Il privilegio della leggerezza: per una lettura di “Le città invisibili”

Author di Luca Marcozzi

Nella prima edizione pubblicata il 3 novembre 1972 nella collana «Supercoralli» di Einaudi, l’immagine di copertina di Le città invisibili riproduceva un dipinto di René Magritte, Il castello dei Pirenei, del 1959, raffigurante una grande roccia che galleggia sopra un mare ed è sormontata da un castello di pietra[1]. Così il dipinto surrealista rappresentava la virtù immaginativa del testo. Tuttavia cinque anni dopo, quando nel 1977 fu pubblicata l’edizione tascabile, per la copertina fu scelta un’immagine caratterizzata sì da una dimensione irreale, ma pertinente ad un più concreto progetto edilizio, per quanto utopico[2]. Si trattava di un’immagine estrapolata dai disegni di Claude Nicolas Ledoux, uno dei più importanti esponenti dell’architettura neoclassica francese ed europea del Settecento, il Projet de maison de gardes agricoles pour le parc de Mauperthuis, vue en perspective, mai pubblicato dall’autore e mai realizzato. Ledoux aveva progettato questo edificio tra il 1775 e il 1780 per il parco di Malpertuis, il parco di un castello che doveva essere destinato a un uso agricolo. Quando Ledoux riprese il progetto dopo la rivoluzione, pensò a una città nuova, adatta al futuro, a una città utopica che mai fu costruita[3]. Le due immagini possono essere ricondotte alla comune tematica del rapporto tra l’uomo e la natura, tuttavia esse hanno un significato divergente: da un lato, infatti, si pone in evidenza la rigidità dello spazio naturale e dall’altro si tenta di trovare alla geometria perfetta di un edificio una collocazione quanto più pacifica tra campi e alberi, in un mondo naturale sorvegliato e ricondotto alla misura dell’uomo. Tuttavia, il passaggio dal surrealismo della prima immagine alla linearità carica di immaginazione e di utopia della seconda lascia intravvedere una chiave di accesso diversa per l’opera, a distanza di pochi anni. La prima immagine, quella di Magritte, indirizza a un mondo immaginario, lontano da ogni realtà fisica; la seconda riconduce il libro a un’utopia, quella della conciliazione tra uomo e natura, in linea con il pensiero di Ledoux, un uomo dell’Età dei Lumi che credeva nel progresso dell’umanità. Rispetto a quella che compare nella prima edizione, e che sottolinea il legame dell’opera con il mondo dell’invenzione e lo stile fantastico, quella che apre il paperback è un’immagine più razionale, meno suggestiva forse, ma certamente più adatta alla lettura che dell’opera si iniziava a fare, non come una serie di sogni, il che era forse l’idea originaria di Calvino, ma come un libro che raccontava del rapporto tra l’uomo e il mondo. Questa mutazione di prospettiva risponde in effetti allo sviluppo che Le città invisibili ha avuto sia nel corso della sua genesi (non rispondente a un unico intento progettuale) sia dopo la sua pubblicazione.

In questo senso, si tratta di una delle opere su cui Calvino ha fornito diverse letture e interpretazioni d’autore, ed è ripetutamente intervenuto in termini di autoesegesi. Lo ha definito un libro nato gradualmente nel corso degli anni, non progettato complessivamente, ma con lunghe interruzioni nella scrittura tra un brano e l’altro. Il testo, come è noto, infatti nasce da una specie di taccuino di riflessioni “urbane”, felici o tristi, che finivano per trasformarsi in immagini di città. Calvino dichiarò nell’intervista a «L’Espresso» che accompagnò la pubblicazione del libro che «ogni tanto scriveva una pagina, cioè una città»[4]: a volte immaginava città tristi, a volte città felici, a volte paragonava le città al cielo e altre volte ancora si sorprendeva a parlare della spazzatura presente in città. Solo in seguito, quando dovette organizzare il volume, fece ricorso a una tassonomia in cui le città sarebbero state sistemate secondo etichette ricorrenti e un diagramma numerico, che fu Calvino stesso a indicare come significativo[5].

