“Poetry matters”. Croce e il valore civile della comprensione

Author di Fabrizia Giuliani

Comunicare e comprendere

Nella raccolta di studi pubblicata nel 1999 in occasione del settantesimo compleanno di Gennaro Sasso, una Festschrift che anticipa fin dal titolo l’ampiezza degli ambiti trattati, Tullio De Mauro torna su temi crociani affrontando il tema della comprensione[1]. A rigore, non si tratta di una novità: la comunicazione è un nodo sul quale il linguista ha sempre insistito, dai primi lavori all’Introduzione alla semantica, agli ultimi interventi[2].

Nessuna discontinuità, dunque? Uno sguardo superficiale, fermo alla scelta del tema, potrebbe confermare il giudizio; se invece si osserva lo sviluppo dell’analisi, si comprende rapidamente come queste pagine rappresentino un vero e proprio tornante teorico, che tocca il giudizio sulla filosofia del linguaggio crociana, il modo d’intenderla e periodizzarla, il suo rapporto con le scienze del linguaggio. Ma andiamo per ordine, seguendo il testo e soprattutto i luoghi ai quali l’autore rinvia: saranno essi, infatti, a offrirci la chiave interpretativa corretta.

Il punto di partenza è la Filosofia della pratica: se De Mauro ha sempre riconosciuto un ruolo centrale al testo che chiude la trilogia sistematica, in queste pagine ne sottolinea soprattutto il carattere di apertura. Ribadisce che lo sviluppo teorico previsto e auspicato da Croce in ogni ambito della riflessione, il “Continua tu” che ritorna in più scritti, non esclude il linguaggio, ma anzi lo riguarda in modo particolare. Il linguista esclude una lettura rigida, statica, del

pensiero linguistico crociano, sostenendo, com’è noto, che l’identificazione di linguistica ed estetica propria del sistema e incompatibile con “qualunque linguistica possibile”, secondo il noto giudizio di Lepschy, viene poi superata nella fase più matura[3].

Questa interpretazione, diventata un punto di riferimento nella letteratura critica a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, sembrava destinata a non incorrere in ripensamenti e revisioni. Nel saggio citato si osserva uno sguardo diverso, se non un vero e proprio cambio di passo. Scrive De Mauro: «già mentre andava delineando il suo sistema, Croce elaborava in materia di linguaggio, di parole e loro senso e uso, riflessioni collaterali tanto acute quanto difficili da raccordare con la visione sistematica del linguaggio come arte e del parlare come poetare»[4].

Due ordini di considerazioni discendono da questo giudizio: non vi è più solo una “seconda” linguistica ma “un’altra” linguistica crociana che si sviluppa a partire dagli anni del sistema. Il linguista parla di riflessione “collaterale”: se è esclusa la successione, è ribadita l’alterità, l’assenza di conciliazione con la teoria delineata nella Filosofia dello Spirito.

Una periodizzazione da ripensare

Vediamo dunque quali sono i concetti coinvolti nello sviluppo di questa linguistica “altra”. Croce, afferma De Mauro, elabora una teoria attenta e articolata della comprensione linguistica: riconosce la natura processuale dell’accertamento del senso, la continua correzione in corso d’opera[5].

Il punto di svolta, sostiene, si osserva nelle pagine dedicate alla Poesia di Dante, pagine note, alle quali filosofia e critica letteraria hanno dedicato nel tempo riflessioni importanti, ma che gli studi filosofico-linguistici hanno invece trascurato[6].. La scelta di porre al centro le parole, la possibilità di ricostruirne e accertarne il senso, rappresenta una novità rispetto all’assetto definito nel sistema, che porta a riconoscere la necessità delle conoscenze necessarie ai processi di comprensione e interpretazione dei testi. Ma vediamo il passaggio:

E se io dovessi designare in qualche modo l’interpretazione storica che è propria dell’interpretazione storico-estetica, ossia il momento analitico che precede quello sintetico, direi che è l’explanatio verborum, l’interpretazione, largamente intesa, del senso delle parole: senso che, come tutti sanno, si trae non dalla loro etimologia e dalla sequela di concetti e dei sentimenti che hanno concorso a formarle e che ne costituiscono una sorpassata pre-istoria, ma dall’uso generale dei parlanti in un dato tempo, dall’ambiente in cui sono adoperate e si determina e individua poi in relazione alla nuova frase che è composta di esse e insieme le compone e crea. Proposizioni filosofiche, nomi di persone, accenni a casi storici, giudizi morali e politici e via dicendo, sono, in poesia, nient’altro che parole, identiche sostanzialmente a tutte le altre parole, e vanno interpretate in questi limiti. Nella interpretazione allotria non sono più, e non debbono essere, parole, ossia immagini, ma cose[7].

