La voce ribelle degli anni ’80: il Cyberpunk

Author di Simone Pitti

Noi artisti possiamo solo andare fin dove la gente può seguirci. Non siamo soli, facciamo parte del sistema. Possiamo correre rischi, ma se volessi raggiungere il culmine della tua coscienza, potresti trovarti molto probabilmente da solo. Anche se sai come tradurre ciò che vedi, forse solo dieci persone saranno in grado di capire ciò che dici. Ma, se hai fede nella tua visione, e la racconti ancora e ancora, noterai che, col passare del tempo, sempre più persone inizieranno a seguirti.

Jean Giraud

Il quadro storico

Per capire a pieno il fenomeno Cyberpunk, non si può prescindere da un’analisi del periodo storico di riferimento. L’America, paese di nascita del Cyberpunk, conobbe una poderosa crescita economica negli anni del secondo dopoguerra, uno sviluppo che tuttavia riguardò una strettissima minoranza, aumentando il già notevole divario tra le fasce agiate e quelle indigenti presenti negli USA. La società americana, famosa per la sua mobilità, aveva finito per ingessarsi, irrigidirsi: il ceto medio tendeva a isolarsi dagli altri strati sociali mentre le classi popolari faticavano a trovare una loro organizzazione collettiva, differentemente da quanto avveniva in Europa, soprattutto a causa della forte avversione verso le organizzazioni collettive, spesso sospettate di “simpatie rosse”[1] e quindi osteggiate. Oltre a ciò, va tenuto a mente che il modello di vita dominante rimaneva incentrato intorno al successo personale, all’individuo. Mancavano, quindi, quei correttivi all’ineguaglianza che al contrario caratterizzavano le politiche dei vari governi europei, con il risultato che il 25% degli americani finì in miseria, senza possibilità di uscirne. La conseguenza più immediata fu la nascita di aree residenziali con un’altissima concentrazione d’indigenti, i famigerati ghetti, e un altrettanto alto tasso di criminalità, accompagnato dall’assenza dei servizi basilari.

Il mondo della politica non sembrava essere in grado di proporre delle soluzioni valide; a questa mancanza di piani da parte del mondo politico rispose «un movimento intellettuale giovanile, desideroso di trovare la compatibilità di libertà e protezione non alla rincorsa del benessere ma nella sobrietà dell’armonia»[2]. Il primo focolaio scoppiò nelle università, in quella di Berkeley per l’esattezza, nel 1964.

I movimenti erano molto eterogenei: al loro interno militavano i gruppi più disparati, dai pacifisti ispirati da Gandhi agli isolazionisti che volevano gli Stati Uniti fuori da ogni conflitto extraterritoriale, passando per esponenti dei movimenti anarchici, moralisti, senza dimenticare i movimenti femministi e contrari alla censura. Si navigava a vista, affrontando di volta in volta un problema diverso, senza alcun impianto teorico preciso né un piano a lungo termine.

Nei primi anni ’70 due avvenimenti turbarono profondamente la stabilità dell’economia mondiale. Il primo, nel 1971, fu la sospensione da parte degli Stati Uniti della convertibilità del dollaro in oro, uno dei pilastri degli accordi del 1944[3]. La decisione fu dettata dagli enormi costi della guerra in Vietnam, che causarono un passivo sempre maggiore alle finanze degli States. A poca distanza di tempo, nel 1973, gli stati produttori di petrolio, a seguito della guerra arabo-israeliana, decisero di quadruplicare il costo del greggio, provocando danni in tutto il mondo occidentale. Il prezzo del petrolio continuò a salire fino a raggiungere il suo picco alla fine degli anni Settanta, quando arrivò a costare dieci volte tanto rispetto a pochi anni prima. La conseguenza più immediata fu un brusco calo del settore industriale, accompagnato da una tensione inflazionistica non indifferente, con aumenti dei prezzi superiori al 20%[4].

Da un punto di vista sociale, le conseguenze furono disastrose: per circa un decennio il tasso di disoccupazione continuò a crescere a ritmi sostenuti. Il modello stesso del Welfare State perse di credibilità, mettendo in crisi le democrazie occidentali che per anni si erano affidate a esso per una maggiore stabilità economica e sociale.

Per quanto riguarda l’ambito politico, dopo le crisi degli anni ’70, trovarono molto seguito le politiche di conservatori come Reagan (1981-1989) e come la Thatcher, che promettevano tagli delle tasse per tutti e meno spese. Era venuta meno la precedente fiducia nel progresso continuo; per la prima volta il capitalismo stava affrontando le proprie fragilità e le proprie debolezze strutturali:

Giunta al termine di una lunga fase di sviluppo pressoché ininterrotto e di benessere crescente (quella che gli storici hanno definito «l’età dell’oro» dell’economia capitalistica), la crisi petrolifera costituì per l’Occidente un trauma fortissimo sul piano psicologico prima ancora che economico: rivelò un’insospettata fragilità dei sistemi economici più avanzati; fece sorgere […] una serie di interrogativi sui fondamenti stessi della società industriale; contribuì a rendere più instabile lo stesso quadro politico mondiale preparando i grandi mutamenti che avrebbero segnato la fine del secolo XX[5].

Le trasformazioni avvenute nell’arco di tutti gli anni ’70, dunque, avevano portato un profondo mutamento a livello ideologico e culturale. Se in quegli anni la cultura di sinistra era stata quella dominante, sia nella sua accezione riformista, favorevole alla società del benessere, sia nella versione rivoluzionaria che contestava la lentezza della politica e l’ordine costituito, negli anni successivi, da metà dei ’70 fino alla fine degli anni ’80, le cose cambiarono.

La crisi petrolifera prima e quella industriale dopo misero, dunque, in dubbio il mito dello sviluppo continuo. La rivoluzione elettronica, inoltre, ridimensionò l’importanza delle fabbriche e di conseguenza il numero degli operai così come il loro peso politico all’interno della vita dei vari paesi.

Il movimento Cyberpunk mostrò un forte interesse proprio per questo fenomeno, quello della rivoluzione elettronica, esploso nella seconda metà degli anni Ottanta e che continua oggi a far sentire la propria influenza. Per elettronica s’intende quel ramo della fisica che fa oggetto del suo studio il movimento degli elettroni e che già nella prima metà del ’900 era stata alla base di alcune scoperte rivoluzionarie nel campo delle comunicazioni radiofoniche e televisive. Tra le innovazioni più importanti, ricordiamo l’invenzione del personal computer, che a sua volta ha portato alla nascita di una nuova disciplina: l’informatica. Questa è legata ad altre due branche sempre più in via di sviluppo, molto care al Cyberpunk, che sono quelle della cibernetica e della robotica.

Come sappiamo, l’uso dell’informazione, a seguito di questi progressi, risulta profondamente mutato. L’utente ha la possibilità di interagire e modificare quello che riceve: basti pensare alle famigerate bolle algoritmo di interessi. L’utente è in grado di decidere cosa sentire e cosa no, filtrando tutte le notizie e le informazioni che non rientrano nei propri interessi o che non gli sono congeniali. Una simile rivoluzione è stata possibile grazie a un’altra invenzione che ha cambiato radicalmente il mondo: Internet, nata negli Stati Uniti, negli anni ’60, per iniziativa delle forze armate come rete alternativa in caso di guerra nucleare.

Nel 1991 il Cern di Ginevra creò il primo server «world wide web» per permettere agli scienziati di scambiarsi informazioni composte da testo e immagini. Dal ’91 in poi, dunque, internet cominciò a entrare sempre più nelle abitazioni private: videro la luce i primi siti internet, si diffusero il commercio a distanza e la posta elettronica, nacquero i grandi provider che ancora oggi dettano legge nel mondo digitale.

Anche la cultura ha risentito della rivoluzione elettronica, nel bene e nel male. Le imprese multimediali, ovvero quelle impegnate su più settori contemporaneamente, sono aumentate notevolmente in numero anche se a questo non ha corrisposto un aumento della varietà dell’offerta; anzi, per alcuni aspetti, questo fenomeno ha spinto verso la standardizzazione dei prodotti culturali. Pubblicità molto simili tra loro; stessi formati televisivi, copiati da altri paesi; simili strategie di marketing, ma anche una certa tendenza a ripetere formule narrative di successo da parte dell’industria del cinema o di quella libraria. Un fenomeno di portata ampia che a seconda del punto di vista viene interpretato come l’inizio di «un processo di omologazione e annullamento delle culture locali» o come una grande «occasione di confronto tra le diverse civiltà del pianeta»[6].

Un periodo sicuramente complesso, portatore di novità e sconvolgimenti profondi a livello sociale, così rapido nel mutare da rendere difficile, per i contemporanei, riuscire a rapportarsi con il futuro. Tutti questi elementi diventeranno la base dalla quale sorgerà il dibattito sul Postmodernismo e sulla letteratura postmoderna, fondamentali per capire al meglio il movimento Cyberpunk.

Il Postmodernismo e la fine della storia

Oltre al contesto storico, è necessario analizzare anche il dibattito filosofico culturale dell’epoca: quello sul Postmodernismo. Il concetto di modernità come superamento di un’epoca che si percepisce come passata, lasciata indietro nel tempo, compare sin dalla tarda antichità e ha accompagnato continuamente la storia dell’umanità, delle volte prendendo un’accezione negativa, altre volte con connotati più positivi: se per esempio gli uomini del Medioevo rimpiangevano i fasti dell’Impero romano e cercavano continuamente una linea di collegamento con quei tempi, nel Rinascimento si ebbe una rottura con il passato, perché allora si riteneva che fossero i moderni a essere la civiltà più avanzata rispetto alle barbarie perpetrate nei secoli passati. Il concetto di moderno non ha solo lo scopo di identificare un’epoca particolare, ma porta con sé una funzione retorica. Fino al precedentemente citato Rinascimento, ma anche oltre:

lo schema antiqui/moderni viene utilizzato per distribuire elogi e biasimi. […] basti vedere i dialoghi di Accolti, testo ritrovato a Firenze: si tratta dell’elogio degli uomini famosi della sua epoca in confronto ai loro predecessori: un elogio messo in atto secondo una sorta di modello della produzione che può essere usato anche all’inverso[7].

Invertendo il punto di vista, si può pensare che gli uomini e le donne del passato siano un modello da seguire e lodare, mentre i contemporanei semplicemente un loro lontano riflesso, una pallida imitazione; il tempo in questo caso non può che portare a un’inevitabile decadenza e diviene esso stesso una «storia della decadenza»[8].

Il dibattito sulla modernità e successivamente, negli anni Ottanta, sul Postmoderno nacque inizialmente in ambito culturale e artistico. Solo successivamente influenzò anche la sociologia e, in una fase ancora posteriore, divenne il centro del dibattito filosofico. Proprio grazie a questo hanno visto la luce diverse teorie sulla modernità e sul suo superamento, teorie spesso in forte contrasto tra loro, che hanno finito per radicalizzare la discussione e creare due poli opposti, rappresentati da due filosofi: Lyotard e Habermas.

La base di riflessione dei due studiosi è la stessa; si parte dall’analisi degli effetti della modernità e di come agisca nella vita di tutti i giorni: «La modernizzazione è sempre all’ordine del giorno, essa costituisce indubbiamente un fine universalmente perseguito. Il volto più evidente ed aggressivo con cui essa si impone a livello mondiale, ancor prima che quello della scienza, è quello della neutralità e necessità della innovazione tecnologica»[9]. Un’innovazione tecnologica che porta con sé «l’omologazione agli stessi modelli e trend di sviluppo tecnologico»[10] che a loro volta portano all’affermazione di modalità di esistenza universali in cui il rischio è quello di smarrire le tradizioni e le identità particolari. È la novità dell’identico su scala mondiale.

Oltre alla tendenza all’appiattimento delle differenze, l’inarrestabile processo di innovazione e obsolescenza dei risultati raggiunti porta a una profonda svalutazione del concetto di novità che

pure c’è ma che in un certo senso si appiattisce in un continuum di innovazioni obbedienti ad una logica intrinseca e specialistica e di cui è sempre più arduo ritagliare con nettezza i contorni ed assimilare le svolte. Un continuum in cui il passato, identificato col tecnologicamente superato ed arretrato, non ha alcun interesse ai fini del presente, ed il futuro viene bruciato non appena è stato conquistato[11].

Se la modernità, quindi, prende i connotati di sinonimo di nuovo, di novità, il settore più emblematico dei nostri tempi, nonché uno dei più importanti, diventa quello tecnico-scientifico. Attraverso la tecnica si misurano la modernizzazione e il grado di sviluppo, ma paradossalmente «il valore stesso della innovazione si annichila di continuo proprio mentre si afferma. E questo annichilimento trascina con sé un’intera esperienza del tempo»[12]. Di fronte all’avanzare inesorabile della modernizzazione tecnico-scientifica, dunque, non si tratta più di auspicare una tecnicizzazione totale e completa della nostra società e della nostra vita né di sperare, attraverso una finalizzazione diversa, in una tecnica più umana: «se non altro perché nel frattempo, se mai c’è stato, questo “valore umano”, questo “vero soggetto”, questo “uomo autentico”, non c’è più, coinvolto esso stesso nelle trasformazioni della tecnica (aporia del ritardo di ogni umanesimo storicista)»[13].

Risulta necessario riconoscere che, in un periodo storico nel quale le grandi ideologie sono giunte naturalmente in una fase irreversibile di declino, il settore tecnico tende a presentarsi come quello più vivace, dinamico, l’unico in grado, grazie alla sua compattezza, di trascinare la società, l’unico a possedere, anche se esclusivamente nel suo settore, un futuro controllabile e in un certo modo prevedibile.

Un altro ambito che investirà il dibattito sul moderno e il Postmoderno è quello della storia. La modernità, in quanto portatrice di nuovo e sempre attuale, si è sempre mossa in profonda relazione con un passato, una tradizione. Il rapporto, come accennato, poteva essere di rottura o continuità, o sopravvivere in tutte e due le forme contemporaneamente; comunque sia, l’autocoscienza della modernità si produceva attraverso la divisione del tempo in epoche, una periodizzazione incentrata sulla rappresentazione di un presente volto sempre a un futuro, visto come un’interpretazione, positiva o negativa, di rottura o continuità, del passato.

Ciò che ci sembra allora importante sottolineare è che […] l’autocoscienza di ogni modernità si pone il problema dei contenuti e dell’eredità del passato, di ciò che del passato è vivo o morto per i moderni, nei modi della continuità e della rottura, di fatto riafferma una medesima e determinata esperienza temporale che altro non è se non l’esperienza moderna della storicità, la forma della storia. In questo modo ogni novità e nuova modernità così concepita non fuoriesce dai quadri della modernità, anzi li riafferma[14].

È proprio su questo argomento, la storia, che i due filosofi Lyotard e Habermas assumono delle posizioni diametralmente opposte. Condividono la stessa descrizione del fenomeno postmoderno, ma divergono profondamente nella sua valutazione: per entrambi la postmodernità è intrinsecamente collegata al venir meno «dei grandi “metarecits”, le metanarrazioni, che legittimavano l’iniziativa storica dell’umanità sulla via dell’emancipazione e il ruolo guida degli intellettuali in essa»[15].

Quello che per Habermas è una terribile disgrazia, ovvero l’imporsi di una mentalità prettamente conservatrice che rinuncia al progetto illuminista e che coincide per il filosofo con quello della modernità, per Lyotard invece è un passo significativo verso la via della libertà dal soggettivismo divagante e umanista dei moderni, ovvero dall’ideologia capitalista e imperialista. In entrambi i casi la fine della storia coincide con quella dello storicismo, ovvero della concezione degli accadimenti umani come inseriti in un percorso unitario con un senso, un percorso che a mano a mano si svela ed emancipa l’umanità. Emblematiche le parole di Lyotard: «La razionalità del reale è stata confutata da Auschwitz; la rivoluzione proletaria come recupero della vera essenza umana è stata confutata da Stalin; il carattere emancipativo della democrazia è stato confutato dal maggio del ’68; la validità dell’economia è stata confutata dalle crisi ricorrenti del sistema capitalistico»[16]. Le grandi metanarrazioni, quelle non create a posteriori per legittimare una serie di fatti e comportamenti, ma che, spinte da una filosofia di stampo scientista, hanno tentato di raggiungere una legittimazione totale, assoluta, attraverso un’interpretazione metafisica del corso storico, hanno perso ormai credibilità.

Habermas, al contrario, seppur riconoscendo il fallimento dei progetti emancipativi della modernità, sostiene che rimangono comunque validi nel loro fondamento storico: senza un metarecits forte, in grado di sottrarsi alla dissoluzione del tempo e alla demistificazione dello storicismo, la dissoluzione stessa finisce con il perdere significato, divenendo impossibile da pensare.

Il problema principale è la validità della storia della “fine della storia” e il suo essere o meno un altro metaracconto in grado di valere «come racconto legittimante, indicante compiti, criteri di scelta e di valutazione, e dunque ancora un qualche corso di azione dotato di senso»[17]. Anche su questo punto i due filosofi hanno posizioni opposte: «Habermas sostiene che la dissoluzione del “metarecits” (metaracconto) ha senso solo se uno di essi si eccettua, il che, in fondo, toglie alla dissoluzione dei metaracconti il senso catastrofico di fine della storia; la storia non può finire se non finisce l’umano»[18].

Habermas, dunque, crede che l’assenza di un’autonomia del postmodernismo e il suo essere legato intrinsecamente al discorso sulla delegittimazione della modernità e delle sue teorie lo rende come un semplice segno dei tempi che deriva da ragioni che vanno ricercate altrove, ovvero nell’incompiutezza della filosofia moderna. Il postmodernismo è semplicemente un sintomo causato dalla lunghissima situazione di sospensione e stallo che ha vissuto e sta vivendo il progetto emancipativo dell’Illuminismo.

La voce di un’epoca

Nonostante questo dibattito abbia esercitato una notevole influenza in ambito letterario, la scrittura postmoderna, quella Cyberpunk prima fra tutte, ha ricevuto numerosi spunti di riflessione anche dai cambiamenti avvenuti a livello sociale. Quando si tratta il periodo che va dalla fine degli anni Settanta a oggi, è molto difficile trovare un termine univoco che lo definisca: si parla di società postindustriale, dell’informazione, dei media, high-tech, suggerendoci immediatamente la velocità e la fluidità (mobilità) del mondo in cui stiamo vivendo, un mondo in continuo cambiamento e che sfugge alle definizioni statiche.

Con lo spettro del collasso del capitalismo, la società postmoderna e, cosa più importante per noi, la letteratura hanno cominciato a protendersi verso il domani, cercando d’immaginarsi il futuro. Si è cercato di pensare a un dopo in grado di rivitalizzare il presente, a un qualcosa verso cui tendere, creando così una tensione utopica e una sorta di pathos per ciò che è nuovo, che ha posto gli accenti su alcune espressioni tipiche della modernità. A livello politico, si è cercato dunque di impostare la narrazione nell’ottica di un sacrificio da compiere nel presente per dare poi un senso al futuro: soffrire ora per avere poi una vita migliore, più appagante e più equa, una società globale mossa da uno spirito unico.

Nella letteratura, ci si è concentrati sul rapporto con il passato, una questione che riguarda soprattutto il concetto di “classico” che, in un mondo perennemente in movimento, ha vita più breve. Il rischio maggiore è quello di ridurre il presente a un punto evanescente, destinato a scomparire in poco tempo, uno spazio senza passato e quindi di conseguenza senza orientamento verso il futuro.

