La filosofia italiana di fronte al Grande Fratello. Croce e Franchini lettori di Orwell

Author di Rosalia Peluso

I believe that the key to the future is in the remnants of the past.

(Bob Dylan)

The last man in Europe

Tra il 1946 e il 1949 nascono due libri capitali sul totalitarismo. Il primo è Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt. L’altro è 1984 di George Orwell. Due “maestri irregolari”[1].

Il primo libro ha dalla sua parte la storia, quella appena conclusasi; le fonti, le testimonianze, le interpretazioni, benché ancora “calde”, non ancora oggettivatesi nella ricostruzione saggistica[2]. Il secondo non parla del tempo che fu, ma di quello che sarà. Non è una registrazione, ma una previsione totalitaria. Non parla del totalitarismo come lo abbiamo conosciuto ma del totalitarismo che conosceremo: di quegli elementi totalitari che, notava proprio Arendt, si annidano anche nei regimi più democratici e che sono garantiti dall’atomizzazione degli individui e proliferano grazie ad essa, all’architettato progetto di atrofizzare le esperienze condivise, quelle politiche in primo luogo. Per questo lo scrittore ambienta la narrazione in un futuro allora remoto, il 1984.

Il libro di Orwell non è un semplice romanzo, posto che i romanzi siano “semplici”. Non è nemmeno una semplice distopia. Non è neanche un atto d’accusa nei confronti dell’URSS. Sarebbe semmai una denuncia del socialismo inglese, il Socing di cui si parla nel racconto, o il partito laburista della realtà politica, che delude lo scrittore bisognoso di un socialismo non sovietico, non bolscevico ma europeo e occidentale[3].

1984 fu pubblicato nel ’49 col titolo che conosciamo ma è singolare notare che, nelle intenzioni di Orwell, esso avrebbe dovuto intitolarsi The Last Man in Europe. Perché è davvero l’ultimo uomo d’Europa colui che nei meandri della sua mente conserva ricordi e nozioni che collidono con le notizie ufficiali del sistema totalitario guidato dal Big Brother: egli ricorda che c’è stata una storia altra, ricorda dunque che esiste qualcosa come la “verità storica”, la verità dei fatti. Ma ricorda e conferma anche empiricamente la solidità delle “verità razionali”, quelle che dicono con assoluta certezza che, nell’universo finora noto, due più due fa quattro.

Il potere del Grande Fratello è autenticamente totalitario non solo perché riesce ad alterare e capovolgere le verità storiche, che in sé hanno uno statuto epistemologico molto fragile (gli usi e gli abusi della storia sono di ogni tempo e di ogni mentalità). Il potere totalitario è assoluto quando, diceva Arendt, non ha più nemici; eppure, continua a esercitare un terrore illimitato, che diviene totale se addirittura riesce a rovesciare la fede in 2+2 = 4.

Non si tratta di aderire semplicemente a una menzogna (io posso fingere di credere in 2+2 = 5 ma in cuor mio “so” che la somma è diversa). L’esperimento totalitario raggiunge la sua acme quando il mio cuore e la mia mente “sanno” che due più due fa cinque, quando dunque ho fede assoluta nel risultato dell’operazione che stabilisce una verità razionale. Come si può arrivare a ciò? Come si può vincere la resistenza interiore della coscienza che distingue tra verità e menzogna? Non basta la “logica da cane di Pavlov” che Arendt scorgeva nell’universo concentrazionario già noto, là dove gli individui sono stati ridotti a fasci di nervi e potevano produrre soltanto reazioni meccaniche in risposta agli stimoli esterni. Qui, nella profezia totalitaria di Orwell che assomiglia tanto al nostro presente, c’è più del “cane di Pavlov”. È in atto un’ancora più radicale trasformazione dell’umano, nell’esteriorità e nell’interiorità, che ha bisogno di alcuni strumenti di persuasione: l’inaridimento di ogni forma di desiderio, amore compreso; il prosciugamento della lingua con relativa ideazione a tavolino, con tanto di aggiornato vocabolario, di una “neolingua” (New Speak) che soppianti la vecchia, viva e plastica lingua della poesia, della letteratura, della filosofia, dell’arte, della storia. Perché, in fondo, impiegare tante parole quando ne basta una? Perché i contrari? Perché i verbi e le loro coniugazioni, il loro ostinato flettersi in tempi? Con pochi e rudimentali prefissi, con abbondanza di acronimi si può dire tutto, o almeno quello che serve nel dispositivo totalitario di cui siamo membri.

Perché, infine, i concetti? Il punto principale è proprio questo: le parole e la loro varietà linguistica sono foriere di concetti; dunque, di quelli che il sistema totalitario chiama “psicoreati”, vale a dire opinioni, giudizi, punti di vista, pensieri che possono trasmettere prospettive differenti rispetto alla logica monodimensionale del totalitarismo. In una parola, a che lo sperpero della pluralità e della plurivocità, quando tutto può essere banalmente ed economicamente uniforme, univoco, uguale?

C’è, infine, un’ultima strategia indispensabile a forgiare dall’intimo l’abitante dell’universo totalitario del futuro orwelliano: la “distruzione del passato”. Per tenere gli individui sotto scacco, occorre esercitare il controllo sul passato e a farlo sono sempre coloro che esercitano il controllo sul presente (i benjaminiani “dominatori” di turno[4]): «Chi controlla il passato […] controlla il futuro», dice il Grande Fratello, e «chi controlla il presente controlla il passato»[5].