Il punto di partenza sono dunque queste brevi prose, che Calvino avrebbe in seguito inserito in un libro fornito a posteriori di una struttura compiuta[6]. Essa comprende, come noto, una cornice di dialoghi tra due protagonisti, l’esploratore veneziano Marco Polo e l’imperatore del Catai Kublai Kan, cornice che viene indicata nella quarta di copertina della prima edizione come struttura portante dell’opera: «Un imperatore melanconico, un Kublai Kan che dopo aver conquistato il mondo ha perso ogni speranza di salvarlo dal suo lento sfacelo, ascolta dalla voce di un Marco Polo visionario le descrizioni di città misteriose». L’opera è organizzata in nove capitoli per la descrizione di cinquantacinque città; ogni capitolo comprende cinque città tranne quello iniziale e quello conclusivo. Questi offrono descrizioni di dieci città, che si susseguono secondo uno schema leggibile in tre modi diversi, in una struttura combinatoria dei capitoli cui si aggiunge un ulteriore espediente unificante, cioè una cornice – che è stata scritta dopo le singole descrizioni – con i dialoghi fra i due personaggi principali. Sul piano diegetico, inoltre, i vari quadri singoli sono unificati dal tema del viaggio, non di un viaggio immaginario, ma di quello reale di Marco Polo[7].

D’altronde, gran parte del Milione ha una struttura simile a quella delle Città invisibili perché consiste in una serie di descrizioni da parte di Marco Polo delle città che ha visitato e dei paesaggi e dei costumi che ha osservato. Il viaggiatore veneziano era stato una passione di Calvino: dieci anni prima di iniziare a scrivere Le città invisibili aveva preparato un soggetto cinematografico su Marco Polo, che però non aveva visto la luce.

Ora, le singole descrizioni e le città proposte da Calvino sono definite nella presentazione editoriale del risvolto di copertina della prima edizione ‒ anch’esso da considerare ai fini dell’autoesegesi ‒ un «poemetto in prosa o apologo o onirigramma» cioè la descrizione di un sogno, e tutto il complesso del viaggio ideale come una compilazione affine a quelle della geografia medievale. D’altronde anche i grandi resoconti di viaggio del Medioevo erano spesso scritti da autori che non si erano mai mossi dal loro tavolo. E lo stesso avviene di questi resoconti di città, che sono racconti fantastici di luoghi invisibili, perché non esistenti nella realtà[8]. Dunque, mentre il racconto di Marco Polo, eccezionalmente rispetto agli scritti di viaggio coevi, si basa su un’esperienza reale, quello di Calvino è assolutamente fantastico. Le città non esistono, i loro nomi sono portati da nomi femminili; le strutture fisiche delle città sono impossibili da realizzare per un architetto. In un libro attentamente organizzato sotto il profilo della struttura, le città sono al contrario caratterizzate dalla casualità, tanto da definire una continua tensione tra ordine e disordine, quella che in un celebre saggio dedicato a quest’opera Cesare Segre ebbe a definire il «contrasto tra il diagramma numerico e la libertà inventiva delle stesure parziali», e che poteva essere esteso all’intera opera di Calvino, caratterizzata nel suo insieme da «varie conformazioni polari: geometria e realtà, intelligenza e invenzione, esattezza e immaginazione, sistema e libertà»[9].

In questo rapporto dialettico tra rigore della struttura e apertura fantastica dei singoli pezzi che la compongono, tra ordine e disordine, il lettore è messo in guardia sin dall’inizio sui limiti della fantasia, nella rappresentazione del dialogo tra Polo e l’imperatore e nella notazione dello scetticismo di quest’ultimo nei confronti dei racconti del Veneziano. Questo scetticismo è da sovrapporre a quello del lettore nei confronti del narratore, perché qui l’autore prende le vesti di Marco Polo e noi lettori quelle di Kublai Kan: anche noi lettori possiamo, anzi dobbiamo, dubitare della realtà di questi paesaggi fantastici, ma non possiamo non essere incuriositi dalla loro eventuale esistenza. Il resto della Prefazione riguarda l’immensità del dominio dell’imperatore, che non può essere del tutto compreso. Se leggiamo l’intera Prefazione con l’ottica della sovrapposizione tra Marco Polo e il narratore e tra l’imperatore e il lettore, anche questo passaggio rappresenta un’allegoria della nostra incapacità di dominare il nostro personale impero, quello delle nostre conoscenze, e di comprendere appieno la realtà che ci circonda[10].

In sostanza, con questa lettura – che si somma alla tensione fra struttura e singoli racconti, tra ordine conferito al mondo narrato ed esplosione della fantasia – emerge la portata del rapporto dialettico fra realtà e artificio: nella Prefazione, Calvino spiega che possiamo credere solo al racconto, perché la dimensione della fantasia è più concreta di quella della realtà, che ci sfugge in virtù della sua estensione e della sua complessità. L’esordio delle Città invisibili è dunque una professione di fede da parte dell’autore nei confronti della fantasia e della letteratura che ne è lo strumento espressivo:

Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti[11].