Quali sono, dunque, le caratteristiche che vengono a delinearsi in una società così complessa e piena di contraddizioni? In una società che da una parte offre enormi possibilità ma che dall’altra sembra avvicinarsi sempre di più all’orlo del baratro? Secondo lo schema riassuntivo di Jameson:

le seguenti caratteristiche costitutive del postmoderno: una nuova mancanza di profondità che si estende anche alla teoria contemporanea e a tutta una nuova cultura dell’immagine o del simulacro; un conseguente indebolimento della storicità, sia in relazione alla Storia pubblica che alle nuove forme della nostra temporalità privata, la cui struttura schizofrenica determina nuovi tipi di sintassi o di rapporti sintagmatici nelle arti a dominante temporale; i rapporti profondi e costitutivi di tutto ciò con un’intera nuova tecnologia, che è essa stessa immagine di tutto un nuovo sistema economico mondiale[19].

Il problema principale resta l’assenza di un passato da utilizzare come riferimento che ha portato a un’esasperazione del qui e ora che a livello letterario, citando sempre Jameson, ha avuto effetti devastanti in ambito culturale, innanzitutto e soprattutto per quanto riguarda la produzione libraria.

La modernità, o meglio la corrente postmoderna, si muove in maniera complessa: risulta impossibile costruire un modello unico e generalizzabile per tutti. Si può dire, per semplificare estremamente, che questa si muova contemporaneamente in due direzioni opposte e contraddittorie; diverse posizioni, diversi approcci, diversi punti di vista portano allo sviluppo di un tipo di scrittura che non può essere altro se non frammentaria e molteplice, che tende più alla differenziazione che all’unificazione.

Le opere d’arte di una volta in altre parole ora risultano essere testi la cui lettura procede più per differenziazione che per unificazione. Le teorie della differenza hanno però cercato di sottolineate la disarticolazione a tal punto, che i materiali del testo, incluse le parole e le frasi, tendono a essere estromessi come elementi di passività inerti e casuali, separati gli uni dagli altri in modo puramente esterno[20].

La frammentazione della letteratura e della scrittura sembra essere una risposta a un’altra tendenza postmoderna che è quella della globalizzazione e dell’appiattimento che quest’ultima provoca a livello culturale. La modernità tende alla massificazione, alla banalizzazione fino alla «perdita delle caratteristiche originarie specifiche di ogni popolo, lingua compresa»[21]. Il cittadino, per utilizzare una definizione di Henri Lefebvre, scompare per lasciare spazio al consumatore. Mentre il primo voleva essere informato e rivendicava la propria importanza nella res publica, ricoprendo il ruolo di parte della società ma anche di suo critico, il secondo, il consumatore, si occupa esclusivamente di soddisfare i propri bisogni, spesso fittizi, e di avere accesso a servizi ai quali non riuscirebbe più a rinunciare.

La messa in discussione delle certezze che porta con sé il dibattito postmoderno non risparmia nemmeno la morale, anch’essa sentita dai contemporanei come priva di valore e fondamentalmente inutile. Viene esclusa categoricamente la possibilità di un sistema unitario di valori in cui la società moderna possa riconoscersi in maniera univoca e totale. La sua stessa struttura, basata sulla «differenziazione di sistemi parziali, in base alle loro funzioni»[22], tende a produrre negli individui che la compongono «criteri di priorità che non sono commisurabili con quello degli altri»[23]. Si ha quello che Luhmann definisce come privatizzazione della morale, ovvero la creazione di una morale diversa per ogni singolo che ha validità solo per lui, in risposta a una società moderna che ha completamente rinunciato alla costruzione di un sistema gerarchico tra i vari sistemi morali parziali, e che quindi non ha né un centro né un vertice: «con questa espressione s’intende simultaneamente che la totalità sociale non è più rappresentabile in termini nominativi, e che è lasciato ai singoli di avvalersi dei criteri selettivi offerti dalle valutazioni morali, accollandosi i rischi di conflittualità derivate»[24]. Neanche le nuove narrazioni sull’identità collettiva proposte dalle società contemporanee, dunque, possono sopperire a questa frammentazione tipica della modernità.

Il quadro generale è, dunque, molto complesso e articolato. C’è sicuramente un forte sentimento di rottura con il passato, molto più forte che nelle epoche precedenti, e un legame più complesso anche con il futuro. Nella letteratura questo si tradurrà in un rapporto a volte pieno di meraviglia e speranza verso il futuro, in un elogio del nuovo e di un avvenire che si è svincolato da ogni «zavorra del passato e da ogni clausola di attenzione per la realtà effettuale delle cose»[25]; altre volte, invece, si accentuerà lo spaesamento che l’eccessiva frammentazione dell’umanità provoca, esasperando gli aspetti più negativi della globalizzazione. Il movimento Cyberpunk si muoverà tra questi due estremi, senza mai cercare di trovare una posizione mediatrice, prendendo la complessità e le contraddizioni della modernità e mettendole nero su bianco, nel bene e nel male.

Origini e nascita del Cyberpunk

Entrando finalmente nel vivo del discorso, la nascita del termine “Cyberpunk” avvenne nel 1983 grazie alla penna dello scrittore di fantascienza Bruce Bethke, autore dell’omonimo racconto pubblicato sulla rivista «Amazing Stories»[26]. La scelta del termine non fu casuale, bensì una decisione precisa dello scrittore, alla ricerca di una parola che unificasse le due nature del racconto: quella fantascientifico-tecnologica e quella di ribellione contro il sistema.

Ho scritto la storia all’inizio della primavera del 1980 e, sin dalla prima bozza, era intitolata Cyberpunk. Nel chiamarla così, stavo cercando attivamente di inventare un nuovo termine che si giustapponesse tra atteggiamenti punk e alta tecnologia. Le mie ragioni per farlo erano puramente egoistiche e orientate al mercato: volevo dare alla mia storia un titolo scattante e di una sola parola che gli editori avrebbero ricordato. […]. Come ho effettivamente creato la parola? Nel modo in cui nasce una nuova parola, immagino: attraverso la sintesi[27].

Il movimento Punk nato verso la metà degli anni ’70, infatti, ebbe un ruolo non indifferente nella letteratura Cyberpunk. Sviluppatosi a cavallo tra Inghilterra e Stati Uniti, emerse come risposta all’eccessiva complessità del rock progressivo, ormai spogliato completamente della sua autentica grezza forza rivoluzionaria e diventato molto manieristico, ingabbiato nelle logiche dello showbiz dell’epoca. La voglia d’indipendenza del Punk si rifletteva nell’atteggiamento Do-It-Yourself o in breve DIY, ovvero fai da te. Le band si esibivano in locali indipendenti, si prodigavano autonomamente per i loro album, senza appoggiarsi a etichette discografiche, e registravano i pezzi con attrezzatura amatoriale. Simile atteggiamento si manifestava anche nei testi, spesso inerenti a problematiche sociali, con toni di protesta, quando non profondamente disillusi. Basti pensare a uno dei motti del movimento, ovvero No Future[28], che rispecchia perfettamente il suo sentimento di pessimismo verso il futuro nonché il rifiuto totale delle aspettative e delle convenzioni sociali tradizionali. Lo stile grezzo e le tematiche disilluse del No Future ebbero un’eco enorme nei testi cyberpunk, che molto spesso svilupparono le loro storie su figure di emarginati in lotta contro poteri più grandi di loro e, proprio per questo, destinati, la maggior parte delle volte, a fallire.

Tornando a Bethke, il suo racconto è importante non solo per aver coniato il termine “Cyberpunk”, ma per aver tratteggiato una delle figure tipiche degli eroi di questi romanzi, una figura indissolubilmente legata alla controcultura Punk e all’idea di ribellione in generale, quella dell’hacker:

Al di là della primogenitura del termine Cyberpunk, questo racconto è importante perché inventa lo stereotipo dell’Hacker punk con un mohawk. Protagonista della storia è infatti un adolescente che vive immerso in un mondo completamente tecnologico, che affronta con i suoi coetanei e con una propria cultura, diversa da quella della società tradizionale[29].

Bruce Sterling, altro autore fondamentale del movimento, in The Hacker crackdown approfondì ulteriormente l’argomento. La figura dell’hacker che emerge dal testo ha contorni decisamente sfumati: un po’ fuorilegge e un po’ eroe impegnato a combattere il sistema oppressivo. Sterling, tuttavia, è convinto del carisma che tali personaggi possiedono e non a caso saranno proprio i pirati informatici a essere al centro dei suoi romanzi cyberpunk:

[…] ma è una parte profonda e preziosa del carattere nazionale americano. Il fuorilegge, il ribelle, l’individuo forte, il pioniere, l’agricoltore resistente di tipo jeffersoniano, il cittadino privato che resiste alle interferenze nella sua ricerca della felicità: queste sono figure che tutti gli americani riconoscono e che molti sosterranno e difenderanno con forza[30].

L’aura romantica che ammanta questi personaggi è riconducibile al periodo in cui Sterling scrive, un periodo nel quale la cultura hacker non era legata, come oggi, ai crimini digitali o alla guerra informatica, ma si concentrava per lo più sull’esplorazione creativa dei sistemi informatici e sulla condivisione di informazioni.

Per quanto riguarda la creazione delle ambientazioni cyberpunk, un ruolo fondamentale per la costruzione dell’immaginario estetico di questo movimento letterario lo hanno giocato il mondo dei fumetti e del cinema. Molte delle labirintiche megalopoli di questo genere letterario si basano, infatti, su quanto visto nelle tavole de L’Incal di Moebius e nelle scene del capolavoro di Ridley Scott Blade Runner[31], a sua volta ispirato da Do androids dreams of electric sheep? di Philip K. Dick.

Il primo capitolo di L’Incal nacqe nel 1981, a seguito dell’incontro tra Alejandro Jodorowsky, noto regista cileno, e Jean Giraud, in arte Moebius. L’opera completa composta da sei volumi venne finita di pubblicare solamente sette anni dopo. Il fumettista francese era riuscito nell’intento di tratteggiare un universo ricco di dettagli, dove tutto è possibile, alternando con abilità passaggi completamente surrealisti a design di tecnologie fantascientifiche dettagliate e verosimili, fornendo nuovi elementi agli scrittori di sci-fi sui quali riflettere e sviluppare storie, soprattutto per quanto riguarda i cyberpunk. L’opera ottenne un grande successo, tanto che lo stesso Ridley Scott la citò fra le fonti d’ispirazione principali del suo Blade Runner, soprattutto per quanto riguarda la creazione della città e delle atmosfere cupe.

Le linee guida di Mirrorshades

Chiudendo con la breve presentazione delle fonti d’ispirazione del Cyberpunk, passiamo ora al primo manifesto del movimento, ovvero Mirrorshades[32], un’antologia di racconti che contiene al suo interno, nella lunga introduzione di Sterling, alcuni dei capisaldi della letteratura cyberpunk, delle sue caratteristiche principali, dalle tematiche trattate fino allo stile di scrittura.

Il manifesto si apre con la spiegazione della scelta del nome per il movimento, nome che aveva il compito di sintetizzare al suo interno le varie anime dello stesso, quella fantascientifica e quella rivoluzionaria:

Un neologismo che sembrava ostico anche agli orecchi di un lettore anglosassone ma che ebbe la capacità di sintetizzare immediatamente, di quel fenomeno, due aspetti centrali e in apparente contraddizione, come nella musica nella seconda metà degli anni Settanta con i Sex pistols e i Clash, il termine “punk” rimandava a un atteggiamento di rottura non solo nei confronti delle regole di un linguaggio (in quel caso il rifiuto di usare la sia pur minima sintassi musicale) ma più in generale nei confronti di uno stile di vita conforme a regole di convivenza stabilite che negavano l’individualità. Il termine cyber ricordava invece esplicitamente la cibernetica di Norbert Wiener, la nuova scienza del controllo degli organismi artificiali[33].

Secondo Sterling, l’elemento che lega i racconti dell’antologia e che la rende letterariamente omogenea è la presenza di un forte legame con la cultura di strada, strettamente connessa all’atteggiamento punk, soprattutto per quanto riguarda la lingua utilizzata. Sotto un’apparente eccessiva diversificazione di tematiche e personaggi, è possibile ritrovare «la costante di un linguaggio di frontiera che permette a culture marginali, etniche, di piccole comunità, al limite individuali»[34], di riuscire a incontrarsi, comunicare.

L’autore successivamente si dedica agli aspetti più contenutistici del movimento; utilizzando come base di partenza l’enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione di quel periodo, i Cyberpunk, ognuno in maniera autonoma, immagineranno un futuro diverso ma sempre simile, come spiegato nell’introduzione di Daniele Brolli e Antonio Caronia, curatori dell’edizione italiana di Mirroshades:

Questa situazione, dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione alla recente invenzione delle realtà virtuali, vede un intreccio di sensorialità, di attività cognitive, di emotività il cui luogo non è più solo la mente e il corpo dell’uomo, ma è improvvisamente una nuova sede virtuale in cui uomo e macchina si incontrano. Il cyberpunk ha intuito ed evidenziato prima di altri questo inedito destino[35].

Il Cyberpunk, afferma Sterling, è senza dubbio un prodotto degli anni ’80 e a essi riconducibile; tuttavia non va trascurata la profonda influenza che la letteratura di fantascienza precedente ha avuto sul movimento: «i loro precursori sono legioni», come dirà lo stesso autore.

Una delle prime fonti d’ispirazione del movimento a essere citata è la cosiddetta New Wave della fantascienza, un movimento che ha preso piede a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, che vede in James Ballard e Samuel Delany i suoi due massimi autori. Un aspetto centrale della scrittura di questi due autori[36], Delany soprattutto, che verrà ripreso anche dal Cyberpunk, è lo stile narrativo decisamente lontano da quello convenzionale; si predilige una scrittura non lineare, ricca di neologismi e giochi di parole, che costringono il lettore a uno sforzo per entrare appieno nel testo. La New Wave[37] si caratterizza per una forte componente emotiva dei suoi personaggi, prediligendola anche agli elementi scientifici e tecnologici della narrativa sci-fi classica; tuttavia, come nel Cyberpunk, c’è la tendenza a utilizzare la fantascienza come strumento esplorativo delle complesse dinamiche politiche e sociali presenti all’interno dei vari romanzi come, ad esempio, l’impatto della tecnologia nella vita dell’uomo e l’alto grado di disumanizzazione che un suo uso eccessivo può portare. Viene meno, in breve, l’idea della scienza e della tecnologia dei positivisti, che la vedevano come un faro per l’umanità e per la salvezza del pianeta, una lettura che all’interno di questi scrittori assume tinte più sfumate se non decisamente negative.

Il manifesto prosegue citando gli autori della fantascienza visionaria, forse la più importante per il genere Cyberpunk, che vede in Philip K. Dick e Thomas Pynchon i suoi esponenti maggiori. Quest’ultimo fu di particolare importanza soprattutto per l’influenza avuta su William Gibson, che lo citava apertamente e più volte come una delle sue maggiori fonti d’ispirazione[38], soprattutto per quanto riguarda il suo stile di scrittura articolato e l’approccio profondamente postmoderno alla narrazione.

Pynchon, infatti, è celebre soprattutto per il suo modus scribendi che spesso lega le sue strutture narrative non lineari alla costruzione di mondi intricati, non disdegnando l’utilizzo di neologismi creati ad hoc per descrivere elementi fantascientifici, tutti aspetti che comparvero in maniera massiccia nella Trilogia dello Sprawl di Gibson. L’opera di Pynchon che forse ha più influenzato lo scrittore cyberpunk è Gravity’s Rainbow[39] del 1973, un romanzo epico che esplora temi come la paranoia, la tecnologia, la guerra e il potere, e nel quale compare maggiormente la grande abilità di Pynchon nel giocare con le parole.

Pynchon, e ovviamente anche Dick, hanno inoltre contribuito allo sviluppo di tematiche molto care al movimento Cyberpunk come, ad esempio, l’onnipresente rapporto con la tecnologia. Entrambi gli autori hanno esplorato a fondo questo aspetto; Dick in Do Androids dream of Electic Sheeps? mette proprio al centro della sua narrazione la questione dell’etica legata allo sviluppo di esseri artificiali senzienti, andando oltre Isaac Asimov, e riuscendo a dipingere i suoi replicanti come più umani degli umani, in un ribaltamento completo delle prospettive. Il confine tra giusto e sbagliato tende a diventare nebuloso nei romanzi di Dick, un atteggiamento che molte opere Cyberpunk riprenderanno, dove le linee tra bene e male non sono mai tracciate in maniera netta.

Dopo aver omaggiato la base letteraria del Cyberpunk e averne riconosciuto i debiti, nel suo manifesto Sterling passa a definire la differenza del movimento rispetto alla letteratura sci-fi classica, concentrandosi prima di tutto sul profondo legame con la controcultura punk, soprattutto per quanto riguarda la forte carica eversiva e la voglia di rompere gli schemi tradizionali.

Altra peculiarità degli esponenti del Cyberpunk, secondo lo scrittore, è che sono la prima generazione di autori sci-fi a non essere cresciuti «soltanto all’interno della fantascienza come tradizione letteraria, ma in un vero e proprio mondo fantascientifico»; il legame che tiene unito il movimento, dunque, non è esclusivamente di natura letteraria, ma quasi generazionale.

Considerare il Cyberpunk un movimento più generazionale che letterario permette un approccio più trasversale all’argomento e, in parte, potrebbe spiegare il profondo successo in quegli anni; il lavoro dei cyberpunk trova diverse corrispondenze in campi apparentemente lontani da quello della letteratura, diventando un vero e proprio fenomeno pop. Grazie alla sua trasversalità, il Cyberpunk riesce a ridurre la distanza, l’enorme abisso sempre esistito tra la cultura letteraria (e delle arti) e il mondo della cultura scientifica e dell’ingegneria. Per Sterling il venir meno di questo abisso è legato al periodo storico; un periodo nel quale i progressi della scienza sono a tal punto radicali e sconvolgenti che risulta impossibile limitarli e contenerli: influenzano inevitabilmente la cultura nel suo insieme, pervadendola sotto ogni aspetto. Inevitabile, dunque, che la figura del ribelle punk degli anni ’80 finisca per intrecciarsi con argomenti legati allo sviluppo tecnologico, dando vita a questa strana unione tra controcultura e tecnologia.

Partendo dalla realtà, il Cyberpunk proietta ciò che vede in un futuro non troppo distante, esasperandone gli aspetti positivi e negativi, con il risultato di creare un qualcosa che «si stenta a definire realtà perché i suoi termini e i suoi confini sfuggono di continuo alla percezione della logica». Solo attraverso un’analisi destrutturale completa, concentrandosi sull’elemento individuale all’interno della narrazione è possibile «fare luce sul nucleo più remoto, segreto e vero, su quella più reale dei processi e delle contraddizioni del mondo dell’individuo[40]».

Nel Cyberpunk, dunque, la tipica esplorazione spaziale della fantascienza viene completamente ribaltata:

le modalità del viaggio si sono spostate dall’esplorazione dei pianeti a quelle, contrarie, dall’esterno verso l’interno: una rappresentazione interiore anche psicoanalitica, ma non necessariamente tale, a condizione che il lettore in prima persona decida quale chiave di lettura utilizzare. Perché viene posto di fronte a un mondo che si sta delineando all’orizzonte, in una presa diretta che registra gli scossoni di una nuova mutazione della sensibilità[41].

Nonostante presenti diversi elementi di rottura con la tradizione letteraria classica, il Cyberpunk può essere accostato alla letteratura di tipo fantascientifico, più precisamente al genere distopico. L’appartenenza a questa sottocategoria della fantascienza è legata al tipo di mondo e di futuro che viene descritto nei romanzi di questo genere, molto raramente positivo, anzi, molto spesso catastrofico sotto diversi aspetti. La letteratura catastrofista ha sempre suscitato un notevole interesse, riuscendo ad appassionare generazioni di lettori sin dalla sua nascita. La ragione di ciò sta nell’indubbio fascino che le situazioni di orrore, paura e terrore generano, riuscendo a tenere il lettore coinvolto nella lettura, tutte caratteristiche che sono comuni in ogni opera distopica. L’altro elemento fondamentale è il potere esorcistico che simili opere esercitano, soprattutto attraverso l’assenza del classico lieto fine a chiudere la narrazione.

