Troppo rumore per nulla. Qualche nota sulle canzoni del Festival di Sanremo 2024

Author di Massimo Scotti

In occasione dei funerali di Vittorio Emanuele di Savoia, il 10 febbraio 2024, una cronista del canale televisivo La7 così commentava: «Fa un po’ strano sentir parlare di titoli nobiliari ancora nel 2024». Casualmente, la giornata coincideva con la finale del Festival di Sanremo. Il caso ha spesso una sorridente ironia, e lo dimostra mettendo in atto un principio esoterico fra i più enigmatici e suggestivi: “Riunire ciò che è sparso”. Cosa si può indovinare, o dedurre, dal presentarsi di una simile coincidenza? Forse un fatto piuttosto semplice e sotto gli occhi di tutti: la tradizione è finita. O almeno tende a scomparire. A nascondersi. O a dissimulare il proprio aspetto sotto mentite spoglie.

La giornalista, piuttosto giovane, che si stupisce sentendo ancora parlare di titoli nobiliari, oggi, rivela una certa ingenuità. E sicuramente uno scarso senso della storia – ma è l’assenza di consapevolezza che atterrisce. La medesima assenza di consapevolezza che traspare dai motivi festivalieri, e che si avverte ancor prima dell’ascolto iniziale, nella lettura dei testi delle canzoni; verrà confermata, successivamente, dopo che i brani in gara sono stati interpretati, ripetuti, registrati e trasmessi più e più volte, da ogni mezzo di comunicazione, sempre più ossessivamente.

Come insegna a fare Michel Foucault, sento l’esigenza di definire chi è l’autore di questo discorso, a scanso di equivoci. Si tratta di una persona non più giovane, nata all’inizio degli anni Sessanta, che forse può almeno in parte compensare la propria ignoranza di tecnica musicale con un’assidua attenzione durata sei decenni per la manifestazione canora; tale persona è comprensibilmente in grado di valutare più i testi dei brani che le loro forme melodiche, e comunque solo da appassionato e dilettante. A sua discolpa può dire di conoscere almeno un poco la tradizione poetica occidentale e (anche solo per motivi anagrafici) la storia recente del costume italiano; è da queste premesse che si accinge a tentare una breve analisi, sapendo già quanto potrebbe apparire azzardata.

Sempre chi scrive qui fa appello a una generosa epoké, la sospensione del giudizio che sola può rendere libera ogni valutazione.

Un meraviglioso storico dell’arte come Roberto Longhi amava la canzone popolare e Marcel Proust la difese con parole celebri:

Detestate la cattiva musica, non disprezzatela. Dal momento che la si suona e la si canta ben di più, e ben più appassionatamente, di quella buona, molto di più di quella buona si è riempita a poco a poco del sogno e delle lacrime degli uomini. Consideratela per questo degna di venerazione. Il suo posto, nullo nella storia dell’Arte, è immenso nella storia sentimentale della società. Il rispetto, non dico l’amore, per la cattiva musica non è soltanto una forma di quel che si potrebbe chiamare la carità del buon gusto, o il suo scetticismo, è anche la coscienza dell’importanza del ruolo sociale della musica. Quante melodie, di nessun pregio agli occhi di un artista, fanno parte della schiera dei confidenti preferiti dai giovanotti sentimentali e dalle innamorate! Quante “Anelli d’oro”, quante “Ah! resta a lungo addormentata”, le cui pagine vengono sfogliate ogni sera, tremando, da mani giustamente celebri, bagnate dagli occhi più belli del mondo con lacrime di cui il più puro maestro invidierebbe il malinconico e voluttuoso tributo – confidenti ingegnose e ispirate che nobilitano il dolore ed esaltano il sogno e che, in cambio del segreto ardente che viene loro confidato, offrono l’illusione inebriante della bellezza! Come il popolo, la borghesia, l’esercito, la nobiltà, hanno gli stessi postini, portatori del lutto che li colpisce o della felicità che colma i loro cuori, così hanno gli stessi messaggeri d’amore, gli stessi confessori prediletti. Sono i cattivi musicisti. Un certo ritornello insopportabile, che ogni orecchio nobile e raffinato si rifiuta all’istante di ascoltare, custodisce dentro di sé i tesori di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite, di cui fu la viva ispirazione, la consolazione sempre pronta, sempre aperta sul leggio del pianoforte, la grazia sognante e l’ideale. Certi arpeggi, una certa “ripresa” hanno fatto risuonare nell’anima di chissà quanti innamorati, di chissà quanti sognatori le armonie del paradiso o la voce stessa dell’amata. Uno spartito di mediocri romanze, consumato per aver troppo servito, ci deve commuovere come un cimitero o come un villaggio. Che importa che le case non abbiano stile, che le tombe spariscano sotto le iscrizioni e gli ornamenti di cattivo gusto. Da questa polvere può levarsi in volo, davanti a una immaginazione abbastanza benevola e rispettosa per mettere a tacere un istante la sua alterigia estetica, lo stormo delle anime recanti nel becco il sogno ancora verde che faceva loro presentire l’altro mondo, e le induceva a gioire o a piangere in questo[1].

A dar ragione a Proust è Mathilde Bauchard, indimenticabile protagonista del film di Truffaut La Femme d’à côté, interpretata da Fanny Ardant, quando, in ospedale e in preda a una grave depressione, riceve la visita dell’uomo che ama disperatamente, Bernard Coudray (un inarrivabile Gérard Depardieu). «Non faccio niente tutto il giorno», dice Mathilde, trasognata e dolente. «Ascolto solo le canzoni. Sono stupide, ma dicono la verità: ‘Ti amo, non posso perderti. Non posso vivere senza di te’. Che altro c’è da dire?»[2].

Possiamo concordare ancora? Le canzoni “dicono la verità”? La dicono sinceramente, interpretando il nostro sentire odierno o del passato? E come la dicono?

Prendiamo un brano a caso, quello proposto dal cantante Alfa:

Mi han detto che il destino te lo crei soltanto tu

Vai a tempo col respiro e se corri ne avrai di più

[…] Mi han detto se ti senti così vivo

Non guardarti indietro mai e vai uh uh[3]

Un certo ottimismo americaneggiante è all’origine di queste concezioni, di abbagliante superficialità e di profonda pericolosità. Quindi, se ti va male, puoi incolpare solo te stesso; se «vai a tempo col respiro e corri», ne avrai di più: ma di cosa? Di destino, di tempo, di respiro? L’inserto affannoso («Uh uh») farebbe propendere per la terza ipotesi, ma, in sostanza, che cosa vuole dirci Alfa?

Mi han detto tempo al tempo

E non avere fretta più

Ricordo che cantavo disteso nel letto

Sognandomi cantare ma dentro un palazzetto[4]

Una considerazione che in parte contraddice le precedenti: ora c’è un saggio richiamo alla calma, al dominio dell’irrequietezza: «Tempo al tempo, non avere più fretta». Ma l’affermazione successiva è più interessante, in quanto mitopoietica: il successo, il destino agognato, è l’esibizione «in un palazzetto» (si suppone: dello sport). Il cantante sogna sé stesso acclamato da un pubblico, mentre fa quel che sta facendo in quello stesso momento sul palco dell’Ariston: metascrittura? O addirittura mise en abyme? Qualcosa induce a supporre che l’autore ignori simili concetti: la letteralità del suo messaggio, che disdegna le sfumature, per esempio.

Il brano si conclude con un monito piuttosto sensato: «Se stai via dalla strada e via dai guai / Tu non guardare indietro mai e vai». In questa filosofia contemporanea un po’ d’accatto, risuona dopotutto il buonsenso dei nonni.

Alfa, che invita a «non guardare indietro», sarebbe il primo a stupirsi di questa considerazione, che troverebbe forse offensiva. Ma il perbenismo dei nostri tempi è reso evidente dal confronto con un altro invito, quello offerto dalla star nazionale e internazionale Loredana Bertè, che in passato spronava proprio a confrontarsi con “la strada”:

Mentre la chitarra suona ancora un po’

Esci per la strada e scendi giù in metro

Così scoprirai

Che

Rinchiusi in una stanza non si vince mai[5]

Quest’anno, proprio la cantautrice ha ottenuto il Premio della Critica per il brano Pazza, interpretato come un inno alla libertà individuale e a un’idea di gran moda: l’autodeterminazione femminile. Niente di male, anzi. Forse si potrebbe obiettare che però questo fondamentale messaggio è espresso con una certa corrività facilona che caratterizza anche un film di successo basato su temi analoghi: C’è ancora domani di Paola Cortellesi (2023). Ecco l’esordio della canzone premiata:

Sono sempre la ragazza

Che per poco già s’incazza

Amarmi non è facile

Purtroppo io mi conosco

Ok ti capisco

Se anche tu te ne andrai via da me

Col cuore che ho spremuto come un dentifricio

E nella testa fuochi d’artificio

Adesso vado dritta ad ogni bivio

Va bene sono pazza che c’è che c’è[6]

Il testo è annoverabile fra i peggiori di Loredana Bertè, che ha interpretato e anche composto, invece, dagli anni Settanta del Novecento, canzoni intelligenti e visionarie, dotate di una certa ispirazione lirica scabra e fantasiosa, con caratteri di originalità molto frequenti, che riaffiorano qui solo sporadicamente, in immagini non ancora del tutto viete ma certo più pallide e prevedibili di un tempo: «Io cammino nella giungla / Con gli stivaletti a punta / E ballo sulle vipere»[7]. Si nota però, e questo va detto, una certa attenzione per la metrica che rende il testo – anche solo scritto e non cantato – apprezzabile da un punto di vista ritmico, ma niente di più: si tratta di un manifesto sociopolitico, un elenco di slogan, privo di una qualsivoglia ricerca stilistica; un tipo di discorso piattamente “denotativo” che ha ben poco di “connotativo” (e questo vale, purtroppo, per la quasi totalità delle canzoni sanremesi di quest’anno).

Quando, anzi, si ricerca un tipo di linguaggio più metaforico, si frana facilmente, e disperatamente, nella goffaggine. L’esempio tipico è quello di uno fra i brani più osannati, e incredibilmente fatti oggetto di qualche riflessione esegetica, cioè Tuta gold di Mahmood:

Soffrire può sembrare un po’ fake

Se curi le tue lacrime ad un rave

Maglia bianca, oro sui denti, blue jeans

Non paragonarmi a una bitch così

Non era abbastanza noi soli sulla jeep

Ma non sono bravo a rincorrere

5 cellulari nella tuta gold

Baby non richiamerò

Ballavamo nella zona nord

Quando mi chiamavi fra

Con i fiori fiori nella tuta gold

Tu ne fumavi la metà

Mi passerà

Ricorderò i gilet neri pieni di zucchero

Cambio numero

[…] Dov’è la fiducia diventata arida

È come l’aria del Sahara

Mi raccontavi storie di gente senza dire mai il nome nome nome

Come l’amico tuo in prigione ma

A stare nel quartiere serve fottuta personalità

Se partirai dimmi tua madre chi la consolerà

[…] Mi hanno fatto bene le offese

Quando fuori dalle medie le ho prese e ho pianto

Dicevi ritornatene al tuo paese

Lo sai che non porto rancore

Anche se papà mi richiederà

Di cambiare cognome[8]

L’acclamatissimo brano ha senza dubbio, all’ascolto, un ritmo incalzante, al punto da diventare fastidioso. Il linguaggio, però, è davvero imperdonabile. Certo alcune allusioni alla strettissima contemporaneità, agli ambienti della tossicodipendenza, al mondo dei rave e in generale alla socialità giovanile possono apparire trasparenti alle nuove generazioni, comunicare con loro e persino affascinarle (come diceva Paul Valéry, «le moderne se contente de peu»). Si teme però che, una volta decriptato, questo artificioso linguaggio non si mostri in grado di esprimere altro che situazioni piuttosto scontate. Dietro le espressioni più lambiccate, la canzone reitera temi tipici affrontati dall’interprete fino a rischiare la monotonia. Il difficile rapporto con il padre, le preoccupazioni per la madre, la sensazione di estraneità a un mondo che esclude. Davvero, non si è già abbastanza sentito? E chi “non le ha prese, fuori dalle medie”? Per un motivo o per l’altro, alzi la mano chi non è stato vessato nel momento più drammaticamente conflittuale della vita di ciascuno (bianco o nero, etero oppure omosessuale, maschio o femmina, indigeno o straniero, asino o secchione, ce n’è sempre stato per tutti, e per i motivi più disparati).

Affiora un problema critico molto attuale in questi tempi: un messaggio viene apprezzato in quanto tale, e mai per l’aspetto stilistico che assume per la sua trasmissione (“se” arriva ad assumerla). Non si discute qui dell’importanza sociale di rivendicazioni, afflati libertari, proclamazioni di diritti, ricerca di giustizia collettiva e individuale, espressioni di problemi sommersi, anche molto gravi. No. Si deve considerare – se consideriamo la canzone popolare una forma d’arte – il suo aspetto artistico, formale, lirico, in una parola: “poetico”. Un canto popolare italiano divenuto internazionale come Bella ciao[9], per intenderci, ha un suo valore stilistico dato dall’intreccio delle immagini, dal tono accorato che lo contraddistingue, dall’emozione che suscitano i suoi versi semplici, diretti, ma anche “formalmente” significativi, proprio per la sobrietà con cui viene espressa la situazione drammatica del motivo, ormai divenuto emblematico degli aneliti alla libertà, alla pace, alla speranza di ogni popolo oppresso.

Le canzoni sanremesi dell’edizione 2024 appaiono, da tale punto di vista, estremamente povere. Un esempio è il brano proposto da BigMama, che andrebbe citato per intero:

Se potessi andare indietro ti darei una casa vera in cui dormire

Se anche fossi solo vetro ti coprirei per strada e mi farei colpire

Spalle larghe, la testa sopra ma i sogni ancora più in alto

Parole tante, ma poi strappate da ciò che diceva un altro

Pochi anni ma tanti sbagli che manco facevi tu

Li nascondevi tra lacrime d’odio che riempiva i tuoi occhi blu

Coi pugni stretti e i pensieri fragili, guardati adesso

Crollavi sempre anche con basi stabili, ma ora detesto

Pensare a me come a una di quelli lì, che ci hanno perso

Pezzi di loro per darne agli altri

Pezzi di cuore come gli scarti

Guarda me

Adesso sono un’altra

La rabbia non ti basta

Hai cose da dire

Se ti perdi segui me

Quel vuoto non ti calma

È il buio che ti mangia e non ti fa dormire

Animo buono ma riempito d’odio

Per far testa a quello degli altri

Più di un colpo d’arma da fuoco

E ti restava solo incassarli[10]

Il resto procede su questo tono, in frasi quantomeno abborracciate, metafore oscure, parecchie catacresi, ovvietà a dismisura, lessico da verbale dei carabinieri (quei «colpi d’arma da fuoco») o da testo pubblicato presso “case editrici” a pagamento (perché nemmeno in un tascabile offerto come allegato di «Confidenze» sarebbe più ammissibile una frase come «Tra lacrime d’odio che riempiva i tuoi occhi blu»).

Fatto sta che la canzone è stata dapprima selezionata e poi santificata perché dovrebbe esprimere rabbia e coraggio, nonché la rivincita di una ragazza sovrappeso che riesce finalmente ad accettare il proprio corpo (e non vuole sottoporsi all’umiliazione di una dieta). Il tema è fra i più attuali e, di nuovo, la rivendicazione più che legittima: la costrizione capitalistica alla magrezza ha dato luogo a disturbi non solo alimentari ma anche psicologici e psichiatrici di ogni tipo; ma questo non basta: il testo della canzone, in sé, è scadente.

E si salva ancora rispetto ad altri brani, nemmeno giustificati da un qualunque intento ideologico:

Serve un’idea

Continentale

Vorrei parlarti e mi vergogno come un cane

Tu aspetti il treno

Io al cellulare

Non trovo l’asso da giocare

Ma ormai, ai, ai

Lo sai che quando pensi di star bene poi ci rimani sotto

E lo sai, l’amore non si può cantare in una strofa da otto

È uguale, però sento la pelle bruciare, eh

Tanto con te rischio male, eh

Ma se mi guardi così

Se mi guardi così

(Sempre la stessa storia)

Chi non avesse riconosciuto la canzone, individuerà sicuramente il nuovo successo dei Kolors dal martellante ritornello, che ci perseguita ormai da mesi con la sua vacuità:

Un ragazzo

Incontra una ragazza

La notte poi non passa

La notte se ne va[11]

Qui non c’è neanche più il trovarobato psichedelico, tecnologico, malinconicamente urbano del goffo testo di Mahmood, i cascami di altri brani più o meno “rivoluzionari” misti a lacerti di frasi e citazioni risapute dal cantautorame più epigonico (come nella ballata di Fiorella Mannoia), il nonsense poco riuscito di Governo punk del gruppo BNKR44, ma poco più di un intarsio di parole a caso, posticce, grezze, che sembrano scelte apposta per apparire ancora più insignificanti. Al confronto, si direbbe studiata una freddura contenuta in Onda alta di Dargen D’Amico: «Non lo conosci Noè? / No, eh?»[12].

Un’immagine ricorre curiosamente in due canzoni, a suggellare la sofferenza che provoca l’ascolto dei testi “intonati” sul palco: «Una corona di arancio e di spine» (Fiorella Mannoia); «Una corona di spine sarà il dress-code per la mia festa» (Angelina Mango).

Il brano vincitore della scorsa edizione del Festival si intitola significamente La noia. Potrebbe assumere una dimensione simbolica:

Quanti disegni ho fatto

Rimango qui e li guardo

Nessuno prende vita

Questa pagina è pigra

Vado di fretta

E mi hanno detto che la vita è preziosa

Io la indosso a testa alta sul collo

La mia collana non ha perle di saggezza

A me hanno dato le perline colorate

Per le bambine incasinate con i traumi

Da snodare piano piano con l’età

Eppure sto una pasqua guarda zero drammi

Quasi quasi cambio di nuovo città

Che a stare ferma a me mi viene

A me mi viene

La noia

La noia

La noia

La noia

Muoio senza morire

In questi giorni usati

Vivo senza soffrire

Non c’è croce più grande

[…] È la cumbia della noia

È la cumbia della noia

Total

[…] Quanta gente nelle cose vede il male

Viene voglia di scappare come iniziano a parlare

E vorrei dirgli che sto bene ma poi mi guardano male

Allora dico che è difficile campare

Business parli di business

Intanto chiudo gli occhi per firmare contratti[13]

Si potrebbe se non altro riconoscere agli autori del testo una certa preveggenza, se non si ascoltassero le voci diffuse che ogni anno considerano i giochi già fatti in partenza: la figlia del vero, grande cantautore Pino Mango, autore – lui sì – di testi delicati e intensi, è destinata almeno per l’anno in corso a numerose comparsate in svariati programmi televisivi, ma anche a furoreggiare sui social media per un periodo che sarà breve o lungo a seconda del suo grado di resistenza e testardaggine.

Su tutti gli altri testi il silenzio è carità: non ci resta che azzardare qualche considerazione generale. La lunga storia del Festival della canzone italiana, giunto quest’anno alla sua settantaquattresima edizione[14], ha conosciuto momenti migliori e versi più suggestivi, escludendo il periodo della conduzione da parte di Amadeus, che dal punto di vista estetico ha toccato le punte più basse. Un giovanilismo diffuso e piuttosto scriteriato ha guidato la scelta di motivi pacchiani, presentati con più attenzione per la stravaganza degli abiti dell’interprete che per la resa artistica; in sostanza, contavano molto meno i brani in sé rispetto all’esigenza spettacolare di far esplodere infime polemiche e risibili scandali.

Per concentrare l’attenzione sui testi, invece, partendo soltanto da quelli della presente edizione, si può dire che sono espressione diretta della diffusa “disabitudine alla poesia” che caratterizza i tempi odierni; questo tema viene affrontato con solerzia, e con il coraggio tipico dell’autentica ispirazione critica, da un saggio raro per acume e pugnace sprezzo del pericolo: Se una notte d’inverno, di Carlo Donà (2022).

L’autore delinea un panorama complesso e articolato di un fenomeno allarmante quale “il tramonto della cultura del libro”, e del valore letterario in genere, in cui l’incapacità di comprendere e apprezzare il testo poetico svolge un ruolo determinante e perciò non trascurabile. Donà cita – fra le più eterogenee fonti – le divertentissime pagine dei Diari minimi di Umberto Eco, in cui si immaginava una conferenza sulla letteratura italiana del XX secolo, tenuta in un futuro lontanissimo sulla scorta di pochi frammenti dispersi di una civiltà cancellata:

Troviamo un senso di disperazione, di lucida coscienza della crisi, come in questa spietata rappresentazione della solitudine e della incomunicabilità che forse, se dobbiamo credere a quanto l’Enciclopedia britannica dice di questo autore, dobbiamo ascrivere al drammaturgo Luigi Pirandello: “Ma Pippo Pippo non lo sa / che quando passa ride tutta la città”[15].