Qui, l’autore dell’Estetica, fermo assertore dell’inconsistenza dei tentativi di distinguere e segmentare le classi di espressione, mostra un’oscillazione significativa rispetto alle affermazioni del sistema, secondo le quali:

É falso che il nome o il verbo si esprimano con determinate parole. L’espressione è un tutto indivisibile; il nome e il verbo non esistono in essa, ma sono astrazioni che vengono da noi forgiate col distrugger la sola realtà linguistica ch’è la proposizione, ossia l’espressione. Ciò suona paradossale ma è verità semplicissima[8].

Non vi è dubbio sul fatto che nel passaggio osservato più su si registri una considerazione nuova rispetto al ruolo delle parole e dunque della lingua, intesa come tessuto comune, patrimonio condiviso, termine di riferimento per ogni atto di produzione e comprensione.

Questa linea di riflessione, come noto, si svilupperà ulteriormente nel libro del ’36, La Poesia; occorre però chiedersi da dove tragga origine e, soprattutto, se sia interpretabile solo in chiave diacronica. Nelle prossime pagine proveremo a misurarci con questi interrogativi, assumendo una prospettiva che non oppone sincronia e diacronia. Come ha affermato Marcello Mustè, la “svolta” è già implicita negli studi preparatori dell’estetica ma manifesta le sue conseguenze teoriche solo in un secondo tempo – ossia dopo gli studi hegeliani. Serve uno sguardo d’insieme, capace di seguire l’intreccio che lega la riflessione sul linguaggio al pensiero etico-politico, tratto distintivo di tutta la filosofia crociana[9].

Le Parole da capire

Come emerge con chiarezza nelle pagine della Poesia, l’autonomia del giudizio estetico non va intesa come affermazione dell’irrilevanza delle conoscenze necessarie alla sua formulazione, a cominciare, nel caso dei testi poetici e letterari, dalle conoscenze linguistiche. Nel celebrare la grandezza di Dante e della Commedia, «opus poèticum cui si consertano l’opus philosophorum e l’opus praticum», se da un lato Croce condanna le «interpretazioni allotrie», gli studi fondati su aspetti esterni al momento poetico ‒ dove prevalgono analisi politiche, morali, filosofiche ‒, dall’altro ne sottolinea la necessità, data la vastità dei riferimenti contenuti e la molteplicità dei livelli di lettura dell’opera. L’esortazione non va fraintesa: il giudizio estetico è e resta prioritario rispetto alla sfera logica e pratica ‒ «anche se tutte le allegorie di tutte le liriche e di tutti i luoghi della Commedia fossero spiegate resterebbe poi sempre da interpretare quelle liriche, prescindendo cioè dalle allegorie come inutili e dannose distrazioni, e ricercandone il vero ‘senso specifico’»[10].

In quanto prodotto pratico, atto di volontà, l’allegoria è frutto di una decisione arbitraria – convenzione, diremmo oggi attingendo al lessico semiotico ‒ con cui si “decreta che questo debba significare quello”; altra cosa è la poesia, dove non c’è rigidità nel rinvio da un piano all’altro e non sono necessarie istruzioni: ciò che precede il giudizio è solo la conoscenza degli elementi del «vivo linguaggio che in quei luoghi si atteggiano a nuova sintesi»[11].