Sulla maggiore utilità di un finale negativo rispetto a uno lieto si pronunciò già Leopardi nello Zibaldone. Secondo lo scrittore, il lieto fine ha la pecca d’illuderci che la giustizia e l’ordine possano essere ristabiliti in maniera definitiva, un avvenimento possibile solo nella nostra immaginazione. Senza il lieto fine, al contrario, nel lettore rimane una certa sensazione di disagio e rincrescimento per l’esito della storia; le ferite non vengono risanate, le varie tensioni e situazioni sospese all’interno dell’opera continuano ad agire anche al suo termine, lasciando così un segno più profondo in chi legge.

Il genere distopico ha la caratteristica di rapportarsi con realtà alterative, situate quasi sempre in un futuro prossimo, con lo scopo di permettere al lettore di agire al fine di evitare che un disastro annunciato diventi realtà. Contiene un «avvertimento di un esito che però, non essendo per il momento avvenuto, può essere ancora impedito»[42]. La scoperta del rapporto di continuità che intercorre tra il nostro mondo, quello di chi legge per intenderci, e l’universo parallelo immaginato dallo scrittore, un universo del quale non si conoscono le leggi e le regole e quindi imprevedibile, provoca un profondo disagio e un motivo di allerta.

Altro elemento condiviso che il Cyberpunk condivide con la letteratura distopica è l’assenza di eroi degni di questo nome, capaci di ribaltare gli esiti della storia attraverso azioni fuori dal comune. Il ruolo dell’eroe si limita per lo più a quello di osservatore, sicuramente consapevole di quello che sta accadendo ma incapace di agire in qualsiasi modo per evitare la catastrofe dalla quale spesso viene completamente travolto.

La narrativa distopica-cyberpunk, quindi, si presenta con delle caratteristiche ben precise: la prima riguarda il personaggio, che vive ai margini della società, è una «figura di outsider ribelle o sopravvissuto che sia, che entra in contraddizione con il mondo distopico e in tal modo ne porta alla luce l’aspetto aberrante»[43], una sorta di visitatore-osservatore che porta le scomode vesti del perseguitato; la seconda caratteristica fondamentale riguarda l’enunciato del racconto, sempre definito da toni cupi e pessimistici, ma che «viene negato dal suo atto di enunciazione che di per sé risulta essere intrinsecamente ottimistico, nel senso che presuppone, malgrado tutto, che valga ancora la pena raccontare[44]»; terza caratteristica fondamentale di questo genere letterario è la sua mancanza di confini ben delimitati, mancanza che si traduce nella difficoltà di individuare quale sia l’elemento più decisivo «se la trama oppure il mondo possibile perché il punto nevralgico è proprio il pericolo che quell’esito immaginario possa verificarsi»[45].

Per quanto sempre proiettato nel futuro, il genere distopico ha, come già accennato, un profondo legame con il presente e non tenta mai di proporsi come una letteratura leggera o evasiva. In un certo senso la distopia è quella che più si avvicina alla storia: forse è la forma di racconto più radicalmente storica dei nostri tempi. Questa, infatti, si mette perennemente a confronto in maniera spesso sofferta e contrastante, con il presente e con «il corso storico e i suoi esiti tendenziali»[46].

Nel Cyberpunk le tematiche maturate da speculazioni su problemi presenti sono innumerevoli: basti pensare alla rappresentazione che viene fornita della società moderna capitalista, attraverso le descrizioni dello strapotere delle megacorporazioni, agglomerati di multinazionali che con i loro investimenti e il loro denaro controllano direttamente la politica del mondo, non curandosi affatto dei danni che le loro manovre causano alla società e agli strati di popolazione meno abbienti.

La critica al capitalismo, e al sistema di valori a esso strettamente legato, è un motivo ricorrente di gran parte della letteratura Cyberpunk ma anche di quella fantascientifica classica. Ricordiamo, ad esempio, l’opera di Herbert George Wells The time Machine del 1895, dove è l’autore stesso a dichiarare in maniera esplicita che il divario tra benestanti e non è un baratro che non può far altro che allargarsi. Nel libro, ricchi e poveri abitano in due zone diverse: i primi alla luce del sole, in alto in grattacieli tra le nuvole dove l’aria è ancora respirabile; i secondi, al contrario, occupano i piani più bassi, fino ai livelli sotterranei dove sono situate la maggior parte delle fabbriche, lontane dagli sguardi della popolazione più abbiente. La stessa dinamica tra alto e basso, povero e ricco, verrà rappresentata ancora meglio dalle imponenti architetture del già precedentemente citato film di Ridley Scott, Blade Runner, a loro volta provenienti dalla space-opera a fumetti L’Incal di Moebius, pubblicata nei primissimi anni Ottanta. Nelle sue tavole, infatti, l’autore disegnava delle città a strati, dove gli edifici si sovrapponevano così densamente da rendere impossibile vedere la cima della città o il suo fondo: una metropoli di tali dimensioni da rendere gli umani solo delle sagome confuse, quando li si osserva. Un ridimensionamento del ruolo dell’uomo, ridotto a una particella insignificante facente parte di un organismo più grande, quello della città appunto, e che, attraverso questo ripensamento della sua centralità, finisce con il perdere la sua vera essenza: la sua individualità.

A questa riflessione se ne lega un’altra: quella sullo svilupparsi di mezzi comunicazione sempre più sofisticati ma sempre più virtuali, che ormai influenzano in maniera inevitabile il nostro modo di vivere la socialità e il contatto con gli altri esseri umani. I non eroi dei romanzi cyberpunk vivono in un profondo stato di solitudine in mezzo alla gente. Alla lontananza fisica provocata dai mezzi di comunicazione si aggiunge un’esasperazione dei valori della società dell’immagine, basata sull’aspetto esteriore, sul rincorrere canoni estetici inarrivabili, sul dover arrivare al successo a tutti i costi; tutti elementi che tendono a isolare ancora di più l’individuo dal suo prossimo, creando quello stato di dissociazione dall’umanità tipico dei protagonisti del Cyberpunk. Secondo Jameson, il problema nasce proprio nei tempi moderni:

nell’esaminare il declino dell’affetto, la cosa migliore forse è cominciare dalla figura umana; è evidente che ciò che è vero per la mercificazione dell’oggetto vale ancora di più per la figura umana: le stelle del cinema sono già mercificate e trasformate nella propria immagine. […] quando si costituisce la propria soggettività individuale come un campo autosufficiente e un regno chiuso su se stesso, ci si preclude l’accesso a ogni altra cosa, costringendosi all’asfittica solitudine della monade, sepolti vivi e condannati a una prigione senza uscita[47].

Riconducibile al discorso sulla paura per lo sviluppo tecnologico incontrollato, troviamo un altro tema mutuato dalla letteratura passata, ma che il movimento Cyberpunk ha fatto suo, rielaborandolo completamente e in maniera originale: il tema del cyborg e dell’orrore per l’umanità deformata. Nel Cyberpunk il tema dell’inumano viene affrontato attraverso la figura del cyborg, ibrido tra uomo e macchina che mette seriamente in discussione «la necessità delle parti e le loro gerarchie interne, permettendo di ri-significare i confini funzionali di ciò che è rispetto a come potrebbe e dovrebbe essere»[48].

Negli anni Ottanta, questi scenari con uomini metà macchina, capaci di interfacciarsi ad altre macchine o di connettersi alla rete, rimanevano confinati all’interno della narrativa di fantascienza o nel cinema. Agli occhi di un lettore del XXI secolo, invece, non sembrano distaccarsi troppo dalla realtà; basti pensare alla tecnologia Neuralink che, nel momento della stesura di questo testo, ha raggiunto lo stadio della sperimentazione umana, con una lunghissima lista d’attesa di volontari pronti a farsi impiantare questo chip nel cervello. La tecnologia, sviluppata dall’omonima azienda di Elon Musk, ha creato un microchip capace di registrare ogni segnale del cervello e di collegarsi a un computer, aprendo nuove frontiere e allargando i confini dei limiti delle capacità umane di integrarsi con la tecnologia. L’architettura interna del cervello umano è stata, ormai, quasi completamente codificata, annunciando la dissoluzione completa dei confini del corpo umano. Ciò che era semplicemente un elemento di speculazione per la letteratura distopica e cyberpunk è divenuto oggi realtà. Questa fusione tra uomo e macchina apre nuovi orizzonti e possibilità: l’essere umano diventa a tutti gli effetti un cyborg con estensioni invisibili e impercettibili.

Abbiamo precedentemente parlato della distanza tra i ceti benestanti e non nella letteratura Cyberpunk, una distanza che si concretizza in un sistema che ricorda quello delle caste; nella letteratura distopica esistono diversi tipi di organizzazioni sociali simili, spesso intrinsecamente legati al concetto di assolutismo nelle sue versioni più morbide, se così si possono chiamare. La narrazione di realtà assolutistiche negative, siano esse ottenute attraverso l’uso della forza o con mezzi più subdoli, si collega a un’altra tendenza profondamente legata alla letteratura distopica che molto spesso compare anche nel Cyberpunk, ovvero quella del complottismo.

Il complottismo, secondo Jameson, «è un processo immaginativo chiaramente osservabile in un intero filone della letteratura d’intrattenimento contemporanea», che nel Cyberpunk s’identifica spesso con una paranoia verso le tecnologie. Sovente, delle IA fuori controllo utilizzano le loro capacità per ordire complicatissime trame; altre volte, invece, il complotto è lasciato nelle mani degli umani. Nel Cyberpunk, infatti, saranno le corporazioni più che gli stati a farsi guerra, portando il conflitto su scala privata ma con conseguenze globali. Il proliferare delle teorie della cospirazione, sempre secondo Jameson, è dovuto alla grande complessità del sistema moderno, caratteristica che risulta difficile comprendere appieno e che, quindi, spinge a interpretazioni molto spesso fantasiose:

La teoria della cospirazione deve essere considerata come un tentativo degradato attraverso la rappresentazione formale di una tecnologia avanzata di pensare l’impossibile totalità del sistema mondiale contemporaneo. Soltanto nei termini di quell’altra realtà, quella delle istituzioni economiche e sociali, enorme e minacciosa ma percepibile soltanto oscuramente, è a mio avviso possibile teorizzare adeguatamente il sublime postmoderno[49].

Luogo preferito dalla letteratura Cyberpunk nel quale ambientare i suoi complotti è il cyberspazio, termine comparso per la prima volta nel 1984 ad opera della penna di William Gibson, uno dei padri fondatori della corrente, nella sua opera Neuromante.

Il cyberspazio è, semplificando molto, una sorta di universo parallelo al nostro, basato sui sistemi delle reti globali e sulla comunicazione informatica, un mondo in cui avvengono scambi di ogni genere: conoscenze, segreti, svaghi. Una specie di rete internet ma molto più interattiva, nella quale, attraverso l’utilizzo di specifiche tecnologie, è possibile muoversi come nella vita reale. Il cyberspazio, tuttavia, non è semplicemente un’enorme banca dati accessibile a tutti, come appunto internet; il suo ruolo nella letteratura Cyberpunk è ovviamente ben più complesso: è una sorta di luogo mentale collettivo dove si vengono a configurare nuovi simboli. Siamo davanti a un fenomeno molto più complesso di quanto s’immagini: una «potente tecnologia mnemonica collettiva che promette di avere un impatto, se non rivoluzionario, almeno importante sulla futura composizione delle identità delle culture umane»[50].

Gibson, oltre ad aver coniato il termine, ha dedicato molta attenzione alle implicazioni di natura sociale ed economica di questo spazio nel contesto del mondo postindustriale e postmoderno. La sua scelta di trattare una società fondata sull’informatica e basata su di un’economia di stampo transnazionale, e cyberspaziale, è una scelta interessante soprattutto perché, come osserva anche il suo collega Sterling, viene dipinta «come se fosse viva, non come arida speculazione»[51].

La realtà virtuale del ciberspazio, come detto, permette un’interazione totale con il mondo dell’informazione; è un luogo «consensuale tridimensionale o, con la terminologia di Gibson, una allucinazione consensuale in cui è possibile visualizzare, sentire e perfino toccare i dati»[52]. I dati e gli individui o, meglio, la loro rappresentazione tridimensionale, in questa realtà alternativa, hanno una propria forma, una tecnologia che negli anni ’80 sembrava pura fantascienza ma che oggi lo è decisamente meno: basti pensare al progetto del Metaverso di Mark Zuckerberg.

Il termine Metaverso deriva direttamente dalla letteratura Cyberpunk, e più precisamente da un’opera di Neal Stephenson intitolata Snow Crash[53] dove l’autore descrive una realtà virtuale condivisa tramite internet nella quale è possibile interagire tramite un avatar. Il progetto di Zuckerberg ricalca più o meno quello del libro: la creazione di un cyberspazio condiviso da tutti nel mondo reale. Allo stato attuale siamo molto distanti dalla realizzazione di quanto immaginato da Gibson; tuttavia, alla velocità con la quale la tecnologia procede, l’obiettivo sembra oggi più che mai alla nostra portata.

Il cyberspazio rappresenta un cambiamento radicale del modo con cui interagiamo con i dati. Ad oggi, le informazioni sono altro rispetto a noi, sono esterne; l’idea di cyberspazio rivoluziona questo rapporto, collocando noi stessi all’interno dell’informazione.

La diffusione della cyber-parola: il ruolo delle riviste

La diffusione del Cyberpunk è stata molto rapida, probabilmente anche a causa del grande successo di alcune pellicole a esso riconducibili come il già citato Blade Runner, uscito nel 1982 mentre Gibson era ancora impegnato nella stesura del Neuromante ‒ che, a detta dello stesso scrittore, conteneva al suo interno tutto quello che voleva scrivere; la visione del film colpì a tal punto lo scrittore che al termine della proiezione, uscì dalla sala in lacrime ‒; o John Mnemonic[54], quest’ultimo ispirato direttamente all’omonimo racconto di Gibson; o altri numerosi film d’ambito fantascientifico come Terminator[55] o Robocop[56]. Un ruolo centrale lo ebbe anche il settore dell’animazione e quello dei fumetti con il manga Akira, successivamente portato sul grande schermo nel 1988 da Katsuhiro Otomo, autore giapponese nato come fumettista, poi divenuto un regista, e che ha contribuito, principalmente grazie alla trasposizione filmica della sua opera, alla diffusione di anime e manga in Occidente e in Italia.

Oltre all’indubbia importanza della produzione cinematografica dell’epoca, un ruolo predominante per la diffusione del cyberpunk tra il grande pubblico lo ebbero le riviste letterarie. Per quanto riguarda la lingua inglese, le più importanti, anche se non le uniche, furono l’americana «Amazing Stories» e l’inglese «Interzone», riviste nate per la fantascienza classica ma che tra gli anni Ottanta e Novanta ospitarono numerosissimi racconti dedicati al Cyberpunk.

La più vecchia è «Amazing stories», nata nell’aprile del 1926 grazie alla casa editrice di Hugo Gernsback[57], la Experiementer Publishing, fondata nel 1915 e fin da subito attiva nel campo dell’innovazione scientifica con riviste quali «Electrical Experiementer», dedicata interamente alle invenzioni più recenti.

«Amazing stories» venne pubblicata, con qualche interruzione, per novantadue anni, cambiando diversi editori a causa delle difficoltà di vendita. L’approccio editoriale pensato da Gernsback, però, fu costante, nonostante i vari cambi di gestione: una giusta commistione tra autori vecchi e nuovi, con sempre un occhio di riguardo per la qualità letteraria, senza però rinunciare all’aspetto puramente d’intrattenimento. Gernsback credeva fermamente nel potere formativo della letteratura di fantascienza e nel dialogo con il pubblico; proprio per questo decise di dedicare una rubrica della sua rivista alle lettere dei lettori: «the letter columns in Amazing, where fans could make contact with each other, led to the formation of science fiction fandom, which in turn had a strong influence on the development of the field»[58]. Numerosissimi gli scrittori che hanno pubblicato sulle sue pagine, come John Campbell, Isaac Asimov e, per quanto riguarda il Cyberpunk, Gibson, Sterling, Rudy Rucker, autore dell’articolo What is Cyberpunk, e Bruce Bethke, autore del racconto Cyberpunk!, che diede successivamente il nome al movimento letterario. La rivista ha chiuso in maniera definitiva la pubblicazione cartacea nel 2005, ma sopravvive ancora oggi in versione digitale[59].

«Interzone» nasce, invece, in Inghilterra nel 1982 grazie a un collettivo di otto appassionati: John Clute, Alan Dorey, Malcolm Edwards, Colin Greenland, Graham James, Roz Kaveney, Simon Ounsley e David Pringle, tutti fan della rivista di fantascienza «New Worlds»[60]. Secondo Alan Dorey, l’idea alla base del gruppo era quella di ricreare «New Worlds per gli anni ’80, qualcosa che pubblicasse solo grandi romanzi e sarebbe stato uno sbocco adeguato per i nuovi scrittori»[61]. Nel 1984 il progetto del collettivo editoriale destò l’interesse di David Pringle che decise di finanziarlo, diventando a tutti gli effetti il motore economico della rivista. Con l’affermarsi della stessa arrivò il sostegno di varie associazioni culturali come l’Arts Council of Great Britain, la Yorkshire Arts e la Greater London Arts Association.

La rivista viene inizialmente pubblicata con cadenza trimestrale, dal 1982 all’estate del 1988, data in cui avvenne il passaggio alla pubblicazione bimestrale, fino al 1990. Da questa data in poi, per più di dieci anni, «Interzone» è uscito mensilmente in edicola fino al 2003, dove a causa di diversi problemi di programmazione e slittamenti è tornato al formato dei due mesi. Nonostante le difficoltà, la rivista è oggi ancora in attività, unica tra quelle storiche degli anni Ottanta a non essere mai stata interrotta. Oltre ad aver ospitato al suo interno grandi firme della fantascienza classica e della New Wave, ha contribuito alla diffusione del Cyberpunk, dando spazio ad autori maggiori, come Gibson e Sterling, e a numerosi loro emulatori.

Sterling è stato particolarmente attivo sulle pagine di «Interzone», pubblicando una serie di sei articoli sulla fantascienza, di cui uno, l’ultimo, specificamente sul Cyberpunk, intitolato Cyberpunk in the Nineties, uscito nel giugno del 1991. In questo articolo lo scrittore fa il punto sullo stato del movimento, percorrendone le tappe fondamentali e partendo dal suo organo di propaganda:

Cyberpunk’s one-page propaganda organ, Cheap Truth, was given away free to anyone who asked for it. It was never copyrighted; photocopy “piracy” was actively encouraged. Cheap Truth’s contributors were always pseudonymous, an earnest egalitarian attempt to avoid any personality-cultism or cliquishness. Cheap Truth deliberately mocked established “genre gurus” and urged every soul within earshot to boot up a word- processor and join the cause. CT’s ingenuous standards for SF were simply that SF should be “good” and “alive” and “readable”. But when put in practice, these supposed qualities were something else again. The fog of battle obscured a great deal at the time[62].

Sterling sottolinea come inizialmente una delle linee guida principali del Cyberpunk fosse quella di scrivere in modo da superare, abbandonare definitivamente le forme classiche della narrativa di fantascienza classica, ormai affollata di trame sempre uguali e da invenzioni narrative di poco impatto. L’assenza di confini ben definiti e un’enorme libertà espressiva formale furono per molto tempo le due maggiori cifre stilistiche della narrativa Cyberpunk. I problemi, secondo Sterling, cominciarono quando il movimento cominciò a essere riconosciuto in quanto tale:

When “cyberpunk writers” began to attract real notoriety, the idea of cyberpunk principles, open and available to anyone, was lost in the murk. Cyberpunk was an instant cult, probably the very definition of a cult in modern SF. Even generational contemporaries, who sympathized with much Cheap Truth rhetoric, came to distrust the cult itself, simply because the Cyberpunks had become “genre gurus” themselves[63].

