Lo storicismo di Croce negli anni Trenta del Novecento

Author di Renata Viti Cavaliere

Croce assegnò al suo pensiero il titolo di storicismo, seguito dall’aggettivo “assoluto”, non prima degli anni Trenta del Novecento. Con il nuovo nome non esprimeva una denominazione di scuola né intese annunciare l’adesione a un movimento di idee preesistente. Nei riguardi dello storicismo il giovane Croce aveva avuto semmai accenti molto critici, mentre, nella maturità, il filosofo terrà in particolar modo a distinguersi dallo Historismus tedesco, pur apprezzando da sempre i grandi metodologi del pensiero storico in Germania.

Lo storicismo crociano è stato perciò uno storicismo sui generis, peculiarissimo, dal carattere fortemente etico-politico, laicamente “religioso”, in continuità con la filosofia dello spirito che aveva avuto nella dottrina delle categorie conoscitive e pratiche il suo fulcro essenziale; storicismo, con il quale Croce intese fornire infine una legittimazione ulteriore al problema del conoscere storico nella forma già teorizzata nella Logica del 1909. Non si stabilì pertanto uno iato tra le categorie eterne, i cosiddetti “distinti” della prima sistemazione della filosofia di Croce, e lo storicismo della maturità che parrebbe, secondo alcuni interpreti, tradire l’immobilità delle forme caratterizzante la forza di uno spirito perenne. Si può sostenere, invece, che nei successivi sviluppi della riflessione sul pensiero vivente rimane inalterato lo strumento di lavoro che Croce aveva individuato nel giudizio storico, per quel suo perpetuo legame con i problemi particolari che mutano al cambiare dei tempi. Prova ne fu il “quarto” volume della filosofia dello spirito che, come si è detto, chiudeva il sistema mentre apriva il pensiero filosofico alla singolarità di sempre nuove esperienze storiche. Il riferimento è alle pagine di Teoria e storia della storiografia, uscito prima in tedesco nel 1915 e poi nell’edizione italiana del ’17. Lo storicismo degli anni Trenta portava in sé il riferimento alla storicità delle umane cose e alla contemporaneità di ogni vera storiografia, culminando infine nel motto “nient’altro che storia”, per il quale, se tutto è storia, niente che la riguardi può dirsi in alcun modo veramente assoluto[1].

In una nota autobiografica, aggiunta all’edizione 1950 del Contributo, Croce ricorda di aver scritto quelle pagine, nel 1915, «quando cominciò a farsi chiaro che con la guerra europea si era entrati in una nuova epoca storica»[2]. La critica di sé stesso, che dello storico di professione rimarca il compito di un’analisi il più possibile spassionata, aveva avuto allora origine in stretto rapporto con la percezione di un profondo mutamento culturale e politico. Nella Nota autobiografica aggiunta nel ’34, riprendendo il racconto interrotto venti anni prima, Croce ricordava che la tempesta, annunciata in chiusura del Contributo, mentre intorno ruggiva la guerra, si era poi scatenata nel mondo senza che si intravedesse oramai barlume di speranza o via d’uscita[3].

Merita particolare attenzione la Nota del ’34, per più di un motivo. Croce si avvicinava ai settant’anni, e per questo traguardo esistenziale aveva vagheggiato di dedicare minor fatica agli studi per rivolgersi a trasmettere ai più giovani i “piccoli segreti del mestiere” – così li definiva ‒ tra i quali il legame che la filosofia, la storia e la letteratura debbono avere con la «disposizione morale e religiosa» dello spirito[4]. Del tutto alieno da una produzione di pura filosofia che non fu mai nelle sue corde, Croce aveva atteso in quegli anni a scritti di storia il cui concetto, nel volume Etica e politica del ’31, ebbe un significativo approfondimento nella formula da lui adottata di “storiografia etico-politica”, nata allo scopo di armonizzare le pretese di unilateralità della storia dello Stato con la storia della Cultura o della civiltà. Croce riferiva inoltre di aver fatto importanti avanzamenti teorici, sia nei Nuovi saggi di estetica sia in una raccolta di scritti alla quale avrebbe a breve dato il titolo Ultimi saggi (1935), quasi a segnare l’avvenuto approdo finale[5]. Le cose andarono assai diversamente anche perché, nei secondi anni Trenta, avrebbe visto tra l’altro la luce La storia come pensiero e come azione che è l’opera più significativa ai fini della riflessione sullo storicismo. Sul piano della teoria, scriveva Croce, la concezione della filosofia sub serviente alla storia, e dello spiritualismo assoluto che chiude il varco a ogni trascendenza, può deludere le anime belle che nella vita investono tutti i loro patemi e i loro sterili entusiasmi. Sennonché l’unica realtà dello spirito, mai negatrice del suo presunto contrario, lungi dal produrre una perdita si converte nella ricchezza della vita, proprio nell’atto di viverla come il finito-infinito che non ha alcuna misura fuori di sé[6]. Più d’una volta, nel Contributo, Croce fa riferimento al suo posizionamento nei riguardi delle vicende storiche in corso, diviso come venne spesso a trovarsi tra la necessità di “liquidare il passato” e il bisogno di rispondere alla novità sconfortante di tempi burrascosi.

Nella Nota aggiunta nel ’50 egli rievocava in maniera sofferta l’avvento del fascismo, una volta caduto il governo Giolitti nel quale aveva ricoperto il ruolo di Ministro della pubblica istruzione dal 1920 al ’21, quel fascismo che poco accortamente aveva considerato in un primo tempo un episodio “patriottico” del dopoguerra, e che invece si apprestava a togliere dalle mani dell’Italia quella libertà tanto faticosamente guadagnata[7]. Dopo la caduta del fascismo nel luglio del ’43 accettò di presiedere il ricostituito Partito Liberale Italiano, presidenza dalla quale si dimise nel ’47. Sempre ben ferma nel frattempo era stata da lui tenuta la convinzione filosofica per la quale il pensiero va esercitato in contatto con la realtà che muta. Le conclusioni a cui era giunto intorno alla storia e ai suoi rapporti con la filosofia, scrive a conclusione della nota del ’50: «mi suggerirono, e quasi mi imposero, il titolo di “storicismo”, al quale apposi, per indicarne il carattere, l’aggettivo di “assoluto”»[8].