Atrofizzazione del desiderio, e quindi dell’esperienza, della volontà e della libertà. Atrofizzazione della parola e, infine, cancellazione del passato e sua potenziale riscrivibilità assoluta. La profezia totalitaria orwelliana si è avverata da un pezzo e ci sono ragionevoli argomenti per prevedere che in futuro saranno sempre meno coloro che, un giorno, potranno o saranno ancora in condizione di rivendicare che «la libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro»[6].

La disciplina del pensiero e la distruzione del passato

La libertà di sapere e dover esprimere una verità razionale è quanto Croce chiama la «disciplina del pensiero»[7]. Negli ultimi anni di vita, su suggestione dello scrittore inglese e sulla base dell’esperienza storica recente coi totalitarismi realizzati, egli vedeva questa disciplina quanto mai esposta alla possibilità di dissoluzione. Se è il pensiero a contrastare l’avanzata del non-pensiero e dei suoi prodotti, dall’irrazionalismo all’antistoricismo, là dove venisse meno una simile energia «a raccogliere le forze di resistenza di difesa e offesa»[8], allora si avrebbe un crollo della civiltà dinanzi alla quale le catastrofi storiche che hanno segnato la fine di culture e imperi sarebbero poca cosa:

nella situazione di quel sistema totalitario accadrebbe qualcosa di immensamente più vasto e profondo della caduta della civiltà greco-romana, perché il genere umano stesso soccomberebbe senza speranza di resurrezione: morirebbe del gran peccato contro natura, contro la natura umana, di aver corrotto in sé il pensiero, che è il preservatore di ogni corruttela[9].

La fine del pensiero sarebbe davvero la catastrofe definitiva della civiltà. Dopo aver trascorso tutta l’esistenza a difendere e sostenere l’«indistruttibile perennità dei valori umanistici e liberali», dinanzi alla «spietata» e «scientifica conclusione» orwelliana della storia, Croce avrebbe avuto, scrive Raffaello Franchini commentando il passo appena citato, «un attimo di religioso orrore»[10].

Croce e Franchini sono stati fra i primi lettori italiani di 1984 e la loro ricezione si colloca in ambito idealistico, storicista e liberale. Entrambi furono attratti non dalla forma estetica del romanzo, non lo sottoposero cioè a un esame di critica letteraria, ma si interessarono invece al suo contenuto «dottrinale»[11], «tutto politico e contro lo stato totalitario»[12]. Esiste un tracciato filosofico del libro, e filosofico-politico in modo particolare, che mette in secondo piano anche la narrazione romanzata. Di Winston Smith, dello sventurato abitante di questo futuro-presente mondo totalitario, noi ricordiamo più le sue proteste intellettuali e interiori contro il regime che i pochi atti di vita, e quindi di dissenso, nei confronti di un potere che fa della morte, dell’ignoranza, della schiavitù e della guerra i suoi ideali.

Nell’anno di pubblicazione del libro Croce firma una lunga nota intitolata La nuova disciplina del pensiero. La nota appare, nel 1950, prima su «Il Mondo», poi nei «Quaderni della Critica»; infine, nella sezione intitolata Dispute di teoria della storiografia e di filosofia in generale dell’ultima edizione del primo volume delle Nuove pagine sparse[13]. Lo scritto di Franchini intitolato La distruzione del passato appare invece in occasione della prima traduzione italiana del romanzo, nel 1951, ed è stata pubblicata, come la nota crociana, con la quale naturalmente dialoga, prima su «Il Mondo», nel fascicolo del 20 maggio di quell’anno, e poi nel volume Esperienza dello storicismo del 1953, nel capitolo intitolato Note metodologiche[14].

Occupandosi del tessuto dottrinale del libro, Croce scorge un sistema di affinità tra il romanzo e una sua tesi politico-storiografica. Indotto a credere che la macchina totalitaria orwelliana sia stata modellata sul sistema sovietico (ciò è vero solo in parte[15]), in questo stato totalitario in cui “l’ultimo uomo d’Europa” diventa «l’ultimo dei liberali»[16], Croce scorge una conferma della sua tesi secondo la quale non c’è alcuna relazione fra l’ideale del comunismo e la rivoluzione bolscevica che ha portato alla nascita dell’Unione sovietica. Sono passati molti decenni dal suo studio del marxismo in cui era, da un lato, negata scientificità alle tesi di Marx, ma al tempo stesso era segnato un discrimine importante fra le diverse forme di aspirazioni comunistiche e il socialismo scientifico vero e proprio[17].

Se nel 1895 Croce, motivato da Antonio Labriola, aveva preso la penna contro Paul Lafargue per dimostrare che Tommaso Campanella[18] (ma lo stesso potrebbe dirsi per Platone o Thomas More) non ha nulla dei precursori del comunismo, adesso invece il discorso si inverte. Non esiste un comunismo ingenuo, pre-moderno e pre-scientifico, esiste un’unica idealità comunistica che propugna una «semplicistica e astratta eguaglianza»[19]. Questo ideale ha raggiunto il suo punto di massima forza nell’intellettualismo settecentesco e da qui, per il tramite della Rivoluzione francese, si è irradiato nel corso dell’Ottocento. Nel secolo che la Storia d’Europa ci presenta come quello del trionfo dell’ideale liberale, le astratte istanze vagamente comunistiche avrebbero ottenuto il loro superamento in un altro indirizzo che, nella nota orwelliana, Croce definisce «un gran fatto storico»: la nascita cioè del «socialismo o laburismo, che era lo storicizzamento del comunismo, il vero passaggio dall’utopia alla storia, il quale accettava e rispettava il metodo del liberalismo»[20].