Le città sono dichiarate nel titolo «invisibili». Ciò significa solo in parte ‘immaginarie’, tema sul quale Calvino pure ragionava, in quel periodo, componendo un Arcipelago dei luoghi immaginari, un Manuale dei luoghi fantastici, dei Racconti che non ho scritto, delle Interviste impossibili; e c’era già stato il Cavaliere inesistente. «Invisibili» non significa neanche semplicemente ‘inesistenti’ (anche se l’imperatore a un certo punto sospetta che Marco inventi tutto) né ‘possibili’ o ‘impossibili’. Le città invisibili sono quelle che si celano sotto, o dentro, le città descritte, come dichiarò lo stesso autore nella già menzionata intervista all’«Espresso»: «dietro la città che si vede ce n’è una che non si vede ed è quella che conta»[12].

In questo senso quello che emerge chiaramente dalle città descritte dal Marco Polo di Calvino non è la loro struttura, ma l’insieme dei segni, e dei sogni, che le popola. Sono le anime degli uomini, il suono della loro vita, le realtà sospese e incastrate tra gli edifici e i vicoli a dar vita a un luogo, non gli edifici stessi[13]. La città viene dunque trattata come centro per eccellenza della convivenza umana, luogo di umanità, dove conta solo quel che non si vede, e che – come in un’èkphrasis della poesia antica – solo il poeta è capace di far emergere alla vista, in quanto presenza immateriale. Lo stile dell’opera, proprio per questo motivo, è ispirato da propositi di trasparenza e leggerezza[14]: le città sono rarefatte e la loro concretezza è affidata all’immaginazione del lettore; c’è un’estrema tensione verso una rarefatta astrazione, che Calvino definisce «leggerezza», riflettendo nella citata intervista all’«Espresso» su questo suo modo di raccontare: «Le immagini più felici di città che vengono fuori sono rarefatte, filiformi come se la nostra immaginazione ottimistica oggi non potesse essere che astratta. Insomma, c’è una zona del mio libro che tende verso un ideale di leggerezza»[15].

Non a caso il testo del risvolto di copertina della prima edizione accenna all’unico viaggio ancora possibile: «Quello che si svolge all’interno del rapporto tra i luoghi e i loro abitanti dentro i desideri e le angosce che ci portano a vivere le città e farne il nostro elemento e soffrirle». L’unico viaggio reale che l’autore si impegna a descrivere è dunque quello all’interno dei rapporti tra gli uomini e i luoghi che essi abitano, in modo che da una descrizione concreta come quella di una città, con i suoi edifici, le sue guglie, i suoi pinnacoli, le sue strade, emerga una serie di elementi astratti e immateriali: gli odori, i sentimenti, le dinamiche sociali, i sogni degli abitanti, i loro desideri.

Accanto a questo tema esiste un’altra questione trattata da Calvino nelle Città invisibili, che si comprende da un’intervista contemporanea alla pubblicazione del libro. In questa l’autore fa riferimento, come fonte di ispirazione, alle opere dell’artista Fausto Melotti[16] e afferma, intervistato dall’«Espresso», che «mi veniva da scrivere città sottili come le sue sculture: città sui trampoli, città a ragnatela»[17]. In questo modo artefatto e leggero di narrare, al centro del libro c’è la preoccupazione per la crisi delle città. È questo l’argomento della lettura delle Città invisibili che Calvino stesso fece in una presentazione del libro in una conferenza alla Columbia University apparsa a stampa nel 1983[18]. Nel suo discorso, egli parla delle città in crisi, e in generale di un disfacimento del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, sia urbano sia naturale. Nonostante questa crisi, le città sono necessarie all’umanità perché rendono concreto e attuabile il suo desiderio di socialità. Tuttavia, si impone una riflessione sia sulle dimensioni degli ambienti urbani sia sulla loro vivibilità e sostenibilità, che del resto era un tema del dibattito urbanistico e politico dell’epoca[19]. Scrive Calvino:

What is the city today, for us? I believe that I have written something like a last love poem addressed to the city, at a time when it is becoming increasingly difficult to live there. It looks, indeed, as if we are approaching a period of crisis in urban life; and Invisible Cities is like a dream born out of the heart of the unlivable cities we know. Nowadays people talk with equal insistence of the destruction of the natural environment and of the fragility of the large-scale technological systems (which may cause a sort of chain reaction of breakdowns, paralyzing entire metropolises). The crisis of the overgrown city is the other side of the crisis of the natural world. The image of “megalopolis” ‒ the unending, undifferentiated city which is steadily covering the surface of the earth ‒ dominates my book, too[20].

