp. 421-22.
  28. Si rimanda ancora a F. Pierangeli, Le forme «sempre in qualche modo imperfette». Dallo zoo di Palomar, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione.
  29. I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, p. 942.
  30. Ivi, p. 943.
  31. Ivi, pp. 940-941.
  32. Il sintagma è estrapolato da Pierangeli da un frammento non entrato nell’edizione definitiva del volume del 1983 dell’Osservatorio di Palomar, Palomar e Michelangelo (F. Pierangeli, Le forme «sempre in qualche modo imperfette». Dallo zoo di Palomar, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione).
  33. I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, op. cit., pp. 938-39.
  34. I. Calvino, Essere pietra, in Id., Romanzi e racconti, vol. 3, op. cit., p. 419.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)