In 1984 Croce legge tra le righe un’ulteriore conferma di una sua tesi: l’idea, cioè, che la rivoluzione bolscevica avrebbe inaugurato un modello di rivoluzione totalitaria, quella che nel romanzo orwelliano si fa non per abolire ma poter istaurare una dittatura[21]. Il modello bolscevico, emancipato dal suo «fittizio»[22] legame col comunismo, sarebbe stato il riferimento principale delle altre due distorte rivoluzioni del Novecento: quella fascista prima, quella nazista poi. Anche questa una tesi variamente presentata da Croce nelle sue opere politiche.

La nota crociana, forse troppo esposta al tentativo di trovare, in un romanzo che descrive un futuro ordine possibile, una conferma per le sue interpretazioni politiche e storiografiche del presente, trascura, ma non senza citarlo, un argomento sul quale, in quanto oppositore fiero della mentalità antistoricistica del suo tempo, avrebbe potuto dare un contributo fondamentale. Il tema della distruzione del passato e, con esso, della storia è invece perfettamente messo a fuoco nella recensione di Franchini.

Anche Franchini insiste sulle implicazioni filosofiche più che sul tracciato narrativo e pone, al centro delle sue riflessioni, i tentativi compiuti dal Grande Fratello di riscrivere la storia a proprio piacimento e secondo il proprio tornaconto (controllare il passato per controllare il futuro e tener fermo il proprio controllo sul presente). Questi atti si inscrivono senza dubbio nel tentativo di distruggere il passato, ma portano con sé una conseguenza ancora più grave della falsificazione e della manipolazione dei documenti. Dietro la distruzione del passato potrebbe annidarsi il tentativo, coerente con le mentalità totalitarie, di abolire nel mondo quella scoperta che è stata propria della filosofia moderna: «la storicità del pensiero»[23]. Come Croce vedeva, infatti, nella scomparsa del pensiero la catastrofe definitiva della civiltà, Franchini vede nell’abolizione della storia non solo una pratica di disumanizzazione (la liquefazione di quegli individui che non si integrano più nella storia del Grande Fratello), ma la distruzione totale della stessa umanità. La libertà di esistere e di pensare comincia, infatti, quando «l’uomo comincia a ricordare, a scrivere la storia di sé stesso e cioè a diventare cosciente»[24].

Nel «pessimismo polemico e apocalittico»[25] di Orwell si cela, tuttavia, un timido segnale di speranza. La cieca strategia del Grande Inquisitore orwelliano non rinuncia, infatti, a una dimensione su cui, assieme alla storicità del pensiero, la filosofia moderna ha costruito sé stessa e si è posta nella sua differenza rispetto alla tradizione filosofica precedente. Questa dimensione è quella che, con Maurizio Ferraris, potremmo chiamare la “documentalità”[26], vale a dire l’irriducibilità del documento alla base della costruzione della storia. È quanto prima Franchini ha chiamato storicità o, ancora, quanto Simona Forti, nella sua analisi del potere paranoico e nichilista di 1984, definisce «la realtà “dura”, “ultima”, semplice della materialità del mondo [che] non obbedirà al Grande Fratello»[27]. Il pensiero moderno è antimetafisico nella misura in cui si richiama alla concretezza, alla datità, alla documentabilità della storia, al fatto cioè che la storia sia estrinsecata in tracce: non imperscrutabile capriccio del divino, ma produzione materiale di atti di volontà e libertà.

Nella Storia come pensiero e come azione, Croce scriveva che la storia sopravvivrebbe anche alla scomparsa del documento, che perfino la distruzione dell’ultima carta non atrofizzerebbe la coscienza storica: quest’ultima ricomincerebbe daccapo il suo lavoro di estrinsecazione di sé nelle diverse testimonianze[28]. Era il 1938 quando Croce pubblicava queste considerazioni e le scriveva, in tempi di trionfante antistoricismo, per mantenere viva la fede nella ricreazione continua della stessa storia. La nostra fede nella sopravvivenza della storia “oltre il dato” forse non è così solida. Come una volta Platone diceva che compito del filosofo era “salvare i fenomeni”, così oggi potremmo dire che l’ufficio, forse l’ultima funzione del filosofo – questa professione così defunzionalizzata nel mondo contemporaneo – sia tutta nella preservazione del fatto e del dato, nell’acribia filologica, perfino nella difesa dell’erudizione. Quando monta la marea antistoricistica, quando tentativi di revisione e cancellazione del passato giungono da più fronti e per diverse ragioni ideologiche, allora, contrariamente alla fede crociana nella sovra-documentalità della storia, dobbiamo credere nel dato, nella fisicità dell’evento di cui la ricerca erudita è la prima vestale e custode.