Carlo Donà commenta: «Certo, l’idea che fra qualche secolo i frammenti delle canzoni più corrive e commerciali […] possano essere scambiati per versi di poesie ci fa sorridere»[16]. Forse c’è poco da sorridere; forse succederà di peggio. Forse le composizioni che oggi possiamo considerare deteriori diventeranno un modello per l’arte di domani, perché, se questi sono gli unici esempi di “poesia” offerti alle generazioni che verranno, le speranze di formare il gusto del futuro si riduce al minimo.

«Possiamo innanzitutto dire che il valore letterario di un testo è, almeno in parte, una funzione storica, al pari di altri suoi caratteri, come il valore documentario o sacrale»[17]. Di certo però, come spiega Donà nelle pagine iniziali del suo saggio, non si può far dipendere questa caratteristica peculiare del testo dal suo successo commerciale: tale visione concepisce qualunque opera come un semplice – e spesso trito – prodotto dell’industria culturale; questo meccanismo ormai ampiamente consolidato premia abitualmente esemplari conformisti, preconfezionati e scadenti di malintesa “letterarietà”. In sintesi, spiega l’autore, se è il pubblico a decretare il valore di un’opera, per poter considerare “oggettivo” tale valore, bisognerebbe prima valutare le capacità di scelta del pubblico medesimo (dato che la critica sembra voler rinunciare progressivamente all’esercizio di tale potere).

Per ricondurci alle nostre responsabilità di adulti, non ci dovremmo, in sostanza, arrendere all’idea che “questa canzone piace anche ai bambini”, specialmente se non siamo più bambini. Manca oggi, come spiega Donà, una precisa educazione al gusto (letterario, poetico) che consenta di distinguere certi tratti irrinunciabili del testo lirico, primo fra tutti la sua intrinseca musicalità: «Se leggiamo, a caso, qualche composizione di poeti italiani contemporanei, non possiamo non notare, credo, come di tutto ciò che dava alla poesia una dimensione propriamente musicale si sia persa ogni traccia»[18].

L’autore di Se una notte d’inverno aggiunge: «Far poesia oggi in Italia significa sfornare testi caratterizzati dal fatto di vertere su temi di adolescenziale drammaticità, in cui il discorso lirico procede, con un imbarazzante sfoggio di sentimenti ‘alti’, al di fuori di ogni vincolante congruenza logica»[19].

Se questi sono gli esempi che propone attualmente l’orizzonte poetico nazionale, non possiamo certo aspettarci dalle canzoni sanremesi scintillii lirici o ardimenti sperimentali; il discorso, ovviamente, vale per “queste” poesie come per “alcuni” autori contemporanei molto pubblicizzati, che hanno se non altro il merito di affrontare le diffidenze degli editori che – coralmente – trascurano la poesia, con le rare eccezioni di alcune collane dal prestigio ormai consolidato («Lo specchio» mondadoriano, la «Collana bianca» Einaudi ecc.).

Se autori classici come Francesco De Gregori, Ivano Fossati, Francesco Guccini si ispiravano spesso, più o meno apertamente, alla migliore tradizione poetica occidentale, oggi i parolieri sanremesi non ritengono opportuno farlo; oppure non sanno a chi appellarsi? La poesia svanisce dagli scaffali delle librerie e, di conseguenza, dall’attenzione di un pubblico sempre più distratto. D’altra parte, come spiega Carlo Donà,

scrive poesia, oggi, chi scrive strano, andando a capo in modo incongruo, o affastellando frasi dalla sintassi incerta e dai nessi scardinati, in cui sia evidente ed esibita una forte soggettività espressiva. Il fenomeno della scomparsa della lirica dal panorama culturale medio a me pare dei più imponenti: anche se, come tutte le cose davvero importanti, è avvenuto nascostamente e in silenzio. La poesia, e la lirica in particolare, è stata, in una tradizione millenaria, il deposito sacro della bellezza della parola, il tesoro del senso, il piacere del gioco, la nostalgia di una lingua pura e perfetta, in cui forma e contenuto si cristallizzano in unità assoluta e limpida, per dispiegarsi nel canto […]. Anche la tradizione popolare e dialettale aveva un patrimonio lirico altrettanto ricco e, a suo modo, non meno illustre, che senza dubbio per millenni ha svolto tra gli indotti la stessa funzione che la poesia lirica ricopriva tra i pochi lettori di libri […]. Mezzo secolo di società (televisiva) dei consumi è bastato per fare piazza pulita di cinque millenni di bellezza e di grazia […]. Personalmente, ritengo che la poesia sia scomparsa anche perché non sappiamo più leggere i testi poetici; e non sappiamo farlo appunto perché non abbiamo più, nei loro confronti, la giusta dose di attenzione[20].

In un diorama di rovine culturali come quello così dolorosamente descritto, forse è stata data, qui, fin troppa importanza a fenomeni caduchi e insignificanti come i tesi delle canzoni di un festival che verrà presto dimenticato. Ma rileggere le parole di Proust sulla musica popolare del passato, e pensare al loro significato profondo, non può che far riflettere su certi aspetti anche minori e trascurabili di un tempo che dopotutto ci appartiene e non può fare a meno di condizionarci. Sono piccoli segnali che richiedono l’attenzione a cui ci richiama l’autore di Se una notte d’inverno. Che è più che mai, per chi riesce ancora a essere consapevole del presente, the winter of our discontent.

  1. M. Proust, Les Plaisirs et les jours [1896], trad. it. e cura di Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco, I piaceri e i giorni, premessa di Anatole France, introduzione di Mariolina Bertini, note e commento di Luzius Keller, illustrazioni originali di Madeleine Lemaire, Milano, Mondadori, 2022, pp. 178-80.
  2. F. Truffaut, La Femme d’à côté, Francia, 1981, soggetto e sceneggiatura di François Truffaut, Suzanne Schiffman e Jean Aurel, produzione Les Films du Carrosse, in italiano La signora della porta accanto; con Véronique Silver, Fanny Ardant, Gérard Depardieu, Henri Garcin, Roger Van Hool et al.
  3. Il brano di Alfa si intitola Vai! ed è scritto da A. De Filippi (in arte Alfa, rapper ventitreenne), I. B. Scott, M. A. Jackson, A. De Filippi. La fonte più autorevole per quanto riguarda la trascrizione dei brani è il settimanale «Sorrisi e Canzoni TV», che da decenni pubblica i testi dei motivi sanremesi nella loro versione ufficiale, corretta e depositata (numero 7, 6 febbraio 2024, p. 24).
  4. Ibidem.
  5. Il brano è Movie, di O. Avogadro e B. M. Lavezzi (1981).
  6. Da Pazza, di L. Bertè, A. Bonomo, L. Chiaravalli, A. Pugliese, in «Sorrisi e Canzoni TV», op. cit., p. 36.
  7. Ivi, p. 37.
  8. Da Tuta gold, di J. Ettorre, A. Mahmood, F. Catitti, J. Ettorre, A. Mahmood, ibidem. A proposito di esegesi del testo: all’ascolto «gilet pieni di zucchero» suonava come “cileni pieni di zucchero”, e molto si è disquisito circa l’enigma di questa immagine criptica, ma più che altro grottesca.
  9. Per quanto riguarda la misteriosa e controversa storia di questa canzone, cfr., tra i contributi più recenti: C. Pestelli, Bella ciao: la canzone della libertà, Torino, Add, 2016; C. Bermani, Bella ciao: storia e fortuna di una canzone dalla Resistenza italiana all’universalità delle resistenze, Novara, Interlinea, 2020; M. Flores, Bella ciao, Milano, Garzanti, 2020; R. Giacomini, Bella ciao: la storia definitiva della canzone partigiana che dalle Marche ha conquistato il mondo, Roma, Castelvecchi, 2021.
  10. Da La rabbia non ti basta, di M. L. Lazzerini, M. Mammone, E. Botta, E. Brun, in «Sorrisi e Canzoni», op. cit., p. 27.
  11. Da Un ragazzo una ragazza, di D. Petrella, An. Fiordispino, F. Catitti, D. Petrella, An. Fiordispino, Al. Fiordispino, ivi, p. 43.
  12. Ben cinque autori si sono impegnati per raggiungere l’altezza di questa composizione: Cheope, J. M. L. D’Amico, G. Fazio, S. Marletta, E. Roberts. Ivi, p. 29.
  13. La noia, di Angelina Mango, è firmata da Madame, A. Mango, D. Faini, Madame, A. Mango. Ivi, p. 25.
  14. Si possono consultare, sul passato festivaliero, alcuni volumi, fra cui S. Facci, Il Festival di Sanremo: parole e suoni raccontano la nazione, Roma, Carocci, 2011; C. M. Lo Martire, Festival: l’Italia di Sanremo, Milano, Mondadori, 2012; L. Campus, Non solo canzonette: l’Italia della ricostruzione e del miracolo attraverso il Festival di Sanremo, Firenze, Le Monnier, 2015.
  15. U. Eco, Diari minimi, Milano, Bompiani, 1963, p. 21.
  16. C. Donà, Se una notte d’inverno, Roma, WriteUp Books, 2022, p. 81.
  17. Ibidem.
  18. Ivi, p. 133.
  19. Ivi, p. 134 (si vedano, al riguardo, anche le pagine successive).
  20. Ivi, pp. 226-27. Questo richiamo finale all’attenzione non può che richiamare alla memoria le pagine penetranti che scriveva, al riguardo, Cristina Campo (cfr. Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987).

(fasc. 52, vol. II, 3 giugno 2024)

«Vengon di Lecco nuvole pesanti». Due quartine di una trilogia giovanile di Gadda poeta

Author di Pier Paolo Pavarotti

Tra le produzioni certo minori del Gadda giovane, o piuttosto adolescente, restano alcune poesie di metrica tradizionale e gusto arcaicizzante che si potrebbero considerare, anche per contiguità cronologica, un’incipitale minima trilogia del poeta esordiente. Il valore in sé modesto dei versi non ne giustifica il quasi completo oblio della critica, se non altro per il riscontro di alcune tematiche poi rilevanti nel Gadda maturo prosatore. Della prima poesia in particolare, un sonetto, ci si è occupati di recente[1], mentre della terza, un capitolo incompiuto in terza rima, si ha intenzione di occuparsi prossimamente nello specifico. Questa sezione pone l’attenzione sul secondo brano, un paio di quartine (forse spurie), fornendo alcuni elementi di analisi formale e storico-critica.

Testi

Si danno di seguito i testi definitivi della trilogia secondo l’edizione critica di Maria Antonietta Terzoli[2] per un’utile sinossi.

I (1910/1912)

Poi che sfuggendo ai tepidi tramonti

Vaní declive in nebbia la pianura

Per i boschi e i pascoli de’ monti

Senza grido né suono il dì s’oscura

Mute guardano l’erme in su le fronti

De le ville il fornir de l’aratura

E lunghi fuochi accender gli orizzonti

Donde ogni volo ai mesti dì si fura

Nel pomario che al colle il pendío tardo

Sparse già tutto di sue fronde molli

Poi che il greve suo dono ebbe diviso

Del vespro dolce ne le luci io guardo

I pomari deserti i tristi colli

Salutare il vostro ultimo sorriso

***

II (1909/1912)

Vengon di Lecco nuvole pesanti

Oscurandosi il dí roggio, affannoso

E mentre de’ villan sperdonsi i canti

Coglieli il primo soffio impetuoso

La pioggia manda il suo profumo avanti,

Che s’affretti il rozzon lento, affannoso

Per le valli ed i pascoli sonanti

Anzi la notte le mandrie avran riposo

***

III (1909/1912)

Non da le rive spiccasi il rupestro [Grigna: chiosa]

Ma lungi assai ergesi dalle rene

Oltre un sito orrido ed alpestro.

[…]

A lui si vien per duplice convalle

[…]

Prima passar con lunghissimo calle

[…]

Poi che corso buon tratto ebbimo il monte

A mezza costa per castani e forre

Un ermo bianco vidimi di fronte

Che per ispide rupi alza la torre

E battendolo il sol morendo arrossa

La roccia e il muro che sovr’essa corre.

Sotto la valle, d’alto suon commossa

Del suo torrente, ombrandosi per sera

Chiama al riposo in sua silvestre fossa

Ma le pinete nella notte nera

Crosciano lungi per forre e per gole

Ululando si addentra la bufera

Trasmissione

Della prima poesia di Gadda si hanno tre versioni con minime varianti[3]: quella a testo, che corrisponde all’unica pubblicata (su «Epoca»), una ricavata da una lettera a Contini[4] del 1946 e una dettata all’amico critico e scrittore Carlo Roscioni[5] nel 1970. Quest’ultima risale a un incontro tra i due scrittori in occasione della XXXV Biennale di Venezia, in cui il primo dettò al secondo tutte le tre poesie su un cartoncino d’invito (mm. 190×200) conservato nell’archivio Roscioni e recante sul margine sinistro l’indicazione: «Poesie di Gadda scritte sotto dettatura (1970) probab. degli anni del liceo». Della seconda[6] e terza[7] poesia non esistono altre versioni e le minime correzioni presenti sul cartoncino non sono state ritenute degne di menzione dall’editrice, a parte la chiosa topografica segnalata a testo: “Grigna” sta per Grignone (già Monte Coden). Si tratta del nome del rilievo di 2410 metri tra il lago di Como (ramo di Lecco) a ovest e la Valsassina a est, con vista del Resegone manzoniano a sud, probabile meta del Gadda camminatore provetto, già prima del servizio alpino (Non da le rive, v. 6: «Poi che corso buon tratto ebbimo il monte»).

Fonti

Alcune tessere lessicali sono già state individuate perspicuamente e ricalcano quelle segnalate per il primo sonetto (Poesie, pp. 60 e sgg.). Il qualificativo «affannoso» (v. 2) riferito al giorno al tramonto risale probabilmente al Carducci di Rime Nuove (libro III) «e impreca al giorno, che affannoso cala» (Rosa e fanciulla, v. 11). Anche «roggio» come rosso di sera o come cromatismo agreste ricorre nel resto della triade poetica d’inizio secolo. Pascoli in Myricae scrive (sezione Ultima passeggiata): «Al campo, dove roggio nel filare» (Arano, v. 1). In d’Annunzio ricorre undici volte tra prosa e poesia, tra cui (Elettra): «calmo guardò pei fiumi il campo roggio» (La notte di Caprera, XII, v. 358). Nella seconda quartina (v. 6) due elementi rimandano ai trascorsi liceali di Gadda[8]: «rozzon» e la dittologia «lento, affannoso». Il primo si legge in Ariosto: «o ch’io son di natura un rozzon lento» (Satira III, v. 6); poi «rozzon normanno» nella stessa sezione di Myricae (Il cane, v. 5). La seconda si ritrova nell’altro cinquecentesco Annibal Caro: «[traeva sospiri talora impetuosi e rotti] talora lenti e affannosi» (Gli amori pastorali di Dafni e di Cloe. Ragionamento primo). Infine l’espressione «per le valli e pascoli sonanti» (v. 7), ripresa del primo sonetto («per i boschi e pascoli de’ monti»), pare rimontare a Virgilio in tre passi: silvas saltusque (Georgiche III, 40), che si ritrova simile in saltus […] atque in pascua (Georgiche III, 323) e invertito in saltus silvasque (Georgiche IV, 53)[9].

Struttura

Lo schema rimario delle due quartine è ABAB ABAB con rima identica B1-B2 (affannoso), poi frequente in Gadda (Poesie, XIV). I rimanti sono tra loro in relazione eterogenea: antinomica («pesanti-avanti / impetuoso-riposo»), omologa («canti-sonanti»). Quanto agli accenti ritmici dei piedi d’attacco, vige una varietà forse inattesa: il v. 1 è trocheo («vengon»: ‒˄), i vv. 2 e 8 solo peoni terzi («oscurandosi»: ˄˄‒˄), i vv. 3 e 5 anfibrachi («e mentre / la pioggia»: ˄‒˄), il v. 4 dattilo («coglieli» ‒˄˄), i vv. 6 e sgg. sono anapesti («che s’affretti / per le valli»: ˄˄‒[˄]). Ne derivano endecasillabi piani di quattro accenti ritmici principali tranne il v. 7 (di tre), con possibilità di una lettura a tre accenti del v. 4, il più tribolato, e (più difficilmente) del v. 6.

Numerose e diffuse le allitterazioni nasali, meno insistenti le sibilanti, rare quelle liquide (ma significative: «coglieli il primo / per le valli»). In entrambe le quartine compaiono simmetricamente (vv. 1 e 3 / vv. 5 e 8) due forme apocopate e allitteranti in coppie alternate di predicato-sostantivo con gusto arcaicizzante: «vengon-villan / rozzon-avran». Allitterano in particolare i due termini più desueti nel rispettivo secondo verso di ogni quartina: «roggio-rozzon».

Allargando lo sguardo, si rileva come pregevolmente si possa leggere con immediata coerenza ogni verso della seconda quartina di seguito al corrispondente nella prima:

1 e 5) «vengon di Lecco nuvole pesanti / la pioggia manda il suo profumo»

2 e 6) «oscurandosi il dí roggio, affannoso / che s’affretti il rozzon lento, affannoso»

3 e 7) «e mentre de’ villan sperdonsi i canti / per le valli ed i pascoli sonanti»

4 e 8) «coglieli il primo soffio impetuoso / anzi la notte avran riposo»

La combinazione di tutti questi elementi fonici e sintattici genera due quartine di ritmo diverso. La prima ha un andamento alternato, scorrevole (vv. 1 e 3) e claudicante (vv. 2 e 4 con dialefe); la seconda alterna i primi due ritmi (vv. 5 e sgg.), ma termina di slancio con gli ultimi due versi[10].

Tropi

Tra le figure retoriche più rilevanti si contano due ipallagi («dí-affannoso» per la fatica del villano / valli e pascoli – sonanti» per il riverbero del vento), un iperbato («de’ villan […] canti»), un allotropo («sperdonsi» per disperdonsi), un’apostrofe («che s’affretti), una prosopopea («la pioggia manda»), una dittologia («lento, affannoso»), un aulicismo latineggiante («anzi notte»; cfr. ‘commossa’↓)[11]. Un dispositivo figurale di parola e di pensiero non eccessivamente elaborato eppure non disprezzabile. Del resto, fatta salva la maggior lunghezza e la comune tendenza a personificare il paesaggio (Vengon di Lecco, v. 5: «mute guardano l’erme» / Non da le rive spiccasi il rupestro, v. 18: «ululando s’addentra la bufera»), anche le altre due poesie presentano un apparato retorico cospicuo ma non abbandonano un registro narrativo piuttosto piano, colorito da usi lessicali arcaicizzanti (Poi che fuggendo, v. 5: «erme»; v. 6: «fornir»; v. 8: «fura»; v. 9: «pomario» / Non da le rive, v. 2: «rene»; ivi, v. 13: «commossa») o negli allotropi (Poi che fuggendo, vv. 1 e sgg.: «tepidi / vaní declive»; Non da le rive, v. 1: «rupestro»; ivi, v. 3: «alpestro»).

Commento

Si offrono in questa seconda sezione alcuni spunti di lettura stilistica e tematica, per poi spingersi a rilevare la ricezione di questi materiali nel prosieguo dell’opera gaddiana.

Paesaggi

Il punto di vista del poeta è simile al sonetto per come espresso da Gadda:

L’enunciato comporta una visualizzazione: il poeta è, idealmente, sopra un’altura o un poggio o una costa donde veda la pianura discendente verso Milano: per esempio Invernigo. Così può accadere che la pianura discenda verso le nebbie mentre il cielo, sopra la Ca’ Merlata poniamo, si accende nei fuochi della sera[12].

Il periodo adolescente è ricordato sempre con qualche nostalgia. Nel mio caso, tale nostalgia si colora di tonalità romantico-paesistiche profonde, e determinanti il carattere. Il paesaggio e le sue alberature mi hanno affascinato[13].

A queste parole di autocommento basta cambiare alcune località, che qui diventano esplicite almeno nella dizione del capoluogo, ma la geografia e le atmosfere brianzole non mutano: Invernigo sta a Milano come le valli e la Grigna stanno a Lecco. A mutare è lo sviluppo dell’aspetto climatico nelle due poesie. Nel sonetto, dall’inizio coi «tiepidi tramonti» alla fine con «ultimo sorriso» (e il prolettico «dolce»)[14], si alternano scene «mute, nebbia […] senza grido né suono», per concludersi tra «pomari deserti e tristi colli». Nella prima poesia «il dí si oscura» e nella seconda «nuvole pesanti» minacciano pioggia copiosa, annunciata da «soffio impetuoso». Eppure non vi mancano particolari espressivi a ingentilire l’iniziale lontanante sequenza («di Lecco»), giocando su elementi sonori e spaziali («sperdonsi i canti, il suo profumo, pascoli sonanti»), per chiudere sull’immagine quieta della sera. Se nel sonetto la dolcezza della sera a malapena compensa la desolante scena dei saluti finali, qui la pioggia incombente non pregiudica il riposo notturno delle mandrie[15].