Attivo proprio nel periodo dello sviluppo industriale italiano, tra gli anni Cinquanta e Settanta, Calvino è stato uno dei primi scrittori italiani a prestare attenzione ai temi dell’inquinamento, dello sfruttamento delle risorse naturali, della sensibilità ambientale e ad affrontare il tema attraverso efficaci narrazioni in alcuni dei suoi racconti e romanzi[21]. Ad esempio, nel racconto La nuvola di smog (pubblicato nel 1958 sulla rivista «Nuovi Argomenti» e poi confluito nella raccolta Gli amori difficili), Calvino non solo affronta il problema dell’inquinamento ma si spinge a denunciare la controversa posizione delle aziende che inquinano e allo stesso tempo finanziano le organizzazioni che dovrebbero denunciarle in quanto inquinatrici, rivelando il tema, oggi attuale ma all’epoca ancora lontano dalla consapevolezza collettiva, del greenwashing; e più in generale il conflitto di interessi e l’astuzia del capitalismo che caratterizzerà molti paesi industrializzati dopo gli anni Sessanta. Calvino lo fa con largo anticipo sui tempi, negli anni in cui in Italia sta iniziando la conversione da un’economia prevalentemente agricola a una industriale, che porterà allo sviluppo economico con tutte le sue conseguenze in termini di sfruttamento delle risorse naturali (e dei lavoratori) e alle molte contraddizioni e ferite ecologiche nel paese in seguito allo sviluppo della manifattura.

Lo stesso conflitto di ideali è anche al centro del romanzo La speculazione edilizia, pubblicato nel 1963 da Einaudi dopo che una prima versione era apparsa nel 1957 sulla rivista «Botteghe oscure». Come si osservava, siamo in anni precoci per la sensibilità ambientale, ma già in questo breve romanzo (o racconto lungo) il protagonista, un intellettuale impegnato nelle battaglie politiche e sociali della sinistra che ha sempre evitato attività finalizzate all’ottenimento di ricchezza, è invece attratto dai profitti derivanti da una speculazione edilizia sulla proprietà di famiglia. Calvino d’altronde intuì e descrisse in anticipo sui tempi varie forme di inquinamento molto attuali oggi (dell’aria, del paesaggio), sviluppando riflessioni sull’impatto della nostra civiltà sull’ambiente, e persino sui segni che l’umanità lascerà anche dopo la sua scomparsa, nel racconto La memoria del mondo.

Nella presentazione delle Città invisibili presso la Columbia University, tra l’altro, Calvino aggiunge che, nonostante la sostenibilità delle città fosse ormai un punto critico nella vita contemporanea, non era possibile per l’umanità rinunciare a una struttura che aveva consentito di allacciare relazioni e sognare collettivamente:

Ma libri che profetizzano catastrofi e apocalissi ce ne sono già tanti e scriverne un altro sarebbe stato pleonastico e non rientra nel mio temperamento; oltretutto quello che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città: ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi: le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni di un linguaggio; le città sono luoghi di scambio come spiegano tutti i libri di storia dell’economia ma questi scambi non sono soltanto scambi di merce, sono scambi di parole di desideri di ricordi. Il mio libro si apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono nascoste nelle città infelici[22].

Pur consapevole della crisi che attanaglia la dimensione urbana, e che si riverbera sul tema della convivenza umana e dell’ordinamento sociale, Calvino non riesce né a individuare una precisa ragione né tantomeno una soluzione. La letteratura può solo prendere coscienza di una crisi, e darle forma, una forma che resti fissa nella memoria del lettore. Ma non sa né vuole indicare una soluzione, resta sospesa di fronte allo smarrimento, come gli abitanti di Bauci, città che da un lato rimanda alle sculture di Melotti e dall’altro rappresenta la mise en abyme della questione alla base del libro. Qui, di fronte alla crisi del rapporto tra l’uomo e la natura, la soluzione escogitata dagli abitanti della città è a tal punto indecifrabile che Marco Polo non sa a quale categoria assegnarla, e assieme alla città sospesa di Bauci resta sospesa anche la soluzione della questione aperta tra l’umanità contemporanea e la natura:

Dopo aver marciato sette giorni attraverso boscaglie, chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato. I sottili trampoli che s’alzano dal suolo a gran distanza l’uno dall’altro e si perdono sopra le nubi sostengono la città. Ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si mostrano di rado: hanno già tutto l’occorrente lassù e preferiscono non scendere. Nulla della città tocca il suolo tranne quelle lunghe gambe da fenicottero a cui si appoggia e, nelle giornate luminose, un’ombra traforata e angolosa che si disegna sul fogliame.

Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza[23].