Del resto, dell’irriducibile presenza del documento non può fare a meno nemmeno il mostro totalitario orwelliano: esso, sì, distrugge documenti, come hanno sempre distrutto tracce di spiritualità regimi dispotici e totalitari, ma non distrugge la documentalità in sé. Non la distrugge perché egli stesso ha bisogno, per attestare la sua esistenza, di essere “documentato” e di documentare. In questo modo, al fondo dell’abisso, Franchini scorge un residuo di umanità che addirittura si conserverebbe anche nello spietato Grande Fratello: «l’esigenza storicistica risorge incoercibile dal seno stesso di chi pretende negarla o cancellarla»[29]. La disastrosa e sconsolata conclusione del romanzo – la trasformazione dell’odio in amore per il Grande Fratello e per le sue azioni – non sarebbe dunque la fine della civiltà e dell’umanità: la distruzione del passato rimane impossibile, un’esperienza impensabile, così come la distruzione della storia, del tempo o di tutti quegli oggetti mentali senza i quali il pensiero stesso non avrebbe possibilità di concretizzarsi[30]. Nessun umano, homo totalitarius compreso, può azzardarsi a «vivere senza storia»[31]. E, finché c’è storia, ci sarà la sua documentata persistenza.

 

Parole-chiave: Benedetto Croce, Filosofia italiana, Raffaello Franchini, George Orwell, Totalitarismo.

Keywords: Benedetto Croce, Italian Philosophy, Raffaello Franchini, George Orwell, Totalitarianism.

  1. Cfr. F. La Porta, Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.

  2. Si veda al riguardo la prima prefazione all’opera arendtiana: H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, introduzione di A. Martinelli, con un saggio di S. Forti, Torino, Einaudi, 2004, pp. LXXIX-LXXXII.

  3. Cfr. R. Campa, L’idea di socialismo nella filosofia politica di George Orwell, in «Orbis idearum», IV, 1 (2016), pp. 27-47.

  4. Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997.

  5. G. Orwell, 1984, tr. it. di S. Manferlotti, in Id., Romanzi e saggi, a cura e con un saggio introduttivo di G. Bulla, Milano, Mondadori, 2000, pp. 877-1233: 918.

  6. Ivi, p. 972. Cfr. R. Campa, George Orwell e le menzogne dei totalitarismi, in I difensori dell’Occidente, a cura di G. Berti, N. Matrolla e L. Pellicani, Ogliastro Cilento, Licosia Edizioni, 2016, pp. 375-98.

  7. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, in Id., Nuove pagine sparse, vol. I, Bari, Laterza, 1966, pp. 193-204.

  8. Ivi, p. 204.

  9. Ibidem.

  10. R. Franchini, La distruzione del passato, in Id., Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini, 1971, pp. 84-88: 85. Si cita da quest’ultima edizione, quarta e ultima.

  11. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., p. 195.

  12. Ivi, p. 193.

  13. Per tutti i riferimenti bibliografici si veda la bibliografia curata da S. Borsari, L’opera di Benedetto Croce, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1964, p. 449.

  14. Si veda anche, oltre all’edizione già citata, R. Franchini, La distruzione del passato, in Id., Pensieri sul «Mondo», a cura di R. Viti Cavaliere, C. Gily Reda e R. Melillo, presentazione di G. Cotroneo, Napoli, Luciano Editore, 2000, pp. 17-19.

  15. Non trascurabile è anche la critica orwelliana al capitalismo liberista: cfr. R. Campa, L’idea di socialismo nella filosofia politica di George Orwell, op. cit., pp. 33-37.

  16. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., p. 202.

  17. Cfr. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Ed. Nazionale a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi Garampi, con una nota al testo di P. Craveri, Napoli, Bibliopolis, 2001.

  18. Cfr. B. Croce, Sulla storiografia socialistica. Il comunismo di Tommaso Campanella, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, op. cit., pp. 177-213.

  19. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., pp. 195-96.

  20. Ivi, p. 197.

  21. G. Orwell, 1984, op. cit., p. 1179.

  22. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., pp. 195-96.

  23. R. Franchini, La distruzione del passato, op. cit., p. 85.

  24. Ibidem.

  25. Ivi, p. 87.

  26. Cfr. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma, Laterza, 2014.

  27. S. Forti, Scene di paranoia in Oceania, in Paranoia e politica, a cura di S. Forti e M. Revelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 156-80: 176.

  28. Cfr. B. Croce, Documenti e testimonianze, in Id., La storia come pensiero e come azione, Ed. Nazionale a cura di M. Conforti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002, pp. 109-15.

  29. R. Franchini, La distruzione del passato, op. cit., p. 88.

  30. Si pensi, ad esempio, all’argomento kantiano di immaginare l’eternità a partire del tempo: cfr. I. Kant, La fine di tutte le cose, tr. it. di E. Tetamo, a cura di A. Tagliapietra, Torino, Bollati Boringhieri, 2018.

  31. R. Franchini, La distruzione del passato, op. cit., p. 88.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

La genesi di un “caso”. La storiografia e la nascita di Benedetto Croce

Author di Lorenzo Arnone Sipari

Benedetto Croce fu nominato senatore il 26 gennaio 1910[1]. Il fascicolo delle «Congratulazioni» per quella nomina contiene circa settecento documenti, tra biglietti da visita, telegrammi, lettere e cartoline postali, già da tempo digitalizzati[2]. Non diversamente da quel che si possa immaginare, gli encomi furono inviati, oltre che da parenti, amici, titolari di case editrici e più o meno anonimi estimatori, anche da eminenti studiosi e politici di rango[3].