Sterling spiega come il Cyberpunk sia qualcosa che prescinde dalle singole opere prodotte da un autore. Non tutto quello che scrivono i Cyberpunk è cyberpunk: basti pensare che Sterling stesso ha sempre avuto un debole per il fantasy d’ambientazione storica; Shiner per i racconti del mistero; Shirley per quelli dell’orrore e Gibson, in maniera abbastanza sorprendente, ha una forte passione per le storie brevi di carattere comico. Secondo Sterling, dunque, il Cyberpunk rimarrà in vita finché gli autori di questo movimento, che si son fatti portavoce di una generazione, non saranno morti e sepolti. E, scherza Sterling, «demographics suggest that this is likely to take some time».

Sterling sposta successivamente il suo discorso su come, ora più che mai, sia necessario un movimento in grado parlare della realtà, senza voltarsi dall’altra parte. Il problema principale al giorno d’oggi, per l’autore è che «We’re just not much good any more at refusing things because they don’t seem proper. As a society, we can’t even manage to turn our backs on abysmal threats like heroin and the hydrogen bomb. As a culture, we love to play with fire, just for the sake of its allure»[64]. Proprio per questo, secondo l’autore, è necessario un nuovo cyberpunk, capace di mettere in luce le enormi contraddizioni della società contemporanea e di mostrarne tutta l’ipocrisia. Questo atteggiamento, anima del Cyberpunk, è per Sterling l’eredità del movimento, un qualcosa che sfugge alle etichette e alle definizioni, e che è destinato a sopravvivere alla morte del Cyberpunk in senso stretto.

Mentre nei paesi anglosassoni si parlava della fine del movimento, questo trovava nuova linfa vitale nel vecchio continente. In Francia, ad esempio, la rivista «Métal Hurlant»[65], dedicata principalmente ai fumetti d’autore, pubblicò proprio in quel periodo numerosi scrittori Cyberpunk.

La rivista nacque nel 1975, in un periodo contraddistinto da numerose innovazioni per quanto riguardava l’editoria a fumetti francese. Il fondatore Jean-Pierre Dionnet era uno sceneggiatore appassionato di fantascienza con il sogno di creare una rivista a essa esclusivamente dedicata e destinata a un pubblico maturo. Il numero di debutto poté contare su grandi nomi di autori francesi come Philippe Druillet[66] e Moebius, autore del già citato L’Incal e molto legato al Cyberpunk, e sulle competenze editoriali di Bernard Farkas[67].

La rivista venne pubblicata dalla neonata Les Humanoides Associes, fondata proprio dagli stessi autori in concomitanza con l’uscita del primo numero di «Métal Hurlant». Fu un esperimento inedito per la Francia, profondamente ispirato dalla fumettistica alternativa sudamericana, esplosa un decennio prima con la rivista argentina «Hora Cero», ma con linee guida più morbide per gli autori, lasciati liberi «di esprimere sé stessi senza alcuna barriera se non l’aspirazione alla qualità assoluta»:

La rivista ebbe un impatto culturale enorme sul panorama a fumetti dell’epoca, grazie al desiderio di innovare e di andare oltre quelli che erano i paradigmi della fantascienza a fumetti classica, ancora vincolata a battaglie spaziali ed eroi stereotipati o, viceversa, al minimalismo pop-fantastico dei magazine pulp degli anni ’60[68].

Grazie al fiuto editoriale di Druillet, vennero scovati nuovi giovani autori promettenti, anche al di fuori dei confini francesi, che presto finirono per ingrossare le fila della rivista come, ad esempio, l’italiano Milo Minara[69] o il cileno Alejandro Jodorowski. Il modello adottato da «Métal Hurlant» arrivò fino agli States:

Insospettabilmente, gli “umanoidi associati” sbarcarono al di là dell’Oceano prima ancora di conquistare il resto d’Europa. Merito di Leonard Mogel, editor della National Lampoon (la casa editrice dell’omonimo magazine satirico) che, imbattutosi in un numero della rivista francese, decise di acquisire i diritti per lanciare una versione americana. La storica rivista Heavy Metal esordì nell’aprile del 1977 e fu un successo, con un impatto paragonabile o superiore a quello di Métal Hurlant in Francia, e certo con una longevità ancora maggiore ‒ esce tuttora a regolare cadenza bimestrale[70].

Questa operazione consentì di far conoscere oltreoceano il meglio dei fumettisti europei, portando il successo di «Métal Hurlant» al livello internazionale. Nel 1980 la rivista cominciò ad aprire sedi anche in Germania; dopo un anno toccò a Italia e Olanda; nel 1982 e nel 1984 rispettivamente aprirono la succursale danese e svedese. «Métal Hurlant» ebbe un gran successo, dovuto soprattutto ai contenuti forti, una novità assoluta nel panorama francese ed europeo, che le fece guadagnare il bollino di «riservata agli adulti» fin da subito. La forte matrice sperimentale e innovativa della rivista, perfettamente in linea con i principi enunciati dal Cyberpunk, si rivelò tuttavia un’arma a doppio taglio; la libertà totale che venne data agli autori spesso si tradusse in interessanti tentativi di rinnovamento formale e grafico, a scapito però di sceneggiature e trame solide, problema che con il tempo portò a un calo d’interesse verso la rivista e alla sua temporanea chiusura verso la fine degli anni Ottanta.

L’eredità del periodico, però, arriva fino ai giorni nostri, con periodici come il francese «Zoulu» e l’italiano «Eternauta», entrambi profondamente ispirati da «Métal Hurlant». Nel 2022, infatti, grazie a un’operazione di raccolta fondi in rete, la rivista ha definitivamente riaperto i battenti, anche se profondamente mutata rispetto alla sua forma originale: «Oggi la fantascienza ha un volto completamente diverso da quello degli anni Settanta e Ottanta. Non propone più astronavi e guerre stellari, ma coincide quasi con la realtà, con quello che sarà fra un mese o fra un anno: «Il futuro è già domani» si legge sulla copertina di Ugo Bienvenu»[71].

In Italia invece, il Cyberpunk arrivò in ritardo, nel 1986, data in cui esplose e cominciò a diffondersi, con un successo che arriva fino ai giorni nostri; è infatti possibile affermare «senza troppi dubbi o incertezze che in Italia il movimento cyberpunk si sia trovato a vivere, e forse stia vivendo tuttora, una sorta di insospettabile primavera tardiva»[72]. Veicolo di diffusione del movimento in Italia fu la rivista «Cosmo Informatore», nata nel 1979 grazie all’Editore Nord, la prima a pubblicare testi Cyberpunk al suo interno.

L’Italia è sempre stata in ritardo rispetto al nuovo che avanza, soprattutto per quanto riguarda il settore tecnologico, fattore che ha influenzato anche l’editoria che si è accorta delle problematiche del Cyberpunk, e del movimento stesso, a ridosso degli anni Novanta. Il processo di sviluppo ha seguito delle linee diverse rispetto a quelle originali d’Oltreoceano, ma ha mantenuto un forte legame con lo spirito innovativo del movimento, con le teorie del Postmoderno e delle sue avanguardie, divenendo paradossalmente più fedele, nel tempo, alle linee guida originali del Cyberpunk. Dopo un primo periodo di forte reazione e rottura con il tradizionalismo della letteratura di fantascienza classica, infatti, gli americani cominciarono a sviluppare una «sorta di esclusivista questione del purismo cyberpunk», creando un rigido canone da rispettare per far parte a tutti gli effetti del movimento. In Italia, invece

[…] anche se si crea una forte, strutturata connection editoriale che comprende narrativa, saggistica e stampa dedicata, non prenderà mai campo un vero e proprio ‘canone cyberpunk’, né si verificheranno tentativi di redigere liste di autori istituzionalmente autorizzati a divulgare la cyberparola o di opere pure da contrapporre a spurie produzioni di epigoni[73].

Il particolare Cyberpunk italiano trovò subito terreno fertile con la casa editrice milanese Shake, nata nel 1988 per volontà di un piccolo collettivo editoriale, già attivo nell’ambito dell’organizzazione di eventi legati alla controcultura dell’epoca. Nella formazione originale troviamo Primo Moroni, Raf Scelsi, Ermanno Guarneri e Marco Philopat. Prima di aprire la casa editrice il gruppo, nel 1985, gestiva una trasmissione, in onda con cadenza settimanale, su Radio Popolare, intitolata Tensioni Radiozine al quale si affiancava una rivista che aveva il compito non facile di «proiettare il dibattito politico “oltre” gli anni Ottanta e sperimentare in maniera nuova i territori dell’arte, della cultura cibernetica e delle controculture: Decoder»[74].

Il primo numero della rivista uscì nel giugno del 1987; in pochissimo tempo divenne un punto di riferimento per chiunque in Italia volesse avvicinarsi alla controcultura Cyberpunk e ai suoi autori. «Decoder» non si limitò a questo:

La rivista non solo era orientata a produrre idee per il nuovo decennio, ma anche concretamente coinvolta nell’elaborare e progettare le reti telematiche amatoriali di base, quelle che allora si chiamavano BBS, che avrebbero permesso alle situazioni ‘antagoniste’ italiane di dotarsi di proprie reti per scambiare opinioni e comunicati, in anticipo rispetto all’esplosione del fenomeno Internet, che sarebbe avvenuto solo a partire dal 1994-96[75].

Il gruppo di «Decoder» si dedicò inoltre alla definizione dei principali temi critici di queste reti, dando un contributo centrale alla formazione del pensiero di questi movimenti antagonisti. Particolare attenzione fu data al tema della privacy, alla questione del copyright, alla distribuzione gratuita di materiale, al digital divide, all’overload informativo e ad altri argomenti affini. La rivista arrivò a vendere circa diecimila copie per numero, tra il 1987 e il 1996, ricoprendo un ruolo importante nello «sviluppo di una coscienza critica e democratica nell’uso delle nuove tecnologie nel nostro paese»[76].

Nel 1990 la Shake si confermava ancora una volta la più attiva in ambito Cyberpunk, pubblicando Cyberpunk. Antologia di scritti politici[77], a cura di Raf Valvola Scelsi. Il testo ebbe un grande successo, arrivando a vendere più di ventimila copie ed entrando in ristampa nel 2007; divenne, inoltre, centrale nel dibattito italiano sulle problematiche legate all’informatizzazione e alla sua eccessiva pervasività all’interno delle nostre vite. Durante la presentazione del libro avvenuta al Festival del teatro di Sant’Arcangelo di Romagna, la cooperativa di Shake organizzò una serie di eventi a tema Cyberpunk, rimanendo fedele all’organizzazione di eventi controculturali che l’aveva contraddistinta prima dell’apertura della casa editrice.

La collaborazione con il Festival del Teatro durò per circa tre anni, intersecandosi anche con la partecipazione al Festival di Poesia di Milano, organizzato dal gruppo ruotante intorno a Gianni Sassi, occasione nella quale l’ensemble Shake-Decoder poté organizzare una serie di dibattiti con alcune delle figure più importanti della scena hacker mondiale: Wau Holland, Bill Squire, il gruppo olandese di Hacktic e il Chaos Computer Club di Amburgo[78].

In ambito internazionale, la casa editrice Shake iniziò una collaborazione, all’inizio degli anni Novanta, con la rivista californiana «Re/Search», della quale vennero pubblicati e tradotti alcuni numeri dedicati a singoli scrittori come, ad esempio, William B. Burroughs e James G. Ballard, o ad altre tematiche specifiche come il femminismo cyber di Donna Haraway o a studi sulle controculture più importanti del mondo e sulla loro diffusione. In poco più di vent’anni la Shake edizioni arrivò a costruirsi un catalogo di circa centocinquanta titoli diversi, tra romanzi Cyberpunk, saggistica e narrativa di genere, senza dimenticare i vari movimenti ispirati, le attività culturali organizzate e l’impegno in campo artistico e politico: «Sue creature furono i “Decoder media party”, delle straordinarie feste dedicate al cyberpunk, la mitica “Piazza Virtuale” del 1992 sotto la direzione del Ponton Media Lab di Amburgo che diventò un vero e proprio topos mondiale della comunicazione digitale e decine di altri happening underground»[79].

Alcuni dei fondatori di Shake hanno lavorato anche per altre case editrici, come, ad esempio, Raffaele Scelsi, che dal 1995 ha curato la collana «Interzone», nome ispirato alla rivista di fantascienza inglese, per la Feltrinelli. Questa collana ha avuto il merito di portare in Italia alcuni autori fondamentali del movimento Cyberpunk come Pierre Lévy, Donna Haraway, Tim Berers-Lee e Mike Davis, solo per fare alcuni nomi. Sterling stesso ha ammesso il grande valore del lavoro svolto da Shake; durante un’intervista in una delle librerie della casa editrice, Sterling riconobbe come l’ambiente creato da Shake «sia una sorta di mondo cyberpunk realizzato, qualcosa di simile a quanto previsto nei racconti e nei romanzi»[80].

La Shake edizioni, tuttavia, non ebbe il monopolio sul Cyberpunk. Un’altra casa editrice che rivestì un ruolo fondamentale nella diffusione del movimento in Italia fu l’Editore Nord, anch’essa con sede a Milano. Il primo volume prettamente Cyberpunk venne pubblicato nel 1994, nella collana «Grandi Opere», con il titolo Cyberpunk; al suo interno erano presenti ventotto racconti dei maggiori autori del movimento, come William Gibson, Pat Cadigan, Rudy Rucker, Bruce Sterling, John Shirley e Paul de Filippo. Il volume edito nel 1994 fu importante soprattutto per il ruolo che svolse all’interno del dibattito intorno al movimento Cyberpunk, fornendo un punto di partenza nello stabilire un canone letterario ben definito:

[…] rappresenta il principale tentativo in Italia, anche se non l’unico, di affrontare l’ostico argomento di una canonizzazione basata su di un approccio critico, e fondata, in ogni caso, su quanto era stato detto e scritto negli Usa. La curatela fu affidata a Piergiorgio Nicolazzini […] La sua lettura, anche a quasi trent’anni di distanza ci permette di capire molto di cosa è stato e su cosa ha influito il cyberpunk nel corso del tempo[81].

L’antologia andò a ruba, nonostante le dimensioni importanti di circa settecento pagine. Quando venne ristampata, sempre dalla Nord nel 2001, venne divisa in tre volumi diversi intitolati L’universo Cyber[82]. Il materiale della nuova edizione, tranne qualche leggera differenza, rimase sostanzialmente invariato. Il numero dei racconti passò a ventisei; vennero inoltre abbreviate le parti bibliografiche sugli autori e l’introduzione di «Larry McCaffery, che, insieme a Brian McHale, fu uno dei principali critici letterari che si erano rivolti alla letteratura degli anni Ottanta»[83]: due dei fondatori del Postmodernismo, corrente letteraria che, come visto precedentemente, fu strettamente legata a quella del Cyberpunk.

La terza casa editrice che si occupò attivamente di Cyberpunk e della sua diffusione italiana fu Stampa Alternativa. Nacque a Roma nel 1969, ispirandosi alle varie Alternative Presses americane e inglesi, grazie a Marcello Baraghini, attivista ed editore molto vicino ai valori della controcultura hippie.

La collana più conosciuta di Stampa Alternativa è quella delle «Millelire», che ha avuto il merito di lanciare, prima in Italia, le edizioni supereconomiche. Proprio in questa collana, nel 1995, uscì un’altra antologia di racconti, anch’essa intitolata Cyberpunk, a cura di Franco Forte. La raccolta ha il grande merito di riunire numerosi racconti inediti di autori italiani, oltre a diversi saggi dedicati al movimento, il tutto confezionato in un cofanetto molto particolare, ispirato alle famose barrette di cioccolato della Ferrero. Altro elemento distintivo di questa pubblicazione fu la presenza al suo interno di un floppy disk con conteneva un testo a opera di Fabio Gadducci e Mirko Travosanis, due autori cyberpunk italiani, e un programma informatico, un software che consentiva l’installazione del browser indispensabile per collegarsi alla rete internet Netscape 1.0[84]. L’iniziativa fu molto innovativa e riscosse molto successo, tanto che in Giappone «tali cofanetti sono diventati degli autentici oggetti di culto, e il direttore editoriale Marcello Baraghini è stato più volte invitato a Tokyo per tenere lezioni universitarie in qualità di docente di marketing»[85].

Un’altra casa editrice molto attiva nell’ambito Cyberpunk è stata la bolognese Synergon, nata nel 1990 e rimasta molto attiva per metà del decennio. Tra i suoi fondatori troviamo nomi di spicco come quello di Giancarlo Guglielmi, padre del più famoso Federico Guglielmi[86]. La casa editrice dedicò un’intera collana alla letteratura Cyberpunk italiana e straniera; tuttavia, dopo la sua brusca chiusura, causata dalla morte di uno dei fondatori, Giorgio Schiavina, e lo sfaldarsi del gruppo, gran parte del suo ricco catalogo è andato perduto. Alcuni romanzi inediti, stampati ma mai arrivati sul mercato, sono ormai divenuti delle costose rarità per tutti i collezionisti.

Uno dei protagonisti di Synergon, Vanni De Simone, ha deciso gentilmente di condividere la sua esperienza nella casa editrice. De Simone lavorò con la casa editrice di Bologna come traduttore fino alla sua chiusura nel 1997, e fu anche scrittore vicino al movimento Cyberpunk e autore di due opere ascrivibili a questo genere: Cyberpass[87] e La leggenda dei fantasmi[88].

De Simone si avvicina al movimento Cyberpunk, come molti altri autori dell’epoca, spinto dal potenziale innovativo di un genere che si presentava come venuto a scardinare completamente i dettami della letteratura di fantascienza classica:

Era un argomento che mi interessava molto. Il movimento cyberpunk si prospettava come un qualcosa di diverso dalla fantascienza classica, la quale, allora, come oggi, ritengo abbia esaurito molta della sua visione ‘futuristica’, dal momento che gli avanzamenti tecnologici hanno in qualche misura colmato il gap che solo 30 anni fa parevano appunto, fantascienza. A mio parere, la realtà ha superato di gran lunga la fantascienza, che però ha (avuto?) il merito di anticipare tali progressi tecnici[89].

Molti scrittori condivisero questa visione del Cyberpunk, intuendone la forza innovativa, mossa più dallo sperimentalismo linguistico che dalla sua capacità di anticipare il futuro: una letteratura che ricerca nuove forme più che trame, poiché, se «non sostenuta da una ricerca in questo senso, rischia di essere ripetitiva. Non si tratta più certo più di ufo o di robot», sostiene De Simone, «ma di elaborazione strutturale dei testi». Fu proprio questo approccio alla base della linea editoriale di Synergon, che ebbe il merito di dare voce a diversi nuovi scrittori italiani Cyberpunk; la casa editrice divenne così centrale nel dibattito culturale dell’epoca a Bologna:

A Bologna c’era un background antagonistico/culturale che anticipò molti dei contenuti poi divenuti quasi scontati. Non va dimenticata l’importanza di figure di grandi intellettuali come Roberto Roversi e tutta l’intellettualità che ruotava attorno all’ex gruppo di Officina (appunto di Roversi e dei suoi amici, nonché di intellettuali ‘free’ come Bifo, o in passato, lo storico “quaderno bimestrale di poesia” di Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi e Francesco Leonetti, rivista culturale degli anni Cinquanta, antirealistica)[90].