Il terzo brano si distingue dai primi due per la caratteristica verticalità dantesca, o meglio piramidalità, pur restando ben identificabile la predilezione montana e agreste dell’autore, e non discostandosi il passo dall’alta Brianza prealpina. L’iniziale riferimento al lago (vv. 1-2: «rive, rene») si eleva subito alle vette (vv. 1 e 3: «rupestro, alpestro») e poi riposa nel «prima passar con lunghissima calle» (v. 6). Ridiscende a tappe, prima nell’inatteso ermo bianco poi «la valle» (v. 13), colpita dal suono della corrente (v. 14). Quindi il torrente stesso, esito al declivio della valle che va «ombrandosi» (v. 14 → Vengon di Lecco, v. 2: «oscurandosi»; Poi che fuggendo, v. 4: «s’oscura»). Infine un’impennata sonora, minerale e vegetale, precipita la scena (vv. 17-18): «crosciano lungi per forre e gole / ululando si addentra la bufera» (lupi ≠ buoi).

Soltanto nella primavera del 2023 è stata pubblicata la nuova edizione critica del Giornale di Guerra e di Prigionia completo di sei taccuini ignoti fino al 2019 e finora inediti, di proprietà degli eredi Bonsanti e acquisiti dalla Biblioteca Centrale di Roma a un’asta bandita da Finarte. In uno di questi si legge un capoverso dedicato alla poesia in esame.

Contro le ragioni dell’egoismo, sopra accennate, c’è anche in me il solito sentimento che chiamerò «brivido piacevole ante tempestatem». L’aspettazione della burrasca non mi turba di sgomento, il vento freddo che scende dal monte mi piace, mi fa gradevolmente accapponare la pelle. Vecchio elemento della mia struttura morale: ricordare la mia adolescenza, il pre-guerra, il mio vecchio sonetto: «Vengon di Lecco núvole pesanti», scritto in un momento di grande sincerità (Cellelager, 15 dicembre 1918)[16].

Come si chiosava nelle pagine precedenti relativamente alle Prealpi lombarde, ancora durante l’ultima fase della prigionia tedesca di Gadda il ricordo del paesaggio alpestre è riconosciuto motore dell’attività poematica dallo stesso autore soldato. Queste annotazioni non contraddicono il commento, ma lo approfondiscono e arricchiscono di una tonalità, evidentemente retrospettiva, morale e temperamentale. Richiamando con l’usato latinorum ginnasiale quel brivido dell’azione, così attesa come salvifica per il tenente Gadda e nei fatti per gran parte sfumata[17].

Pascoli

Un riscontro, di tale ampiezza insperato, con due episodi di Myricae sulle concordanze pascoliane (Il cane, La vite e il cavolo) induce all’approfondimento delle corrispondenze rielaborate qui sotto in forma di sinossi attorno alle quartine gaddiane. Si tratta rispettivamente di due terzine + una quartina dalla sezione Ultima passeggiata e un sonetto dalla sezione Le gioie del poeta.

Da G. Pascoli, Il cane, vv. 1-6

Noi, mentre il mondo va per la sua strada,
noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l’affanno,
e perché vada, e perché lento vada

Tal quando passa il grave carro avanti

del casolare, che il rozzon normanno

stampa il suolo con zoccoli sonanti

***

Da C. E. Gadda, II (1909/1912)

Vengon di Lecco nuvole pesanti

Oscurandosi il dí roggio, affannoso

E mentre de’ villan sperdonsi i canti

Coglieli il primo soffio impetuoso

La pioggia manda il suo profumo avanti,

Che s’affretti il rozzon lento, affannoso

Per le valli ed i pascoli sonanti

Anzi la notte le mandrie avran riposo

***

Da G. Pascoli, La vite e il cavolo, vv. 12 e sgg.

E il core allegra al pio villan, che d’esso

Trova odorato il tiepido abituro

mentre a’ fumanti buoi libera il collo

Si guardino le terzine riprese quasi a calco da Gadda nella seconda quartina ‒ affanno, lento, avanti, rozzon, sonanti → affannoso, avanti, rozzon, lento, sonanti ‒ che pare completarsi nella terzina che chiude il sonetto a fianco: villan, odorato, buoi, libera → villan, profumo, mandrie, riposo.

Pur muovendo da un tema piuttosto diverso come il cane e la sua esistenza a fianco degli uomini (libertà e compagnia)[18], e da un altro invece non lontano come le modeste gioie del contadino (cavolo bollito e tepore domestico), Gadda trae incontestabilmente dal poeta di Castelvecchio alcune delle tessere utili a informare lessico e immagini delle sue quartine. Anche il punto di mira dinamico e sonoro non è molto dissimile perché, mentre Pascoli guarda con simpatia cane, cavallo e contadino (per riduzione metonimica del carro) con lo scalpiccio delle «ruote per la sua strada», Gadda guarda allo stesso modo contadini («villan» plurale < «coglie-li»), cavallo e buoi col sibilo umido[19] «per le valli ed i pascoli». Vi sono certo tensioni fra gli omologhi, come «odorato e profumo», laddove il primo (apax in Gadda) è unicamente positivo mentre il secondo è minaccioso; come «carro dilungato lento lento e rozzon lento, affannoso», laddove il primo non cambia marcia mentre il secondo è invitato ad affrettarsi. Sono proprio tali tensioni che il più reattivo atteggiamento gaddiano produce, benché originate in parte dal medesimo lutto, quello di un padre e poi di fratelli morti troppo presto (il calesse fatale a Ruggero Pascoli, l’odiata villa in Brianza di Francesco Gadda), con la perdita di status e il notorio imprinting di figure femminili castranti (le sorelle Ida e Maria Pascoli, la sorella Clara Gadda e la madre Adele Lehr).

Questa denominazione d’origine entra in modo discreto e geniale nel discorrere gaddiano, insinuandosi nel penultimo verso della poesia come la Purloined letter di Poe, col suo tipico gusto per l’invenzione e il calembour, ovvero semplicemente come (P)ascoli. Da ciò si comprende come i vertici della sperimentazione linguistica si raggiungeranno nei molteplici generi e registri della sua produzione, dalla poesia adolescenziale e matura (Autunno) alla prosa d’arte (Rosai, De Pisis), dalla divulgazione storica e scientifica (I Luigi di Francia, Pagine di divulgazione tecnica) al romanzo multivernacolare (Il Pasticciaccio), dalla critica (Foscolo) al cinema (Il palazzo degli ori), dal drammatico (La cognizione) al comico (A tavola, In ufficio), dalla narrazione autobiografica (Diario di guerra) all’invettiva (Eros e Priapo), fino alla corrispondenza professionale (Ammonia Casale).

Cahiers

Nei materiali preparatori del sempre fecondo Racconto italiano di ignoto del Novecento (incompiuto del 1925)[20], in particolare nel secondo dei Cahiers d’Études, si leggono due passi contigui e una dichiarazione autocritica che rimandano ai paesaggi analizzati poc’anzi.

Le ville in Brianza, i poderi meridiani, i vecchi castelli! Non c’è più nulla! Meglio così. Passavo ragazzo… di prima mattina… sul ponte della Malastrada… con il mio cavallino… con un calesse… con il Giacomo che guidava… Povero vecchio!…» Il ragazzo si arrestò. Passava fanciullo sul ponte della Malastrada: la luna dell’alba vaniva nell’opale meraviglioso, presago di un gaudio fervido, di una chiara esultanza. Ville, case, uomini, buoi: e le foglie gemmanti dalla [per quella] freschezza[21].

Difficile tradurre in prosa i miei vecchi versi[22].

Il panorama socio-economico è desolante[23] e passa in rassegna – «elenca» avrebbe poi scritto Gadda nella Cognizione – ciò che Grifonetto, alter ego dell’autore, ha perduto e rimanda alla scena delle quartine adolescenziali, compreso il preziosismo dell’allotropo verbale («vaniva» → Poi che fuggendo, v. 2: «vaní»). La famigerata villa, i campi a solatio, vestigia medievali[24], poi un diminutivo animale e un cimelio che paiono ricopiati dal poeta di Castelvecchio: tutto riprende il lucido delirio reazionario della pagina precedente. Eppure la natura riserva ancora qualcosa per cui lottare, uno spettacolo astronomico che ridisegna i confini psicologici dello spettacolo agreste[25]. Contadini e buoi, come la vegetazione, sono per un attimo trasfigurati da tanta bellezza, prima della tragica risoluzione finale.

Pasticciaccio e Cognizione

In questa sede si vogliono rilevare i recuperi dei lessemi più caratteristici delle quartine in esame nelle due opere narrative più importanti della piena maturità (1957, 1963). I termini trascelti (participio gaddiano, if any) sono – consci di una scelta con inevitabili margini arbitrari ‒ espressi in ordine alfabetico. Mentre per gli antichismi allitteranti «roggio» e «rozzon» non vi sono occorrenze, ve ne sono per il participio allotropo «sperso/e».

In Quer Pasticciaccio brutto di via Merulana (redazione definitiva, fine capitolo IX) si legge: «nereggiò l’ala d’un tùffolo, o d’una spersa ghiandaia»[26]; anche qui in ambito campestre, lungo il tragitto Roma-Velletri («[un calesse…] verso Tor di Gheppio e poi verso Casale Abbrusciato»). Il volo d’uccello richiama quello del primo sonetto (Poi che fuggendo, v. 8) nella crescente desolazione («le case dei viventi, mute nella lontananza dei coltivi»).

Nella Cognizione del dolore (redazione 1970, parte I, cap. IV) si trova: «non credo nel vigile… che trasvola… come un’ombra… a infilare il bigliettino dentro la serratura… del cancello; che ha duecentocinquanta ville, e relativi boschi, da biciclettargli accanto, nel buio…. sperse in tre o quattro comuni»[27]. Il contesto si ricava dal dialogo tra il medico Felipe Higueróa e il paziente-protagonista Gonzalo, una lunga tirata contro il sistema sociale, tributario e di sicurezza del Maradagál.

Sempre nella Cognizione del dolore (parte II, capitolo VI) leggiamo: «carri discoperti con passerella centrale che il gaucho dai malinconici occhi, sovrintendendo percorre. Tale gli appariva fortuna nel Sud America. Tempestoso mare addosso le zattere sbatacchiate delle genti sperse, slavate»[28]. Al principio dell’ennesima tirata contro il mondo circostante, dell’ennesimo mala tempora di liceale memoria (liceo Uguirre, Lukones < liceo Parini, Milano), Gadda, memore dell’esperienza professionale in Argentina, getta uno sguardo al caotico aggregato antropologico sudamericano, tenendo un occhio alla tradizione della pampa.

Il lemma “villan”, nell’accezione intesa nella poesia, ricorre un paio di volte nel Pasticciaccio. La prima al plurale, come nella seconda quartina ma nella forma piana; la seconda come riproduzione del noto proverbio nell’identica forma apocopata ma di numero singolare.

In Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana (capitolo VI) si legge: «a vincere, ne’ cuori dubbiosi, ne’ villani incaponiti, il timor contraria, il timor della privata vendetta»[29]. L’ambiente è quello del commissariato romano in cui alcuni agenti puntano a scardinare la reticenza di possibili testimoni non proprio signorili e ben disposti nei confronti della pubblica sicurezza, impauriti dalle possibili rappresaglie.

Nel capitolo VIII si trova: «abilita il destinatario entrato in coma, carta canta villan dorme, vien fulgurato a esercitare quell’arte assonnata, quel mestieruccio zoppo che aveva tocche tocche esercitato fin là, fino all’Olio»[30]. Disceso dal commissariato di Marino, accompagnato da una lirica veduta della capitale sullo sfondo di Tivoli, del Soratte, degli Equi, del Velino, sintetizzata «in un mattutino di Scialoia», il brigadiere Pestalozzi si dirige in città e riflette sulle lungaggini delle pratiche burocratiche, spesso sbrogliabili postume. Il proverbio emerge, dunque, da una lunga virtuosistica descrizione giocata fra cromatismi e gergo locale. Nella Cognizione il termine ricorre in accezioni spregiative e soltanto col vezzeggiativo “villanello” in quella intesa nella poesia: a questa, dunque, ci si limita nella rassegna degli usi.

Si legga ancora La cognizione del dolore (parte II, capitolo VII):

lo villanello, a cui la robba manca Tale è infatti, pensò, è la funzione sociale dello hildago, e tanto più del marchese, al cui nome venga intitolata, nei registri del catasta maragadalese, la proprietà di una villa serruchonese: insaccare le pudenda del villico nei propri ex-pantaloni, pagando a di lui conto le tasse, dopo averlo intensamente amato[31].

Gonzalo inveisce sarcasticamente contro il fattore importuno che si aggira per la villa sporcando dovunque, mentre riceve dalla generosa madre i vestiti buoni dismessi dai figli. Continua la sua speciale “filosofia della villa” (platonica IdeaVilla) come ricettacolo delle sventure economiche e tributarie causate dall’incauto padre. Non si può, infine, eludere che le citazioni già ritenute pertinenti come echi narrativi del primo sonetto “contornano” quest’ultima, vicina alla seconda poesia gaddiana[32].

Conclusioni

L’attenzione critica verso la poesia di Carlo Emilio Gadda «signore della prosa», come recita l’epigrafe al cimitero acattolico del Verano, è stata decisamente modesta, se si eccettuano la magistrale lettura di Autunno da parte di Guglielmo Gorni (1973)[33] e naturalmente il lavoro della curatrice dell’edizione critica utilizzata, Maria Antonietta Terzoli. Manca una monografia di riferimento e mancano strumenti specifici di cui godono altri poeti come le concordanze e i rimari.

Se la qualità intrinseca della sua produzione lirica risulta in gran parte non eccelsa, non sono esclusi versi degni di memoria e di analisi e, nel complesso, la silloge mostra consapevolezza linguistica e retorica e un’ampia gamma di riferimenti culturali. Soprattutto lo studio della sua poesia è fecondo di rimandi alla produzione narrativa posteriore, cosa che dovrebbe interessare ogni specialista gaddiano, tanto più che esistono utili strumenti informatici online (senza distinzione di genere letterario) elaborati dall’Istituto di Linguistica Computazionale Antonio Zampolli di Pisa.

In questo contributo ci si è concentrati soprattutto sull’analisi della seconda poesia, offrendo alcuni spunti di lettura, senza trascurare il contesto rappresentato dalle altre due poesie citate: come si è tentato di dimostrare, i rimandi interni, infatti, autorizzano a considerare le tre composizioni come parti di una primitiva trilogia liceale.

Si è rilevato come in questi campi le due quartine adolescenziali non siano del tutto scevre da qualità artistiche e dall’uso consapevole degli strumenti linguistici tipici della poesia in rima. Registrati i debiti maggiori verso le figure letterarie più significative del periodo e della formazione liceale dell’autore, si è ulteriormente verificato quello con Pascoli, fino a trovarne un probabile Urtext formato dalla combinazione di due testi di simile metrica nella prediletta raccolta Myricae: il cantore di Barga emerge, dunque, sempre più come un modello compositivo determinante per Gadda.

La seconda parte del contributo è dedicata al rilevamento della fortuna di alcuni lessemi rari all’interno della produzione narrativa successiva. In particolare, sono stati verificati come apax l’aggettivo “roggio”, facilmente dannunziano, e il sostantivo “rozzon”, dapprima ariostesco ma non meno pascoliano quanto al recupero, riguardo al qualificativo allotropo “sperso” e al sostantivo “villano”, in alcuni loci di opere maggiori quali Pasticciaccio e Cognizione o di rilevante interesse filologico quale il Racconto italiano di ignoto del Novecento.

Non si è rinunciato a fornire in nota ulteriori riscontri relativi alla produzione novellistica (Madonna dei Filosofi, Il castello di Udine, LAdalgisa, La Meccanica) e non solo (Meditazione Milanese), anche rispetto ad altri termini caratteristici della poesia in esame (come “sonanti”), o più in generale all’atmosfera paesaggistica tipica della trilogia. Quest’ultima, eredità biografica precocemente fissatasi, si conferma infatti come l’immaginario dominante nella figurazione letteraria di Gadda poeta, studente e soldato.

Il cinquantesimo anniversario della sua morte potrebbe rivelarsi l’occasione propizia per un risveglio degli studi sulla poesia, il cui corpus complessivo ammonta a venticinque composizioni secondo il “canone Terzoli”, cui va la gratitudine per molti recuperi “archeologici” negli archivi gaddiani.

Bibliografia essenziale di riferimento

Di C. E. Gadda:

C. E. Gadda, Parlano del loro primo scritto alcuni fra i più noti autori di oggi, in «Epoca», anno V, n. 206, 12 settembre 1954, pp. 6-7;

Id., Poesie, edizione critica di M. A. Terzoli, Torino, Einaudi, 1993;

Id., Opere di Carlo Emilio Gadda. Romanzi e Racconti I [1989], a cura di D. Isella ed E. Manzotti, Milano, Garzanti, 2007;

Id., Opere di Carlo Emilio Gadda. Saggi Giornali Favole e altri scritti I [1991], a cura di Dante Isella, vol. III, Milano, Garzanti, 2008;

Id, Opere di Carlo Emilio Gadda. Saggi Giornali Favole e altri scritti II [1992], a cura di D. Isella, M. A. Terzoli, vol. IV, Milano, Garzanti, 2008;

Id. Racconto italiano di ignoto del Novecento, in Opere di Carlo Emilio Gadda. Scritti vari e postumi, a cura di D. Isella, vol. V, Milano, Garzanti, 2008;

Id., Opere di Carlo Emilio Gadda. Romanzi e Racconti II [1989], a cura di D. Isella, Milano, Garzanti, 2011;

Id., Giornale di guerra e di prigionia, nuova edizione, a cura di P. Italia, Milano, Adelphi, 2023;

G. Contini-C. E. Gadda, Carteggio 19341963. Con 63 lettere inedite, a cura di D. Isella, G. Contini, G. Ungarelli, Milano, Garzanti, 2009.

Su C. E. Gadda:

G. Carducci, Poesie, Bologna, Zanichelli, 1906;

U. Betti, Il re pensieroso, Milano, Treves, 1922;

G. Gorni, Lettura di ‘Autunno’ (Dalla ‘Cognizione’ di Carlo Emilio Gadda), in «Strumenti critici», XXI-XXII, 1973, pp. 291-325;

A. Caro, Gli amori pastorali di Dafni e di Cloe. Ragionamento primo, in Id., Opere, a cura di Stefano Jacomuzzi, Torino, UTET, 1974;

G. Pascoli, Myricae, edizione critica a cura di G. Nava, voll. 2, Firenze, Sansoni, 1974;

L. Ariosto, Satire, edizione critica e commentata a cura di Carlo Segre, Torino, Einaudi, 1987;

G. C. Roscioni, Il duca di SantAquila. Infanzia e giovinezza di Gadda, Milano, Mondadori, 1997;

C. Fagioli, Una «chiave antilirica» di interpretazione. La poesia «Autunno» nella «Cognizione del dolore», in «Allegoria» XIV, 40-41, 2002, pp. 21-52;

J. L. Borges, Juan 1, 14, in Id., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, vol. II, Milano, Mondadori, 2005;

D. Alighieri, La Divina Commedia, testo di Giorgio Petrocchi, commento di Giuseppe Villaroel (1964), a cura di Guido Davico Bonino, Carla Poma, Milano, Mondadori, 2008;

M. A. Terzoli, Alle sponde del tempo consunto, Pavia, Effigie, 2009;

G. d’Annunzio, Elettra, edizione critica a cura di Sara Compardo, Venezia, Cà Foscari, 2013;

A. R. Dicuonzo, Lacheronte della mala suerte. Sociostoria del dolore nella «Cognizione» gaddiana, in «Intersezioni», XXXIII, I-2013, pp. 81-112;

Virgilio, Tutte le opere, a cura di Guido Paduano, Milano, Bompiani, 2016;

G. Patrizi, Gadda, Roma, Salerno Editrice, 2017;

P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville: annotazioni su Gadda poeta e il suo primo sonetto, in «Kepos», IV, 1-2021, pp. 104-29.

  1. Cfr. P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville: annotazioni su Gadda poeta e il suo primo sonetto, in «Kepos», IV, 1-2021, pp. 104-29.