Appare singolare, invece, che nello stesso fascicolo compaiano solamente tre autografi di risposta: una minuta destinata al ministro della pubblica istruzione Edoardo Daneo; una brutta copia e una minuta in riscontro agli auguri di Pietro Antonio Sipari, sì cugino del filosofo, ma formulati nella qualità di sindaco di Pescasseroli. In particolare, il telegramma indirizzato da quest’ultimo al neosenatore poneva l’accento sul fatto che la località abruzzese fosse stata sempre orgogliosa dell’illustre concittadino, avvertendo «fortemente l’onore» di avergli dato i natali[4].

Tale testimonianza trovava conforto in altri attestati di stima provenienti sempre dal paese dell’Alta Val di Sangro, tra i quali quelli dei rappresentanti dell’Istituto di beneficenza, della Società cooperativa San Paolo, della Società operaia di mutuo soccorso, nonché dal parroco Quintiliani, che, scrivendo di interpretare il «sentimento popolare», partecipava la diffusa «esultanza» dei pescasserolesi per l’elevata dignità[5]. La circostanza non è di poco conto, perché rafforza l’ipotesi secondo la quale la prima visita del filosofo al paese natìo, che si sarebbe registrata fra il 20 e il 22 agosto 1910, fosse stata sollecitata proprio dai compaesani, che erano desiderosi di tributargli i dovuti onori, con il «non sottinteso» fine di riavvicinarlo a Pescasseroli[6].

La risposta di Croce al cugino sindaco sembra, ad ogni modo, andare nella stessa direzione. Stesa non senza una qualche esitazione, come si percepisce dalla riscrittura, essa si risolve nel commosso ringraziamento al «saluto», che gli era «dolcissimo», del luogo natìo, con la precisazione che fino ad allora non aveva potuto conoscerlo se non solo e grazie a quanto gli aveva raccontato la «povera madre»[7]. È di tutta evidenza che tale autografo, pur nella stringatezza del caso, anticipi i temi portanti di quel Discorso di Pescasseroli che il filosofo avrebbe pronunciato il 21 agosto 1910[8].

Sta di fatto che la calorosa partecipazione alla nomina del 26 gennaio non fu l’unica occasione in cui Croce, in quell’inverno, si sentì o fu accostato alla terra natìa. Nel corso dell’udienza del 13 marzo, Vittorio Emanuele III gli accennò, infatti, dell’ospitalità ricevuta a Pescasseroli per le battute di caccia all’orso, che peraltro non era riuscito a uccidere[9]. Inoltre, in riscontro alla documentazione richiesta dalla Segreteria del Senato, per le procedure di verifica dei titoli utili alla convalida della nomina, il filosofo depositò anche la propria fede di nascita, che gli era stata rilasciata dal Comune di Pescasseroli il 19 febbraio 1910[10].

La corrispondente trascrizione è pressoché fedele all’originale, salvo che nella sostituzione, nel sostantivo «Uffiziale», della consonante «z» aggiornata in «c», e nella presenza di alcune varianti nell’uso della punteggiatura e delle maiuscole. Tuttavia, seppur più volte pubblicato, appare utile riproporre l’atto originale, così come contrassegnato in margine dal numero d’ordine 12 (seguito dall’annotazione «Croce Benedetto, Maria, Francesco, Antonio») del registro delle nascite per l’anno 1866 di quel Municipio:

L’anno milleottocentosessantasei nel giorno venticinque del mese di Febbraio nella casa comunale alle ore sei pomeridiane. Dinanzi a me Francesco Saverio Sipari Sindaco di questo Comune di Pescasseroli, Circondario di Avezzano, Provincia di Abruzzo Ultra Secondo, Uffiziale dello Stato Civile, è comparso Pasquale Croce, figlio del fu Benedetto, di anni ventotto, di professione proprietario, domiciliato in Napoli, ed attualmente di passaggio in Pescasseroli, il quale mi ha presentato un bambino di sesso maschile che dichiara essergli nato il giorno venticinque del mese di Febbraio corrente anno alle ore due pomeridiane dalla di lui moglie Luisa Sipari figlia del fu Pietrantonio, seco lui domiciliato, e nella casa di abitazione di Carmelo Sipari posta in questo Comune di Pescasseroli alla strada Largo del Barone, al quale figlio dichiara di dare i nomi di Benedetto, Maria, Francesco, Antonio. La quale dichiarazione viene fatta alla presenza di Gioele Trella, figlio del fu Giustino, di anni cinquanta, di professione Sacerdote, e di Achille Laudazi, figlio di Loreto, di anni quarantuno, di professione Farmacista, residente in questo Comune, testimoni scelti dal dichiarante stesso, i quali dopo avere avuto lettura del presente verbale steso contemporaneamente sui due registri si sono meco col dichiarante sottoscritti[11].