Non casualmente, nella parte della Poesia dedicata al tema della rievocazione e della traducibilità, torna ancora la metafora dell’albero per descrivere il lavoro di restituzione dei testi poetici che la filologia svolge: «niente è nell’universo che sia meramente naturale e non storico, e di una preparazione maggiore o minore o minima c’è sempre bisogno per ripigliare e continuare il lavoro della vita». Lo sforzo individuale di un autore che cerca di farsi tornare alla mente l’espressione originaria, quando ormai «son venute meno, in tutto o in parte, le condizioni soggettive e oggettive che possedeva al momento della creazione», è paragonabile al ruolo di ricostruzione del filologo, che opera per riparare allo smarrimento o alla dispersione provocati dallo scorrere del tempo e degli eventi, consentendo quei ritrovamenti o “scoperte” necessari alla costruzione del sapere e della tradizione. Va poi ricordato, prosegue il filosofo, lo sforzo delle discipline che insieme alla filologia concorrono all’accertamento del senso, come la paleografia e la critica del testo

alla quale seguono i glossari dei suoni e delle forme per singole opere e autori, e lessici di una lingua di un popolo, o più lingue insieme, in cui i vocaboli sono messi in corrispondenza tra loro e morfologie e sintassi e metriche e altri simili istrumenti, e commenti letterari e storici, in cui si determina il significato di vocaboli e frasi, che si pongono in relazione con notizie di cose, di fatti e di idee[12].

La forma espressiva che la lingua concorre a costruire non è mai individuale. Questo punto è dirimente: nella letteratura non è in gioco l’opera del singolo ma il “genio dell’umanità”. Per comprendere lingue lontane nello spazio e nel tempo non bastano i saperi; serve il “consenso” dei parlanti che partecipano all’atto comunicativo:

Per opera di questa magia si compie quotidianamente il miracolo dell’apprendere lingue che chiamiamo straniere: al quale effetto niente varrebbe avere innanzi ai sensi e all’intelletto gli oggetti, le costumanze. gli eventi, le persone di cui in quelle lingue si parla, né conoscere le approssimative e astratte corrispondenze di significato dei loro suoni articolati gli astratti suoni articolati desunti dal modo di parlare che ci è solito. Tutte le cognizioni forniteci dalla filologia, utilissime certamente, resterebbero disgregate e inerti se non ci fosse il fondamentale ed essenziale esercizio che noi siamo esseri parlanti e il nostro interlocutore di lingua straniera è un essere parlante, e che le vibrazioni nostre e quelle di lui sono omogenee, le une e le altre vibrazioni della comune umanità, e perciò, per consenso o simpatia quelle dell’uno finiscono con l’essere risentite dall’altro […][13].

Vale la pena tornare alle riflessioni sulla traduzione che attraversano, come noto, tutto il pensiero crociano con qualche ambivalenza. Se da un lato il filosofo sembra ammetterla solo per la prosa, dall’altro sottolinea la necessità di rendere accessibili in lingue diverse le stesse opere poetiche. Il punto, ribadisce, è comprendere a fondo quali siano il significato e la funzione del tradurre: non si capirebbe, oggi, ciò che Vico intendeva quando parlava di “certo del conoscere” distinguendolo e contrapponendolo al “vero”, perché quelle parole oggi hanno un senso diverso, sono pensate ed espresse con altri vocaboli. Il lavoro del traduttore consiste in questa ricerca e si misura costantemente con l’incertezza e l’errore. L’utopia della lingua comune, la “dotta lingua franca” finalizzata a stabilire un’equivalenza più stabile tra i segni è una risposta al riconoscimento di questo rischio, ma resta, appunto, un’utopia:

sebbene le proposte di unificazione abbiano avuto qualche pratica attuazione nelle scienze astratte, e sebbene le altre naturali si aiutino col latino e col greco, e sebbene la compenetrazione delle culture renda in un certo senso d’uso internazionale le stesse lingue nazionali, tanto da non far sentire urgente il bisogno di artificiali unificazioni, la varietà dei segni, e la conseguente necessità delle traduzioni persisterà sempre, perché i nuovi concetti sorgono sempre, nonché nella diversità dei popoli e dei loro linguaggi, negli individui, che sempre coi nuovi concetti creano nuovi segni[14].