  2. Questo contributo si basa sulla preziosa e insostituibile edizione critica di Maria Antonietta Terzoli, verso cui il debito è destinato a restare sottostimato (C. Gadda, Poesie, Torino, Einaudi, 1993).

  3. C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 3 (testo), pp. 59-60 (commento), pp. 103-104 (note filologiche). Si rinvia all’Introduzione di questa edizione e al saggio M. A. Terzoli, Alle sponde del tempo consunto, Pavia, Effigie, 2009, pp. 56-80, per i raffronti e i cospicui debiti con la raccolta poetica di Ugo Betti (1892-1953; scrittore e giudice di cui Gadda fu amico al fronte e recensore in congedo), Il re pensieroso, Milano, Treves, 1922.

  4. G. Contini & C. E. Gadda, Carteggio 19341963. Con 63 lettere inedite, a cura di D. Isella, G. Contini, G. Ungarelli, Milano, Garzanti, 2009, pp. 229-31: «A tergo ti scrivo un mio sonetto (ridicolo) del 1912, alla fine del liceo: ottobre. Scritto a Longone al Segrino, per gentilissima […] A Mina» (Firenze, 27/1/1946).

  5. C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 104. In calce al sonetto: «prima della I guerra mondiale».

  6. Ivi, pp. 4 (testo), 60 e sgg. (commento), 104 (note filologiche).

  7. Ivi, pp. 5 (testo), 61 e sgg. (commento), 104 e sgg. (note filologiche).

  8. Commentando il primo sonetto, Gadda racconta: «Dante e l’Ariosto i miei amori […] Arieggia vagamente un ipotetico impasto Carducci-Petrarca. «Pomario» fu parola, allora, dannunziana: (Carducci e molto D’Annunzio a memoria)» (in «Epoca», 12 settembre 1954, citato in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103). Così Dante: «lo sol, che dietro fiammeggiava roggio» (Pg III, 16; cfr. Par XIV, 87).

  9. «Più tardi Orazio e Virgilio. Di Orazio ho molte liriche a memoria, come del resto di tanti lirici» (in «Epoca», art. cit. in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103). Sulle prime prove poetiche si veda anche G. Patrizi, Gadda, Roma, Salerno Editrice, 2017, pp. 191 e sgg.

  10. La metrica del primo sonetto è stata analizzata in P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville…, art. cit., pp. 5-6, e non si discosta in fondo dalle conclusioni della Terzoli: «non segnala particolari tensioni in sede di rima» (C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. XIV). Per le sue caratteristiche (capitolo incompiuto in terza rima) non si ritiene opportuno trattare qui la terza poesia.

  11. Risuona un passo del Diario: «1 volta sola, a sera: il caffè ante lucem, per ragioni di fuoco» (C. E. Gadda, Racconto italiano di un ignoto del Novecento, in Opere di Carlo Emilio Gadda. Scritti vari e postumi, a cura di D. Isella, Milano, Garzanti, 2008, vol. V, p. 566). Quindi nei Miti del somaro: «il prurito […] di dover vivere a tutti i costi una vita commossa» (La consapevole scienza, in C. E. Gadda, Racconto italiano di un ignoto del Novecento, vol. V, op. cit., p. 914). Potrebbe valere anche per queste quartine l’autocommento di Gadda al sonetto: «non è scemo del tutto» (in «Epoca», citato in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103).

  12. Da «Epoca» (in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., pp. 59 e 103). Sempre con riferimento al primo sonetto Poi che fuggendo: «La breve lirica fu erogata di getto e messa su carta senza ripentimenti, senza, ahimè!, varianti: a Longone, in Brianza, nella nostra casa di campagna».

  13. Intervista Rai in via Merulana, non datata ma posteriore al Pasticciaccio (cfr. l’URL https://youtu.be/L3IGFpdo0t4: ultima consultazione: 15 agosto 2023).

  14. Così intende Gadda nell’autocommento (C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103). Sul finir del giorno del contadino si legga Certezza (in C. E. Gadda, Romanzi e Racconti I [1989], a cura di Dante Isella, Emilio Manzotti, Milano, Garzanti, 2007, vol. I, p. 39).

  15. «Il motivo conduttore delle prime poesie (e in realtà un po’ di tutta la raccolta) è lo spazio della natura osservato come teatro di eventi che disegnano un universo ora di pacata ora di drammatica mestizia» (G. Patrizi, Gadda, op. cit., p. 191).

  16. Taccuino DP3, Vita notata. Storia, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, Raccolta ’900, catalogo: A.R.C.59.Gadda.I.1/7; inventario: A2963023, c. 45v, ora in C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, nuova edizione, a cura di P. Italia, Milano, Adelphi, 2023, p. 467.

  17. P. Italia, Note al testo, in C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, nuova edizione, op. cit., p. 557.

  18. Sovviene per la scena pascoliana del cane di campagna il Borges della maturità (1969): «la misteriosa devoción de los perros» (J. L. Borges, Juan 1, 14, in Id., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, vol. II, Milano, Mondadori, 2005, p. 261).

  19. «Le riviere sonanti grondavano giù dai muraglioni […] dove ci sono le stalle con i buoi» (C. E. Gadda, Cahiers II, in Id., Racconto italiano di ignoto del Novecento, op. cit., p. 403). Nel Castello di Udine (1934) si legge: «nel croscio solitario della pioggia» (Sibili dentro la valle in C. E. Gadda, Romanzi e Racconti I, op. cit., p. 265) → C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, in Opere di Carlo Emilio Gadda. Saggi Giornali Favole e altri scritti II, a cura di D. Isella e M. A. Terzoli, vol. IV, Milano, Garzanti, 2008, pp. 784 e sgg.).

  20. Per la tormentata vicenda testuale si rimanda alle preziose note di Dante Isella (C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, op. cit., pp. 1267-78).

  21. C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento, op. cit., p. 568.

  22. Ivi, p. 577.

  23. Il nesso tra rovescio delle sorti, aggressività e status in Gadda è stato indagato con riferimento al contesto geografico e politico (A. R. Dicuonzo, Lacheronte della mala suerte. Sociostoria del dolore nella «Cognizione» gaddiana, in «Intersezioni», XXXIII, I-2013, pp. 81-112). Nell’opera ricorre pure «sonanti» (C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento, op. cit., p. 403), come i «sonanti pini» della Meccanica (C. E. Gadda, Opere di Carlo Emilio Gadda. Romanzi e Racconti II, a cura di D. Isella, vol. II, Milano, Garzanti, 2011, p. 529).

  24. «Avevano avuto ville in Brianza, campi e terre hanno avuto. Hanno avuto una fede, una certezza, una prepotenza addosso […] lo stemma che sui (sull’arco dei) vecchi castelli soleva dire: “State attenti, carogne” e fino il vento e fin la tempesta solevano (parevano) fermarsi davanti mogi» (C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, op. cit., p. 567). Con rimando alle infantili fantasie nobiliari di un gioco inventato col fratello Enrico e il nipote Carlo Fornasini a Longone negli anni 1906-1907. Il Ducato di Sant’Aquila (Carolus Emilius III) aveva stemma araldico e motto: «Justitiam sequamur, nos sequetur victoria» (G. C. Roscioni, Il duca di SantAquila. Infanzia e giovinezza di Gadda, Milano, Mondadori, 1997, pp. 72-78).

  25. Nel contesto letterario assai diverso della Meditazione Milanese (I, XVII), con analogo riferimento astronomico: «Quando un sistema si ‘rilassa’ ciò significa che dei miliardi di miliardi di relazioni in esso convergenti, in lui nucleatasi, alcune si scindono, si sperdono, più non intervengono in esso […] Le infinite relazioni si scindono, come vecchie stelle si frantumano e i loro residui si sperdono nello spazio infinito e vengono assorbiti da altri nuclei stellari» (Il cosiddetto bene in C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, op. cit., p. 758). Notare l’ulteriore allotropo «nucleatosi». Anche qui ricorre «sonanti» (ivi, 893).

  26. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, II, op. cit., p. 268.

  27. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, I, op. cit., p. 653.

  28. Ivi, p. 692. Un identico Urtext di questo passo si trova nel secondo racconto dell’Adalgisa (edizione col titolo I sogni e la folgore) Navi approdano al Parapagàl (C. E. Gadda, Romanzi e Racconti, II, op. cit., p. 429). Ancora in Adalgisa si legge: «come di vaccina che si sia spersa nei laberinti e nei romitaggi del monte: strappata da un rotolare di tuoni alle consuetudini del pascolo, alla sodalità della mandra. E c’era, cosa incredibile, del rossore» (Quando il Girolamo ha smesso, in C. E. Gadda, Romanzi e Racconti, I, op. cit., p. 322). Tanto per restare in continuità vespertina con la trilogia poetica giovanile: «fuochi accender, roggio, arrossa». L’atmosfera cupa torna nel Castello di Udine: «la mala tromba, quando muggirà di sopra dai nùvoli neri […] con sibili dentro le buie valli» (Sibili dentro le valli: ivi, pp. 267 e 274).

  29. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, II, op. cit., p. 143.

  30. Ivi, p. 191.

  31. Ivi, vol. I. p. 707.

  32. Cfr. P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville…, art. cit., pp. 117-122. Si aggiunga a proposito la Casa Merlata della Madonna dei Filosofi (C. E. Gadda, Romanzi e Racconti I, op. cit., p. 101).

  33. G. Gorni, Lettura di ‘Autunno’ (Dalla ‘Cognizione’ di Carlo Emilio Gadda), in «Strumenti critici», XXI-XXII, 1973, pp. 291-325.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)

“Poetry matters”. Croce e il valore civile della comprensione

Author di Fabrizia Giuliani

Comunicare e comprendere

Nella raccolta di studi pubblicata nel 1999 in occasione del settantesimo compleanno di Gennaro Sasso, una Festschrift che anticipa fin dal titolo l’ampiezza degli ambiti trattati, Tullio De Mauro torna su temi crociani affrontando il tema della comprensione[1]. A rigore, non si tratta di una novità: la comunicazione è un nodo sul quale il linguista ha sempre insistito, dai primi lavori all’Introduzione alla semantica, agli ultimi interventi[2].

Nessuna discontinuità, dunque? Uno sguardo superficiale, fermo alla scelta del tema, potrebbe confermare il giudizio; se invece si osserva lo sviluppo dell’analisi, si comprende rapidamente come queste pagine rappresentino un vero e proprio tornante teorico, che tocca il giudizio sulla filosofia del linguaggio crociana, il modo d’intenderla e periodizzarla, il suo rapporto con le scienze del linguaggio. Ma andiamo per ordine, seguendo il testo e soprattutto i luoghi ai quali l’autore rinvia: saranno essi, infatti, a offrirci la chiave interpretativa corretta.

Il punto di partenza è la Filosofia della pratica: se De Mauro ha sempre riconosciuto un ruolo centrale al testo che chiude la trilogia sistematica, in queste pagine ne sottolinea soprattutto il carattere di apertura. Ribadisce che lo sviluppo teorico previsto e auspicato da Croce in ogni ambito della riflessione, il “Continua tu” che ritorna in più scritti, non esclude il linguaggio, ma anzi lo riguarda in modo particolare. Il linguista esclude una lettura rigida, statica, del

pensiero linguistico crociano, sostenendo, com’è noto, che l’identificazione di linguistica ed estetica propria del sistema e incompatibile con “qualunque linguistica possibile”, secondo il noto giudizio di Lepschy, viene poi superata nella fase più matura[3].

Questa interpretazione, diventata un punto di riferimento nella letteratura critica a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, sembrava destinata a non incorrere in ripensamenti e revisioni. Nel saggio citato si osserva uno sguardo diverso, se non un vero e proprio cambio di passo. Scrive De Mauro: «già mentre andava delineando il suo sistema, Croce elaborava in materia di linguaggio, di parole e loro senso e uso, riflessioni collaterali tanto acute quanto difficili da raccordare con la visione sistematica del linguaggio come arte e del parlare come poetare»[4].

Due ordini di considerazioni discendono da questo giudizio: non vi è più solo una “seconda” linguistica ma “un’altra” linguistica crociana che si sviluppa a partire dagli anni del sistema. Il linguista parla di riflessione “collaterale”: se è esclusa la successione, è ribadita l’alterità, l’assenza di conciliazione con la teoria delineata nella Filosofia dello Spirito.

Una periodizzazione da ripensare

Vediamo dunque quali sono i concetti coinvolti nello sviluppo di questa linguistica “altra”. Croce, afferma De Mauro, elabora una teoria attenta e articolata della comprensione linguistica: riconosce la natura processuale dell’accertamento del senso, la continua correzione in corso d’opera[5].

Il punto di svolta, sostiene, si osserva nelle pagine dedicate alla Poesia di Dante, pagine note, alle quali filosofia e critica letteraria hanno dedicato nel tempo riflessioni importanti, ma che gli studi filosofico-linguistici hanno invece trascurato[6].. La scelta di porre al centro le parole, la possibilità di ricostruirne e accertarne il senso, rappresenta una novità rispetto all’assetto definito nel sistema, che porta a riconoscere la necessità delle conoscenze necessarie ai processi di comprensione e interpretazione dei testi. Ma vediamo il passaggio:

E se io dovessi designare in qualche modo l’interpretazione storica che è propria dell’interpretazione storico-estetica, ossia il momento analitico che precede quello sintetico, direi che è l’explanatio verborum, l’interpretazione, largamente intesa, del senso delle parole: senso che, come tutti sanno, si trae non dalla loro etimologia e dalla sequela di concetti e dei sentimenti che hanno concorso a formarle e che ne costituiscono una sorpassata pre-istoria, ma dall’uso generale dei parlanti in un dato tempo, dall’ambiente in cui sono adoperate e si determina e individua poi in relazione alla nuova frase che è composta di esse e insieme le compone e crea. Proposizioni filosofiche, nomi di persone, accenni a casi storici, giudizi morali e politici e via dicendo, sono, in poesia, nient’altro che parole, identiche sostanzialmente a tutte le altre parole, e vanno interpretate in questi limiti. Nella interpretazione allotria non sono più, e non debbono essere, parole, ossia immagini, ma cose[7].

Qui, l’autore dell’Estetica, fermo assertore dell’inconsistenza dei tentativi di distinguere e segmentare le classi di espressione, mostra un’oscillazione significativa rispetto alle affermazioni del sistema, secondo le quali:

É falso che il nome o il verbo si esprimano con determinate parole. L’espressione è un tutto indivisibile; il nome e il verbo non esistono in essa, ma sono astrazioni che vengono da noi forgiate col distrugger la sola realtà linguistica ch’è la proposizione, ossia l’espressione. Ciò suona paradossale ma è verità semplicissima[8].

Non vi è dubbio sul fatto che nel passaggio osservato più su si registri una considerazione nuova rispetto al ruolo delle parole e dunque della lingua, intesa come tessuto comune, patrimonio condiviso, termine di riferimento per ogni atto di produzione e comprensione.

Questa linea di riflessione, come noto, si svilupperà ulteriormente nel libro del ’36, La Poesia; occorre però chiedersi da dove tragga origine e, soprattutto, se sia interpretabile solo in chiave diacronica. Nelle prossime pagine proveremo a misurarci con questi interrogativi, assumendo una prospettiva che non oppone sincronia e diacronia. Come ha affermato Marcello Mustè, la “svolta” è già implicita negli studi preparatori dell’estetica ma manifesta le sue conseguenze teoriche solo in un secondo tempo – ossia dopo gli studi hegeliani. Serve uno sguardo d’insieme, capace di seguire l’intreccio che lega la riflessione sul linguaggio al pensiero etico-politico, tratto distintivo di tutta la filosofia crociana[9].

Le Parole da capire

Come emerge con chiarezza nelle pagine della Poesia, l’autonomia del giudizio estetico non va intesa come affermazione dell’irrilevanza delle conoscenze necessarie alla sua formulazione, a cominciare, nel caso dei testi poetici e letterari, dalle conoscenze linguistiche. Nel celebrare la grandezza di Dante e della Commedia, «opus poèticum cui si consertano l’opus philosophorum e l’opus praticum», se da un lato Croce condanna le «interpretazioni allotrie», gli studi fondati su aspetti esterni al momento poetico ‒ dove prevalgono analisi politiche, morali, filosofiche ‒, dall’altro ne sottolinea la necessità, data la vastità dei riferimenti contenuti e la molteplicità dei livelli di lettura dell’opera. L’esortazione non va fraintesa: il giudizio estetico è e resta prioritario rispetto alla sfera logica e pratica ‒ «anche se tutte le allegorie di tutte le liriche e di tutti i luoghi della Commedia fossero spiegate resterebbe poi sempre da interpretare quelle liriche, prescindendo cioè dalle allegorie come inutili e dannose distrazioni, e ricercandone il vero ‘senso specifico’»[10].

In quanto prodotto pratico, atto di volontà, l’allegoria è frutto di una decisione arbitraria – convenzione, diremmo oggi attingendo al lessico semiotico ‒ con cui si “decreta che questo debba significare quello”; altra cosa è la poesia, dove non c’è rigidità nel rinvio da un piano all’altro e non sono necessarie istruzioni: ciò che precede il giudizio è solo la conoscenza degli elementi del «vivo linguaggio che in quei luoghi si atteggiano a nuova sintesi»[11].

Non casualmente, nella parte della Poesia dedicata al tema della rievocazione e della traducibilità, torna ancora la metafora dell’albero per descrivere il lavoro di restituzione dei testi poetici che la filologia svolge: «niente è nell’universo che sia meramente naturale e non storico, e di una preparazione maggiore o minore o minima c’è sempre bisogno per ripigliare e continuare il lavoro della vita». Lo sforzo individuale di un autore che cerca di farsi tornare alla mente l’espressione originaria, quando ormai «son venute meno, in tutto o in parte, le condizioni soggettive e oggettive che possedeva al momento della creazione», è paragonabile al ruolo di ricostruzione del filologo, che opera per riparare allo smarrimento o alla dispersione provocati dallo scorrere del tempo e degli eventi, consentendo quei ritrovamenti o “scoperte” necessari alla costruzione del sapere e della tradizione. Va poi ricordato, prosegue il filosofo, lo sforzo delle discipline che insieme alla filologia concorrono all’accertamento del senso, come la paleografia e la critica del testo

alla quale seguono i glossari dei suoni e delle forme per singole opere e autori, e lessici di una lingua di un popolo, o più lingue insieme, in cui i vocaboli sono messi in corrispondenza tra loro e morfologie e sintassi e metriche e altri simili istrumenti, e commenti letterari e storici, in cui si determina il significato di vocaboli e frasi, che si pongono in relazione con notizie di cose, di fatti e di idee[12].

La forma espressiva che la lingua concorre a costruire non è mai individuale. Questo punto è dirimente: nella letteratura non è in gioco l’opera del singolo ma il “genio dell’umanità”. Per comprendere lingue lontane nello spazio e nel tempo non bastano i saperi; serve il “consenso” dei parlanti che partecipano all’atto comunicativo:

Per opera di questa magia si compie quotidianamente il miracolo dell’apprendere lingue che chiamiamo straniere: al quale effetto niente varrebbe avere innanzi ai sensi e all’intelletto gli oggetti, le costumanze. gli eventi, le persone di cui in quelle lingue si parla, né conoscere le approssimative e astratte corrispondenze di significato dei loro suoni articolati gli astratti suoni articolati desunti dal modo di parlare che ci è solito. Tutte le cognizioni forniteci dalla filologia, utilissime certamente, resterebbero disgregate e inerti se non ci fosse il fondamentale ed essenziale esercizio che noi siamo esseri parlanti e il nostro interlocutore di lingua straniera è un essere parlante, e che le vibrazioni nostre e quelle di lui sono omogenee, le une e le altre vibrazioni della comune umanità, e perciò, per consenso o simpatia quelle dell’uno finiscono con l’essere risentite dall’altro […][13].

Vale la pena tornare alle riflessioni sulla traduzione che attraversano, come noto, tutto il pensiero crociano con qualche ambivalenza. Se da un lato il filosofo sembra ammetterla solo per la prosa, dall’altro sottolinea la necessità di rendere accessibili in lingue diverse le stesse opere poetiche. Il punto, ribadisce, è comprendere a fondo quali siano il significato e la funzione del tradurre: non si capirebbe, oggi, ciò che Vico intendeva quando parlava di “certo del conoscere” distinguendolo e contrapponendolo al “vero”, perché quelle parole oggi hanno un senso diverso, sono pensate ed espresse con altri vocaboli. Il lavoro del traduttore consiste in questa ricerca e si misura costantemente con l’incertezza e l’errore. L’utopia della lingua comune, la “dotta lingua franca” finalizzata a stabilire un’equivalenza più stabile tra i segni è una risposta al riconoscimento di questo rischio, ma resta, appunto, un’utopia:

sebbene le proposte di unificazione abbiano avuto qualche pratica attuazione nelle scienze astratte, e sebbene le altre naturali si aiutino col latino e col greco, e sebbene la compenetrazione delle culture renda in un certo senso d’uso internazionale le stesse lingue nazionali, tanto da non far sentire urgente il bisogno di artificiali unificazioni, la varietà dei segni, e la conseguente necessità delle traduzioni persisterà sempre, perché i nuovi concetti sorgono sempre, nonché nella diversità dei popoli e dei loro linguaggi, negli individui, che sempre coi nuovi concetti creano nuovi segni[14].