Sull’incisiva evidenziata in corsivo, non di rado trasmessa con la preposizione «per» in luogo di quella («in») presente nell’originale[12], si è soffermata parte della storiografia crociana, soprattutto per indicare la casualità della nascita in oggetto. La testimonianza in tal senso più rappresentativa è data dalla biografia di Charles Boulay, per il quale il filosofo era nato «un peu par hasard» in Abruzzo, proprio sulla base dell’espressione «de passage», che attribuì al padre di Croce e che gli parve «très révélatrice». L’italianista francese riteneva di cogliervi, infatti, qualcosa «d’un peu dédaigneux», arrivando persino a prospettare, in una dedotta contrapposizione tra cittadino (Pasquale) e paesana (Luisa), «la réaction d’un homme de la capitale qui prend ses distances: on passe dans ce village, on n’y séjourne pas»[13].

Tale tesi non sembra aver attecchito nella successiva letteratura, anche perché l’immagine di Pasquale Croce – nato a Campobasso, da genitori originari di diverse province regnicole, dove continuavano a vivere i parenti, e amministratore di proprietà la cura delle quali richiedeva frequenti viaggi in Capitanata, dove pure riecheggiavano le radici di una casata storicamente legata alla transumanza[14] – appare poco in sintonia con quella di «“un uomo della [antica] capitale”» che, per una sorta di snobismo urbano-centrico, disdegnava la vita di provincia.

Non altrettanto isolato è rimasto, come s’è anticipato, il valore attribuito alla proposizione incidentale, da cui sono fiorite espressioni “invariabili”, tra il «quasi per caso» e il «relativamente fortuito», riferite, per l’appunto, alla nascita abruzzese del filosofo[15]. Anche Giuseppe Galasso, nel primo paragrafo di un ben noto saggio, sottolineando come proprio il padre di Croce si fosse definito «domiciliato in Napoli, ed attualmente di passaggio per [sic] Pescasseroli», aveva ribadito la «casualità di quel luogo di nascita»[16].

Lungi da un esame delle lezioni con la preposizione-errore congiuntivo, di cui qui neanche interessa individuare l’archetipo, va invece prestata attenzione alla formazione dell’atto in oggetto, con particolare riferimento ai termini tecnico-giuridici della sua compilazione. Alla luce di quanto finora si è osservato, infatti, sembra che, nell’accostarsi a quel certificato di nascita, non ne siano state valutate con attenzione le formule “rigide”, cioè quelle formalità che, in quanto prescritte dalla legge per la relativa compilazione, non erano riservate al dichiarante.

La data del 25 febbraio 1866 si colloca nel quadro dell’operatività della “Riforma Pisanelli” (Regio Decreto 25 giugno 1865, n. 2215), nell’ambito della quale la materia dello Stato civile era disciplinata dagli articoli dal 350 al 405, oltreché, per gli aspetti che qui interessano, dal Regio Decreto 15 novembre 1865, n. 2602 sul suo Ordinamento. L’art. 352 del nuovo Codice prevedeva, in particolare, che gli atti dovessero enunciare, tra l’altro, «il nome, il cognome, l’età, la professione e il domicilio o la residenza» di coloro che vi fossero indicati «in qualità di dichiaranti»[17], con ciò enumerando delle «formalità generali» relative alla loro compilazione[18]. Per questa ragione erano predisposti degli appositi modelli, ai quali il compilatore, cioè l’ufficiale dello Stato civile, doveva attenersi[19].

A maggior garanzia della validità dell’atto, l’art. 351 prescriveva la presenza di due testimoni, precisando che questi dovessero essere residenti nel comune interessato dalla registrazione[20], aspetto rilevante in special modo se, come osservava un commentatore, i dichiaranti vi si trovavano «a caso o di passaggio»[21]. A parte la dicotomia che si potrebbe verificare assumendo una siffatta congiunzione con valore disgiuntivo, va segnalato che la coeva legislazione utilizzava, per esplicitare una nascita in luogo fortuito, l’avverbio «accidentalmente»[22]. L’espressione «di passaggio», invece, è sempre stata legata a un luogo diverso dal consueto domicilio[23] e, come tale, risulta molto frequente negli atti pubblici. Basti qui segnalare l’atto di abdicazione del già citato Vittorio Emanuele III, autenticato il 9 maggio 1946 dal notaio Angrisani, con studio in Napoli, dove i due testimoni presenti, essendo domiciliati l’uno a Roma, l’altro a Padova, furono attestati come «di passaggio» nella città partenopea[24].

Trattandosi, pertanto, di una formula prevista dalla legge per individuare la residenza o il domicilio, in sostanza nulla più che l’indicazione di un dato anagrafico, non v’è ragione di ritenere l’incisiva in questione l’estrinsecazione di una manifestazione di volontà del dichiarante. Pure, la rappresentazione della transitorietà connessa al trovarsi in un luogo di passaggio non pare possa essere automaticamente coniugata con un evento casuale, tanto più se, come nella fattispecie, si è in presenza di una scelta precisa e motivata, qual era quella assunta da Pasquale e Luisa di affrontare un viaggio, dal mare alla montagna, per evitare il colera, al fine di portare a termine con relativa serenità la gravidanza.

Del resto, non si può fare a meno di notare che Benedetto Croce non ha mai ricondotto la sua nascita pescasserolese a un evento fortuito. Dal fatto di aver incorniciato nello studio l’atto di nascita ricevuto in dono durante la prima visita nella terra natìa[25] e dalle testimonianze che su di essa ha offerto, intimamente compendiate nel Discorso di Pescasseroli, si ricava, anzi, un quadro armonico con il telegramma del gennaio 1910, con quel saluto dei compaesani che in lui risuonava «dolcissimo»[26].