De Simone si riferisce qui agli attriti tra il gruppo di Bologna, che ruotava intorno alla rivista ormai chiusa da tempo «Officina», e quello milanese condensatosi intorno alla rivista «Alfabeta» del Gruppo ’63, un dibattito che vide protagonisti numerosi grandi artisti del panorama letterario italiano contemporaneo. Facendo tesoro del vivace scambio culturale tra questi due gruppi, tra le loro tesi di un rinnovamento stilistico, di linguaggio e di contenuti, Synergon impostò la propria linea editoriale, pescando da tutti e due gli schieramenti:

Io avevo rapporti personali sia con Roversi che con Porta, e francamente non capivo le motivazioni di tanta ostilità, anche perché, visti i percorsi di Officina e quelli del Gruppo ’63, gli autori dei due ‘schieramenti’, le loro tematiche, la loro ricerca, gli autori (Paolo Volponi, Nanni Balestrini, ecc.) e certi testi come I centomila cavalli, di Roversi o Dopo Campoformio, sempre di Roversi o L’Orda D’oro di Balestrini), tesi al rinnovamento stilistico […] non capivo il perché delle loro polemiche.

Oltre a promuovere nuovi autori italiani, Synergon si dedicò alla traduzione di testi utopici classici per lo più sconosciuti al pubblico, come Il sogno di John Ball[91] o RUR Rossum’s universal robots[92]. Un lavoro sempre complesso, che lo diventa ancora di più quando ci si trova sommersi di neologismi ed espressioni settoriali, come accade sovente nella fantascienza: «Un autore spesso ricorre a passaggi linguistici, semantici, di invenzione che non è facile interpretare. Hai mai pensato a cosa verrebbe fuori da una traduzione in tedesco di La Luna e i Falò, di Pavese, Balestrini o simili? Qualsiasi autore degno di questo nome non può esimersi da una manipolazione linguistica»[93].

Intorno all’ambiente di Synergon si condensarono molti scrittori esordienti che divennero successivamente dei capisaldi del Cyberpunk italiano, come la scrittrice Pina D’Aria, autrice sempre per la casa editrice bolognese del romanzo Flatline Romance del 1993, o Oscar Marchisio, autore della Stanza mnemonica del 1996. Purtroppo, l’improvviso suicidio di Giorgio Schiavina, principale finanziatore della casa editrice, pose un brusco freno all’esperimento di Synergon. Secondo De Simone, il Cyberpunk italiano presentava delle caratteristiche del tutto peculiari rispetto a quello americano, che si traducevano in una maggiore cura formale e nello sperimentalismo linguistico:

Rispetto ai creatori americani di questo movimento, ritengo che non si muovessero su un piano elaborativo linguistico ma puramente inventivo. Il loro successo fu dovuto alla contrapposizione rispetto alla fantascienza classica, ma personalmente non amavo particolarmente questi autori (Sterling, Gibson, ecc.), perché, a parte il loro muoversi su questo terreno specifico, non mi pareva che apportassero nulla di nuovo nel ‘grado zero della scrittura’, tanto per fare una citazione colta[94].

Gli autori che Synergon ricercava per la collana erano accomunati da una base di partenza condivisa, come lo stesso De Simone spiega, che partiva da un input proveniente dalla realtà e che, successivamente, rielaborava tale realtà in modo da renderla «veramente dirompente», attraverso una scrittura visionaria e dotata di un grande potere evocativo, senza però essere oscura. La realtà nuda e cruda non bastava più alla letteratura dell’epoca: «Nessun prodotto cinematografico, narrativo o poetico del cosiddetto neorealismo è realmente ‘realistico’, perché l’elaborazione artistica annulla il realismo. Non esiste realismo neanche nei telegiornali, viste le manipolazioni politiche o ideologiche delle notizie»[95].

Il quadro che emerge del Cyberpunk dal punto di vista editoriale fa comprendere appieno l’importanza del movimento che, partito da un gruppo di autori statunitensi amanti della fantascienza, riuscì ad allargarsi in tutta Europa e nel resto del mondo; dagli innovatori inglesi di «Interzone» agli sperimentalismi grafici dei francesi di «Métal Hurlant» fino ad arrivare alla primavera tardiva ma intensa del Cyberpunk italiano, che conta ad oggi diverse riviste a tema ancora attive[96], senza dimenticare l’influenza che questo movimento ebbe anche in Giappone, che ne ha proposto una versione profondamente originale.

Nonostante non abbia più la forza propulsiva degli anni Ottanta e Novanta, il Cyberpunk continua ad affascinare i lettori anche oggi, grazie a nuovi autori e alla miriade di sottogeneri da esso derivati come il Solar Punk o lo Steel Punk, senza dimenticare il più famoso, lo Steam Punk, genere nel quale gli stessi Sterling e Gibson si sono cimentati più volte. Il Cyberpunk, dunque, ha ancora molto da dire[97].

  1. Le organizzazioni collettive continuavano a essere viste con sospetto in quanto accusate di favorire il comunismo in America, una paura maturata durante il periodo del maccartismo nei primi anni del 1950. Il maccartismo fu caratterizzato da una repressione totale ed esasperata nei confronti di persone o gruppi anche solo sospettati di essere filocomunisti. Proprio per questo, quando si parla di questo periodo, si utilizza il termine di caccia alle streghe. Cfr. E. Hobsbawm, Il secolo breve, trad. it. B. Lotti, Milano, Rizzoli, 2014.
  2. Ivi, p. 450.
  3. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 furono il primo tentativo di ragionamento economico su scala mondiale. Le due caratteristiche principali sono la stabilizzazione del tasso di cambio delle varie valute mondiali in relazione al valore del dollaro e il tentativo di equilibrare gli squilibri durante i pagamenti tra stati, compito che venne affidato al Fondo Monetario Internazionale (FMI).
  4. «Questo fenomeno inedito, che è stato definito col termine “stagflazione”, ovvero stagnazione più inflazione, era dovuto in parte all’origine “esterna” dell’inflazione»: P. Viola, Il Novecento, Torino, Einaudi, 2000, p. 449.
  5. G. Sabatucci e V. Vidotto, Storia contemporanea: il Novecento, Bari, Laterza, 2012, p. 314.
  6. P. Viola, Il Novecento, op. cit., p. 420.
  7. N. Luhmann, Modernità e differenziazione sociale, in Moderno e Postmoderno, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 88.
  8. Ivi, p. 89.
  9. G. Mari, Tecnica, Storia e Azione, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 8.
  10. Ibidem.
  11. Ivi, p. 9.
  12. Ivi, p. 10.
  13. Ibidem.
  14. Ivi, p. 11.
  15. G. Vattimo, Postmodernità e Fine della Storia, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 98.
  16. J. F. Lyotard, Le Differend, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 19.
  17. G. Vattimo, Postmodernità e Fine della Storia, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 98.
  18. Ivi, p. 99.
  19. F. Jameson, Il Post-moderno o la logica del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989, p. 17.
  20. Ivi, p. 62.
  21. J. Chesnaux, Il vincolo planetario della modernità, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 48.
  22. M. Vacatello, Morale e società moderna, op. cit., p. 148.
  23. Ibidem.
  24. Ivi, p. 149.
  25. R. Bodei, Tradizione e modernità, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 41.
  26. «Amazing Stories» è stata una rivista di fantascienza statunitense ideata nel 1926 da Hugo Gernsback e pubblicata fino al 2005: la prima rivista in lingua inglese dedicata e rivolta unicamente alla fantascienza, tanto che la data di nascita del genere stesso viene convenzionalmente fatta coincidere con l’uscita del primo numero (10 marzo 1926).
  27. B. Bethke, La prima volta della parola Cyberpunk, in Nothing is true nothing is untrue, a cura di E. Di Marco; cfr. l’URL: https://emilianodimarco.wordpress.com/2019/11/04/la-prima-volta-della-parola-cyberpunk/, 4 novembre 2019 (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  28. Cfr. S. Jones, No future: A Brief History of Punk, in “First hand”, 23 gennaio 2018: https://www.frsthand.com/story/no-future-a-brief-history-of-punk (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  29. M. Emiliano, La prima volta della parola Cyberpunk, in «Nothing is true nothing is untrue», 4 novembre 2019.
  30. B. Sterling, Giro di vite contro gli hacker, Milano, Mondadori, 2006, p. 87.
  31. Film di Ridley Scott del 1982 liberamente ispirato all’opera di Dick Do androids dreams of electric sheep? Contribuì notevolmente, soprattutto attraverso la sua particolare estetica e alle sue ambientazioni futuristiche, a plasmare l’immaginario cyberpunk.
  32. Traducibile in ‘occhiali a specchio’. L’uso di questo accessorio era comune a tutti gli scrittori Cyberpunk, tanto che prima per un periodo Mirrorshades divenne un sinonimo di cyberpunk.
  33. Mirrorshades: l’antologia della fantascienza Cyberpunk, a cura di B. Sterling, traduzione di D. Brolli, A. Caronia, Milano, Bompiani, 1994, p. 9.
  34. Ivi, p. 11.
  35. Ivi, p. 13.
  36. Cfr. S. R. Delany, The Jewel-Hinged Jaw: Notes on the Language of Science Fiction, Middletown (Connecticut), Wesleyan university press, 2009.
  37. Cfr. E. James, Science Fiction in the twentieth century, Oxford, Oxford University Press, 1994.
  38. In numerose interviste ripeterà come, a differenza di molti altri scrittori cyberpunk che vedevano in Philip Dick la loro massima fonte d’ispirazione, nel suo caso essa fosse Thomas Pynchon: «il mio Dick è stato Pynchon». Cfr. L. Grazioli, Gibson sulla trilogia dello Sprawl, in «Doppiozero», 8 novembre 2017; Url: https://www.doppiozero.com/william-gibson-sulla-trilogia-dello-sprawl (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  39. La trama segue le vicende di diversi personaggi, molti dei quali sono coinvolti in operazioni segrete durante la Seconda guerra mondiale. Il titolo si riferisce alle traiettorie dei missili V-2 tedeschi, utilizzati durante il secondo conflitto mondiale per colpire l’Inghilterra dalla Germania.
  40. V. De Simone, Missione Deadline, in La letteratura nell’era dell’informatica, Roma, Bevivino Editore, 2007, p. 115.
  41. Ivi, p. 116.
  42. F. Muzzioli, Scritture della catastrofe, Roma, Meltemi Editore, 2008, p. 12.
  43. Ivi, p. 23.
  44. Ibidem.
  45. Ivi, p. 24.
  46. F. Muzzioli, Scritture della catastrofe, op. cit., p. 21.
  47. F. Jameson, Il Post-moderno o la logica del tardo capitalismo, op. cit., p. 33.
  48. M. Calabrese, Il realismo Cyberpunk, in “CICLES Magazine”, 30 giugno 2021.
  49. F. Jameson, Il Post-moderno o la logica del tardo capitalismo, op. cit., p. 73.
  50. M. Benedikt, Cyberspace: primi passi nella realtà virtuale, Padova, Francesco Muzzio Editore, 1993, p. 8.
  51. B. Sterling, Mirroshades l’antologia della fantascienza Cyberpunk, trad. it. Daniele Brolli e Antonio Caronia, Milano, Bompiani, 1994.
  52. A. S. Stone, A proposito del corpo reale: storia della frontiera sulle culture virtuali, in Cyberspace: primi passi nella realtà virtuale, op. cit., p. 91.
  53. N. Stephenson, Snow Crash, trad. it. Paola Bertante, Milano, Rizzoli, 2007.
  54. Film del 1995 con protagonista Keanu Reeves, diretto da Robert Longo.
  55. Diretto da James Cameron nel 1984.
  56. Film del 1987, diretto da Paul Verhoeven.
  57. Inventore, editore e scrittore d’origine lussemburghese. Viene ricordato come uno dei padri della fantascienza insieme a Wells e Verne. Fu lui a coniare il termine science-fiction.
  58. Da Amazing stories: https://amazingstories.com (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  59. Raggiungibile al seguente sito: https://amazingstories.com/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  60. Rivista inglese di fantascienza nata nel 1936 con il titolo di «Novae Terrae». In attività fino al 1987.
  61. A cura di A. Dorey, Celebrating 25 Years of Interzone, in «Interzone», N. 212, September-October 2007, pp. 4-5.
  62. B. Sterling, Cyberpunk in the nineties, in «Interzone», giugno 1991, Url: http://lib.ru/STERLINGB/interzone.txt (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  63. Ibidem.
  64. Ibidem.
  65. Cfr. A. Curiat, 5 ragioni per conoscere metal hurlant, in Wired, 23/05/2020. URL: https://www.wired.it/play/fumetti/2020/05/23/ragioni-conoscere-metal-hurlant/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  66. Nato nel 1944, il fumettista francese è uno dei fondatori della casa editrice. Famoso per il suo lavoro Lone Sloane, caratterizzato da uno stile tra il gotico e l’Art Nouveau.
  67. Di professione contabile, ma da sempre un grande appassionato di fumetti. È tra i fautori del rilancio del 2022 di «Métal Hurlant».
  68. A. Curiat, 5 ragioni per conoscere metal hurlant, art. cit.
  69. Fumettista italiano di fama internazionale, vanta collaborazioni con grandi nomi del cinema italiano e internazionale (Fellini e Almodovar), con i quali ha collaborato come illustratore, per lo più di locandine.
  70. Ibidem.
  71. A. Michelucci, Metal Hurlant, il ritorno, in «Il manifesto», 16 ottobre 2021. URL: https://ilmanifesto.it/metal-hurlant-il-ritorno (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  72. In Spaghetti Neuromancer, anonimo, URL: https://www.openstarts.units.it/server/api/core/bitstreams/525bf7aa-fd97-442e-a1d2-799af4048a95/content (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  73. L. Giudici, Orizzonti del fantastico: attualità del cyberpunk, in «Quaderni di altri tempi», 16 febbraio 2021. URL: https://www.quadernidaltritempi.eu/cyberpunk-antologia-assoluta/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  74. In Spaghetti Neuromancer, anonimo, URL: https://www.openstarts.units.it/server/api/core/bitstreams/525bf7aa-fd97-442e-a1d2-799af4048a95/content (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  75. Ibidem.
  76. Ibidem.
  77. R. Scelsi, Cyberpunk. Antologia di scritti politici, Milano, Shake Edizioni underground, 1990.
  78. In Spaghetti Neuromancer, anonimo, URL: https://www.openstarts.units.it/server/api/core/bitstreams/525bf7aa-fd97-442e-a1d2-799af4048a95/content (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  79. A. Capriolo, S. Molho, Reale iperreale virtuale: echi di Cyberpunk nella rivista Decoder, in Iris volume 7, 1° gennaio 2023. URL: https://air.uniud.it/handle/11390/1238974 (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  80. L. Giudici, Orizzonti del fantastico: attualità del cyberpunk, in «Quaderni di altri tempi», 16 febbraio 2021. URL: https://www.quadernidaltritempi.eu/cyberpunk-antologia-assoluta/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  81. Ibidem.
  82. L’universo Cyber vol. 1, 2, 3, a cura di P. Nicolazzini, Milano, Editore Nord, 2001.
  83. L. Giudici, Orizzonti del fantastico: attualità del cyberpunk, art. cit.
  84. Come si ricorderà, Netscape navigator fu il primo browser con interfaccia grafica della storia dell’informatica. Nacque nel 1994 e per lungo tempo rimase il motore di ricerca più utilizzato del mondo, fino alla comparsa di Internet Explorer che lo avrebbe scalzato in maniera definitiva costringendolo alla chiusura nel 2008.
  85. L. Giudici, Orizzonti del fantastico: attualità del cyberpunk, art. cit.
  86. Uno dei fondatori del collettivo Wu Ming, Federico Guglielmi, in arte Wu Ming 4, partecipò anche al progetto Luther Blisset, pubblicato proprio con Synergon nel 1995. Cfr. M. Fieramonti, Wu Ming e il “new italian epic”, in «Diacritica», a. VIII, 25 dicembre 2022.
  87. V. De Simone, Cyberpass, Bologna, Edizioni Synergon, 1994.
  88. V. De Simone, La leggenda dei fantasmi, Bologna, Edizioni Synergon, 1992.
  89. Intervista di Simone Pitti a Vanni De Simone: Roma, 13 dicembre 2023.
  90. Ibidem.
  91. W. Morris, Il sogno di John Ball, a cura di V. De Simone, Bologna, Edizioni Synergon, 1995.
  92. K. Capek, R.U.R. Rossum’s universal robots, a cura di V. De Simone, Bologna, Edizioni Synergon, 1995.
  93. Intervista di Simone Pitti a Vanni De Simone cit.
  94. Ibidem.
  95. Ibidem.
  96. «Cyberzone» e «Psychoattiva» edite da Shake, disponibili sia in formato digitale che cartaceo. Si rifanno ad alcune tematiche classiche del movimento, riadattate ai tempi presenti.
  97. Estratto dalla tesi di Laurea Magistrale in Filologia moderna dal titolo Il cyberpunk come fenomeno transnazionale, discussa a marzo 2024 presso il Dipartimento di Lettere e Culture moderne della Sapienza Università di Roma: relatori Maria Panetta e Francesco Saverio Vetere, correlatore Giampiero Gramaglia.

(fasc. 51, 15 marzo 2024, vol. II)

Il romanzo come sistema complesso: “Pastorale americana” e “Rayuela”

Author di Chiara Muzio

Introduzione

Piangono a dirotto, il fido padre che è fonte di ogni ordine, che non potrebbe lasciarsi sfuggire o sanzionare il minimo segno del caos – per il quale tenere a bada il caos era stata la via scelta dall’intuizione per raggiungere la certezza, il rigoroso dato quotidiano della vita – e la figlia, che è il caos stesso[1].

Così Philip Roth condensa in un unico periodo le due principali funzioni attanziali che animano Pastorale americana, delineando una dialettica tra “ordine” e “caos” quale riduzione ai minimi termini della dinamica che governa il romanzo del ’98. Sin da subito si percepisce come il testo sia mosso da forze dicotomiche, tra le quali sussiste una sproporzione da cui emerge una sorta di faglia critica. Questa “faglia” di indeterminatezza si pone quale elemento portatore di “complessità” all’interno del roman­zo. Sarà dunque opportuno indagarne la natura, per comprendere ancora meglio i meccanismi che regolano Pastorale americana.

Una simile dialettica necessiterà di strumenti di analisi diversi dal consueto: nel nostro caso, abbiamo voluto condurre un’analisi del testo di Roth – a cui segue un debito confronto con un altro romanzo pubblicato all’aurora del postmoderno – in termini di scienze della complessità.

Per affrontare una materia così impegnativa si è rivelato utile adottare i concetti di “forma” e “funzione” (Sternberg), i quali trovano esplicazione nelle nozioni di “funzione caos” e “funzione cosmos” (Ercolino). Sarà così possibile eseguire un’adeguata analisi di quanto accade – ma soprattutto emerge – da un punto di vista strutturale e attanziale nei testi oggetto d’indagine.

Sono stati molti gli autori che hanno affrontato in maniera più o meno dichiarata il vasto tema della complessità. Si pensi a Italo Calvino, che nella Giornata d’uno scrutatore ne fornisce, quasi maldestramente, una definizione molto vicina al significato etimologico di questo termine – riconducibile a un’originaria forma complector, la quale suggerisce un insieme indistricabile di elementi, uniti da un rapporto di reciproca dipendenza: «Ad Amerigo la complessità delle cose alle volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente separabili, come le foglie di un carciofo, alle volte invece, un agglutinamento di significati, una pasta collosa»[2]. Una pasta collosa dalla quale non è possibile scindere l’unità, ma che impone un’osservazione volta a cogliere quanto emerge dall’aggregazione delle singole parti interdipendenti.