Ancora sulla Communicatio idiomatum

Tradurre vuol dire, dunque, raggiungere un punto di mediazione tra le esigenze della comunicazione – “il reciproco intendimento” ‒ e il rispetto della diversità delle lingue. Come afferma De Mauro, si tratta di un processo «forzatamente non lineare» perché mira a circoscrivere e afferrare un senso particolare, dove i bisogni espressivi del passato s’incontrano con le forme linguistiche del presente

condizionate queste sia dall’ambiente e dall’uso generale, sia […] dal loro particolare comporsi e riattualizzarsi con modalità non interamente predeterminabili, ma piuttosto con un nodo di molti fili da rintracciare e sciogliere, come l’avvincersi e sorreggersi reciproco di molti tralci in una pergola[15].

Torniamo alla comprensione. Nell’Estetica Croce rifiuta la possibilità di collocare il processo su un terreno radicalmente arbitrario – convenzionale – che definisce un errore al quale è quasi preferibile la dottrina della “communicatio idiomatum”, rappresentazione in forma “mitologica” di quell’intendersi su basi comuni – universali – appena osservato[16]. Il problema della reciproca comprensione va posto nel luogo che gli è proprio, aveva affermato a proposito delle teorie di Hamann, ossia sul piano teoretico: si corre il rischio, altrimenti, di un approccio “mistico” quale quello dell’autore tedesco che individua la risposta del problema della comprensione nella “communicatio idiomatum con Dio”.

La posta in gioco è sempre l’autonomia della lingua: nell’interpretazione di Hamann, Croce legge la necessità di affrontare in maniera radicale la questione, andando oltre le teorie convenzionaliste che finiscono per rinviare, alla fine, «all’inconoscibile»[17]. Se non si riconosce che il linguaggio è «segno a sé stesso», il rischio di misticismo è inevitabile, come Croce spiega con chiarezza in questo passo tratto dal Breviario:

L’immagine significante è l’opera spontanea della fantasia, laddove il segno, nel quale l’uomo conviene con l’uomo, presuppone l’immagine e perciò il linguaggio; e, quando si insista a spiegare mercé il concetto di segno il parlare, si è costretti alfine a ricorrere a Dio, come datore dei primi segni, cioè a presupporre in altro modo il linguaggio, rinviandolo all’inconoscibile[18].

Non è diverso il riferimento che troviamo nelle Postille al capitolo dedicato all’Interpretazione storico-estetica nel libro del ’36: a paragone degli insufficienti tentativi delle «associazioni, inferenze o convenzioni», è preferibile ciò che, sia pure in «forma “mitologica”», esprime il fatto che ci si intenda sul «fondamento della nostra comune umanità». Se inizialmente il rinvio alla “communicatio idiomatum” è utilizzato in chiave polemica, contro le visioni convenzionali della lingua, nella fase più matura tali richiami vanno ricondotti al tentativo compiuto dal filosofo di misurarsi con il problema “pratico” della comunicazione[19]. Come afferma Marcello Mustè:

Osservato dal lato dell’estetica, il linguaggio, anche nella sua versione comunicativa, appariva come una medesimezza di contenuto teoretico traslata in una forma differente. Osservato, invece, dal lato della praxis, che ne era l’autentica artefice, la comunicazione non poteva che rivelare il volto della differenza, nel contenuto oltre che nella forma, quindi una radice convenzionale, persino arbitraria, esposta al fraintendimento e all’errore. Questo era il problema che si apriva a partire dalla Logica. La comunicazione, come si diceva, non presupponeva per Croce intersoggettività e pluralità di parlanti, né una vera e propria comunità̀ umana. Fu appunto sul versante dello storicismo e della riflessione etico-politica, più̀ che in quello strettamente linguistico, che questo aspetto venne ripreso e ripensato, perché, come scrisse nel libro su La poesia, «tutti sono, vivono e si muovono in Dio»[20] .

Non basta più riconoscere la natura categoriale del linguaggio e “presupporre” la comunicazione; se non si vuol restare “disarmati”, occorre provare a comprendere concretamente come tale processo si determina, individuare gli strumenti di cui si avvale:

La coscienza estetica, come la coscienza morale, è disarmata e non può combattere: solo la critica è armata e combattente. I moti del gusto e del disgusto, per vivacissimi che siano, tutto potranno operare, ma non già quell’unico atto che il giudizio compie e che è, semplicemente di dare il nome alle cose, e aprire così la via al modo di comportarsi verso di esse[21].

Riprendendo le parole demauriane con le quali avevamo aperto la nostra riflessione, la “ricchezza e fecondità” di queste riflessioni è evidente, com’è evidente la loro attualità. Non mi riferisco solo alle teorie linguistiche, alla traduzione, ma al presupposto che rende possibile il riconoscimento del ruolo della lingua, il valore delle parole, la necessità della loro condivisione; per riprendere un altro momento cruciale della filosofia crociana: le ragioni della Difesa della poesia[22].

Non appaia irrituale, allora, concludere queste pagine ricordando alcuni luoghi dove la «concreta arte e poesia»[23] confermano la teoria di Croce, mostrando la spinta alla traduzione impossibile ma necessaria, la scoperta delle parole da condividere nei momenti estremi, quando i moti «inferiori e barbarici»[24] sembrano prendere il sopravvento. Torna il racconto insuperato di Primo Levi, che nei campi di Auschwitz ricorda e traduce i versi dell’Inferno per l’amico francese: «Come se anche io sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono»[25]. Riecheggiano ora gli stessi versi e lo stupore che li accompagna nelle pagine di Ilya Kaminsky, poeta ucraino già tradotto in molte lingue. Scrive dell’incontro con Dante a Kyiv, di come anche nei rifugi antiaerei Virgilio appaia una guida salda, capace di immaginare il mondo oltre il buio[26]:

Dante has no need to defend his art. Poetry matters: he sees it as a primal ancient force and art form, one that’s been here long before our individual lifetimes and will stay long after (Vergil, who lived centuries before him, guides him into the present). What we need, Dante’s journey shows us, is to defend ourselves with it: a tune to walk to, even in the underworld, as long as one still walks[27].

Bibliografia

M. Boncompagni, Ermeneutica di Benedetto Croce, Napoli, Loffredo, 1980;

G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino, Einaudi, 1989;

“Continua tu”. Tullio De Mauro e le lezioni crociane, in Intorno a Tullio De Mauro, a cura di S. Gensini, Pisa, ETS, 2023, pp. 143-63;

B. Croce, Il linguaggio come causa d’errore. Henri Bergson, in «La Critica», 1904, pp. 50-53, poi ristampato in Id., Conversazioni Critiche, vol. I, Bari, Laterza, 1918, pp. 105-107;

Id., Breviario di estetica, Bari-Roma, Laterza, 1913;

Id., La Poesia di Dante, Bari-Roma, Laterza, 1921;

Id., La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura [1936], Bari-Roma, Laterza, 1946;

Id., Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e critica della poesia, Bari-Roma, Laterza, 1950;

Id., Filosofia. Poesia. Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore [1948], Milano, Adelphi, 1966;

Id., Logica come scienza del concetto puro [1909], a cura di C. Farnetti, Napoli, Bibliopolis, 1996;

Id., Filosofia della pratica. Economia ed etica [1909], a cura di M. Tarantino, Napoli, Bibliopolis, 1996;

Id., Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Ristampa anastatica dell’edizione del 1900, a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 2002;

Id., Filosofia e storiografia [1949], a cura di Stefano Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005;

Id., Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale [1902], a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 2014;

Croce filosofo del linguaggio. Dialogo tra Fabrizia Giuliani e Marcello Mustè, in «Filosofia Italiana», XVII, I, 2023, pp. 15-32;

P. D’Angelo, L’Estetica di Croce, Bari-Roma, Laterza, 1982;

T. De Mauro, Origine e sviluppo della linguistica crociana, in «Giornale critico della filosofia italiana», 15, 1954, pp. 376-39;

Id., Introduzione alla semantica [1965], Bari-Roma, Laterza, 1989;

Id., Croce la linguistica e noi (intervista ad Arturo Martone, in «Nord e Sud», 39, n. s., 1992, pp. 23-40;

Id., Le porte della comprensione, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, Napoli, Bibliopolis, 1999;

M. Deneckere, Benedetto Croce et la linguistique, 2 tomi, Antwerpen Universiteit, Antwerpen, Rijksuniversitair Centrum, Hoger Institut voor Vertalers en Tolken, 1983;

F. De Saussure, Corso di linguistica generale [1967], introduzione, traduzione e commento a cura di T. De Mauro, Bari-Roma, Laterza, 1983;

F. Giuliani, Espressione ed éthos, Bologna, il Mulino, 2002;

I. Kaminsky, Reading Dante in Ukraine, in «Asymptote», 2024;

G. Lepschy, Linguistica strutturale, Torino, Einaudi, 1965;

P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1958;

M. Mancini, Tullio De Mauro ‘paleo-crociano’, in «Incontri linguistici. Rivista a cura delle Università di Udine e Trieste», 41, 2018, pp. 41-76;

M. Musté, Croce, Roma, Carocci, 2009;

G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, Firenze, La Nuova Italia, 1989;

Pro e contro Dante, a cura di E. Giammattei, Roma, Treccani, 2021;

M. Salucci, Segno ed espressione in Benedetto Croce, Città di Castello, Arnaud, 1987;

G. Sasso, Filosofia e idealismo, VI. Ultimi paralipomeni, Napoli, Bibliopolis, 2012, pp. 107-54.

  1. T. De Mauro, Le porte della comprensione, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, Napoli, Bibliopolis, 1999; il saggio è stato ripubblicato nello stesso anno anche nella raccolta Capire le parole, Bari-Roma, Laterza, 1999, pp. 151-58.
  2. A titolo esemplificativo si vedano: T. De Mauro, Origine e sviluppo della linguistica crociana, in «Giornale critico della filosofia italiana», 15, 1954, pp. 376-91; Id., Croce la linguistica e noi (intervista ad Arturo Martone, in «Nord e Sud», 39, n. s., 1992, pp. 23-40.
  3. Cfr. G. Lepschy, Linguistica strutturale, Torino, Einaudi, 1965. Sulla periodizzazione vedi T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Bari-Roma, Laterza, 1989, pp. 103-26; cfr. anche G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 103-17 e G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino, Einaudi, 1989, pp. 50-51. Nella direzione opposta la lettura di G. Sasso, Croce: la questione del linguaggio, in Id., Filosofia e idealismo, VI. Ultimi paralipomeni, Napoli, Bibliopolis, 2012, pp. 107-54.
  4. T. De Mauro, Le porte della comprensione, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, op. cit., p. 848.
  5. «Forse il Prezzolini esagera quando afferma che la filosofia bergsoniana, la filosofia della Contingenza, ha intrapreso una guerra contro la parola. Si può dire che la filosofia non abbia fatto altro, da quando è al mondo, che battagliare contro i concetti empirici, i nomina realizzati e introdotti nel mondo del pensiero»: B. Croce, Il linguaggio come causa d’errore. Henri Bergson, in «La Critica», 1904, pp. 50-53, poi ristampato in Id., Conversazioni Critiche, vol. I, pp. 105-107, da cui si cita.
  6. Cfr. lo studio recente Pro e contro Dante, a cura di E. Giammattei, Roma, Treccani, 2021, pp. 30-36.
  7. B. Croce, La poesia di Dante, Bari-Roma, Laterza, 1921, p. 24.
  8. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale [1909], Napoli, Bibliopolis, 2014, p. 167. Cfr. anche B. Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, a cura di M. Tarantino, Napoli, Bibliopolis, 1996, dove la comunicazione si identifica con l’errore, pp. 60-61.
  9. In altra prospettiva cfr. G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 103-17 e G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, op. cit., pp. 50-51.
  10. B. Croce, La Poesia di Dante, Bari-Roma, Laterza, 1921, p. 9.
  11. Ivi, pp. 12-21.
  12. I brani sono tratti da La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, Bari, Laterza, 1946, pp. 68-69.
  13. Ivi, pp. 78-79.
  14. Ivi, p. 101. Interessante il confronto con la Logica: “ogni vocabolo porta seco, in maniera maggiore o minore, l’appiccico dei vocaboli, perché si aggira in questo basso mondo ch’è pieno di tranelli; e la ricerca di vocaboli che impediscano assolutamente gli equivoci” non è che il sospiro di “molte anime candide” Logica come scienza del concetto puro, a cura di C. Farnetti, Napoli, Bibliopolis, 1996.
  15. T. De Mauro, Le porte della comprensione, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, op. cit., p. 851.
  16. Cfr. B. Croce, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura [1936], Bari-Roma, Laterza, 1946, p. 270.
  17. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Napoli, Bibliopolis, 2014, p. 287. Sul segno cfr. M. Salucci, Segno ed espressione in Benedetto Croce, Città di Castello, Arnaud, 1987, p. 30. Si rinvia poi, ovviamente al commento di De Mauro al Corso di linguistica generale sul punto relativo all’arbitrarietà: «certo, anche nelle concezioni convenzionalistiche, da Aristotele a Whitney, il consenso sociale ha una parte: ma trova un limite nel fatto che la lingua, concepita come una nomenclatura ingloba una parte dei “significati” che coincidono con le “cose” e sono dunque dei dati precostituiti». Si veda F. De Saussure, Corso di linguistica generale [1967], introduzione, traduzione e commento a cura di T. De Mauro, Bari-Roma, Laterza, 1983, pp. XVII e pp. 141-42.
  18. B. Croce, Breviario di estetica, Bari-Roma, Laterza, 1913, p. 51.
  19. Paradigmatiche, a proposito, le interpretazioni di T. De Mauro, Introduzione alla semantica [1965], Bari, Laterza, 1989, pp. 124-26; M. Boncompagni, Ermeneutica di Benedetto Croce, Napoli, Loffredo, 1980, pp. 78-100 e P. D’Angelo, L’Estetica di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1982, pp. 113-18.
  20. Cfr. F. Giuliani, Croce filosofo del linguaggio. Dialogo tra Fabrizia Giuliani e Marcello Mustè, in «Filosofia Italiana», XVII, I (2023), p. 26.
  21. B. Croce, Sulla natura e l’ufficio della linguistica, in Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e critica della poesia, Bari, Laterza, 1950, p. 249.
  22. B. Croce, Difesa della poesia (lettura tenuta a Oxford il 17 ottobre 1933), in «La Critica», I, XXXII, 1934, pp. 1-15, poi in Id., Ultimi saggi, Bari, Laterza, 1935. Cfr. ancora Pro e contro Dante, a cura di E. Giammattei, op. cit., p. 22.
  23. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro [1909], a cura di C. Farnetti, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 354.
  24. B. Croce, Filosofia e storiografia, a cura di Stefano Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005, p. 209.
  25. P. Levi, Se questo è un uomo [1958], Torino, Einaudi, 2014, p. 111.
  26. Il nesso tra poesia, letteratura e civiltà è ribadito a più riprese, a partire dal volume del ’36. Qui ne troviamo forse la definizione più chiara: «la luce che la poesia ha acceso nell’anima e che è luce inestinguibile […] E quella luce che li ha rivestiti, o che li rivestirà, li ingentilisce, sgombra da essi la barbarie, li rende “urbani” (άστεΐοι, come dicevano i greci); e la letteratura che compie tale opera e rende civili le espressioni immediate o naturali, è parte di quella che si chiama appunto civiltà» (B. Croce, Filosofia. Poesia. Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore [1948], op. cit., p. 358). Mi permetto, a proposito, di rinviare anche a F. Giuliani, Espressione ed éthos, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 114-34.
  27. I. Kaminsky, Reading Dante in Ukraine, in «Asymptote Journal», Jan 2024, consultabile sul sito https://www.asymptotejournal.com/search/?query=kaminsky (ultima consultazione: 10 febbraio 2024).

(fasc. 51, 25 febbraio 2024)

Un ritratto di Franco Matacotta tra poesie, amicizie e inediti

Author di Riccardo Renzi

Far emergere in un unico intervento la complessità di un intellettuale come Franco Matacotta, che spaziò dalla poesia al giornalismo fino alla critica letteraria, è impresa assai ardua.

Matacotta nacque a Fermo l’11 ottobre 1916 da una famiglia di modeste condizioni economiche. L’amore per la letteratura e la poesia furono presenti in lui fin dalla tenera età: in particolare prediligeva i classici greci, che lesse e tradusse. All’età di sedici anni iniziò a collaborare al periodico «L’Araldo», in cui pubblicò l’articolo Cultura fascista e la poesia Per i fatti di Traù. Nel 1935 conseguì la maturità e nel novembre dello stesso anno s’iscrisse alla facoltà di Lettere e filosofia di Roma, frequentando i corsi tenuti, tra gli altri, da Gentile, Toesca e Sapegno. Fu fin da subito affascinato dalla figura di Giovanni Gentile, anche se il suo ardore per il fascismo durò ben poco[1].

Agli inizi del secondo anno accademico conobbe di persona Rina Faccio, più nota come Sibilla Aleramo, scrittrice celebre all’epoca con la quale aveva avuto un fitto scambio epistolare e con la quale iniziò un rapporto che, a fasi alterne, proseguì almeno fino alla fine degli anni Quaranta, e che la donna nel proprio Diario definì un «amore insolito», essendo lei già in là con gli anni[2]. Questo incontro, dal punto di vista intellettuale, fu uno dei più determinanti nell’esperienza dello scrittore fermano, in quanto fu Sibilla a fargli scoprire David Herbert Lawrence, Colette, Paul Valéry, Omar Khayyam, e George Sand, e gli permise di studiare gli inediti di Dino Campana che la stessa Aleramo custodiva, avendo avuto una nota relazione con il poeta[3]. Matacotta rimase folgorato dalla poesia di Campana e da quegli inediti: ne scrisse dapprima in «Prospettive», poi in volume[4].

Sibilla, inoltre, introdusse Matacotta nell’ambiente letterario e artistico romano: fu lei a presentargli Cecchi, Bontempelli, Alvaro, Moravia, Malaparte, Zavattini, Guttuso e Fazzini. La sua figura fu importante per tutto l’ambiente intellettuale fermano di quegli anni, poiché, come ha affermato Domenico Pupilli, testimone di seconda generazione di quella temperie culturale, ella fece quasi da «madrina a quei ragazzi fermani»[5] ovvero Franco Matacotta, Gino Mecozzi, Giuseppe Brunamontini detto Pino e Alvaro Valentini.

Sibilla spesso ospitava gli amici fermani del “suo” Franco nella propria soffitta: «Roma 21 gennaio, sera. Esattamente dopo un mese di accampamento qui nella soffitta, i due giovani han potuto oggi andare ad abitare in uno studio ceduto a loro da un amico»[6] (si parla di Gino Mecozzi e Giuseppe Brunamontini). Sibilla conosceva bene l’ambiente intellettuale fermano; così scrisse del suo viaggio a Fermo nel settembre del 1944:

Giovani poeti che sono venuti a farmi visita qui nello studio di Franco. Con i fiori avevano mandato opuscoli di loro versi: per lo più di derivazione della scuola “ermetica”, Montale, Quasimodo… Più tardi imiteranno Franco […] ma è commovente questo amore per la poesia che in questi piccoli centri si perpetua nonostante la guerra[7].

La scrittrice dunque conosceva Fermo, ne era affascinata e per la piccola Città collinare provava al contempo un’insoddisfatta attrazione; come quando – svanito il lungo rapporto con Franco – passò in treno fra San Benedetto e Ancona e, il 17 maggio del 1949, annotò: «in alto, sul poggio, poco fa, Fermo: la mia ultima illusione, Franco…»[8].

In lei l’amore per Franco fu sempre forte, sino alla morte, sebbene fosse conscia del grande divario d’età e delle difficoltà della relazione stessa. Anni prima, passando attraverso le terre marchigiane, così le descriveva: «Lontano sorgeva una doppia catena di altezze, colline dinanzi, dietro gli Appennini. Borgate in cima a qualche poggio si sporgevano, evocando il Medioevo colle loro cinte merlate, colle casette brune raggruppate intorno a qualche campanile aguzzo. La campagna e il mare erano talora abbaglianti»[9]. Sibilla amò profondamente il Fermano: come racconta in Dal mio diario 1940-1944, Franco rappresentava per lei quel territorio, quella ruralità e quella poetica intrinseca dei luoghi.