  1. Per il decreto, la convalida e il giuramento si vedano le Discussioni relative alle tornate del 22 febbraio, 5 e 11 marzo 1910, in «Atti Parlamentari», Senato del Regno, Legislatura XXIII, 1a sessione 1909-1910, rispettivamente alle pp. 1745-46, 1834 e 1948.

  2. Tale fonte, digitalizzata nell’ambito del progetto “Archivi online” promosso dal Senato della Repubblica, previa stipula di una convenzione con la Fondazione Biblioteca Benedetto Croce, che conserva i carteggi del filosofo, è identificata dalla seguente segnatura archivistica: s. 1 «Carteggio (1883-[1952]), fasc. «Congratulazioni per la nomina a senatore (1910)». Ospitata sul sito dell’Archivio storico del Senato, per fini di valorizzazione, è accessibile al seguente link (consultato il 04/02/2023): https://patrimonio.archivio.senato.it/inventario/fondazione-croce/benedetto-croce/struttura.

  3. Si segnalano, tra gli altri, V. Aganoor, V. Betteloni, L. Bodio, R. Caggese, F. Compagna, A. D’Ancona, A. De Bosis, C. De Lollis, P. Fedele, G. Fortunato, A. Gemelli, G. Gentile, O. Guerrini, S. Jacini, D. Jaja, G. Lombardo Radice, L. Loria, F. Momigliano, E. Morselli, G. Mosca, E. Nathan, Neera, F. S. Nitti, V. E. Orlando, V. Pareto, E. Pessina, G. Pitrè, A. Salandra, S. Sonnino, B. Stringher, V. Tangorra, M. Valgimigli, M. Weil, F. Zampini Salazar, N. Zingarelli (ivi, fascc. ad nomen).

  4. Ivi, telegramma «2747 di Pietro [Antonio] Sipari (27 gennaio 1910)» con la brutta copia di risposta. La riscrittura di quest’ultima, che comprende anche la minuta di riscontro ad altro telegramma che il cugino del filosofo aveva inviato a titolo personale, come registrato sotto il numero «2746», è censita autonomamente: ivi, minuta «2747 Benedetto Croce a Pietro [Antonio] Sipari (post [27 gennaio] [1910])».

  5. Ivi, telegramma «2658 di Carlo Quintiliani (28 gennaio [1910])». Ma si vedano anche i telegrammi «2198» (Tranquillo Boccia et alii), «2311» e «2329» (Giuseppe Decina et alii per Soc. operaia di mutuo soccorso), «2459» (Istituto di beneficenza), «2787» (Gioele Tudini per Soc. Coop. San Paolo), tutti datati 28 gennaio 1910.

  6. B. Mosca, Croce e la terra natia, Roma, De Luca, 1967, p. 41.

  7. Minuta «2747 Benedetto Croce a Pietro [Antonio] Sipari», cit. Per la successiva corrispondenza fra i due, relativa in particolare alle ricerche per la monografia di Pescasseroli (1922), si veda L. Arnone Sipari, Gli inediti di Benedetto Croce nell’Archivio Sipari di Alvito, in «L’Acropoli», V (2004), n. 3, pp. 309-19.

  8. Si pensi al seguente passo di B. Croce, Il discorso di Pescasseroli, in La lunga guerra per il Parco Nazionale d’Abruzzo, scritti di B. Croce, L. Piccioni, L. Arnone Sipari, E. Giancristofaro, G. Tarquinio, P. Palumbo, F. Fanci, introduzione di F. Tassi, Lanciano, Quaderni di Rivista Abruzzese, 1998, p. 15: «Quantunque io non abbia, prima di questi giorni, percorso materialmente la via che conduce a questo paese, l’ho percorsa infinite volte con la fantasia; […] A me, fanciullo, i racconti di mia madre […] facevano di Pescasseroli […] uno di quei paesi delle fiabe, che non si sa mai se siano o no esistiti».

  9. B. Croce, Taccuini di lavoro, I (1906-1916), Napoli, Arte tipografica, 1987, pp. 195-96. Sulle cacce reali nel comprensorio marsicano si veda L. Arnone Sipari, Dalla Riserva reale dell’Alta Val di Sangro alla costituzione del Parco Nazionale d’Abruzzo, in La lunga guerra, op. cit., pp. 49-66.

  10. Archivio Storico del Senato del Regno, fasc. 0673, consultato in data 11/02/2023 al seguente link: http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/All/45B162F23980C5A64125646F005A8FE6/$FILE/0673%20Croce%20Benedetto%20fascicolo.pdf.

  11. Si cita dal fac-simile pubblicato nell’Omaggio a Benedetto Croce, in «Rivista Abruzzese», XIX (1966), n. 1-2, tav. tra le pp. 16-17, omettendo le quattro sottoscrizioni e avvertendo che il corsivo nel testo è dell’odierno trascrittore. Sui genitori del filosofo si veda, ora, L. Arnone Sipari, Il contratto matrimoniale tra Pasquale Croce e Luisa Sipari (1861), in «Diacritica», VII (2021), n. 1 (37), pp. 15-21

    (link: https://diacritica.it/letture-critiche/il-contratto-matrimoniale-tra-pasquale-croce-e-luisa-sipari-1861.html).