Con Le città invisibili, dunque, Calvino prende coscienza della crisi dell’idea stessa di città, e ne fornisce solo una soluzione utopica[24]. Questo disegno e questa progettualità non nascono con il libro ma si precisano a poco a poco nella visione dello scrittore e in questa direzione portano sia la seconda copertina, dove si rappresenta per l’appunto un progetto di città ideale e utopica, sia il numero complessivo dei racconti: 55, numero che rimanda alla Repubblica ideale immaginata da Thomas Moore in Utopia. Il messaggio complessivo in tal senso resta ottimistico: anche nelle città infelici in cui gli uomini faticano a vivere c’è sempre un istante e un abbozzo di felicità, così come le città future, migliori, sono contenute in quelle presenti, talvolta oscure. Allo stesso tempo non emerge un’idea univoca di città, quanto un’infinita serie di combinazioni fra tante città, felici e infelici, che tiene conto anche della loro stratificazione[25].

Forse anche per questo Le città invisibili ha avuto un’enorme influenza in ambiti diversi da quello letterario, da quello artistico, alla digital art al balletto[26]. Soprattutto, l’opera è citata spesso nella letteratura accademica delle discipline urbanistiche e architettoniche, in cui gli studiosi vi fanno riferimento per sottolineare come gli approcci modernisti e razionali nella progettazione e pianificazione urbana possano essere sfidati, ma anche arricchiti, dalla casualità della sensibilità umana[27]. È questo un tema noto a Calvino, che lo esplicita nella presentazione presso la Columbia University:

I feel that the idea of the city which the book conjures up is not outside time; there is also (at times implicit, at others explicit) a discussion on the city in general. I have heard from a number of friends in town planning that the book touches on some of the questions that they are faced with in their work; and this is no coincidence, as the background from which the book springs is the same as theirs[28].

Questo aspetto viene tematizzato anche nella narrazione: la contraddizione tra il desiderio di Kublai Khan di generalizzare un modello di città all’interno del suo e la percezione emotiva di Marco Polo, che al contrario parla delle luci, delle emozioni, delle abitudini dei cittadini, degli odori, dell’odore della vita che solo un viaggiatore sensibile può percepire. Alcune di queste città brillano alla piena luce del sole, altre giacciono invisibili nella nebbia, alcune sono ricche, altre sono povere.

La cornice narrativa che chiude il quarto capitolo è uno dei punti chiave di questo tema. L’imperatore inizia a descrivere a Marco Polo le città, così come le ha immaginate e dedotte dal suo modello universale, per accorgersi che nessuna città del mondo reale risponde allo schema e alla norma. È questo aspetto a rendere possibile l’individuazione, nel libro, di un riferimento ideale per mettere in discussione le pratiche razionali tradizionali e il positivismo nella pianificazione urbana:

– D’ora in avanti sarò io a descrivere le città, – aveva detto il Kan. – Tu nei tuoi viaggi verificherai se esistono.

Ma le città visitate da Marco Polo erano sempre diverse da quelle pensate dall’imperatore.

– Eppure io ho costruito nella mia mente un modello di città da cui dedurre tutte le città possibili, – disse Kublai. – Esso racchiude tutto quello che risponde alla norma. Siccome le città che esistono s’allontanano in vario grado dalla norma, mi basta prevedere le eccezioni alla norma e calcolarne le combinazioni più probabili.

– Anch’io ho pensato un modello di città da cui deduco tutte le altre, – rispose Marco. – È una città fatta solo d’eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, controsensi. Se una città così è quanto c’è di più improbabile, diminuendo il numero degli elementi abnormi si accrescono le probabilità che la città ci sia veramente. Dunque basta che io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi ordine proceda arriverò a trovarmi davanti una delle città che, pur sempre in via d’eccezione, esistono. Ma non possono spingere la mia operazione oltre un certo limite: otterrei delle città troppo verosimili per essere vere[29].

Prendendo in considerazione questo dialogo assieme alla prefazione già osservata, si nota come sia una struttura non lineare a dominare il mondo: le città descritte da Marco Polo ne rendono consapevole l’imperatore. Le descrizioni di una varietà di città uniche e insolite proposte dal viaggiatore veneziano sfidano la percezione di un mondo semplice e lineare, e danno ai lettori la flessibilità di leggere il libro – e il mondo stesso – in modi non convenzionali.

La descrizione della città di Trude offre un vivo esempio della monotonia delle città pianificate secondo un principio razionale che ne esalti l’efficienza, dimenticando l’aspetto della loro vitalità. In fin dei conti, è una città troppo simile a tante altre simili a Trude, priva di una vera anima:

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d’essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Seguendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l’albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi con compratori e venditori di ferraglia; altre giornate uguali a quella erano finite guardando attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi che ondeggiavano.

Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire.

– Puoi riprendere il volo quando vuoi, – mi dissero, – ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aereoporto[30].

Le città invisibili, quindi, sfidano l’idea di progettare una città senza tener conto della vita reale destinata a diffondersi in essa. È il caso di Trude ma anche di Perinzia, fondata dopo che gli astronomi avevano stabilito il luogo e il giorno in base alla posizione degli astri in perfetto accordo con il sole, l’asse del cielo, lo zodiaco e così via, ma ora popolata da storpi, nani, gobbi, con «urli gutturali» che «si levano dalle cantine e dai granai, dove le famiglie nascondono i figli con tre teste o con sei gambe». Da qui deriva la circostanza che «gli astronomi di Perinzia si trovano di fronte a una difficile scelta: o ammettere che tutti i loro calcoli sono sbagliati e le loro cifre non riescono a descrivere il cielo, o rivelare che l’ordine degli dèi è proprio quello che si rispecchia nella città dei mostri». E questa è un’altra dimostrazione letteraria che le città, le civiltà e in definitiva gli uomini seguono il destino a loro prescritto da combinazioni astrali sconosciute, nonostante ogni possibile piano che si possa immaginare di disegnare per loro.

Infine, secondo il senso comune, le città sono l’esperienza più concreta e affollata della civiltà umana, ma Le città invisibili sfidano anche questo concetto e si muovono verso una nuova idea utopica di paesaggio urbano e urbanistico, basata sulla leggerezza. Uno dei dialoghi tra l’imperatore e Marco Polo, dedicato alla città di Lalage, è particolarmente interessante per il suo riferimento al chiaro di luna e alla sua leggerezza. Questa non è una delle descrizioni o dei racconti del viaggiatore veneziano, quanto piuttosto un dialogo con l’imperatore, che si trova proprio nel mezzo del libro, e per la sua posizione e per la sua struttura è un luogo deputato a offrire un senso all’intero racconto:

Dall’alta balaustra della reggia il Gran Kan guarda crescere l’impero. Prima era stata la linea dei confini a dilatarsi inglobando i territori conquistati, ma l’avanzata dei reggimenti incontrava plaghe semideserte, stentati villaggi di capanne, acquitrini dove attecchiva male il riso, popolazioni magre, fiumi in secca, canne. “È tempo che il mio impero, già troppo cresciuto verso il fuori, – pensava il Kan, – cominci a crescere al di dentro”, e sognava boschi di melegranate mature che spaccano la scorza, zebù rosolati allo spiedo e gocciolanti lardo, vene metallifere che sgorgano in frane di pepite luccicanti.

Ora molte stagioni d’abbondanza hanno colmato i granai. I fiumi in piena hanno trascinato foreste di travi destinate a sostenere tetti di bronzo di templi e palazzi. Carovane di schiavi hanno spostato montagne di marmo serpentino attraverso il continente. Il Gran Kan contempla un impero ricoperto di città che pesano sulla terra e sugli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi, stracarico d’ornamenti e d’incombenze, complicato di meccanismi e di gerarchie, gonfio, teso, greve.

“È il suo stesso peso che sta schiacciando l’impero”, pensa Kublai, e nei suoi sogni ora appaiono città leggere come aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenti come zanzariere, città nervatura di foglia, città linea della mano, città filigrana da vedere attraverso il loro opaco e fittizio spessore. –

Ti racconterò cosa ho sognato stanotte, – dice a Marco. – In mezzo a una terra piatta e gialla, cosparsa di meteoriti e massi erratici, vedevo di lontano elevarsi le guglie d’una città dai pinnacoli sottili, fatti in modo che la Luna nel suo viaggio possa posarsi ora sull’uno ora sull’ altro, o dondolare appesa ai cavi delle gru.

E Polo: – La città che hai sognato è Lalage. Questi inviti alla sosta nel cielo notturno i suoi abitanti disposero perché la Luna conceda a ogni cosa nella città di crescere e ricrescere senza fine.

– C’è qualcosa che tu non sai, – aggiunse il Kan. – Riconoscente la Luna ha dato alla città di Lalage un privilegio più raro: crescere in leggerezza[31].