Egli si laureò il 14 luglio 1939, discutendo una tesi su Ungaretti, Campana e Aleramo. Nel 1941, dopo tanti articoli e poesie apparsi in varie riviste e testate, pubblicò la sua prima monografia, Poemetti (1936-1940)[10]. L’opera fu dedicata all’Aleramo, con la quale era ancora in stretto rapporto. La raccolta, però, non si ispira ai poeti ermetici da lui tanto studiati, ma privilegia una tonalità decisamente aulica, con reminiscenze dalla linea classica della lirica italiana, da Foscolo a Leopardi[11].

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, Matacotta nel luglio 1941 fu chiamato alla difesa della patria e destinato a Macomer, in Sardegna, come allievo ufficiale di artiglieria. Già da prima del 1939 aveva iniziato a prendere le distanze dal fascismo, ma l’impatto della guerra lo allontanò totalmente da quella ideologia e lo segnò per il resto della vita. Anche attraverso le conoscenze di Sibilla e spesso fingendosi malato, riuscì a ottenere permessi e ad allontanarsi spesso dalla Sardegna. Il giorno dopo l’Armistizio, assieme a Pratolini e Vedova, prese contatto con Lizzani, che ricopriva un ruolo primario nel Partito Comunista Italiano, per prender parte alla lotta contro i tedeschi. Ma entrò immediatamente nel loro mirino e fu costretto a rifugiarsi nella soffitta dell’Aleramo in via Margutta per sfuggire alle retate; in seguito riparò avventurosamente a Fermo e di lì a Monte San Giusto vicino a Macerata[12].

La partecipazione alla Resistenza, tanto quanto la chiamata alle armi, lo segnò profondamente e fu alla base della raccolta di versi Fisarmonica rossa[13]. La barbarie della guerra, gli orrori e le devastazioni sul territorio italiano, l’occupazione tedesca e le rappresaglie contro la popolazione civile, con il loro strascico doloroso di lutti e di sangue, fanno da sfondo a un racconto poetico che privilegia il ritmo popolare della ballata e un linguaggio teso e fortemente improntato a un crudo espressionismo. Questi sono i caratteri distintivi di Fisarmonica rossa, opera impregnata di sangue, sudore e sofferenza, probabilmente uno degli esempi meglio riusciti di poesia resistenziale. Quella di Matacotta è una poesia in presa diretta, scritta sotto l’incalzare di tragici eventi, come stanno a indicare spesso le date in calce ai componimenti[14]. D’altra parte, però, c’è la mitizzazione dell’evento, del fenomeno, intriso di pathos storico per il radicale cambiamento che si sta vivendo.

Con la fine della Guerra si chiuse anche il rapporto con l’Aleramo: stando a Cavatassi e Verducci[15], i due si incontrarono un’ultima volta nel novembre del 1947.

La raccolta Fisarmonica rossa, fatte rare eccezioni[16], fu apprezzata fin da subito; così nel 1953 Matacotta la ripropose all’interno di Canzoniere di libertà. Fisarmonica rossa. Nella Prefazione alla riedizione dei Poemetti del 1998, così si esprimeva Francesco De Nicola: «è uno dei pochi canzonieri sulla seconda guerra mondiale e sulla Resistenza scritti in Italia»[17]. Luzi ne diede vari giudizi, tutti molto positivi; uno dei più completi si trova nell’Introduzione a La lepre bianca dell’82: «Col suo linguaggio vivido e crudo, essenziale, rappresenta una rottura nella linea stilistica e tematica della poesia italiana»[18]. Franco Fortini affermò, invece, che quelle «strofe sono scatenate e colorate»[19].

Le criticità evidenziate da Valentini negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione dell’opera non erano legate all’epopea delle vicende narrate, ma al linguaggio, considerato in un primo momento troppo vivido e sanguigno[20]. Il giudizio di Valentini divenne positivo solo a partire dagli anni Ottanta; infatti, nel 1987, in Il Leopardismo di Franco Matacotta scrisse: «vuole restituire alle parole non la purezza che gli Ermetici perseguivano, ma lo spessore storico»[21]. Egli aprì il saggio sottolineando la centralità di Fisarmonica rossa nella letteratura italiana post bellica[22]: il suo contributo originava dall’intervento di Mario Petrucciani del 1972 tenuto a Recanati in occasione del II Convegno Internazionale di Studi Leopardiani.

Petrucciani in quell’occasione mise in evidenza la grandezza rivoluzionaria di Fisarmonica rossa, in quanto lontana dall’Ermetismo ma allo stesso tempo vicina al leopardismo e conscia di tutta la tradizione poetica precedente[23], da Valéry al Porto di Ungaretti, all’Ulisse di Seferis[24]. Egli sottolineava, però, anche un certo distacco dal leopardismo, poiché Matacotta nel poemetto vedeva l’Europa come «una luna / piena di crateri e di tombe»[25].

Valentini partiva proprio da questa affermazione per dimostrare, invece, quanto in Matacotta fosse forte il leopardismo. Il poeta aveva detto della terra: «O desolato cranio del pianeta / fatto gemello dell’infelice luna». Tali affermazioni, secondo Valentini, non sono così lontane dal Poeta recanatese: infatti, per esempio, nel Dialogo a esse dedicato la Terra si rivolge alla Luna chiedendole se sia vero «che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno? Che sei fatta, come affermano alcuni inglesi, di cacio fresco?». Nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, com’è noto, si legge di una luna sitientis, arida, secondo Properzio[26]: una luna molto simile a quella che descrive Matacotta. Valentini sottolineava come alcuni elementi molto presenti in Fisarmonica rossa fossero stati ripresi da opere pubblicate o in via di pubblicazione dello stesso poeta fermano. La fisarmonica, per esempio, è un elemento presente anche in Lepre bianca: «La fisarmonica suonava con il suo miele caldo che scioglieva l’asfalto della notte»[27]. Inoltre nei Poemetti, e precisamente nella Canzone del lupo d’agosto, è già presente il paragone tra uomo e lupo che ebbe poi molta fortuna in Fisarmonica rossa in relazione al parallelismo con i partigiani imboscati[28]. Secondo Valentini, quindi, l’operazione di rinnovamento della poesia italiana compiuta da Fisarmonica rossa non fu dettata dal caso, ma fu un’attenta elaborazione culturale nella quale confluirono, con la maturazione morale, lunghe letture di poeti italiani e stranieri[29].

Tornando alla vicenda umana del poeta, concluso il Secondo conflitto mondiale, egli continuò a vivere attivamente e a raccontare l’Italia del dopoguerra e degli anni Cinquanta e Sessanta. È del 1948 la breve raccolta Naialuna, con cui vinse il premio San Pellegrino[30]. Nell’opera il poeta sviluppava gli appunti poetici presi

durante il soggiorno in Sardegna, nel corso del tormentato periodo di servizio militare, quando era maturata la sua crisi esistenziale in una situazione di solitudine che aveva trovato corrispondenza nella natura selvaggia, pietrosa e solitaria dell’isola. I frequenti richiami mitologici e le reminiscenze leopardiane collegano questi versi ai Poemetti, di cui sembrano costituire una propaggine, piuttosto che a quelli legati all’impegno sociale e politico[31].

Il suo primogenito Massimo gli nacque il 28 luglio 1948, il secondogenito Francesco Cino nel 1956; l’anno successivo pubblicò, influenzato dalla nascita del figlio, la raccolta Ubbidiamo alla terra[32], nella quale, come sottolineato da Valentini, si faceva nuovamente vivo il suo leopardismo[33]. Nel contempo il poeta passò dalle vicende nazionali e internazionali di Fisarmonica rossa all’ambiente privato, quello intimo e famigliare, alla ricerca di un nuovo equilibrio dopo la nascita del bambino. La cronaca e la grande poesia epica politicizzata tornarono però nel 1953, quando sotto lo pseudonimo partigiano di Francesco Monterosso, con il Canzoniere di libertà[34], riprese i toni più politicizzati della sua poesia, senza peraltro riscuotere i consensi della critica, che notò anzi il carattere retorico di gran parte delle liriche aggiunte con l’occasione; a essa seguì, nel 1956, con il medesimo pseudonimo la raccolta poetica I mesi[35] in cui riprendeva, nella prima parte, la pacificata tematica di Ubbidiamo alla terra, mentre, nella seconda, sviluppava ancora tematiche civili, questa volta collegando, sul filo della memoria privata e di quella storica, gli eventi drammatici degli anni della lotta antifascista.

In quello stesso 1956, dopo gli eventi legati alla repressione sovietica in Ungheria, egli maturò la crisi che lo indusse a lasciare il PCI e a pubblicare, nel 1957, i Versi copernicani[36]. Questo momento risultò decisivo per la poetica di Matacotta, che dal 1954 al 1959 visse una profonda crisi ideologica che lo portò a un dubbio costante:

In esso predomina, accanto al senso profondo di radicamento nella sua terra e nei valori trasmessi per generazioni dalla sua gente, una meditazione profonda sulla morte e sulla vita come percorso faticoso nel dolore. Se Foscolo e Leopardi costituiscono i punti di riferimento obbligati del poeta fermano, sul piano sia tematico sia della scelta di una scrittura poetica tesa al sublime, occorre anche osservare che con il riaffiorare delle memorie familiari e infantili il tono dei componimenti tende a virare decisamente verso l’elegiaco e si evidenziano vistose sedimentazioni di ascendenza pascoliana[37].

Questa crisi ideologica ebbe enormi ripercussioni anche nella sua vita privata. Legato da sempre a Fermo e alla sua famiglia, a settembre del 1959 decise di abbandonare moglie e figli, e di chiedere il trasferimento come insegnante dal prestigioso Istituto Tecnico Industriale di Fermo (ITI)[38] a un istituto di Milano[39]. Una decisione, questa, legata, oltre che al tentativo di evadere dalla sonnolenta provincia marchigiana[40] e in parte anche dagli oneri e doveri della vita famigliare, anche al desiderio di saggiare le opportunità che poteva offrire Milano, soprattutto dal punto di vista editoriale. Così tra il 1959 e il 1961 insegnò all’Istituto tecnico industriale di Rho e a Milano. Ma nel 1960 due lutti pesantissimi lo colpirono: il 15 gennaio 1960 scomparve a Roma Sibilla Aleramo, mentre l’8 luglio dello stesso anno morì, in circostanze mai chiarite, il primogenito Massimo, ospite dei nonni materni ad Ancona[41]. Inoltre, Matacotta al momento della morte del figlio fu irreperibile e giunse ad Ancona solo una settimana dopo i funerali, accompagnato da Pratolini[42]. Questo lutto segnò e logorò la sua vita.

L’esperienza milanese si rivelò negativa: «Anni brutti e incerti […] per lui e per me»[43]. Così decise di ricongiungersi alla famiglia andando a insegnare a Osimo, quindi a Genova e infine a Levanto. Nel 1963, dopo una lunga malattia, si spense a Genova anche la moglie Rosa[44]. Agli inizi del 1964 conobbe la collega Emma Marini, che sposò alla fine dello stesso anno. Nel 1965, dopo la morte del padre, decise di rientrare a Fermo, per tornare nell’ottobre 1968 definitivamente in Liguria, a Nervi, dove insegnò nella scuola media Vivaldi. Matacotta morì a Genova il 27 aprile del 1978, dopo una lunga malattia[45].

La critica letteraria

Una frase di Fortini del 1975 svela quale fosse stato il destino di Matacotta: «un poeta che conosce la notorietà da giovane e la dimenticanza del mondo in età matura»[46]. La precoce vocazione ritmico-poetica e la fama giovanile per il poeta fermano furono, infatti, quasi una disgrazia. Con Fisarmonica rossa prima e Lepre bianca poi, egli raggiunse un livello qualitativo cui non riuscì più ad avvicinarsi negli anni seguenti.

Nelle sue opere giovanili, dalla narrativa alla poesia, passando per la critica letteraria, la maggior parte dei critici, Valentini e Luzi su tutti, sentono una grande musicalità e armoniosità tra le parole e i periodi, condizione questa che rende i suoi testi particolarmente fruibili. «Nella Lepre bianca, romanzo pubblicato nel 1946, è possibile trovare frequenti tracce della sua passione per la musica e della poesia»[47], ha scritto Luzi. Fu proprio questo amore per la musica che lo spinse a inserire in tutte le sue opere giovanili elementi musicali: si pensi, ad esempio, alla fisarmonica e al suo suono o ai canti partigiani. Anche nel contributo del professor Dolfi intitolato Il suono della fisarmonica[48] si rileva che «Leggere Fisarmonica rossa di Franco Matacotta vuol dire muoversi in uno straordinario pentagramma di suoni e sensazioni, movimenti e stupori, paura e delusioni, passioni e speranze»[49]. È il suono stesso a tenere insieme le parole e a dare il senso della distruzione e del dolore:

La terra danza danza. È un subbuglio

Di viscere di catrame di nebbia di ossa,

Dentro il velluto carnale del buio

Suona un’ubriaca fisarmonica rossa.

Suona lombrico suona[50]

La terra è avvolta dal suono dello strumento, il quale rivendica il diritto dell’uomo alla vita e magicamente irradia di rosso l’universo, per capovolgerlo, reinterpretarlo e poterlo così vedere sotto una nuova luce. Secondo Dolfi, la musicalità in questa lirica è totale, poiché avvolge il lettore stesso e lo scuote con il suo ritmo[51]. Questa è una danza di unione, che permette di unire individui diversi come Matacotta e il partigiano Montegallo sotto un’unica bandiera, quella della libertà. Il ritmo rabbioso, rosso della fisarmonica esprime anche le necessità della lotta per raggiungere l’azzurro e il bianco della bontà e della serenità. Già nella Lepre bianca egli consegna al lettore una scala cromatica delle proprie emozioni:

Tutto era mobilità, metamorfosi. Il mare, spruzzo azzurro, la

Terra, polvere nera. Il cielo nebbia blu. Perfino i miei pensieri e i

Miei sentimenti erano aliti colorati. Bontà, bianco. Amore, giallo.

Pazienza, marrone. Odio rosso[52].

Secondo Dolfi, «Fisarmonica rossa è, dunque, una raccolta di liriche, ispirate dalle note dello strumento popolare marchigiano, il quale si rivolge a tutta l’umanità, perché rappresenta il distacco di una condizione sociale inattiva»[53]. A tal proposito, Matacotta ha rivelato:

Ero un uomo, un uomo che andava in cerca di difesa contro quei giovani pieni d’odio, e il peso sulle spalle era come il peso di tutta la mia vita di ragazzo, gli stessi stracci, le stesse cose lacerate, gli stessi errori, gli stessi supplizi, la lunga assenza dal terreno quotidiano del vivere, il mio lungo torpore. E rivedendo la mia vita con Bella, tutta la pigrizia, non solo dei gesti, ma anche dell’intelligenza, come un prezzo che io non fascista, ma preso nel gioco del fascismo, avevo pagato al fascismo per non entrare nel suo gioco. Ma era esso stesso un fascismo, perché ero stato assente, e con la mia assenza avevo consentito io pure al fascismo di avanzare e crescere, standomene seduto nel mio olimpo di dolcezza[54].

Dunque, è come se Matacotta volesse sopperire per mezzo della letteratura alla mancata partecipazione attiva alla lotta antifascista: la guerra aveva sancito per gli uomini di cultura, come osservato da Dolfi[55] e Valentini[56], anche uno stallo intellettuale. Il Neorealismo, che stava sorgendo in quegli anni, traeva nutrimento dalla consapevolezza del fallimento della vecchia classe dirigente e del ruolo che, per la prima volta nella storia, si erano conquistate sulla scena della società civile le masse popolari.

Fisarmonica rossa è una densa silloge di poesia ove il dolore è tangibile e sovrasta ogni altra sensazione. L’opera presenta un linguaggio duro, tagliente, aspro e senza possibilità di redenzione. Le immagini, icastiche e pregne di una desolazione morale vergognosa,

si trasmettono al lettore come vere e proprie pugnalate capaci di inasprire il tormento di chi, imbevuto di lotte civili e amico dell’intera umanità, sente ancora oggi sulla sua pelle – sebbene non abbia vissuto direttamente le vicende ‒ l’ingiuria subita da un popolo che significò lo svilimento della coscienza, la mortificazione delle carni, l’autodistruzione del genere umano»[57].

Un esempio emblematico di questa poesia è il componimento Ottobre 1942 in cui Matacotta mostra la prevaricante stanchezza e la derelizione dinanzi a una condizione snervante e dolorosa che si protrae con la guerra: «Ce ne stiamo rigidi e murati / Con le cataratte sugli occhi. / Il vento s’è messo a urlare, / E buio, tenebra sul mondo»[58]. Come sottolinea Spurio, in questi versi sono l’asfissia del colore, l’annullamento della vita, il buio a dominare; l’uomo è descritto nel suo stato di spersonalizzazione, come se fosse una cosa e avesse perso la propria identità[59]. Con una sineddoche fisiologica Matacotta rileva che nessun organo gli si muove più: il cuore, impietrito e affranto, sembra aver perso battito e vitalità, e i polmoni si sono induriti[60]. Il corpo dal cuore impietrito è, ormai, non più umano, poiché imbruttito dalla barbarie della guerra.

Nel poeta fermano vi è una predilezione per un linguaggio prettamente materico e fisico, con ampia frequenza di materiali, tanto naturali che dell’edilizia:

si tratta di materiali che si caratterizzano per essere freddi, inermi, pesanti, fastidiosi al contatto con l’uomo di carne ed ossa: il Nostro parla di “polvere e piombo nel cervello” ad intendere forse, nella polvere la vacuità del senso della ragione, la perdita irrecuperabile della coscienza e nel piombo l’esposizione alle mitraglie e alle armi del conflitto[61].

Nonostante la costante condizione di sofferenza, l’uomo non vi si abitua, perché per sua natura fugge le barbarie e la violenza: a questo punto la lirica diviene occasione di riflessione. I temi della Fisarmonica sono ormai chiari nella mente del poeta, che coltiva instancabilmente le sue nuove passioni ideologiche:

Di nuovo scrivevo versi. Con parole nuove, forti. Li scrivevo durante le mie galoppate in bicicletta di giorno e di notte, nei momenti più impensati. Le immagini mi nascevano nelle volate a capofitto per le discese delle colline o girando pei campi o seduto sulle logge delle case coloniche col bicchiere del vino cotto in mano aspettando i PW. Annotavo i versi in fretta sul taccuino e lo nascondevo sotto la tuta. Incrociando i camion tedeschi la sola preoccupazione era di salvare quel fascio di foglietti segnati a lapis dove era la mia vita e la mia disperazione d’allora, e anche la disperazione della gioventù italiana, il sangue la fede l’amore di quanti combattevano per sopravvivere […][62].

Il poeta fermano, come accennato, cerca di sostituire il mancato apporto attivo tra le fila della Resistenza con l’epicità della narrazione poetica. L’accettazione passiva del Fascismo era stata soppiantata dalla fede nella poesia, la quale rappresentava l’unico appiglio alla vita per l’uomo, soverchiato dalle dolorose prove belliche[63]. La negatività della guerra e l’inutile certezza del dolore, temi profondamente neorealisti, sono i motivi ispiratori di Fisarmonica rossa. La parola poetica di Matacotta è sempre tesa fra rassegnazione e rivolta, in un climax espressionistico che molto richiama le pellicole di Fritz Lang[64]. Nella sua poetica, come sottolineato da Dolfi, è presente anche un chiaro richiamo ai quadri di Kirckner, Grosz e Munch; l’urlo stesso, come suggerisce Valentini, è l’emblema poetico di Matacotta[65]:

L’urlo, nell’espressionismo tedesco, rappresenta il passaggio dalla luce impalpabile dell’impressionismo al chiarore cristallizzato e geometrico dell’avanguardia, “ogni macchia di colore, ogni membro del verso è un urlo, una sferzata, uno scoppio; la realtà intera sembra presa da un folle dinamismo spasmodico”[66].

Per Matacotta, invece, il grido/urlo è «il gesto, la qualità della musica. Così rotta, strangolata dal fragore. Questo fragore di cembalo e di sputi… qualcosa di torbido, nel fondo sotto lo spessore delle immagini, verde e trasparente»[67]. La guerra ha costretto l’uomo al silenzio, che però è un fragore soffocato di cembali e sputi, e come tale rappresenta una metamorfosi paradossale dell’urlo. Quello di Matacotta non è un urlo esteriore, ma interiore, uno di quelli che logora dentro, proprio come i segni della guerra hanno logorato il poeta: «Nel silenzio si preannunzia o si manifesta una visione tragica il cui correlativo è l’urlo, sia pure interno, dell’anima»[68]. L’uomo tace e soffre nel dolore ma, ma proprio come nell’opera di Toller, «il silenzio vibra nello spazio ed esplode nel grido»[69]. Matacotta si appropria di tutti i postulati fondamentali dell’espressionismo e propone una parola poetica battuta dal terrore del fascismo, mortificata e avvilita, ma sempre pronta alla sfida e al duello:

E qua chi cerco? Dove sono i campi

perduti nei crepuscoli viola?