  12. F. Nicolini, Benedetto Croce, Torino, Utet, 1962, p. 26; C. Boulay, Benedetto Croce jusqu’en 1911. Trente ans de vie intellectuelle, Genève, Droz, 1981, p. 10; F. Tessitore, Benedetto Croce, un abruzzese a Napoli, in Benedetto Croce e l’Abruzzo, L’Aquila, Deputazione abruzzese di storia patria, 1985, p. 11; G. Galasso, Nota del curatore, in B. Croce, Un paradiso abitato da diavoli, Milano, Adelphi, 2006, p. 81; Id., Croce abruzzese e napoletano, in «L’Acropoli», XIV (2013), n. 6, pp. 483-502 (ora in Id., La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani, a cura di E. Giammattei, Bologna, il Mulino, 2015); P. D’Angelo, Benedetto Croce. La biografia, vol. I: Gli anni 1866-1918, Bologna, il Mulino, 2023, p. 25.

  13. C. Boulay, Benedetto Croce jusqu’en 1911, op. cit., pp. 10-11.

  14. Il rinvio d’obbligo è a B. Croce, Montenerodomo. Storia di un comune e di due famiglie, Bari, Laterza, 1919, specie alle pp. 22-24 e 35-40.

  15. G. Cassandro, Benedetto Croce abruzzese, in «Rivista Abruzzese», XIX (1966), n. 3, p. 93; Id., Benedetto Croce abruzzese. Una postilla metodologica (universale e particolare), in «Rivista di Studi Crociani», IV, 1967, p. 75; F. Tessitore, Benedetto Croce, op. cit., p. 11; P. D’Angelo, Benedetto Croce. La biografia, vol. I: Gli anni 1866-1918, op. cit., p. 27.

  16. G. Galasso, Croce abruzzese e napoletano, art. cit., p. 483.

  17. Codice civile del Regno d’Italia col confronto coi codici francese austriaco napoletano parmense estense etc., a cura di D. Galdi, Napoli, Marghieri e Perrotti, 1865, pp. 411-12. Peraltro, non dissimilmente, nell’ambito della normativa (territoriale) precedente era previsto per gli atti di nascita (tit. II, art. 159) l’indicazione, tra l’altro, di nomi, cognomi, professione e domicilio «del padre e della madre, e quelli de’ testimonj»: Comento sulle leggi civili del Regno delle Due Sicilie, a cura di A. Giordano, vol. I, Napoli, Stamp. del Fibreno, 1848, p. 155.

  18. Commento al codice civile del Regno d’Italia 25 giugno 1865 etc., a cura di F. Voltolina, Venezia, Tip. Longo, 1873, pp. 443-44.

  19. Il modello per la fattispecie è il n. 14, «Dichiarazione di nascita fatta dal padre pel figlio legittimo», in Modelli dei diversi atti dello Stato Civile, a cura del Ministero di Grazia, Giustizia e dei Culti, Firenze, Tip. Franco-Italiana, 1865, p. 17. L’ufficiale, del resto, non aveva ampi margini di discrezionalità, perché, come recitava l’art. 355, non si potevano enunciare «se non quelle dichiarazioni e indicazioni […] per ciascun atto stabilite o permesse» (Codice civile del Regno d’Italia, op. cit., p. 413).

  20. Codice civile del Regno d’Italia, op. cit., p. 411.

  21. Commento al codice civile, op. cit., p. 443.

  22. Infatti, con riferimento al contenuto dei registri degli atti di nascita, l’art. 53, punto 4, del Regio Decreto 15 novembre 1865, n. 2602, recitava doversi comprendere «Gli atti di dichiarazione di nascita ricevuti dall’ufficiale dello stato civile di un comune, in cui un bambino nacque accidentalmente» («Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia», vol. XIII, Torino, Stamp. Reale, 1865, p. 2652).

  23. Nel Regno delle Due Sicilie erano state introdotte, per evidenti finalità di pubblica sicurezza, le «carte di passaggio», indispensabili non soltanto per recarsi all’estero ma anche per varcare i confini delle singole province: Repertorio amministrativo ossia Collezione di leggi, decreti, reali rescritti, ministeriali di massima, regolamenti, ed istruzioni sull’amministrazione civile del Regno delle Due Sicilie, a cura di P. Petitti, vol. III, Napoli, Migliaccio, 1851, V ed., p. 272.

  24. Abdicazione di Vittorio Emanuele III e primi atti di Umberto I, in «Civiltà Cattolica», XCVII (1946), vol. II, p. 376.

  25. D. Marra, Conversazioni con Benedetto Croce su alcuni libri della sua biblioteca, Milano, Hoepli, 1952, p.157; R. Franchini, Note biografiche di Benedetto Croce, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1953, p. 13. Il 20 agosto 1910 il Consiglio comunale di Pescasseroli aveva deliberato di omaggiare il filosofo con una pergamena in cui era riprodotto l’atto in questione e di intitolargli il largo antistante la dimora dove nacque: cfr. Onoranze a Benedetto Croce, in «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti», XXV (1910), fasc. VII-VIII, p. 440.

  26. Si rinvia, supra, alle note 4 e 7. Sembra di cogliersi, nella risposta del filosofo, una parafrasi del celebre «diniego del saluto» di Beatrice a Dante, nella Vita Nova. Si vedano a tal riguardo le considerazioni dello stesso B. Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921, II ed., specie alla p. 41.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)