Ancora sulla Communicatio idiomatum

Tradurre vuol dire, dunque, raggiungere un punto di mediazione tra le esigenze della comunicazione – “il reciproco intendimento” ‒ e il rispetto della diversità delle lingue. Come afferma De Mauro, si tratta di un processo «forzatamente non lineare» perché mira a circoscrivere e afferrare un senso particolare, dove i bisogni espressivi del passato s’incontrano con le forme linguistiche del presente

condizionate queste sia dall’ambiente e dall’uso generale, sia […] dal loro particolare comporsi e riattualizzarsi con modalità non interamente predeterminabili, ma piuttosto con un nodo di molti fili da rintracciare e sciogliere, come l’avvincersi e sorreggersi reciproco di molti tralci in una pergola[15].

Torniamo alla comprensione. Nell’Estetica Croce rifiuta la possibilità di collocare il processo su un terreno radicalmente arbitrario – convenzionale – che definisce un errore al quale è quasi preferibile la dottrina della “communicatio idiomatum”, rappresentazione in forma “mitologica” di quell’intendersi su basi comuni – universali – appena osservato[16]. Il problema della reciproca comprensione va posto nel luogo che gli è proprio, aveva affermato a proposito delle teorie di Hamann, ossia sul piano teoretico: si corre il rischio, altrimenti, di un approccio “mistico” quale quello dell’autore tedesco che individua la risposta del problema della comprensione nella “communicatio idiomatum con Dio”.

La posta in gioco è sempre l’autonomia della lingua: nell’interpretazione di Hamann, Croce legge la necessità di affrontare in maniera radicale la questione, andando oltre le teorie convenzionaliste che finiscono per rinviare, alla fine, «all’inconoscibile»[17]. Se non si riconosce che il linguaggio è «segno a sé stesso», il rischio di misticismo è inevitabile, come Croce spiega con chiarezza in questo passo tratto dal Breviario:

L’immagine significante è l’opera spontanea della fantasia, laddove il segno, nel quale l’uomo conviene con l’uomo, presuppone l’immagine e perciò il linguaggio; e, quando si insista a spiegare mercé il concetto di segno il parlare, si è costretti alfine a ricorrere a Dio, come datore dei primi segni, cioè a presupporre in altro modo il linguaggio, rinviandolo all’inconoscibile[18].

Non è diverso il riferimento che troviamo nelle Postille al capitolo dedicato all’Interpretazione storico-estetica nel libro del ’36: a paragone degli insufficienti tentativi delle «associazioni, inferenze o convenzioni», è preferibile ciò che, sia pure in «forma “mitologica”», esprime il fatto che ci si intenda sul «fondamento della nostra comune umanità». Se inizialmente il rinvio alla “communicatio idiomatum” è utilizzato in chiave polemica, contro le visioni convenzionali della lingua, nella fase più matura tali richiami vanno ricondotti al tentativo compiuto dal filosofo di misurarsi con il problema “pratico” della comunicazione[19]. Come afferma Marcello Mustè:

Osservato dal lato dell’estetica, il linguaggio, anche nella sua versione comunicativa, appariva come una medesimezza di contenuto teoretico traslata in una forma differente. Osservato, invece, dal lato della praxis, che ne era l’autentica artefice, la comunicazione non poteva che rivelare il volto della differenza, nel contenuto oltre che nella forma, quindi una radice convenzionale, persino arbitraria, esposta al fraintendimento e all’errore. Questo era il problema che si apriva a partire dalla Logica. La comunicazione, come si diceva, non presupponeva per Croce intersoggettività e pluralità di parlanti, né una vera e propria comunità̀ umana. Fu appunto sul versante dello storicismo e della riflessione etico-politica, più̀ che in quello strettamente linguistico, che questo aspetto venne ripreso e ripensato, perché, come scrisse nel libro su La poesia, «tutti sono, vivono e si muovono in Dio»[20] .

Non basta più riconoscere la natura categoriale del linguaggio e “presupporre” la comunicazione; se non si vuol restare “disarmati”, occorre provare a comprendere concretamente come tale processo si determina, individuare gli strumenti di cui si avvale:

La coscienza estetica, come la coscienza morale, è disarmata e non può combattere: solo la critica è armata e combattente. I moti del gusto e del disgusto, per vivacissimi che siano, tutto potranno operare, ma non già quell’unico atto che il giudizio compie e che è, semplicemente di dare il nome alle cose, e aprire così la via al modo di comportarsi verso di esse[21].