Nel fragoroso turbine dei lampi

Ritrovo la mia casa vuota e sola

Siamo accecati d’odio e di dolore

Mordiamo a sangue l’aria dura e avara

Ma per salvarti abbiamo ancora il cuore,

o Italia, cagna nera, patria cara![70]

La poesia muore nei campi di battaglia, ma risorge nella parola degli uomini, che si portano dietro la memoria dell’accaduto:

Io so dove sono le mie mani

I miei piedi e la mia bocca.

Essi affermano battono mordono

Il sapore nudo della terra.

E con questo gusto di morte

Di polvere di radici e di gelo.

Ricomporrò la mia sorte

Per abbattere con un grido il cielo[71].

Un grido decreta la vittoria della poesia, poiché il grido è strazio e vita allo stesso tempo[72]. Il poeta fermano è costantemente teso fra l’innocenza personale e il delitto, tra il desiderio di parlare lasciando testimonianza e l’impossibilità del silenzio, «tra il fascino dell’eroe e il fallimento del santo»[73]. Lo sguardo poetico matacottiano è perduto nelle tenebre della coscienza e la sua ambivalenza intrinseca dell’essere poetico non si risolverà mai. Per Matacotta, come suggerisce Dolfi, si può parlare di “poesia equivoca”, intendendo con “equivocità” la tensione tra l’urlo della disperazione individuale e l’ideologia, la quale esprime l’esigenza di società, di comunione collettiva[74].

La matrice autobiografica in Matacotta fu sempre molto forte, ma egli subì anche varie influenze letterarie. Il critico letterario sangiorgese Alfredo Luzi[75] ritiene che anche l’educazione letteraria e poetica che ricevette durante gli anni del liceo ebbe un grande peso nella sua formazione[76]. Il poeta fermano, nella Confessione di un figlio della vecchia Europa, dichiara di aver avuto «un’educazione letteraria squinternata in tutti i sensi. A nove anni il Capitale di Marx… per gli esercizi di analisi logica… Più tardi ebbi in mano Hugo e Tolstoi. Al Liceo comprai lo Zarathstra di Nietzsche. Più tardi fu Emerson a innamorarmi… poi Whitman, col suo canto terrestre»[77]. La conoscenza della grande poesia francese gli giunse, invece, attraverso Acruto Vitali[78], grande lettore di Rimbaud, Baudelaire e Valery[79].

La formazione vera e propria per il poeta fermano, come già detto, arrivò solo con l’Aleramo e con lo studio della poesia amorosa di d’Annunzio, Omar, Kajam, Sand, Barret, Colette, Lawrence[80]. Lo studio di Leopardi, invece, fu una costante che accompagnò il poeta per tutta la vita, come sottolineato da Valentini[81]. Durante il periodo trascorso a Capri assieme a Sibilla, egli rilesse Leopardi e tradusse Lucrezio[82]. Inoltre, scoprì Rilke, Heine e Holderlin[83]. Da questi poeti trasse «quel senso di nostalgia della bellezza radicata profondamente in un presagio cosmico di distruzione»[84].

La poesia di Matacotta, come osservato da Valentini, Luzi e Manacorda, avendo tale sostrato di base, è di estrazione colta. I Poemetti[85], pubblicati a Roma nel 1941, sono intrisi di suggestioni dannunziane, leopardiane, ungarettiane, mallarmeane e campaniane[86]. Inoltre, in tale raccolta la poesia è concepita secondo il costume latino, cioè come mezzo privilegiato di conoscenza della realtà[87]. Nella raccolta il Poeta definisce più volte la parola: «Fossili dissepolti le parole» (p. 15); «questo peso / di aride parole» (p. 32); «Dimore del silenzio, marmi, antiche / vi chiedo parole» (p. 33); «O desolato atteggiamento della parola» (p. 59); «Parole, o voi, perenni arcobaleni / fra il mio silenzio e il cielo» (p. 63)[88]. La parola è, sì, salvifica, ma è anche una parola ungarettiana, martoriata. Di fondo appare una tensione costante verso la parola pura, ma come ogni tensione nel suo percorso s’imbatte in «una serie di scacchi e di sfiducie»[89]. In Matacotta la parola nel suo apax è ponte tra il silenzio e il cielo, tra il dolore e l’urlo: ciò molto richiama la concezione valeryana dell’esperienza del vivere[90]. La parola viene posta fuori della temporalità: dovrà essere fossile e moderna allo stesso tempo. Ma dovrà essere posta anche al di fuori del concetto spaziale[91]. La parola secondo Matacotta[92], proprio come nella concezione simbolista moderna, deve essere essa stessa legislatrice e generatrice di mondi. Ci sovviene in aiuto un autogiudizio del poeta:

Avuta l’intuizione lirica fulminea io non la resi se non attraverso una quantità di approssimazioni melodiche. La stessa umanità io la sentii in fusione con le pietre con le piante con le nubi con le stelle. Situazioni atmosfera, parole che io resi ma come una nebbia, talvolta come una fiamma, che lascia sempre poi storditi e insieme inappagati. Io mi rivolsi a un mondo arcano, dando di esso accenti dispersi, sparsi, incerti[93].

Parte di questo brano si ritrova nel Diario dell’Aleramo:

Franco ha l’intuizione lirica fulminea, ma poi non la rende se non attraverso una quantità di approssimazioni melodiche. E dato che il mondo delle sue intuizioni è, come dicevo, più cosmico che umano, e la stessa umanità è da lui sentita in fusione con le pietre con le piante con le nubi con le stelle, quella mancanza di ossatura è doppiamente dannosa ai fini dell’espressione[94].

L’Aleramo considera, dunque, come un difetto l’impianto di base dei Poemetti[95]. Rovesciando la prospettiva di Sibilla, si può affermare che le poesie che vanno a comporre l’opera non sono concepibili singolarmente e non hanno vita autonoma, ma partecipano a un sistema simbolico complesso e articolato, nato dalle febbrili esaltazioni giovanili del poeta[96].

A quali simboli fa riferimento il Poeta fermano? L’introduzione ai Poemetti è costantemente costellata da Alberi celesti:

In quelle strane e luminose fronde

dimorano i celesti. Non i vani

esilii dei beati, ma le eterne

idee, le memorie, e le beate

apparenze solenni. E solitarie,

ravvisano la terra. Ah, nello specchio

di questa stella smemorata dormono

le native sorelle, e le pietose

gridano, apparendo dai notturni

orti del cielo, e le fan deste, e insieme

un amoroso vento le alimenta

che confonde la terra ai firmamenti[97].

Compito del poeta è quello di esaltare e riportare alla memoria collettiva delle immagini primordiali del mondo delle idee. I simboli non sono arbitrarie decifrazioni, come nella stagione simbolista, ma concrezioni di materia ctonia e cosmica[98]. Questo è un elemento di novità assoluta sfuggito completamente alla critica sino alla fine degli anni Cinquanta[99]. Il declinare l’immagine in modo archetipico rappresenta una via del tutto nuova, pregna di un pragmatismo del tutto assente nella poesia italiana di quegli anni. È pur vero che i Poemetti contengono evidenti imperfezioni, sbandamenti ed equivoci del testo, ma sono proprio questi elementi a superare la rigidità schematica dell’impianto dei Poemetti[100] stessi.

Fra le immagini più ricorrenti nella poetica di Matacotta, vi è in primis la notte, presente in tutta la sua produzione, dai Poemetti a Fisarmonica rossa, sino alle raccolte tarde ove spesso diviene oscurità. La notte è sempre percepita come fuori e dentro di noi allo stesso tempo, presenza inquietante e ambigua. Essa è sempre legata al sogno e alle immagini più torbide: «Tu che affini ai terrori i denti neri / tu che alimenti i mali pensieri, / Furia notturna, placati»[101]. E ancora: «O sera, / poi che di gelo se circonda l’ombra / e di fiochi lamenti addorme il giorno, / steso nel soffio del notturno vento / a me scendeva il sogno …»[102]. Continua: «la notte agitatrice di larve e di paure»[103]. È quindi tempo mistico, sede di sogni e avvenimenti misteriosi. La notte matacottiana racchiude in sé molto del credo e del folklore tipico del sud delle Marche, legato ai canti notturni delle streghe, ai pastori e alle leggende sibilline[104]. È sempre concepita come un momento magico in cui confluiscono realtà, fantasie e paure. Nei Poemetti e in Fisarmonica rossa è presente una complessa e difficile ermeneutica dei sogni, per cui spesso le immagini hanno una doppia valenza: essi si presentano sempre sotto il segno dell’ambiguità[105]. La doppia valenza della notte è immediatamente percepibile, da una parte come buio carico di terrore e mistero, dall’altra come rischiarata da una candida luce lunare[106].

Mi duole averti nel tuo fosco bacio,

Notte, che fiore delle mie labbra imbruni

E me d’artiglio pugni qui sul casto

Ciglio dell’ombra ove la nube spira…

Ma dal paese

di questa voce naufraga nel nulla,

mi salvi, luna, che i celesti campi

tacendo trascorri impallidita,

tu priva di pietà, arido giglio,

che l’acre vento delle notti sfiora[107].

La luna con la sua luminosità e la sua purezza inscalfibile può essere un punto di riferimento, nel baratro del nulla cosmico costituito dal buio notturno in cui è spinto l’uomo. Tale visione lunare dona a Matacotta un alone leopardiano più volte sottolineato da Valentini e Verdino[108]:

Un caldo

Colorar delle rose sulle guance

A me invidiate dalla luna[109].

A differenza dal Poeta recanatese, però, il difficile e complesso dialogo tra l’uomo e la luna è causato non dalla dura Natura, ma da una condizione umana di perenne esilio terrestre:

me nell’esilio della terra,

cigno

di funesti lamenti[110].

Continua il poeta: «È dolce anche l’esilio sulla terra»[111]. E ancora:

Isole della terra… e mai giunga dolente a quelle rive e trovi

L’esilio tra gli uccelli tenebrosi[112].

Il tema dell’esilio terrestre è ben consolidato nella storia della letteratura italiana e straniera, e spazia da Baudelaire a Quasimodo. Proprio in quel periodo Matacotta si stava imbevendo di tutta la grande poesia francese da Baudelaire a Valéry, passando per Rimbaud: «La condizione d’esilio farà sì che nel testo vengano invocati i difficili punti di reintegrazione in una patria o pace cosmica ed esaltante pertanto le diverse immagini che partecipano alla dimensione dell’agognata purezza, anche se spesso tali immagini sono misurate dallo scacco umano per il loro utopico raggiungimento»[113].

La produzione poetica di Matacotta di quel periodo deve molto anche a Ungaretti: in lui le isole ungarettiane sorgenti di idillio acquisiranno una valenza mitica e mitologica, costituiranno punti d’approdo cosmici e celesti: «rosse isole»; «E voi cinte di rosee ire di venti, / isole della terra»; «Ardono i regni delle pie Comete, / l’isole prime delle stelle»[114]. Il bisogno di purezza, la continua ricerca del cosmico e del celeste; la sua ansia, il suo vivere la vita notturna che lo portavano a ricercare la pace e la tranquillità; dal 1945 in poi, anche i traumi lasciati dalla guerra: tutto questo mondo nei Poemetti si coagula in due immagini aeree costanti e onnipresenti, le nubi e gli uccelli. Le nubi sono presenti come costante termine di discorso[115]. Molto più complessa e articolata è la presenza degli uccelli: spesso si tratta di colombe, emblema di libertà, cristallizzate nei loro voli e movimenti. Gli uccelli, come ha osservato Verdino e in seguito Luzi[116], sono anche testimoni del dolore, che a volte si collega alla preghiera: «Un lamento d’uccelli chiusi in urne»[117]; «le colombe intonano il lamento»[118].

Matacotta nel 1948 pubblicò Naialuna[119], agile volumetto che raccoglieva i versi composti tra il 1941 e il 1942. Il giovane artigliere, ancora non consapevole ideologicamente, iniziò però a rendersi conto della potenza e dell’incisività della parola poetica. Come riporta Valentini, i versi di quest’opera testimoniano anzitutto un primo modo di resistere, non ancora con la maturità di Fisarmonica rossa, ma con la speranza di una resistenza individuale e doverosamente individualistica[120]: «Il poeta e la sua luna sopravvivono nel soldato e nella sua naia: ma sopravvivono al prezzo di un incipiente lacerazione»[121]. Il poeta vive un continuo scontro, quello tra il Paradiso della memoria[122] e l’inferno della guerra vissuto in Sardegna. I due temi leopardiani della giovinezza e del morto giovane[123], che a loro volta richiamano motivi legati a Catullo e a Foscolo[124], in Matacotta rivivono e si innestano nel motivo della tragedia della guerra e dell’inutile spreco di sangue giovane.

Tutta l’esperienza poetica di Matacotta fu incentrata sulla compresenza della dicotomia vita-morte, all’interno della contingenza di bene e male. In Naialuna il poeta non aveva ancora raggiunto un’autenticità autorevole, e le fonti vi emergono in filigrana: si va dal d’Annunzio panico a Pascoli, Gozzano, Montale, Garcia Lorca e Leopardi, passando per la concezione della memoria come luogo di conoscenza petrarchesca[125].

In Matacotta il tanto amato orfismo romantico ritornò con Ubbidiamo alla terra, raccolta pubblicata nel 1949[126] in cui rivive appieno tutto il suo amore per il romanticismo e per l’orfismo, da Novalis a Campana, da Fichte a Nietzsche, ma naturalmente risuonano rombanti anche Pascoli e Leopardi[127]. Però questa è soprattutto una poesia dei dilemmi e degli interrogativi sul senso della vita umana[128].

L’impegno politico in Matacotta iniziò a farsi sempre più presente a partire dagli inizi degli anni Cinquanta e ciò influenzò anche le sue scelte letterarie. Nel 1953 egli riunì nel Canzoniere di libertà tutte le sue opere di carattere politico e civile[129]. Inoltre, tornò allo pseudonimo di Francesco Monterosso, utilizzato per le sue prime comparsate in giornali e riviste. Cercò un macchinoso ritorno laboratoriale alle teorie del realismo socialista che in realtà si rivelò becero populismo. «Se le liriche di Fisarmonica rossa si salvavano proprio per la loro violenta soggettività, per quel loro riferirsi ad un nodo unico di emozioni e sensazioni che è l’individuo del poeta, le poesie del Canzoniere risultano velleitarie proprio nel volere aprirsi verso una simbolizzazione corale e collettiva della storia di un intero popolo»[130]. Da quel momento in poi, la voce del poeta iniziò a perdere di autenticità, senza più ritrovare quella solenne franchezza tanto lodata dai critici. Successivamente avrebbe ripiegato sulla narrazione dell’ambiente famigliare, ma quella nuova strada non fu apprezzata dalla critica, che in poco tempo lo fece sparire nell’anonimato.

Matacotta e il rapporto con gli intellettuali del Fermano

Matacotta ebbe sempre strettissimi rapporti con l’ambiente intellettuale fermano, sin dai tempi dell’Aleramo. Come già accennato, fu molto amico del poeta e pittore sangiorgese Acruto Vitali[131] che, assieme a Osvaldo Licini[132] e al grottese Ermenegildo Catalini[133], creò il circolo degli intellettuali antifascisti fermani. Entrarono a far parte del circolo anche Gino Nibbi[134], Elio Quintili[135] e lo stesso Matacotta[136]. A questi poi si aggiunsero anche quelli della generazione successiva: Alvaro Valentini, Luigi Dania, Luigi Crocenzi, Giuseppe Brunamontini, Giuseppe Morichetti, Gino Mecozzi, Giuliano Montanini, Giancarlo Silvetti e Luigi Di Ruscio[137].

Presso la Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo è conservato l’Archivio Valentini, al cui interno è presente della documentazione inedita significativa anche per spiegare il rapporto di amicizia che Valentini stesso ebbe con Matacotta e per testimoniare che i giudizi sulle opere dei membri del gruppo circolavano spesso in epistole. A tal proposito è interessante il giudizio espresso da Valentini in una lettera a Vitali su La peste di Milano di Matacotta, datata 5 aprile 1975[138]:

Caro Acruto,

ti scrivo per avere uno dei tuoi fini giudizi su un mio articoletto (di poco conto, sai!), in particolare vorrei un tuo parere sul suo incipit che non poco mi turba, ecco qui: “L’introduzione di Fortini a La peste di Milano si apre con parole di rammarico per la sorte di Matacotta il quale ha conosciuto la notorietà da giovane e la dimenticanza del mondo in età matura. Rammarico opportuno per un discorso critico che viene, subito dopo, tracciato; e che potrebbe valere in sede polemica come un allarme affettuoso o una nota moralistica…” Dimmi, caro Acruto, forse troppo frettoloso gettarsi sul giudizio di Fortini? Meglio iniziare parlando di Fisarmonica rossa? Dammi un tuo giudizio.

Un caro saluto, Alvaro[139].

Interessanti sono anche le lettere con cui Licini stroncò nel 1942 i Poemetti. Infatti Matacotta, su suggerimento dell’Aleramo, nel 1942 inviò una copia dei Poemetti alla redazione della rivista «Valori Primordiali», il cui direttore, Franco Ciliberti, girò la richiesta a Licini, che era membro della redazione e conterraneo di Matacotta; Licini, però, con tre lettere bollò l’opera e non la recensì, definendola ricolma di leopardismo e «scolpita di un rettorico bolso»[140]. Probabilmente Matacotta non venne mai a sapere di tale giudizio, poiché Licini concluse la terza lettera con la raccomandazione a Ciliberti: «resti tra noi»[141].

Per continuare sulla linea del Matacotta inedito, sono significativi anche molti suoi giudizi presenti in Confessioni di un figlio della vecchia Europa[142], dattiloscritto esaminato da molti critici, che vi hanno percepito un tono di forte autocritica:

Dicevo, dolci piedi nudi, dolce legno del volto, dolce profondità di sguardi. A tal punto l’oppio della poesia addormenta. A tal punto i poeti sono ciechi raggomitolati in sé stessi come gatti. Deformano la verità del mondo drogandola con la musica. E la guerra divampa in Europa. Cessai di scrivere. Mi ribolliva dentro come un nuovo grumo di voci, detestavo adesso la grassa seriosa musicalità dei miei versi di prima, sentivo nuovi scatti. Tutto dentro di me prendeva il colore della collera, il ritmo rugginoso e sordo della ribellione[143].

Un Matacotta edito, ma sconosciuto ai più, è quello che troviamo in un acceso dibattito all’interno della storica rivista dell’Istituto Tecnico Industriale di Fermo, «Il Montani»[144]. Lo scambio di battute che si sviluppa a suon di articoli è con Giovanni Botturi, vicepreside dell’Istituto, e l’argomento è la didattica della lingua e della scrittura. In quegli anni gli articoli della rivista erano firmati dagli intellettuali di spicco del Fermano, da Luigi Dania a Raul Lunardi, passando per Alvaro Valentini, Francesco Maranesi e Marcello Seta.

Matacotta era un giovane insegnante di lettere di quell’Istituto. Botturi aveva una concezione della didattica ancorata agli stilemi primonovecenteschi, mentre Matacotta era per lo scrivere naturalmente, fuori da artifizi. Tra i due nei corridoi della scuola e nelle riunioni era intercorso qualche acceso confronto[145]. Tutte queste frizzanti diatribe vennero fissate su carta da Matacotta nella Lettera aperta al Prof. Botturi pubblicata nel numero 9 del 1949 del «Montani»: in essa si affrontano le questioni fondamentali dell’insegnamento della lingua italiana, dal concetto di forma estetica della scrittura al suo ruolo e valore sociale.

Per Matacotta la preoccupazione non risiede nelle aberrazioni ortografiche, ma nel fatto che gli studenti non abbiano la minima idea di come si componga un testo[146]. Essi non hanno la più pallida idea di come concepirlo, argomentarlo; hanno solo l’assurda convinzione che il tema sia semplicemente un incolonnamento di parole e la paura di non riuscire a riempire il foglio nella sua interezza: «Questo essi [gli studenti] credono che sia fare il tema: a forza di spasmi espulsivi rovesciare sopra il foglio bianco un ammasso informe di parole, come un feto… ne segue un’immagine pietosa e malinconicissima con l’impressione che stiano succedendo avvenimenti tenebrosi, ciascun alunno lotta con idre spaventose, ha gli occhi stralunati, e il cervello è inabissato in oscuri fondali marini, senza speranza di salvezza»[147]. Gli alunni pensano di dover trovare idee generiche, convenzionali, e cercano di impacchettarle con belle parole. Dei propri pensieri e ragionamenti non tengono conto e preferiscono copiare dal compagno piuttosto che metterci del proprio.