L’obiettivo del presente studio è proporre un approccio metodologico in grado di coniugare gli studi di critica letteraria alle teorie sulla complessità, materia verso la quale la maggior parte dell’interesse è sorto a partire all’incirca dall’ultimo decennio del secolo scorso. In effetti, la critica ha riscontrato molteplici affinità tra sistemi complessi e forma romanzo. Pertanto, per uno studio del romanzo con simili aspirazioni adotteremo una prospettiva che metta in relazione i singoli elementi testuali, valutandone gli effetti sul piano microscopico e macroscopico.

Studiare la “complessità” di un testo significa accettare una sfida, aprendosi alla prospettiva che una verità assoluta è inattingibile e che quanto leggiamo non è figura chiusa ma “rizoma”, costituito da piani, funzioni, forme che si intersecano tra loro; in più, ogni testo e ogni sua parte è inevitabilmente soggetto alle interpretazioni di chi legge, spesso contraddittorie e mutevoli. La sfida principale consiste, allora, nell’abbracciare questa “contraddizione”.

Il testo è campo dell’indagine e dello sforzo ermeneutico, in quanto semplificazione di un contenuto complesso presente nella realtà esterna (o nell’interiorità di chi scrive) riposto entro una forma chiusa: scrivere implica necessariamente un adattamento rispetto una materia di per sé problematica e dunque irriducibile a modello teorico. Il romanzo, poi, si pone come forma elettiva dell’espansione del pensiero, fatto a sua immagine e somiglianza: in esso cerchiamo di spiegare quanto non riusciamo a spiegarci altrimenti, dando una consistenza materiale all’incertezza che ci attanaglia, entro una struttura che, seppur chiusa e conclusa, spesso è – anche al limite dell’asfissiante – immensamente complessa.

Di cosa parliamo quando parliamo di complessità?

Stando alla definizione che fornisce Alberto Gandolfi in Formicai, imperi, cervelli[3], si intende per “sistema complesso” un particolare tipo di sistema all’interno del quale ogni elemento è posto in relazione di interdipendenza non solo con la restante parte degli elementi presenti al suo interno, ma anche con l’ambiente circostante in cui è inserito, adattandosi alle spinte e ai cambiamenti provenienti dall’esterno.

Una simile definizione si rivela particolarmente appropriata se si guarda al caso del genere romanzo. A buon diritto, infatti, il testo letterario può essere considerato un sistema aperto immerso in un determinato ambiente socio-culturale dal quale è influenzato (e di cui è frutto) e posto in relazione con la mente del lettore – figura imprescindibile, senza la quale non potrebbe esplicare tutto il suo potenziale illimitato.

Alberto Gandolfi definisce un sistema complesso «un’entità organica, globale e organizzata: togliendone una parte ne modifichiamo la natura e le funzionalità»[4] e aggiunge «i sistemi […] sono formati da numerose parti differenziate»[5] per puntualizzare la dipendenza tra il comportamento del sistema, inteso nella sua globalità, e quello delle parti da cui è costituito; queste, a loro volta, possono essere considerate micro-insiemi, organizzati secondo una struttura gerarchica.

L’interazione tra le singole parti dà vita a processi ciclici, definiti feedback. Da questi cicli si ha ciò che è definito “comportamento emergente” del sistema, vale a dire che «in un sistema complesso le relazioni tra gli elementi diventano più importanti della natura degli elementi stessi»[6]. Oggetto d’indagine dovrà essere la “dinamica globale” che è subalterna a un’organizzazione ge­rar­chica e strutturata al fine di conferire un andamento armonico e coordinato tra le parti.

Alla base del comportamento complesso vi è infatti il fenomeno dell’autorganizzazione, il quale si verifica ogni qual volta si raggiunge un determinato livello gerarchico. Man mano che le relazioni tra gli elementi del sistema diventano più articolate, questo aumenta il proprio livello di complessità. Con l’incremento del disordine interno, anche le più piccole perturbazioni provenienti dall’esterno si diffondono a macchia d’olio fra tutti gli elementi e dunque viene meno ogni possibilità di previsione circa il loro comportamento: regna il caos[7]. La complessità è quanto si trova nella zona intermedia tra comportamento lineare e ordinato e, sul fronte opposto, comportamento caotico; in una zona intermedia, che è sostanzialmente di transizione, la quale rappresenta il «comportamento più intelligente e creativo»[8] poiché consente al sistema di evolvere e adattarsi. È grazie alla capacità di evoluzione che i sistemi complessi si spingono verso una zona definita at the edge of caos, caratterizzata da un alto tasso di criticità, fortemente sensibile alle perturbazioni esterne.

In quest’ottica, il ruolo del caos andrà considerato in termini di pura “potenzialità”, dal momento che: «Il caos rompe le catene dell’universo deterministico e garantisce all’umanità un infinito grado di libertà nel forgiare il proprio mondo. Una miscela di ordine e caos è lo stato naturale di ogni forma di vita»[9].

L’elemento caotico funge da grimaldello per il funzionamento stesso del sistema poiché, con l’incremento dei livelli di complessità, quest’ultimo viene spinto verso un punto in cui aumenta la probabilità che si possa assistere alle cosiddette “biforcazioni catastrofiche”, oltre le quali il sistema evolve o soccombe al caos dilagante al suo interno.

Una volta stabilito, in termini tecnici, a cosa ci riferiamo quando parliamo di sistema complesso, sarà ulteriormente utile definire anche sul piano del dibattito filosofico cos’è la “complessità”: questa si presenta laddove si verificano la crisi dei fondamenti scientifici e la crisi dei fondamenti filosofici (con Nietzsche). A ciò consegue l’invalidazione del polo empirico (Popper) e del polo della logica (Gödel): la zona al limite tra questi due poli è costituita dalle incertezze causate dalla trasformazione dei principi d’ordine su cui si basava l’epistemologia positivista.

Riconoscere la complessità in tutto ciò che ci circonda vuol dire riconoscere il mistero del mondo; non a caso Morin parla di «insostenibile complessità dell’essere»[10] relativamente alla constatazione che la complessità è posta nella zona d’ombra, negli interstizi che rendono nullo ogni tipo di semplificazione, dove le antitesi si fondono e oggetto osservato e soggetto osservante si scorgono l’uno nell’altro. Il territorio della complessità è il non riducibile.

Il filosofo francese, partendo da queste riflessioni, parla della complessità nei termini di “sfida” e non, semplicisticamente, come soluzione da adottare. Un simile approccio rappresenta un vantaggio non da poco anche dal punto di vista interdisciplinare, poiché esso abbatte le barriere che normalmente vengono alzate tra i diversi campi del sapere. Si tratta quindi di accogliere il pensiero complesso in una prospettiva dialogica tra i più disparati ambiti, sfruttando la nozione di sistema in quanto griglia teorica. Per cui questo nuovo tipo di logica dovrà inglobare e riorganizzare i capisaldi del pensiero, scontrandosi inevitabilmente con la concezione binaria su cui per secoli si è fondato il nostro sapere. Andrà quindi ricercato un metodo per trattare al meglio le aporie della logica e inglobare le incertezze nell’intellegibilità dell’universo per poter così parlare finalmente di “pensiero complesso”.

Proposte per una teoria “complessa” della letteratura

Nell’area delle humanities, la branca di studi che di recente ha adottato un approccio sempre più vicino all’analisi del testo in termini di teorie della complessità è quella che va sotto il nome di “narratologia cognitivista”, derivata dalle cosiddette “scienze cognitive di seconda generazione” che per prime hanno aperto la strada alle teorie della complessità[11].

Tra gli studiosi, Marco Caracciolo ha avanzato la proposta di un “modello enattivista” della narrazione (cioè una teoria tesa a studiare il rapporto tra “organismo” e ambiente); un modello cioè reader oriented che si basa su una teoria embodied della letteratura – mossa dal concetto di “esperienzialità”[12]. Su un piano prettamente narratologico, si fa ricorso ai concetti di “probabilità inferenziale” e di “sequenzialità inferenziale” per spiegare le dinamiche inferenziali e probabilistiche coinvolte nella fruizione del prodotto estetico-narrativo, partendo dal concetto di “attrattore”, il quale rappresenta l’elemento che conduce il lettore al riconoscimento di un senso più o meno esplicito nel testo[13].

Tra i primi lavori in cui si è cercato di carpire i rapporti tra teorie della complessità e categorie narratologiche, troviamo un articolo di John Pier[14]. Lo studioso individua alla base di alcune categorie narratologiche i modelli di “sequenza” e “sequenzialità”, orientando la ricerca su una valutazione della trama in termini probabilistici. In opposizione al modello del récit idéal[15], Pier analizza gli snodi cruciali con riferimento a situazioni near e far from equilibrium riguardo a punti nel testo dall’elevata criticità. Ciò risulta particolarmente evidente in tutta una serie di romanzi sorti nel XX secolo, nei quali si verifica un distacco, talvolta nettissimo, dalla struttura basilare del plot, enfatizzando invece aspetti del testo che esigono una partecipazione sempre più attiva del lettore.

Lo studioso si avvale delle recenti teorie del New Criticism (nate a partire dagli anni Sessanta del Novecento) che guardano al testo letterario come entità irriducibile a una visione deterministica e prevedibile. Tali teorie hanno apportato importanti cambiamenti nelle indagini narratologiche, dotando gli studiosi di una maggiore sensibilità verso campi di studio apparentemente distanti dall’ambito umanistico. Pur non proclamando la totale sovrapposizione tra sistemi complessi e narrativa, l’intento di Pier è confrontare le due categorie per comprendere in che modo la narrativa, specialmente nel genere romanzo, possa essere intesa e analizzata a partire dallo studio di comportamenti per l’appunto “complessi”; non meno importante sarà poi interrogarsi su quale ruolo possano ricoprire le teorie della complessità se applicate alla narrativa, basando l’indagine su aspetti in comune. Adottare un simile approccio nello studio del romanzo vorrà dire analizzare il “comportamento emergente” dato dall’interazione tra le singole componenti.

Per una teoria sistemica della letteratura, sorge la necessità di avvalersi di un metodo che possa accordare teorie nate in aree di ricerca parecchio distanti tra loro, ma che allo stesso tempo si basi su caratteristiche proprie del metodo narratologico. La soluzione che Federico Pianzola presenta a tutto ciò è il Proteus Principle (PP), già proposto da Meir Sternberg nei suoi lavori sugli universali narrativi del 1992 e del 2010; tale modello si fonda sul rapporto tra “forma” e “funzione”, in riferimento al ruolo che precisi elementi appartenenti a categorie logiche differenti assumono a seconda dell’approccio teorico utilizzato[16]. Sternberg dimostra che la base dell’organizzazione narrativa è costituita da un certo pattern di relazioni – e non da elementi a sé stanti –, enfatizzando la presenza di un comportamento complesso alla base di queste. Sarà giusto chiedersi, per ricavare una teoria letteraria, fino a che punto un dato elemento è funzionale alla complessiva organizzazione narrativa e cosa emerge dall’interazione tra le singole componenti.

L’adozione del PP consentirebbe una valutazione congrua dell’interazione tra “forme” e “funzioni” testuali, con conseguente analisi del “comportamento emergente” che si manifesta a partire dal contatto tra processi cognitivi ed estetici nella relazione testo-fruitore.

Questo metodo consente un ampio grado di adattabilità fra teorie afferenti a campi del sapere molto distanti (al confine tra sapere scientifico e sapere umanistico), dando vita a un approccio aperto che tiene conto di fenomeni di feedback in sostanza molto simili. Sono le stesse dinamiche interne ai romanzi a basarsi su reti e connessioni intricatissime il cui grado di complessità può raggiungere un livello così elevato da sfiorare asintoticamente i limiti del caos[17].

Il testo può (e deve) essere considerato un sistema complesso e, di conseguenza, essere analizzato in quanto tale. Esso si trova costantemente in uno stato di instabilità tra una soglia inferiore, che suole coincidere con la causalità lineare – entro cui è consentita la restituzione lineare degli avvenimenti –, e una superiore, che invece è da individuare nel comportamento complesso, spesso tendente al caotico; limite questo oltre il quale le connessioni tra i singoli elementi si intersecano a dismisura, tanto da rendere impossibile soggiogarle a un processo narrativo che rischierebbe di limitarle o degradarle a strutture precostituite e svilenti[18]. Lo strumento proposto da Pianzola, in fin dei conti, si rivela essere il più efficace per cogliere tutte le sfumature di significato che si creano dalle interazioni fra le singole componenti – fermo restando che il PP deve essere adottato in quanto proposta metodologica e non essere eletto a verità assoluta.

Quanto appena descritto serve a far luce su come all’interno della mente umana vi sia un’inderogabile tendenza a ridurre fenomeni complessi a un piano di causalità lineare. Perciò scrivere storie, o romanzi, consentirebbe di condensare la complessità del reale per comprenderla meglio.

Va però tenuto conto della palese difficoltà che si incontra nel momento in cui si tenta di far calzare un comportamento complesso – che per propria natura sfugge all’inserimento in rigide griglie teoriche – entro un “modello”; di conseguenza sarà inevitabile attuare semplificazioni a causa del discrimine intrinseco tra il comportamento e la mera descrizione del sistema.

Ai fini della nostra indagine, è necessario tenere in considerazione anche quanto Stefano Ercolino, attingendo da uno studio di LeClair sui system novels[19], in un proprio studio pone sotto l’etichetta di “romanzo massimalista”; vale a dire un particolare tipo di testo in cui affiora la “componente massimalista”, caratterizzato dalle seguenti prerogative:

Totalità, interconnessione, organizzazione, scambio di informazioni, apertura divengono le linee guida di una complessa e trasversale riorganizzazione epistemologica avvenuta intorno alla metà del XX secolo che ha definito non solo il campo e i metodi delle scienze matematiche, fisiche e naturali, ma anche il nostro modo di vivere, oltre che la sua rappresentazione letteraria[20].

La caratteristica che prima tra tutte balza all’occhio è la lunghezza di tali romanzi, dovuta all’accumulazione apparentemente caotica di dettagli che sembrerebbero a prima vista poco significativi. Questi però, nell’ordito complessivo, si rivelano essenziali dal momento che danno vita a ulteriori spunti che sviluppano una propria autonomia, pur avendo origine in zone marginali del testo. Il romanzo “massimalista”, come molti altri prodotti della stagione postmoderna, parcellizza il testo in unità discrete, in modo che ogni frammento cooperi alla restituzione dell’insieme e costituisca di per sé un microsistema, a sua volta capace di espandersi. L’autonomia delle parti di un testo diverrebbe estremamente funzionale alla sintesi estetica del mondo, poiché il testo, avanzando per frammenti giustapposti, consentirebbe di muoversi attraverso la materia magmatica che è la realtà stessa – oltremodo, ciò eviterebbe l’impatto contro il muro dell’ineffabilità che si cela oltre la pagina scritta.

A tenere testa a tale difficoltà subentra il ruolo che assume la “trama”, dispositivo attorno al quale si dipana il racconto, che consente la piena comprensione al lettore, fornendogli la sicurezza del confronto con qualcosa di «finito in se stesso»[21]. C’è però chi nutre una scarsissima fiducia nei confronti della «sicurezza della trama»[22]; materia, quest’ultima, su cui si è esposto Carlo Emilio Gadda, il quale è consapevole della necessità di ricondurre il caos dell’esterno a una “struttura geometrica” essenziale e ordinata. Al tempo stesso, l’autore è conscio che l’eccessiva ricerca di un principio d’ordine costituisce un problema per quanto riguarda il rapporto tra narrazione e vita, a causa di quella «inalienabile refrattarietà del reale a ogni tentativo di organica, integrale sistemazione»[23]. L’autore del Pasticciaccio sa bene quanto la trama, tendendo a ricreare le relazioni umane, cerchi di restituire una struttura (quasi) parimenti complessa. “Narrare” è indagare su cumuli di grovigli, cercare di ritrovare un principio di causalità che però non sempre è dato, nella vita come nel testo, perché quest’ultimo è costantemente sottoposto a «spinte centrifughe» (Carati) che lo allontanano sempre più da un una rassicurante unità: il testo presenta così una situazione dispersiva e potenzialmente inesauribile.

Indagare il caos che attanaglia la nostra esperienza, insito nel reale, è prerogativa che contraddistingue il romanzo – e la letteratura – da sempre. È però in particolar modo nella stagione dei grandi modernisti e successivamente, con autori quali Calvino, Cortázar, Perec, Borges e molti altri ancora, che si sviluppano nuove forme e nuove strutture atte a ricercare e ricreare la dialettica tra il caos esperienziale e le modalità attraverso cui esso si esplica sul piano strutturale e contenutistico.

La realtà fenomenica è, sì, presente in ogni testo, pur restando sul binario opposto a quello dello scrittore. Se la scrittura è ciò che Mario Lavagetto definisce «provincia dell’immaginario»[24], inoltrarsi in questo territorio – nella persona dell’autore o del lettore – implica la rinuncia alla sicurezza dei teoremi e delle grandezze misurabili per entrare totalmente «nel regno dello scarto, per ritrovarsi a vagare nell’immenso, sconfinato, labirintico territorio dell’ambiguità e dell’eccezione»[25].

Si assiste così allo sviluppo di forme narrative che evitano in tutti i modi la riduzione pedissequa dell’esperienza entro un perimetro chiuso e svilente; tuttavia, si tratta di forme che riescono a coglierne la complessità, tenendo sempre presente che la sovrapposizione “testo-vita” (che di per sé è “altro”, in quanto realtà stratificata) non sarà mai totale. Proprio una simile frattura – spiegano le pagine di Gadda – «trasforma il sistema da finito a infinito»[26].

Qualsiasi romanzo si ritrova irrimediabilmente sconfitto in partenza nello scontro agonistico che instaura con il reale. Tra i due elementi non può che sussistere una relazione in cui il primo risulta “sineddoche”[27] del secondo, di cui restituisce solo una rappresentazione parziale e mai completa, per quanto, in certi casi, considerevolmente complessa e ponderosa.

Ordine, caos, trasgressione: Pastorale americana

Pastorale americana si pone in linea con la ricerca identitaria del “sogno americano”, ragion per cui l’afflato epico presente al suo interno si consuma nella volontà di rappresentare i destini generali di un’intera Nazione (e generazione), su cui innesta la rappresentazione dei destini individuali dei singoli personaggi.

Roth usufruisce di una struttura accuratamente disposta, retta da numerosi parallelismi ed eco intertestuali, per far fronte a un plot debordante e narrare una vicenda che non sfocia verso alcun esito – poiché frutto di congetture della mente di Zuckerman.

Alter-ego dello stesso autore, Nathan Zuckerman assume il ruolo di “funzione”, così come introdotta riguardo al Proteus Principle. Questo (non) personaggio stimola una riflessione sul concetto di finzione narrativa e su come questa si ponga a sua volta in relazione ai concetti di verità e verità narrativa. Figura onnipresente nell’opera di Roth, Zuckerman dichiara da subito il proprio antecedente letterario, Marcel della Recherche, che nella creazione di Proust incarna «un distacco del protagonista-narratore del desiderio metafisico, per avvicinarsi con l’impegno artistico a un desiderio rivolto verso di sé e non verso l’esterno»[28]; Nathan si trova davanti a un mondo in cui non c’è scarto tra verità e finzione, in cui il soggetto, da frammentato e indeterminato, grazie alla chiave di lettura del “ricordo”, può acquisire strumenti per scoprire in esso più verità che nella realtà stessa. La strategia proustiana è però cambiata di segno:

Divorando un boccone dopo l’altro di quei pasticcini il cui sapore farinoso avevo amato fin dall’infanzia […] forse avrei fatto sparire da Nathan ciò che, secondo Proust, sparì da Marcel nell’attimo in cui riconobbe “il sapore della piccola madeleine” […]. Mangiai dunque, avidamente, ingordamente, non volendo limitarmi, nemmeno per un attimo, nel vorace accumulo di grassi saturi; ma senza avere, infine, la fortuna di Marcel[29].