Riprendendo le parole demauriane con le quali avevamo aperto la nostra riflessione, la “ricchezza e fecondità” di queste riflessioni è evidente, com’è evidente la loro attualità. Non mi riferisco solo alle teorie linguistiche, alla traduzione, ma al presupposto che rende possibile il riconoscimento del ruolo della lingua, il valore delle parole, la necessità della loro condivisione; per riprendere un altro momento cruciale della filosofia crociana: le ragioni della Difesa della poesia[22].

Non appaia irrituale, allora, concludere queste pagine ricordando alcuni luoghi dove la «concreta arte e poesia»[23] confermano la teoria di Croce, mostrando la spinta alla traduzione impossibile ma necessaria, la scoperta delle parole da condividere nei momenti estremi, quando i moti «inferiori e barbarici»[24] sembrano prendere il sopravvento. Torna il racconto insuperato di Primo Levi, che nei campi di Auschwitz ricorda e traduce i versi dell’Inferno per l’amico francese: «Come se anche io sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono»[25]. Riecheggiano ora gli stessi versi e lo stupore che li accompagna nelle pagine di Ilya Kaminsky, poeta ucraino già tradotto in molte lingue. Scrive dell’incontro con Dante a Kyiv, di come anche nei rifugi antiaerei Virgilio appaia una guida salda, capace di immaginare il mondo oltre il buio[26]:

Dante has no need to defend his art. Poetry matters: he sees it as a primal ancient force and art form, one that’s been here long before our individual lifetimes and will stay long after (Vergil, who lived centuries before him, guides him into the present). What we need, Dante’s journey shows us, is to defend ourselves with it: a tune to walk to, even in the underworld, as long as one still walks[27].