Questo privilegio, di crescere in leggerezza, potrebbe essere assunto come una definizione della sostenibilità. La leggerezza è uno degli obiettivi stilistici di Calvino, che si riflette nell’economia della scrittura e nella sua linearità, e ha come strumento autoriale la privazione, l’eliminazione di pesi e fronzoli. “Leggerezza” è, come noto, una parola chiave nella poetica di Calvino, che si riflette nella ricerca di stile preciso, istradato alle maniere della prosa scientifica, ma arricchito dal contributo della fantasia[32], che Calvino descrive altrove come una polvere dorata sparsa sulle cose[33]. Ma è anche una parola chiave nella sua concettualizzazione dell’idea di città e della sua sostenibilità. Crescere nella leggerezza è dunque un privilegio, ed è una delle chiavi della visione del futuro di Calvino nel suo capolavoro utopico.

  1. I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972. Tutte le citazioni a testo sono tratte da I. Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, vol. 2, Milano, Mondadori, 1992, pp. 357-498.
  2. I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1977.
  3. L’immagine è tratta dall’edizione che raccoglieva la sua opera completa, L’architecture de Claude-Nicolas Ledoux, édité par D. Ramée, 2 tomi, 1847, planche 316. Della casa resta un modello nel museo Ledoux d’Arc-et-Senans. Si vedano anche J. Rittaud-Hutinet, Claude-Nicolas Ledoux: l’œuvre et la vie, Châtillon-surChalaronne, La Taillanderie, 2006; Id., Claude-Nicolas Ledoux: lumières et pensées, Châtillon-surChalaronne, La Taillanderie, 2007.
  4. Nel regno di Calvinia, sfogliando l’Atlante, colloquio con l’autore, in «L’Espresso», XVIII, 1972, 45, p. 11.
  5. M. Zancan, Le città invisibili di Italo Calvino, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Le opere, vol. IV, Il Novecento, to. II, La ricerca letteraria, Torino, Einaudi, 1996, pp. 875-929, alle pp. 891-93.
  6. Sulla genesi diaristica del libro si veda l’importante saggio di L. Di Nicola, Un’idea di Calvino. Letture critiche e ricerche sul campo, Roma, Carocci, 2024, pp. 59 e 67.
  7. Cfr. E. Capuzzo, Marco Polo e «Le città invisibili» di Italo Calvino, in «Clio. Trimestrale di studi storici», I, 2007, pp. 71-80.
  8. Cfr. M. Ciccuto, L’immagine dello spazio nelle «Città invisibili» di Italo Calvino, in «Italianistica», XXXI, 2002, pp. 77-84.
  9. C. Segre, “Le città invisibili” di Calvino e la vertigine epistemica, in «Strumenti critici», I, 2004, pp. 43-53. Si vedano anche M. C. Barrado Belmar, Gematría y poética en «Le città sottili» de «Le città invisibili» de Italo Calvino, in «Cuadernos de filología italiana», XVI, 2009, pp. 275-85.
  10. M. Meschini, Visioni postmoderne. Percorsi teorici e testuali ne Le città invisibili di Italo Calvino, Macerata, EUM, 2018.
  11. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. 359: corsivo nel testo.
  12. I. Calvino, Nel regno di Calvinia, art. cit., p. 11.
  13. C. Ossola, L’invisibile e il suo «dove»: «geografia interiore» di Italo Calvino, in «Lettere italiane», XXXIX/2, 1987, pp. 220-61.
  14. M. Motolese, Lo spazio, il tempo. Appunti su lingua e stile delle Città invisibili di Italo Calvino, in «Bollettino di italianistica. Rivista di critica, storia letteraria, filologia e linguistica», XX/1-2, 2023, pp. 228-36.
  15. I. Calvino, Nel regno di Calvinia, art. cit., p. 11.
  16. Cfr. A. Portensio, Dalle sculture rarefatte alle «Città invisibili»: Fausto Melotti e Italo Calvino, in «Avanguardia», XLV, 2010, pp. 109-22 e L. Modena, «Mi veniva da scrivere città sottili come le sue sculture»: la scultura di Fausto Melotti nelle Città invisibili di Italo Calvino, in «Letteratura e arte», II, 2004, pp. 218-42.
  17. I. Calvino, Nel regno di Calvinia, art. cit., p. 12.
  18. I. Calvino, Italo Calvino on ‘Invisible Cities’, in «Columbia: A Journal of Literature and Art», 8, 1983, pp. 37-42. Si veda anche la nota in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, op. cit., p. 1361.
  19. A. De Vivo, Calvino: politica e segni letterari, in «Forum Italicum. A Journal of Italian Studies», XXV/1, 1991, pp. 40-56.