Se in Proust è possibile ricostruire la compattezza della vita grazie alla narrazione, non gode dello stesso potere la voce di Zuckerman; la storia qui non riesce a ricomporsi e finisce per approdare alla dissoluzione di quell’unità originaria, contrariamente al momento proustiano dove una condizione non lineare e ingarbugliata confluiva in un senso ricomposto. Il dolcetto fragrante e profumato rigurgita la propria essenza: è un mero «accumulo di grassi saturi». Le fughe dell’intimità, di ciò che non è dato vedere dall’esterno, non possono rivelarsi se non nella constatazione dell’intrinseca perniciosità di cui si anela allo svelamento.

È così che in Roth il tema di base viene a coincidere con l’incertezza della memoria e con la sua fragilità; ciò costituisce un’arma a doppio taglio, dal momento che la memoria priva il soggetto della propria interezza e della propria stabilità, costringendolo a ricostruirsi unicamente attraverso l’attrito con l’esterno. Il testo quindi sembra essere in balìa di una forza centrifuga che lo rende sfuggente a qualsiasi ricognizione, poiché il frammento testuale corre all’impazzata, rendendone impossibile l’aggregazione entro un discorso coerente affidato alla narrazione.

Ancora, dunque, sussiste un rapporto dicotomico tra narrazione e realtà, poiché questa è soggetta a un giogo che la costringe a «reificarsi» e a inserirsi entro i limiti della pagina scritta. Il senso ultimo è che la realtà, quando tenta di essere romanzata, finisce sempre per restituire il disegno di una verità parziale poiché non è mai totalmente «testualizzabile»[30].

Roth esige un nuovo modo per narrare la realtà, che non solo scriva e descriva il reale, ma costruisca su di esso un “discorso”; così, dopo numerosi tentativi letterari, è solo in Pastorale americana che mette a punto, nella maniera più soddisfacente, una strategia narrativa che gli consente di «motivare il falso» e ridurre a zero l’effetto di antirealismo che nei suoi precedenti romanzi viziava l’effetto di mimesi del reale.

Dando vita a questo nuovo tipo di narratore, Roth riesce a realizzare un punto di vista parziale e privilegiato, portando al centro del romanzo del ’97 questioni già proustiane sulla coesistenza di “vero” e “falso” all’interno della finzione narrativa.

Zuckerman racconta una storia di cui non è protagonista, a cui assiste da lontano, da una posizione marginale – sia nel testo che nella finzione; è un narratore che si immola per incarnarsi strumento della stessa riflessione metanarrativa e sopperire all’indeterminatezza del soggetto “altro”, il quale non si coglie né si conosce mai totalmente:

Zuckerman assume la funzione di messa a nudo del procedimento, ma al contempo resta espressione del romanzesco. È autonomo, ma in qualche modo legato a Roth; ha un piede nella finzione e l’altro nella realtà. Questa proprietà spugnosa, questi confini incerti definiscono Zuckerman non tanto come personaggio, ma come funzione narrativa dal valore strutturante, in grado di orientare il materiale e caricarlo di senso[31].

Zuckerman si fa “funzione” della “finzione narrativa”. Così Roth carica il suo alter ego dell’onere e dell’onore di essere scrittore e dà vita a questa sorta di correlativo oggettivo dell’ars narrandi; ciò ha come diretta conseguenza l’iperattenzione ai meccanismi di cui la stessa narrazione è costituita, grazie ai quali l’autore può riservarsi un privilegiato trampolino di lancio all’interno del testo[32].

Lo Svedese è ingabbiato nella Storia e nella propria personalissima storia, nella perfetta Pastorale americana che egli incarna, alimentata dai sogni e dalle speranze che i cittadini della comunità di Newark proiettano su di lui. La prefazione, in questo senso assume uno statuto particolare perché, a differenza delle altre opere della modernità in cui costituisce una sezione nettamente separata dal corpo principale del testo, qui invece torna in un momento successivo – dimostrando che andrebbe utilizzata l’espressione genettiana «istanza prefativa testualizzata e narrativizzata»[33], dal momento che essa si pone nella zona liminare tra il «già-testo» e il «non-ancora storia»[34].

La descrizione della “pastorale” facilita l’accettazione veridica del racconto, in quanto suggerisce un effetto di realtà, restando comunque relegata sullo sfondo, indipendente dall’azione principale. Il tutto funge da sfondo a ciò che è il vero motore del meccanismo testuale, l’evento che passa in sordina sul piano della narrazione, il “dettaglio” situato sulla faglia tra l’evento storico e la tragedia privata: la bomba nell’ufficio postale di Old Rimrock, le cui conseguenze hanno portata atroce. Si tratta dell’evento che non si lascia domare dal giogo della narrazione; eppure esplode e la storia insieme ad esso, con il pensiero ossessivo di Zuckerman che precipita in un gorgo di interrogativi senza risposta.

Si rincorrono con il progredire del testo interpretazioni contrastanti, supposizioni che – soprattutto per la prima parte – potrebbero tanto essere vere tanto non esserlo affatto (secondo quel principio di natura schrödingeriana di cui Gabriele Frasca illustra abilmente i meccanismi)[35], premendo sulle capacità ermeneutiche tanto del soggetto narrante quanto del lettore. Al tutto si aggiunge l’utilizzo dell’indiretto libero, il quale garantisce spazio alla finzione, dal momento che il romanzo risulta tanto radicato sugli inganni che Nathan propina a sé stesso, così che anche lo Svedese in persona appaia un’entità astratta – «Giovannino Seme di Mela»[36] – in quanto mera proiezione altrui.

L’occhio – o meglio la parola – del narratore può modificare la scena e i sogni. I ricordi nominati nella citazione in esergo al testo possono diventare realtà, non per capacità intrinseca, ma perché soggetti a un meccanismo di distorsione attraverso il racconto[37]:

[…] la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? […] Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite … Beh, siete fortunati[38].

Zuckerman è preso così da una forza irrefrenabile che lo costringe a interrogarsi riguardo alla “soggettività” dello Svedese; fatto sta che la lente attraverso cui guarda non è mai cristallina, a causa dell’avaria insita nel suo meccanismo, che vizia inevitabilmente l’esito delle domande che egli si pone. Credere che sia possibile imprimere una forma alla complessità, come cerca di fare il narratore – nonostante sembri continuamente urlare a noi lettori di non fidarsi delle sue parole – è un mero inganno. L’alter ego di Roth sa bene quanto sia imperscrutabile il coacervo di sentimenti che l’interiorità esperisce, come sa bene anche che l’intrico di situazioni e azioni della “storia” non può essere sottoposto ad alcuna reductio ad unum attraverso la macchina narrativa. Roth affida la storia che ha stimolato la sua ossessione a ciò che è considerato il più potente dei mezzi, per poi rivelarne in corso d’opera la fallacia.

L’unico modo per sanare questo paradosso è eclissare la figura di Zuckerman, lasciando proseguire solo la sua voce, per aprire un varco nell’interiorità altrui, arginando l’ostacolo del punto di vista parziale. Roth, attraverso Zuckerman, dà voce al problema della «regolazione narrativa» (Genette), dimostrando che il compito più arduo che deve affrontare lo scrittore è la trattazione del “problema conoscitivo”. Per conoscere è necessario modificare il proprio sguardo e far sì che l’istanza narrativa tenda a zero, pur avendo presente che questa non può mai essere annullata del tutto, dal momento che «nessun racconto […] può “mostrare” o “imitare” la storia che narra. Può solo raccontarla in modo particolareggiato, preciso, “vivo”, e dare così una maggiore o minore impressione di mimesi»[39].

Zuckerman esiste in quanto mera funzione, la cui presenza manda in cortocircuito sul piano ermeneutico il “sistema complesso” che è Pastorale americana, agendo su elementi che introducono un “segno meno” in apertura all’“equazione” che è questo romanzo. Gli effetti sono riscontrabili sia nell’inesistenza di Zuckerman (in quanto persona ma non in quanto funzione) sia nell’introduzione, in un quadro storicamente vero, di un minimo evento falso. Quest’ultimo – quasi volesse essere una mise en abyme del plotagisce esattamente come la bomba che Merry Levov, figlia dello Svedese, fa scoppiare a Newark, rappresentando il punto di congiunzione tra finzione narrativa e storia (intesa come plot e come storia americana, soprattutto).

La “funzione Zuckerman” è un espediente per dar forma – e senso – al caos dell’interiorità altrui, di una storia ricostruita a posteriori solo dagli impulsi irrefrenabili di un pensiero che vaga senza meta. La presenza di Zuckerman è inoltre utile al tentativo di applicare quel principio secondo il quale la trama, in quanto “struttura” che tenta di porre gli eventi in sequenza, aspira a conferire loro un senso, inserendoli in una narrazione più o meno lineare[40]; ma, nel caso di Pastorale americana, tale possibilità si sgretola nel momento esatto in cui viene a scontrarsi con quel coacervo complesso di concause che ne sovverte la stabilità.

Il titolo stesso motiva la bipartizione strutturale: Pastorale americana, due lemmi polarizzati su immagini e valori opposti. La Pastorale, coincidente con la prima parte, richiama il genere omonimo garante di una struttura e di una tematica fissa e idilliaca, come dimostrato anche dall’utilizzo dei tempi verbali, per la maggior parte all’imperfetto indicativo, a sottolineare l’immobilità nella comunità di Newark («Lo Svedese […] questo era un nome magico»; «lo Svedese brillava come estremo nel football»)[41]. Anche la prefazione costituisce una sorta di cornice anteposta all’intero romanzo, che impone ordine almeno su un piano strutturale, a cui è contrapposta la componente caotica, costituita dal plot. L’istanza caotica è condensata nell’altro termine del titolo – nel lemma che rompe le geometrie testuali, le relazioni di causa ed effetto abilmente disposte dall’autore – ed emerge nella seconda parte del testo, portando alla luce la sostanziale differenza tra plot e story. Appare dunque ciò che si potrebbe definire un duplice “comportamento emergente” all’interno del romanzo, a partire dalle due istanze fondanti, che instaurano un rapporto dicotomico: l’“ordine” e il “caos”.

Investito da queste due forze antitetiche, il romanzo si configura come tentativo di organizzare l’esperienza umana sul piano narrativo, scontrandosi però con l’impossibilità di restituire il caos dell’esperienza umana in maniera oggettiva.

La dialettica alla base di Pastorale americana sembra essere la stessa già ravvisata in Cibernetica e fantasmi da Italo Calvino, il quale descrive la tensione tra «ingegneria combinatoria del plot», quale appunto istanza d’ordine, e «il mare del non dicibile» del caos[42]. La forza ordinatrice che dispone sul testo rimandi, connessioni intertestuali deve tener testa all’esuberanza del plot, che spinge verso le più ignote direzioni, opponendo dunque una forza di segno contrario alla coesione interna. La coesistenza di queste due forze uguali e opposte riconduce a ciò che Stefano Ercolino definisce “funzione cosmos”, contrapposta alla tensione destabilizzante della “funzione caos”[43].

Se si guarda a questo fenomeno adottando gli stessi termini e gli stessi strumenti coinvolti nello studio dei sistemi complessi, si nota come l’istanza caotica vada a rompere il “feedback circolare”. Il funzionamento globale del sistema viene compromesso da elementi ingovernabili, sia sul piano strutturale con la “funzione Zuckerman” sia su quello del plot con la bomba che Merry fa esplodere nell’ufficio postale, dando il via alla deflagrazione caotica nell’universo idilliaco quale appariva la vita dello Svedese. Noi lettori siamo costretti ad arrovellarci dietro quella montagna di ucronie e di “e se” pronunciati da Zuckerman, che ci fanno chiedere da quale minuscolo e insignificante punto, da quale colpa, sia scaturita tutta quell’energia distruttrice e, soprattutto, se questa possa essere ricondotta a una causa o se siamo noi che immaginiamo con troppa fiducia correlazioni causali tra gli eventi, per aggrapparci a una parvenza di sicurezza.

Le due successive sezioni del romanzo coincidono con la tragedia privata del protagonista, avvenuta dopo la caduta dalla condizione edenica in cui aveva vissuto: dopo l’errore fatale.

Per comprendere meglio questa evoluzione, è d’obbligo fare riferimento all’eco dichiarato che Roth fa a Milton, suddividendo il romanzo in tre sezioni («Paradiso ricordato», «La caduta» e «Paradiso perduto») corrispondenti sul piano tematico alla vera e propria pastorale a cui segue la “caduta” che però è cambiata di segno, dal momento che a cadere non è più il Satana ribelle (coincidente con la figura di Merry), ma il Dio stesso del suo universo.

Seymour Levov è, in senso classico, una figura tragica, un uomo ammirabile, bellissimo e forte che decade dal suo state of grace, in parte per volere del Fato e in parte perché pecca di hybris – col bacio che stampa sulle labbra della figlia undicenne, dopo la richiesta di lei, portando al collasso il sistema perfetto e ordinato sul quale aveva costruito la propria esistenza. Ma il primo grande peccato è aver sposato Dawn – lei americana, lui ebreo; motivo per cui merita la vendetta della furia distruttrice di Merry, che fa saltare in aria l’ufficio postale per protestare contro le azioni militari americane durante la guerra in Vietnam. La distruzione è la moneta con cui Levov paga la propria superbia: la tracotanza di chi ha cercato di fuggire l’identità culturale d’origine. Un microsistema – la vita privata – e un macrosistema – la storia di una Nazione – che si influenzano vicendevolmente.

La forte tensione epistemologica sorge dalla necessità di dipanare il groviglio di concause e comprendere come in un solo punto convergano molteplici linee causali:

Nulla di tutto questo è vero. Cause, risposte chiare, a chi dare la colpa. Ragioni. Ma non ci sono ragioni. Merry è costretta a essere ciò che è. Come tutti noi. Le ragioni si trovano nei libri. Era mai possibile che il modo di vivere della nostra famiglia sfociasse in questa bizzarria e in quest’orrore? Non era possibile. […] si sforza di razionalizzare, ma non si può. Questa è tutta un’altra cosa, una cosa di cui lui non sa assolutamente nulla. Nessuno ne sa niente. Non è razionale. È il caos, dall’inizio alla fine[44].

La figura di Zuckerman accoglie l’istanza del “pathos disperato del capire”[45], in cui si condensa il senso più profondo della forma tragica, dando voce a questa nevrosi conoscitiva, spostando quella che era la massima complessità sul piano linguistico nella tragedia antica verso la massima complessità sul piano diegetico nel romanzo contemporaneo:

Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? […] Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi; sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati[46].

All’interno di Pastorale americana la dialettica “ordine-caos” si configura quale emergent behaviour del sistema; in particolare, sul piano diegetico vi è la tendenza alla forma più alta e violenta di caos, «la brutalità della distruzione di quest’uomo indistruttibile»[47], a partire da un difetto fatale: la balbuzie dell’amata figlia, una deroga alla stabilità di quel sistema ordinato di cui godeva l’esistenza dello Svedese.

Le trasgressioni di Levov apportano al sistema dei cambiamenti che implicano il susseguirsi di reazioni a catena. Merry e il padre incarnano due istanze antitetiche, non possono coesistere; la figura di Merry porta all’interno del romanzo un aumento dell’«entropia narrativa» (Ercolino), incarnando ciò che precedentemente abbiamo definito “funzione caos”; questa presenza lavora in direzione contraria a quella dello Svedese, il quale – personificando l’istanza d’ordine – coincide con ciò che è invece indicato come “funzione cosmos”[48], cui spetta il compito di contenere l’energia della prima funzione.

Sul piano strutturale, la “funzione cosmos” corrisponde alla disposizione ordinata del materiale narrativo entro strutture rigide (cioè la tripartizione in Pastorale, Caduta, Contropastorale e l’introduzione della “funzione Zuckerman”, esterna alla vicenda narrata); tale funzione cerca di fare da contrappeso al materiale narrativo inserito in una situazione costantemente at the edge of caos; è così fornita un’organizzazione gerarchica in grado di restituire la corretta tenuta sul piano morfologico, affinché emerga il contenuto simbolico che il testo vuole veicolare attraverso la rappresentazione di istanze antitetiche: anarchia vs ordine, forze centrifughe vs forze centripete, caos vs cosmos.

All’interno del romanzo massimalista – si ricordi – le forze sono bilanciate, cosa che invece non avviene in Pastorale americana: qui domina il caos, asservendo a esso tutte le restanti funzioni. Un così alto grado di complessità – diegetica e tematica – non consente una conclusione completa e soddisfacente da un punto di vista ermeneutico. Il sistema giunge al collasso a causa di questa sproporzione.

In Pastorale americana, dunque, avviene una rottura nel funzionamento ciclico del feedback che pone l’intero sistema di fronte a una situazione perfettamente paragonabile alle “biforcazioni catastrofiche” dei sistemi complessi, dato che ci si allontana dall’equilibrio originale poiché il grado di complessità cresce a dismisura. Il romanzo di Roth tende al collasso, a causa dell’egemonia esercitata dalla funzione caos – incarnata da Merry. Il disperato tentativo di controllo dello Svedese sulla propria vita non ha saputo adattarsi allorquando questa è stata colpita dalla violenza che ne ha compromesso la tenuta, generando così una sclerosi che ha permeato l’intero romanzo.

La potenza caotica che il personaggio di Merry introduce sulla scena è la potenza della “volontà”. Con l’esplosione della bomba nell’ufficio postale, esplode anche la libido vitale della figlia dello Svedese, fino ad allora sopita – esistente solo in forma di sintomo, nella sua balbuzie: scoppia l’ordigno, Merry afferma la propria “volontà” e cessa di tartagliare. Dal caos Merry trae la propria forza, che le consente di vivere persino nelle più infime condizioni, come il Satana di Milton che, pur cadendo, afferma «The mind is its own place, and in itself can make a heav’n of hell, a hell of heav’n. […] Better to reign in hell than serve in heav’n»[49].

Il caos consente l’attuazione delle infinite possibilità d’essere, che l’ordine sclerotizzava. «Senza trasgressione non esiste conoscenza»[50] scrive Roth, lasciando lo Svedese da solo; a lui resta l’onta del difetto fatale, della disobbedienza che imprime alla sua stessa vita la forma del «pensiero di un balbuziente: sfuggita ad ogni controllo»[51]. Il sistema tende alla sclerosi perché non sa evolvere, una volta che la crisi delle certezze si para sul suo cammino.

Evoluzioni di sistemi: Rayuela

È possibile riconoscere un modello testuale che lavora in senso contrario rispetto a Pastorale americana. Esiste, infatti, un particolare tipo di romanzo caratterizzato dalla presenza di molteplici elementi la cui tenuta d’insieme interna risulta paradossale, ponendosi così in un luogo altro rispetto alle forme narrative tradizionali; un tipo di romanzo in cui si riscontra, inoltre, l’assenza di una chiusura o, meglio ancora, di un senso generale di completezza, a cui tuttavia si aggiunge un «ordine perentorio»[52].

Da una «sensazione travolgente di trovarsi davanti a una frontiera della conoscenza»[53], negli anni ’60 del Novecento, si sviluppa in America il Mega Novel, il cui nucleo è retto da un principio d’ordine complessivo, nonostante contenga molteplici istanze apparentemente caotiche.

All’interno di questi romanzi la componente caotica determina un effetto di “decentramento” e di “decostruzione” (Ercolino); infatti, in questi casi l’autore impiega dispositivi e costruzioni metanarrative o strutturali al fine di orientare il lettore attraverso la rappresentazione del «tutto-dentro-tutto dei sistemi» entro «forme imitative»[54], le quali organizzano il materiale complesso all’interno del romanzo. Vi sono dunque elementi interni che anelano al caos più elevato, inseriti però entro una struttura atta a contenerne le sollecitazioni, che assume il compito di imprimere una certa forma al contenuto complesso e straripante, per salvaguardarne la tenuta complessiva. La struttura “controlla” la narrazione.