Secondo Matacotta, a questi alunni non è stato insegnato che le due ore di tema dovrebbero servire alla ricerca della verità per mezzo della scrittura. Il poeta fermano auspica che gli allievi si umanizzino e che non siano dei semplici tecnici. A Matacotta poco importa della forma, almeno a un primo livello; considera infatti il dialetto una forma più profonda di humanitas, la vera forma d’espressione dell’uomo, il suo ethos e il suo epos. Qui scopriamo un Matacotta nuovo, che ama i propri alunni e desidera che essi tirino fuori i loro veri sentimenti attraverso la scrittura; un Matacotta pedagogo, che si comporta un po’ come con lui aveva fatto l’Aleramo.

Secondo il poeta, i libri tecnici possono prosciugare l’uomo, allontanarlo dal suo vero nucleo vitale. Il ritorno all’humanitas dell’individuo è un dovere civile post bellico, e l’humanitas può essere ritrovata e ricercata solo nella libertà[148]. Ogni regime, come in Italia il fascismo, «svuota l’individuo della sua unicità di pensiero»[149]. Per esprimerla servono la parola e la poesia, che debbono essere scevre degli artifizi tecnici tanto apprezzati da Botturi. Quella di Matacotta è una posizione tutta protesa verso l’autenticità assoluta e la pregnanza del tema. In questo senso, come già detto in precedenza, egli fu così sincero con sé stesso da autocriticarsi, quando, rileggendosi, non sentì la propria scrittura autentica[150]. Questo per Matacotta era quasi da considerarsi un testamento intellettuale ai suoi alunni: il testamento di un grande poeta che non fu mai realmente apprezzato dalla critica in età matura e sul quale resta ancora molto da dire.

  1. Per questa prima parte della biografia si veda: A. Mastropasqua, Matacotta, Franco, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 72, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2008; G. Martinelli, Dizionario biografico di personaggi del Fermano, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, pp. 220-21; Matacotta Franco, in siusa.archivi.beniculturali.it, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche (cfr. l’URL: https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=61745&RicSez=produttori&RicFrmRicSemplice=matacotta&RicVM=ricercasemplice; ultima consultazione: 31 gennaio 2024); L. Martellini, Franco Matacotta, Firenze, La nuova Italia, 1981, pp. 5-12.
  2. S. Aleramo, Dal mio diario. 1940-44, Roma, Tumminelli, 1945, p. 22.
  3. Per il rapporto che ebbe con l’Aleramo si veda: G. Armandi, Franco Matacotta: il poeta e l’uomo, in Omaggio a Matacotta, a cura di Luigi Martellini, Fermo, Tipolitografica Fermana, 1982, p. 27; D. Pupilli, Carte fermane: Figure e aspetti della cultura fermana contemporanea, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, pp. 173-75; S. Aleramo, Diario di una donna: inediti 1945-1960, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 476; G. Mecozzi, Conoscere il poeta, inserto dedicato a Franco Matacotta, in «Garofano Rosso», anno III, n. 3, 17/11/1977.
  4. D. Campana, Taccuino, a cura di Franco Matacotta, Fermo, Edizioni Amici della Poesia, 1949.
  5. D. Pupilli, Carte fermane: Figure e aspetti della cultura fermana contemporanea, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, p. 173.
  6. S. Aleramo, Diario di una donna: inediti 1945-1960, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 27.
  7. S. Aleramo, Dal mio diario 1940-1944, op. cit., p. 320.
  8. S. Aleramo, Diario di una donna: inediti 1945-1960, op. cit., p. 236.
  9. S. Aleramo, Una donna, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2003, p. 110.
  10. F. Matacotta, Poemetti (1936-1940), Roma, Edizioni di Prospettive, 1941.
  11. Sui suoi primi poemetti si veda G. Manacorda, I due modi della parola di Matacotta, in Omaggio a Matacotta, a cura di Luigi Martellini, Fermo, Tipolitografica Fermana, 1982, p. 11.
  12. Per tutto ciò che riguarda Matacotta durante la guerra e nel periodo postbellico sino agli inizi degli anni Cinquanta, si veda C. Verducci, Franco Matacotta testimone del suo tempo, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, Fermo, Andrea Livi editore, 2018, pp. 7-15.
  13. F. Matacotta, Fisarmonica rossa, Roma-Milano, Darsena, 1945. Questa fu una delle prime opere pubblicate in Italia che andò a raccontare e mitizzare l’epopea della Resistenza.
  14. Per il giudizio su Fisarmonica rossa ci si rifà a quelli recentissimi di Luzi e Pupilli, mentre Valentini in un primo momento non accolse l’opera entusiasticamente. Parlando dell’evoluzione poetica di Matacotta, esprime un giudizio molto favorevole sull’opera anche Manacorda in Introduzione a F. Matacotta, La lepre bianca, Ancona, Il lavoro editoriale, 1999, p. 5.
  15. C. Verducci, Franco Matacotta testimone del suo tempo, op. cit., p. 7; F. Cavatassi, Comunisti nel dopoguerra. Memorie e biografie dei militanti del Piceno, in «I quaderni. Trimestrale dell’Istituto Gramsci Marche», n. 15/16, 1996, p. 70.
  16. Come anticipato, Alvaro Valentini inizialmente fu un po’ titubante, ma riconsiderò la raccolta negli anni successivi.
  17. F. De Nicola, Prefazione a F. Matacotta, Poemetti, Milano, Viennepierre, 1998, p. 10.
  18. A. Luzi, Introduzione a F. Matacotta, La lepre bianca, a cura di A. Luzi, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 24.
  19. F. Fortini, Introduzione a F. Matacotta, La peste di Milano e altri poemetti, Ancona, L’Astrogallo, 1975, p. 10.
  20. Tale giudizio è presente in due lettere inedite di Alvaro Valentini, una del febbraio del 1946 e una del luglio 1948, entrambe conservate presso l’Archivio del fondo Valentini della Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo, faldone n. 51.
  21. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta, in Franco Matacotta, Atti del convegno di studi di Bergamo 1987, a cura di G. Morelli, Bergamo, Cooperativa Studium Bergomense, 1987, p. 72.
  22. Ivi, p. 71.
  23. M. Petrucciani, Leopardi nelle poetiche e nei poeti dell’ultimo trentennio, in Leopardi e il Novecento. Atti del II convegno internazionale di Studi Leopardiani, Recanati 2-3 ottobre 1972, Firenze, Olschki, 1974, p. 174.
  24. Egli riporta tali osservazioni non solo negli Atti del convegno ma anche in M. Petrucciani, Segnali e archetipi della poesia: studi di letteratura contemporanea, Milano, Mursia, 1974, p. 32.
  25. M. Petrucciani, Leopardi nelle poetiche e nei poeti dell’ultimo trentennio cit., p. 174.
  26. G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, Firenze, F. Le Monnier, 1848.
  27. F. Matacotta, La lepre bianca, a cura di A. Luzi, op. cit., p. 176.
  28. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta, op. cit., p. 71.
  29. Ivi, pp. 72-73.
  30. A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani, op. cit.
  31. Ibidem.
  32. F. Matacotta, Ubbidiamo alla terra, Rieti-Roma, Edizioni del Girasole, 1949.
  33. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 75.
  34. F. Matacotta, Canzoniere di libertà, Roma, La nuova strada, 1953.
  35. F. Matacotta, I mesi, con prefazione di F. Flora, Milano, Schwarz, 1956.
  36. F. Matacotta, Versi copernicani, Firenze, Vallecchi, 1957.
  37. A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani cit.
  38. Il Regio istituto tecnico industriale di Fermo sorse nel 1854 come Opera pia grazie a un lascito testamentario del conte Gerolamo Montani. L’Opera pia immediatamente dopo l’Unità si trasformò in scuola di Arti e Mestieri per le Marche grazie all’interessamento del sindaco di Fermo Ignazio Trevisani e dell’architetto Giovanbattista Carducci. Nel 1863, per portare la scuola a livelli d’avanguardia in campo nazionale nell’ambito dell’istruzione tecnica, fu chiamato a dirigerla l’ingegnere Ippolito Langlois, proveniente dal Conservatoire national des arts et métiers di Parigi e allievo di Arthur Morin. Egli trapiantò a Fermo i metodi delle “Écoles d’Arts et Métiers” francesi e nel 1884 trasformò la scuola in Regio istituto industriale. Tra i docenti illustri dell’istituto si ricordano il fisico Giovanni Giorgi a cui si deve un progetto di nuove Officine, in realtà mai realizzate, e il matematico Ciamberlini. Si veda: ITI Montani, Fermo – 150: Scuola tecnica & società moderna, catalogo a cura di Guglielmina Rogante; testi di Bruno Belhoste et al.; contributi alla sezione strumenti di Luigi Angelici et al.; con la collaborazione di Giuseppe Calcinaro, Fermo, Comune di Fermo, 2004.
  39. A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani cit.; C. Verducci, Franco Matacotta, op. cit., p. 14.
  40. Sul rapporto con l’insegnamento al Montani e gli altri intellettuali presenti nella scuola si veda: G. Rogante, Franco Matacotta al Montani: una discussione sull’insegnare la lingua italiana, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, Fermo, op. cit., pp. 39-49.
  41. Massimo fu ritrovato impiccato: non si è mai chiarito se fosse stato un suicidio o un gioco finito in tragedia.
  42. C. Verducci, Franco Matacotta, op. cit., p. 14; M. Temperini, Tra la perduta gente: il giovane Matacotta a Fermo, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, op. cit., pp. 17- 21. Tra la gente fermana che visse quell’epoca, il suicidio/incidente del figlio di Matacotta fu sempre visto come una mancanza della figura paterna, poco presente.
  43. F. Fortini, Introduzione a F. Matacotta, La peste di Milano e altri poemetti, Ancona, L’ Astrogallo, 1975, p. 10.
  44. A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani cit.; C. Verducci, Franco Matacotta cit., pp. 13-15.
  45. A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani cit.
  46. F. Fortini, Introduzione cit., p. 9.
  47. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione, in Franco Matacotta. Atti del convegno di studi, op. cit., p. 19.
  48. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica, in Franco Matacotta. Atti del convegno di studi, op. cit., pp. 51-70.
  49. Ivi, p. 51.
  50. F. Matacotta, Fisarmonica rossa, Urbino, 4 venti, 1980, pp. 47-48.
  51. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 51: cfr. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 78.
  52. F. Matacotta, La lepre bianca, op. cit., p. 101.
  53. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 52.
  54. Archivio di Emma Marini Matacotta: F. Matacotta, Confessione di un figlio della vecchia Europa, romanzo inedito, p. 454.
  55. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., pp. 52, 56.
  56. C. Verducci, Franco Matacotta cit., p. 18.
  57. L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossadi Franco Matacotta, in Blog di Letteratura e Cultura, 27/01/2016, https://blogletteratura.com/2016/01/27/il-partigiano-annientato-in-fisarmonica-rossa-di-franco-matacotta-a-cura-di-lorenzo-spurio/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  58. F. Matacotta, Fisarmonica rossa, op. cit., p. 41.
  59. L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossadi Franco Matacotta, art. cit.
  60. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 14.
  61. L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossadi Franco Matacotta, art. cit.
  62. Archivio di Emma Marini Matacotta: F. Matacotta, Confessione di un figlio della vecchia Europa, romanzo inedito, p. 471.
  63. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 54.
  64. Ibidem; cfr. anche A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 78.
  65. Ibidem.
  66. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 55; L. Mattner, L’espressionismo, Bari, Laterza, 1975, pp. 28-29.
  67. Archivio famiglia Matacotta: F. Matacotta, Passeggiata romana, inedito, pp. 5-6.
  68. L. Mattner, L’espressionismo, op. cit., p. 43.
  69. Ivi, p. 46.
  70. F. Matacotta, Fisarmonica rossa, op. cit., p. 16.
  71. Ivi, pp. 21-22.
  72. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 56.
  73. Ibidem; sul fallimento del santo si veda anche A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 79.
  74. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 57.
  75. In particolare: A. Luzi, Introduzione a F. Matacotta, La lepre bianca, op. cit. e A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., pp. 18-20.
  76. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 19.
  77. Archivio di Emma Marini Matacotta: F. Matacotta, Confessione di un figlio della vecchia Europa, romanzo inedito cit., p. 28.
  78. Cfr. R. Renzi, Acruto Vitali: dalla poesia alla pittura, in «Letteratura e Pensiero», n. 16, aprile-giugno 2023, pp. 231-36.
  79. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 20; S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta, in Franco Matacotta. Atti del convegno di studi, op. cit., pp. 37-50.
  80. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione, op. cit., p. 20.
  81. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 82.
  82. S. Aleramo, Dal mio diario 1940-1944, op. cit., p. 321.
  83. Ibidem.
  84. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 20.
  85. F. Matacotta, Poemetti, Roma, Edizioni di Prospettive, 1941. Raccoglie le liriche che vanno dal 1936 al 1940.
  86. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., pp. 20-21.
  87. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit.
  88. F. Matacotta, Poemetti, op. cit.
  89. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 37.
  90. Ibidem. Valéry esercitò una profonda suggestione al tempo dei Poemetti. Scrisse Matacotta nel romanzo inedito Le confessioni di un figlio della vecchia Europa: «Ero ormai incatenato in questa foresta di simboli nella quale Bella (l’Aleramo) aveva avuto l’astuzia di affidarmi la parte di protagonista. Ero come l’organizzatore di quella vasta officina di sensazioni fisiche, quasi avessi avuto dalla mia epoca il compito di raccogliere e registrare in un archivio tutte le emozioni spirituali e casuali di una generazione in sfacelo già prossima a perire. Cimitero marino, è questo il titolo più appropriato di quella nostra rappresentazione caprese? Leggevamo allora Valéry. Mi estasiavo dinanzi al Fragment du Narcisse. Bevevo quella luce grigiodorata dei versi di Charmes simile alla luce d’autunno delle epigrafi tombali. Il medesimo freddo luccicore dei pini il medesimo ronzio di api e vespe, mentre la Jeune Parque mi chiamava diritta sulle soglie del secolo ventesimo scaldando al sole il suo funebre sesso divoratore come un ultimo esemplare di umanità femminile gravida di 100 anni di esperienze e vittorie senza più segreti da offrire».
  91. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 23; cfr. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 37.
  92. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 22.
  93. Questo appunto si trova su un foglietto sciolto dell’Archivio di Emma Marini Matacotta.
  94. S. Aleramo, Un amore insolito, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 36.
  95. Ivi, pp. 36-38.
  96. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 38. Cfr. anche: «Io vissi come per un mirabile delirio in zone abitate dall’acqua dai raggi delle rupi e del fuoco, simile a un vagante uccello», tratto da un foglio sciolto dell’Archivio di Emma Marini Matacotta.
  97. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 3.
  98. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 25; cfr. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 39.
  99. Anche a un critico fine come Jacobbi, che ebbe sempre grande simpatia per Matacotta, sfuggì completamente tale elemento.
  100. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 24.
  101. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 16.
  102. Ivi, p. 39.
  103. Ivi, p. 31.
  104. Per le leggende dei monti sibillini e il folklore rurale a esse legato si rimanda agli studi di Diego Mecenero, esperto di francescanesimo e folklore nel sud delle Marche.
  105. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 40. Cfr. per Fisarmonica rossa L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossa di Franco Matacotta, op. cit.
  106. F. Matacotta, La lepre bianca, Roma, Nuove edizioni italiane, 1946, p. 12.
  107. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 19.
  108. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 40; cfr. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 82.
  109. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 38.
  110. Ivi, p. 19.
  111. Ivi, p. 50.
  112. Ivi, p. 59.
  113. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 41.
  114. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., pp. 51, 59, 63.
  115. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., pp. 41-42.
  116. Ivi, p. 42; cfr. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 24.
  117. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 43.
  118. Ivi, p. 63.
  119. F. Matacotta, Naialuna, Fermo, Amici della Poesia, 1948.
  120. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 83; cfr. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 27.
  121. A. Valentini, La poesia di Franco Matacotta, in «Piceno», II, 2 dicembre 1978, pp. 7-29.
  122. All’interno c’è un frammento tradotto del Paradiso perduto di Milton. Cfr. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 28.
  123. Richiamo del bambino Milis.
  124. A. Valentini, La poesia di Franco Matacotta, art. cit. Cfr. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 28.
  125. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 86; A. Valentini, La poesia di Franco Matacotta cit., p. 12; cfr. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 28.
  126. F. Matacotta, Ubbidiamo alla terra, Roma, Edizioni del Girasole, 1949.
  127. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., pp. 28-29. Come riportato da Luzi, il naturalismo misterico pascoliano è costantemente filtrato dall’accordo tra natura e cultura leopardiano.
  128. «Perché ti chiamo?»; «Per chi risplendi tu, fuoco del sole?»; «Per chi brilli, fiore?»; «Per chi sei fatto sole?»; «Per chi sospiri tu, vetro di voce? Questo mare di sangue, perché sole?»: F. Matacotta, Ubbidiamo cit., rispettivamente alle pp. 6; 9; 13; 35; 41; 45; 52.
  129. F. Matacotta, Canzoniere di libertà, Roma, La nuova strada, 1953.
  130. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 29
  131. R. Renzi, Acruto Vitali: dalla poesia alla pittura, art. cit.
  132. R. Renzi, Nota critica su Osvaldo Licini, in «Avanguardia rivista di letteratura contemporanea», n. 77, 2022.
  133. R. Renzi, Osvaldo Licini: la sua terra, la malinconia e la follia, in «Progetto Babele», 17/09/2023.
  134. A. Luzi, Gino Nibbi: Lettere dall’Australia. Uno scrittore marchigiano tra emigrazione e nomadismo, in Le Marche fuori dalle Marche: migrazioni interne ed emigrazioni all’estero tra 18° e 20° secolo. Atti del Convegno internazionale organizzato dall’Istituto di storia economica e sociologia dell’Università di Ancona: Fabriano 20 e 21, Fermo 21 e 22 marzo 1997, a cura di E. Sori, voll. 3, Ancona, Proposte e ricerche, 1998, pp. 940-54.
  135. O. Rossi, L’immaginario architettonico di Elio L. Quintili, L’Aquila, Angelus novus, 1993.
  136. Sul contesto culturale fermano di quegli anni si veda: D. Pupilli, Fermo è piccola, antica città, in Carte Fermane, Fermo, Andrea Livi editore, 1992, pp. 17-38.
  137. A. Luzi, Un cenacolo di politica e cultura in provincia, in «Quaderni Gramsci Marche», 22/23, 1997, pp. 49-66.
  138. Il giudizio presente fu poi in parte pubblicato in A. Valentini, Franco Matacotta: La peste di Milano e altri poemetti, in «Rapporti», n. 9, 1976, pp. 731-34.
  139. Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo, Fondo Valentini, Archivio Valentini, faldone 36.
  140. Le tre lettere sono nell’Archivio Ciliberti della Biblioteca di Como, lettere del 1°, 8 e 30 aprile 1942. Ringrazio i colleghi della Biblioteca di Como che mi hanno inoltrato le digitalizzazioni.
  141. Archivio Ciliberti della Biblioteca di Como, lettera del 30 aprile 1942.
  142. Archivio di Emma Marini Matacotta: F. Matacotta, Confessione di un figlio della vecchia Europa, romanzo inedito cit.
  143. Ivi, p. 24.
  144. La rivista nasce nel 1888 con il titolo «Eco degli antichi alunni», cambia diversi nomi nel corso della sua storia, nel 1940 si interrompe per mancanza di carta e nel 1949 ricomincia a essere stampata.
  145. G. Rogante, Franco Matacotta al Montani, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, a cura di C. Verducci, op. cit., p. 43.
  146. F. Matacotta, Lettera aperta al Prof. Botturi, in «Il Montani», n. 9, dicembre 1949. Gli studenti scrivono “l’ectio” al posto di “lectio” o “la rida” al posto dell’“arida”.
  147. F. Matacotta, Lettera aperta al Prof. Botturi cit.
  148. Ibidem.
  149. Ibidem.
  150. Archivio di Emma Marini Matacotta: F. Matacotta, Confessioni di un figlio della vecchia Europa, inedito cit., pp. 28-32.
  151. Istruttore direttivo presso la Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo.

(fasc. 51, 15 marzo 2024, vol. II)