Bibliografia

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  1. T. De Mauro, Le porte della comprensione, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, Napoli, Bibliopolis, 1999; il saggio è stato ripubblicato nello stesso anno anche nella raccolta Capire le parole, Bari-Roma, Laterza, 1999, pp. 151-58.
  2. A titolo esemplificativo si vedano: T. De Mauro, Origine e sviluppo della linguistica crociana, in «Giornale critico della filosofia italiana», 15, 1954, pp. 376-91; Id., Croce la linguistica e noi (intervista ad Arturo Martone, in «Nord e Sud», 39, n. s., 1992, pp. 23-40.
  3. Cfr. G. Lepschy, Linguistica strutturale, Torino, Einaudi, 1965. Sulla periodizzazione vedi T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Bari-Roma, Laterza, 1989, pp. 103-26; cfr. anche G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 103-17 e G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino, Einaudi, 1989, pp. 50-51. Nella direzione opposta la lettura di G. Sasso, Croce: la questione del linguaggio, in Id., Filosofia e idealismo, VI. Ultimi paralipomeni, Napoli, Bibliopolis, 2012, pp. 107-54.
  4. T. De Mauro, Le porte della comprensione, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, op. cit., p. 848.
  5. «Forse il Prezzolini esagera quando afferma che la filosofia bergsoniana, la filosofia della Contingenza, ha intrapreso una guerra contro la parola. Si può dire che la filosofia non abbia fatto altro, da quando è al mondo, che battagliare contro i concetti empirici, i nomina realizzati e introdotti nel mondo del pensiero»: B. Croce, Il linguaggio come causa d’errore. Henri Bergson, in «La Critica», 1904, pp. 50-53, poi ristampato in Id., Conversazioni Critiche, vol. I, pp. 105-107, da cui si cita.
  6. Cfr. lo studio recente Pro e contro Dante, a cura di E. Giammattei, Roma, Treccani, 2021, pp. 30-36.
  7. B. Croce, La poesia di Dante, Bari-Roma, Laterza, 1921, p. 24.
  8. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale [1909], Napoli, Bibliopolis, 2014, p. 167. Cfr. anche B. Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, a cura di M. Tarantino, Napoli, Bibliopolis, 1996, dove la comunicazione si identifica con l’errore, pp. 60-61.
  9. In altra prospettiva cfr. G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 103-17 e G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, op. cit., pp. 50-51.
  10. B. Croce, La Poesia di Dante, Bari-Roma, Laterza, 1921, p. 9.
  11. Ivi, pp. 12-21.
  12. I brani sono tratti da La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, Bari, Laterza, 1946, pp. 68-69.
  13. Ivi, pp. 78-79.
  14. Ivi, p. 101. Interessante il confronto con la Logica: “ogni vocabolo porta seco, in maniera maggiore o minore, l’appiccico dei vocaboli, perché si aggira in questo basso mondo ch’è pieno di tranelli; e la ricerca di vocaboli che impediscano assolutamente gli equivoci” non è che il sospiro di “molte anime candide” Logica come scienza del concetto puro, a cura di C. Farnetti, Napoli, Bibliopolis, 1996.
  15. T. De Mauro, Le porte della comprensione, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, op. cit., p. 851.
  16. Cfr. B. Croce, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura [1936], Bari-Roma, Laterza, 1946, p. 270.
  17. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Napoli, Bibliopolis, 2014, p. 287. Sul segno cfr. M. Salucci, Segno ed espressione in Benedetto Croce, Città di Castello, Arnaud, 1987, p. 30. Si rinvia poi, ovviamente al commento di De Mauro al Corso di linguistica generale sul punto relativo all’arbitrarietà: «certo, anche nelle concezioni convenzionalistiche, da Aristotele a Whitney, il consenso sociale ha una parte: ma trova un limite nel fatto che la lingua, concepita come una nomenclatura ingloba una parte dei “significati” che coincidono con le “cose” e sono dunque dei dati precostituiti». Si veda F. De Saussure, Corso di linguistica generale [1967], introduzione, traduzione e commento a cura di T. De Mauro, Bari-Roma, Laterza, 1983, pp. XVII e pp. 141-42.
  18. B. Croce, Breviario di estetica, Bari-Roma, Laterza, 1913, p. 51.
  19. Paradigmatiche, a proposito, le interpretazioni di T. De Mauro, Introduzione alla semantica [1965], Bari, Laterza, 1989, pp. 124-26; M. Boncompagni, Ermeneutica di Benedetto Croce, Napoli, Loffredo, 1980, pp. 78-100 e P. D’Angelo, L’Estetica di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1982, pp. 113-18.
  20. Cfr. F. Giuliani, Croce filosofo del linguaggio. Dialogo tra Fabrizia Giuliani e Marcello Mustè, in «Filosofia Italiana», XVII, I (2023), p. 26.
  21. B. Croce, Sulla natura e l’ufficio della linguistica, in Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e critica della poesia, Bari, Laterza, 1950, p. 249.
  22. B. Croce, Difesa della poesia (lettura tenuta a Oxford il 17 ottobre 1933), in «La Critica», I, XXXII, 1934, pp. 1-15, poi in Id., Ultimi saggi, Bari, Laterza, 1935. Cfr. ancora Pro e contro Dante, a cura di E. Giammattei, op. cit., p. 22.
  23. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro [1909], a cura di C. Farnetti, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 354.
  24. B. Croce, Filosofia e storiografia, a cura di Stefano Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005, p. 209.
  25. P. Levi, Se questo è un uomo [1958], Torino, Einaudi, 2014, p. 111.
  26. Il nesso tra poesia, letteratura e civiltà è ribadito a più riprese, a partire dal volume del ’36. Qui ne troviamo forse la definizione più chiara: «la luce che la poesia ha acceso nell’anima e che è luce inestinguibile […] E quella luce che li ha rivestiti, o che li rivestirà, li ingentilisce, sgombra da essi la barbarie, li rende “urbani” (άστεΐοι, come dicevano i greci); e la letteratura che compie tale opera e rende civili le espressioni immediate o naturali, è parte di quella che si chiama appunto civiltà» (B. Croce, Filosofia. Poesia. Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore [1948], op. cit., p. 358). Mi permetto, a proposito, di rinviare anche a F. Giuliani, Espressione ed éthos, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 114-34.
  27. I. Kaminsky, Reading Dante in Ukraine, in «Asymptote Journal», Jan 2024, consultabile sul sito https://www.asymptotejournal.com/search/?query=kaminsky (ultima consultazione: 10 febbraio 2024).

(fasc. 51, 25 febbraio 2024)