  20. I. Calvino, Italo Calvino on ‘Invisible Cities’, op. cit., p. 40. Il testo è poi parzialmente apparso in traduzione italiana con il titolo Le città invisibili felici e infelici in «Vogue Italia», n. 253, 1972, pp. 150-51, e come prefazione a diverse edizioni successive dell’opera, come la prima nella collana degli «Oscar» del 1993, da cui si cita (pp. V-XI): «Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana e le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Oggi si parla con eguale insistenza della distruzione dell’ambiente naturale quanto della fragilità dei grandi sistemi tecnologici che può produrre guasti a catena paralizzando metropoli intere; la crisi della città troppo grande è l’altra faccia della crisi della natura. L’immagine della “megalopoli”, la città continua, uniforme che va coprendo il mondo, domina anche il mio libro».
  21. Cfr. A. Lima, The Historical and Political Context of Italo Calvino and Urban Critic in Invisible Cities, in «Traditional Dwellings and Settlements Review», XXX/1, 2018, pp. 73-4; R. Capoferro, Le città invisibili. Lo spazio urbano come modello di conoscenza, in «Fictions. Studi Sulla Narratività», V, 2006, pp. 41-47 e M. Maccario, «Le città invisibili» di Italo Calvino: appunti per una poetica della città, in «Esperienze Letterarie», XXXII/4, 1998, pp. 81-90.
  22. I. Calvino, Italo Calvino on ‘Invisible Cities’, op. cit., p. 41: «But there are already numerous books which pro- phecy catastrophes and apocalypses: to write another would be superfluous, and anyway it would be contrary to my temperament. The desire of my Marco Polo is to find the hidden reasons which bring men to live in cities: reasons which remain valid over and above any crisis. A city is a combination of many things: memory, desires, signs of a language; it is a place of exchange, as any text- book of economic history will tell you – only, these exchanges are not just trade in goods, they also involve words, desires, and memories. My book opens and closes with images of happy cities which constantly take shape and then fade away, in the midst of unhappy cities».
  23. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. 423.
  24. Si vedano in tal senso C. Rivoletti, «Le città invisibili»: l’utopia di Calvino fra tradizione letteraria e realtà, in «Rassegna europea di letteratura italiana», XXVI, 2005, pp. 69-98; G. Rizzarelli, La città di carta e inchiostro: «Le città invisibili» di Italo Calvino e la letteratura utopica, in «Italianistica. Rivista di letteratura italiana», XXXI/ 2-3, 2002, pp. 219-35; M. Cerrai, «Le città invisibili» e il genere dell’utopia, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», V/2, 2000, pp. 621-37; P. Kuon, Utopie-Kritik und Utopie-Enfwurf in «Le città invisibili» von Italo Calvino, in «Italienische Studien», X, 1987, pp. 133-48 e M. Sorice, La città ideale. Italo Calvino dal «pessimismo dell’intelligenza» all’intelligenza dell’utopia, Roma, Merlo, 1989.
  25. C. Segre, “Le città invisibili” di Calvino e la vertigine epistemica, op. cit.
  26. Dal 2012 al 2013 il Massachusetts Museum of Contemporary Art ha ospitato una mostra ispirata alle Città invisibili. Le opere d’arte in mostra sono state create da una vasta gamma di artisti, spesso utilizzando l’immaginario architettonico delle città in tutto il romanzo come catalizzatore per il design della scultura, per mostrare come le nostre percezioni del luogo siano modellate da influenze personali diverse come la memoria, il desiderio e la perdita. Una delle opere in mostra, Compound, 2011, di Sopheap Pich, artista contemporaneo cambogiano, rappresenta sia una città immaginaria del romanzo di Calvino che l’urbanizzazione e lo sviluppo del mondo reale di Phnom Penh.
  27. V. Mukhija, Learning from Invisible Cities: The Interplay and Dialogue of Order and Disorder, in «Environment and Planning A», XLVII/4, 2015, pp. 801-15.
  28. I. Calvino, Italo Calvino on ‘Invisible Cities’, op. cit., p. 40: «Sento che l’idea della città che il libro evoca non è fuori dal tempo; c’è anche (a volte implicita, a volte esplicita) una discussione sulla città in generale. Ho sentito da un certo numero di amici dell’urbanistica che il libro tocca alcune delle questioni che si trovano ad affrontare nel loro lavoro; e questo non è un caso, in quanto lo sfondo da cui scaturisce il libro è lo stesso del loro».
  29. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. 415: corsivo nel testo.
  30. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. 467.
  31. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. 420: corsivo nel testo.
  32. Cfr. F. Secchieri, La pagina e il vuoto. Un attraversamento della poetica di Calvino, in «Strumenti Critici», I, 2006, pp. 17-37.
  33. L. Marcozzi, Calvino, Asor Rosa, i classici (italiani) e un’idea di letteratura, in «Bollettino di Italianistica», XX/1-2, 2023, pp. 190-204.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)