Quanto appena descritto trova compimento in Rayuela, romanzo sperimentale di Julio Cortázar che presenta una struttura ben serrata, la quale però non implica garanzia d’ordine. Per dichiarazione dello stesso autore, il testo nasce sotto il segno dell’impulsività, madre di numerosi frammenti che solo in un momento successivo sono stati disposti entro la struttura che è stata consegnata alla stampa. Dalla rinuncia a un progetto predefinito ab origine da parte dell’autore consegue un «punto centrale sul quale poi si sono incollati […] strati di cose eterogenee che rispondevano alla mia esperienza di quell’epoca a Parigi»[55]. La struttura stessa, in un certo senso, riflette la genesi di questo testo. Il romanzo si affida alla propria capacità di “autorganizzarsi”; in un continuo passaggio da passato a futuro a presente, quasi coesistessero, rivelando l’altissimo livello di plasticità di Rayuela.

Cortázar fornisce una “tavola di introduzione” preliminare che lascia piena libertà al lettore su come procedere nella lettura. Dunque, Rayuela incarna un potere parimenti demolitore e creatore rispetto alla tradizione, sovvertendo le canoniche nozioni di tempo e spazio; i lettori istintivamente comprendono che esistono modi di lettura tendenti all’infinito, che non seguono un ordine statico e lineare, ma determinati dal libero arbitrio, spaziando in tutto il campo del “possibile”.

Bisognerà ripartire allora da una cosa sacra, dal gioco, e regredire a uno stato di istintività primaria. Proprio nel ruolo che assume la componente ludica si rivela la complessità del romanzo, poiché il gioco stesso della Rayuela – il “gioco del mondo” – fornisce la chiave interpretativa esatta: il sassolino lanciato, così come noi che ci muoviamo nelle nostre vite, non soggiace alla rigida divisione delle caselle disegnate, ma è mosso da forze anarchiche di altra natura.

Una frattura tra aspettativa e realtà riproduce intenzionalmente la sproporzione tra game, gioco costituito da regole precise, volto a orientare il movimento dei giocatori, e play, l’azione vera, gli eventi che travolgono il giocatore.

Ancora una volta è presente la dicotomia “ordine-caos”, cesellata, in questo caso, non solo nella struttura stessa del testo, in un libro che «è molti libri, ma soprattutto è due libri»[56] come esplicita l’introduzione, ma soprattutto – sul piano attanziale – nel personaggio della Maga, ai cui antipodi si pone l’istanza ordinatrice di Oliveira.

La Maga, abitatrice delle eccezioni, che ama «tutti gli inverosimili guai in cui si trovava per via del fallimento d’ogni legge nella sua vita»[57], è guidata dalla propria naturale istintività, a cui si oppone l’anelito costante verso un “centro” di Oliveira; personaggio, quest’ultimo, che è consapevole di quanto la propria volontà di incanalare la complessità entro entità geometriche sia solo il residuo di un’intima illusione a cui egli si aggrappa per pretendere di avere una parvenza d’ordine e, dunque, di sicurezza. L’incontro tra i due apre al personaggio maschile una nuova prospettiva circa la potenzialità del caos – laddove, al contrario, questo era pura distruzione in Pastorale americana.

Uno degli espedienti dell’autore per bilanciare la compresenza di ordine e caos è attuare un’operazione di destrutturazione del linguaggio, scindendo il significato del verbum dal suo significante – azione utile anche ad affrontare il problema della relazionalità e della comunicabilità tra gli individui; spogliato il nome, a farsi carico dell’espressione del significato che il testo vuole veicolare saranno altri elementi, quali il ritmo e la sonorità.

Tra significato e significante della parola sussiste un rapporto di sottomissione del secondo termine rispetto al primo; rapporto che riflette la subordinazione della figura della Maga rispetto allo sguardo deformante di Oliveira[58]. Solo attraverso una simile decostruzione Cortázar può superare la barriera della soggettività del singolo, tanto che anche la descrizione dell’unione corporale necessita dell’utilizzo di un simile artificio per ambire alla descrizione più completa ed efficace dello sfiorarsi, fisico e dell’anima, di due intimità distinte che entrano in contatto. Questo, l’unico modo per restituirne così la totale unione:

Tocco la tua bocca, con un dito tocco l’orlo della tua bocca, la sto disegnando come se uscisse dalla mia mano, come se per la prima volta la tua bocca si schiudesse, e mi basta chiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare […] E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare stretta a me come una luna sull’acqua[59].

L’istanza profondamente trasgressiva sul piano linguistico è presente anche su quello strutturale; in questo romanzo concepito quasi fosse un “gioco”, la playfulness che dà corpo al testo fa sì che la frammentazione della struttura narrativa venga percepita ontologicamente.

Rayuela, grazie al potere conferito al lettore, riconduce ancora al “rizoma”, emblema del concetto stesso di “complessità”. Il testo, infatti, si fonda sulla ricerca asfissiante di qualcosa che in sostanza non è mai definito, identificato da Oliveira con una generica nozione di “centro”; si tratta però di una definizione che è data solo in negativo: «dopo aver liquidato tutto ciò che lui voleva liquidare, c’è la speranza di reinventare la realtà»[60].

La rinuncia a una trama lineare fa sì che a tenere insieme il testo subentri la struttura del “gioco”, una sorta di «rete onirica»[61] da cui risulta l’impossibilità di stabilizzarsi in nessun luogo e di ancorarsi a un preciso momento (causa i continui flashes temporali), escludendo la possibilità di una fine. Tuttavia, il lettore è spinto a proseguire da una quanto mai forte «coazione a leggere»[62].

Rayuela sotto questo punto di vista agirebbe esattamente in linea con la tradizione postmoderna, mettendo in crisi l’intreccio classico, ormai inadeguato a racchiudere una complessità sempre più incontrollabile. È perciò presente non più una scansione di senso lineare («chronos»), ma qualcos’altro che mira a far emergere un significato più profondo («kairos»)[63]. Porre una conclusione definitiva – o dar vita a una trama finita e lineare – equivarrebbe a svilire il senso del testo, dal momento che inevitabilmente ne risulterebbe una semplificazione forzata.

Cortázar crea un nuovo tipo di romanzo, destrutturando ciò che era rimasto dalla vecchia tradizione, dei vecchi modelli, in linea con quel “senso della fine” che si percepiva durante gli anni in cui Rayuela prendeva corpo. Tale è il motivo che spinge l’autore a definire la propria opera “bomba atomica”, poiché si nutre del terrore di una fine imminente, di una “crisi” che avrebbe potuto scatenarsi in qualsiasi momento. Il grande merito di Cortázar è aver trasformato la sensazione che aleggiava all’epoca in prodotto artistico.

Se il concetto di fine è posto in stretta concomitanza con quello di crisi, ciò si riversa pienamente in Rayuela, dato che la “crisi” è ulteriormente assorbita nel “conflitto” in termini di funzioni antinomiche. Viene così sollecitato un desiderio di armonia che deve però fronteggiare l’impossibilità di ricrearla o di risolversi in una pacificazione del conflitto. Questo romanzo cerca di adattarsi a un nuovo tipo di complessità che richiede spiegazioni sempre più sofisticate a fronte di una realtà quanto mai sfuggente, la quale nega qualsiasi prospettiva escatologica a causa dell’essenza peritura e labile dei modelli temporali[64].

Rayuela va considerato come un sistema complesso che, giunto at the edge of caos, dimostra la propria capacità di autoregolarsi, la quale gli consente di superare quella soglia critica per sfruttare il caos magmatico da cui è turbato, evolvendo in una nuova forma. Il “caos” diventa funzionale all’evoluzione del sistema.

Non è altro che un tentativo di superare lo iato tra vita e testo anche il dispositivo ludico, la scissione tra significato e significante, a cui abbiamo accennato. In questo quadro generale, va ricordata anche l’importanza dell’introduzione di determinati personaggi che assumono il ruolo di figura di altri personaggi. Questi si caricano di significati simbolici differenti per ognuno, a sottolineare la complessità dei rapporti umani nonché l’impossibilità di una comprensione – e compenetrazione – totale tra gli individui.

Rayuela è pura complessità. In un romanzo che – come già visto – è più romanzi, più libri, che dà vita a “n” possibilità di lettura, «le suggestioni ermeneutiche si moltiplicano in modo entropico»[65]. Ordine versus caos, ancora una volta in un romanzo complesso in quanto risultato di molteplici livelli ed elementi paratestuali che coesistono senza fondersi mai, costantemente in comunicazione tra loro:

[…] i personaggi di Oliveira e della Maga si spostano secondo itinerari casuali, si incontrano senza appuntamento, percorrono strade in cui scoprono ciò che lo sguardo normale non coglie. Quest’attrazione misteriosa, che i surrealisti chiamano “casualità oggettiva”, conduce alla deriva entrambi i personaggi, mossi da forze che, nella Maga, sono completamente naturali, profonde, incoscienti, e che, in Oliveira, lottano invece con la ragione che cerca di interpretarle[66].

La contrapposizione “funzione caos-funzione cosmos” è riportata nell’antinomia che separa – ma allo stesso tempo lega – anche sul piano attanziale i due attori principali. Ignacio Oliveira personifica la tendenza a ridurre il materiale organico del reale entro strutture fisse e schemi chiusi fondati su un sapere prettamente accademico, i quali (per propria natura) non comprendono la molteplicità insita nel reale, irriducibile a legge, che resta incomprensibile a chi tenta di decifrare la realtà secondo paradigmi precostituiti. È figura antitetica la Maga, con la propria capacità di “oltrepassare il varco” e squarciare il confine tra realtà apparente, convenzionale, e ciò che sta “oltre”, così da poter cogliere la totalità di quanto le è attorno, con «occhi che guardano senza vedere»[67], andando oltre quella «comprensione parcellizzata»[68] appartenente a un’impostazione di ragionamento lineare e razionale.

La Maga è pura trasgressione rispetto ai princìpi logici di Oliveira; è inoltre perfettamente in linea con i molteplici spunti trasgressivi che l’autore volontariamente libera nel testo, cosicché il concetto stesso di trasgressione, scevro da qualsiasi declinazione estetica, quasi apre alla riflessione sulla complessità che permea il romanzo in questione. Se in Pastorale americana non era possibile trarre una conclusione e sanare la vicenda, tanto essa era ingarbugliata, in Rayuela è dato avanzare molteplici letture e interpretazioni ugualmente valide, poiché è come se il lettore sentisse di poter sanare le aporie testuali, in quanto ne percepisce la costruzione anomala, non mettendola però mai in discussione.

Contrariamente a ciò a cui va incontro lo Svedese, crollando nella tragedia più atroce, in Cortázar l’istanza caotica è potenzialità pura, che dà vita a un romanzo nuovo, rivoluzionario, a un sistema più sofisticato, superando la soglia di criticità caotica; ciò è reso possibile grazie a una più efficace autorganizzazione, a partire dalla configurazione del linguaggio nella sua componente minima, l’etimo (che di per sé è “atomo”)[69], fino a coinvolgere il comportamento dell’intero sistema e l’ambiente attraverso la nuova modalità di fruizione richiesta al lettore.

Due romanzi, insomma, che presentano strategie differenti per fronteggiare la materia vasta e complessa della “realtà”. L’uno, inserito in un infinito circolo vizioso, tende al collasso, inghiottito dal caos che dilaga e stravolge il sistema impeccabile della vita di Seymour Levov; l’altro, aperto alla possibilità, sfrutta la “funzione caos” come principio compositivo, quale evoluzione del romanzo contemporaneo in una nuova forma capace di trarre potenzialità creativa dagli aspetti più complessi della mente e del reale, con cui la letteratura gioca la propria partita da sempre.

 

  1. P. Roth, Pastorale americana, trad. it. di Vincenzo Mantovani, Torino, Einaudi, 2013, p. 250.

  2. I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, Torino, Einaudi, 2011, p. 7.

  3. A. Gandolfi, Formicai, imperi, cervelli. Introduzione alla scienza della complessità, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.

  4. Ivi, p. 17.

  5. Ibidem.

  6. Ivi, p. 41.

  7. Ivi, pp. 42-57.

  8. Ivi, p. 59.

  9. Ivi, p. 71.

  10. E. Morin, La sfida della complessità, Firenze, Le Lettere, 2017, p. 71.

  11. M. Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria, Milano, Raffaello Cortina, 2017.

  12. Tale modello di lettura si propone di studiare la relazione dinamica che nasce dall’interazione fra testo e vissuto di chi legge, basandosi su processi cognitivi, come l’identificazione, che implicano la presenza di empatia (ivi, p. 238).

  13. Cfr. A. Casadei, Biologia della Letteratura. Corpo, stile, storia, Milano, il Saggiatore, 2018.

  14. J. Pier, Complexity: A Paradigm for Narrative?, in The Emerging Vectors of Narratology, a cura di P. K. Hansen, J. Pier, P. Roussin e W. Schmid, Berlin-Boston, de Gruyter, 2017, pp. 533-65.

  15. Cfr. T. Todorov, La poetica, in Che cos’è lo strutturalismo, trad. it. di M. Antonella, Milano, Isedi, 1971.

  16. M. Sternberg, Telling in Time (II): Chronology, Teleology, Narrativity, in «Poetics Today», XIII, 3, 1992, pp. 463-541.

  17. Ibidem.

  18. F. Pianzola, Looking at Narrative as a Complex System: The Proteus Principle, in Narrating Complexity, a cura di R. Walsh e S. Stepney, Cham, Springer, 2018, p. 111.

  19. Ulteriore spunto per utilizzare studi afferenti ai sistemi complessi nell’ambito dello studio del romanzo, il testo di LeClair mette in evidenza il fatto che sarebbe il cambiamento avvenuto nel campo delle scienze naturali ad aver coinvolto anche la produzione romanzesca, determinando la scelta di nuovi temi e forme (T. LeClair, The Art of Excess: Mastery in Contemporary American Fiction, Urbana, University of Illinois Press, 1989).

  20. S. Ercolino, Il romanzo massimalista, Milano, Bompiani, 2015, pp. 18-19.

  21. P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, trad. it. di D. Fink, Torino, Einaudi, 2004, p. 4.

  22. S. Carati, Il mondo là fuori. Narrazione, esperienza scrittura, Milano, Ledizioni, 2023.

  23. G. C. Roscioni, La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda, Torino, Einaudi, 1995.

  24. Cfr. M. Lavagetto, Lavorare con piccoli indizi, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 66.

  25. F. Bertoni, La verità sospetta. Gadda e l’invenzione della realtà, Torino, Einaudi, 2001, p. 54.

  26. S. Carati, Il mondo là fuori, op. cit., pp. 54-55.

  27. S. Ercolino, Il romanzo massimalista, op. cit., p. 21.

  28. C. Tirinanzi de Medici, Il vero e il convenzionale, Torino, UTET, 2012, p. 26.

  29. P. Roth, Pastorale americana, op. cit., p. 51.

  30. C. Tirinanzi De Medici, Il vero e il convenzionale, op. cit., p. 32.

  31. Ivi, p. 40.

  32. Cfr. P. Masiero, Philip Roth and the Zuckeman Books: The Making of a Storyworld, Amherst-New York, Cambria Press, 2011, p. 11.

  33. Cfr. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, trad. it. di C. M. Cederna, Torino, Einaudi, 1989.

  34. C. Tirinanzi de Medici, Il vero e il convenzionale, op. cit., p. 45.

  35. G. Frasca, Un quanto di erotia. Gadda con Freud e Schrödinger, Napoli, d’if, 2011.

  36. P. Roth, Pastorale americana, op. cit., p. 340.

  37. C. Tirinanzi de Medici, Il vero e il convenzionale, op. cit., p. 52.

  38. P. Roth, Pastorale americana, op. cit., p. 443.

  39. G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, trad. it. di L. Zecchi, Torino, Einaudi, 2006.

  40. Sono infatti le «strutture, funzioni, sequenze e trame» che consentono «la possibilità di seguire una narrazione e di ricavarne un senso» (P. Brooks, Trame, op. cit., p. 20).

  41. P. Roth, Pastorale americana, op. cit., pp. 1-2. Corsivi nostri.

  42. I. Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società [1980], a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 205-25.

  43. S. Ercolino, Il romanzo massimalista, op. cit., pp. 189-95.

  44. P. Roth, Pastorale americana, op. cit., p. 304.

  45. La formula è tratta da un intervento di F. Moretti, La guerra entro la famiglia (Eschilo, Orestea), presentato in Quattro lezioni sulla tragedia, a cura di F. de Cristofaro, L. Distaso ed E. Abignente, Teatro Mercadante, Napoli 22 marzo 2023.

  46. P. Roth, Pastorale americana, op. cit., pp. 40-41.

  47. Ivi, p. 90.

  48. Ivi, p. 190.

  49. J. Milton, Paradise Lost, trad. it. di Lazzaro Papi, Milano, C.D.C., 1985, libro 1, vv. 254-63.

  50. P. Roth, Pastorale americana, op. cit., p. 390.

  51. Ivi, p. 102.

  52. F. R. Karl, American Fictions, 1980-2000: Whose American Is It Anyway?, Bloomington, Xlibris, 2001, p. 162.

  53. Ibidem.

  54. T. LeClair, The Art of Excess: Mastery in Contemporary American Fiction, op. cit., pp. 23-24.

  55. Intervista a J. Cortázar tratta da O. Perego, La fascinación de las palabras. Conversaciones con Cortázar, trad. it di I. Buonafalce, Barcelona, Muchnik, 1985, in J. Cortázar, Rayuela. Il gioco del mondo, Torino, Einaudi, 2004, pp. 589-603.

  56. J. Cortázar, Rayuela. Il gioco del mondo, trad. it di F. Nicoletti Rossini, Torino, Einaudi, 2015, p. 1.

  57. Ivi, p. 16.

  58. E. Barros Grela, Performatividad lúdica y espacios de gènero en «Rayuela» y «El túnel», in «Revista chilena de literatura», LXXXI, 2012, p. 128.

  59. J. Cortázar, Rayuela. Il gioco del mondo, op. cit., p. 41.

  60. Ivi, p. 602.

  61. B. Sarlo, Il gioco del mondo. Julio Cortázar, 1963, in Il romanzo. III. Storia e geografia, a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2002, p. 735.

  62. Cfr. P. Brooks, Trame, op. cit., p. 227.

  63. Cfr. F. Bertoni, Impossibile chiusura: il romanzo moltiplicato, in «SigMa», I, 2018, p. 18.

  64. F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, trad. it. di G. Montefoschi, Milano, Rizzoli, 1972, pp. 43-45.

  65. Ivi, p. 188.

  66. B. Sarlo, Il gioco del mondo. Julio Cortázar, 1963, op. cit., p. 737.

  67. J. Cortázar, Rayuela. Il gioco del mondo, op. cit., p. 105.

  68. B. Sarlo, Il gioco del mondo. Julio Cortázar, 1963, op. cit., p. 738.

  69. M. Tortora, A. Volpone, Il romanzo modernista europeo. Autori, forme, questioni, Roma, Carocci, 2019, p. 226.

(fasc. 51, 15 marzo 2024, vol. II)

Scrittrici partenopee postmoderne

Author di Franco Zangrilli

1. Introduzione

Come è noto, parecchie sono le storie della letteratura italiana, realizzate con i più svariati approcci ermeneutici, analitici, critici, aderenti a questa o a quella tendenza (storiografica, estetica, ideologica ecc.). In tempi recenti si sono fatti numerosi tentativi di trattare la scrittura muliebre1. Per un motivo o per l’altro, a mio parere nessun tentativo è riuscito a darci una dettagliata storia della nostra letteratura femminile, dall’origine al postmodernismo. Continua a leggere Scrittrici partenopee postmoderne

(fasc. 3, 25 giugno 2015)