Ci si chiede come di fatto maturò negli anni Trenta la nuova determinazione della filosofia dello spirito. Il nome diverso mandava definitivamente in soffitta qualificazioni da Croce sempre rifiutate, se riferite a lui ovviamente, come quelle di hegelismo, neohegelismo o teoria dei valori. L’idealismo che Croce aveva professato in ossequio alla tesi ch’esso attiene a ogni filosofia che voglia dirsi tale, com’ebbe a sostenere lo stesso Hegel, fu per lui innegabilmente la voce filosofica consona alla negazione del Positivismo e di ogni forma di trascendenza. Eppure, in una noterella del ’41, Croce finì per dichiarare l’idealismo, non più corrispondente al suo modo di sentire i problemi del pensiero storico, una denominazione filosofica da abbandonare, anche per il fatto che tante volte gli studiosi erano incorsi in palesi fraintendimenti[9]. La questione non è secondaria, se anche gli interpreti del pensiero di Croce hanno finito per imputargli talvolta un idealismo manchevole in virtù dello sbocco storicistico degli anni Trenta, e, altra volta, uno storicismo imperfetto a causa dell’idealismo assoluto da Hegel interamente recepito e mai davvero superato. Non fu comunque una finalità puramente nominale quella che indusse Croce a dirsi “storicista”, perché si trattò per molti versi di una presa d’atto della necessità di tornare sui propri passi, non però sul piano teorico, ma riguardo alla lettura non sempre accorta che egli stesso, come molti dei contemporanei pur così avveduti, aveva dato delle vicende italiane ed europee d’inizio secolo ventesimo. Al pensatore tocca allora, per la natura stessa del suo lavoro intellettuale, un supplemento di riflessione al mutare delle circostanze, come fa il nuotatore che adegua le bracciate al salire dell’onda.

La conferenza Antistoricismo, tenuta da Croce a Oxford in occasione del Congresso internazionale di filosofia nel settembre del 1930, conteneva per via negativa l’annuncio del nuovo storicismo[10]. Non stupisce che la stesura del testo gli sia risultata faticosa, come si legge nei Taccuini, per la difficoltà dichiarata dal filosofo a stilare discorsi destinati a convegni. E, tuttavia, quella “piccola relazione”, come la definisce Croce, tenuta da lui in francese, toccava in modo magistrale il punto dolente delle condizioni spirituali dell’Europa, suscitando reazioni diverse in Italia e fuori dell’Italia. La tonalità con la quale egli affrontò il tema dell’antistoricismo risuonava in tutta evidenza con la forza di una non sottintesa caratura etico-politica e fondamentalmente “religiosa”. Croce muoveva una forte invettiva contro i nemici del sentimento storico i quali sono nel mondo moderno i veri atei, coloro che sconfessano l’ultima religione che resti all’umanità, cioè la fiducia nella storia come storia della libertà. Il valore da difendere era appunto la storicità che per i filosofi consiste nel «nodo del passato con l’avvenire, garanzia di serietà del nuovo che sorge»[11]. Croce parlava a nome dei filosofi rivolgendosi parimenti agli storici, depositari anch’essi di civiltà e cultura nell’unità di un compito comune, in piena osservanza del costrutto logico tempo addietro teorizzato.

Mosso dallo sconforto per l’avversione mostrata proprio dagli intellettuali, “procreati dalla libertà”, nei riguardi del sentimento storico che è sentimento intrinsecamente liberale, il discorso ebbe il significato di una denuncia della situazione politica dell’Occidente europeo. La decadenza negli studi, divisi tra passatisti e futuristi, andava di pari passo con l’affermarsi, non solo in Italia, dell’autoritarismo, del disciplinarismo, contigui a violenza e a imbarbarimento dei costumi, a durezza del comando, quasi riti orgiastici di tipo finanche satanico. I presupposti di un tale clima di dominio autoritario risiedevano nella negazione della storia come il regno del relativo, del mobile e del diverso, dell’individuale e del vario, e dunque nella preferenza per le regole fisse, per i modelli astratti, per l’assoluto che sta fermo in una sfera superiore di inattività. Gli antistoricisti si erano schierati a favore di un vieto tradizionalismo, ossia di un rapporto acritico con la tradizione, la quale certo non va negata se prelude a nuove creazioni, come accade nell’arte, o nella poesia, che mai si appaga del generico o di una vuota ripetizione. D’altronde, proprio i cosiddetti futuristi, fautori della rinuncia al passato in nome di un vitalismo fine a sé stesso, negano la storia con la pretesa di imporre dall’alto la regola di un irrazionalismo astratto, zelatori della vita per la vita e parimenti negatori della sua genesi costante. Sotto le formule filosofiche, incalzava Croce, stanno comunque le dramatis personae dell’odierna lotta politica: imperialismo, nazionalismo, statalismo, ripresa cattolica e clericale. Sicché con la disciplina soldatesca è venuto meno l’abito critico, producendo impoverimento mentale, disperazione e nevrosi, sino al culmine dell’opzione per l’Anti-Europa, che vuol dire sradicarsi dalla storia del secolo decimonono e dai precedenti eventi rivoluzionari della Francia di fine Settecento[12].

Al senso storico «come civiltà e cultura» plaudì Thomas Mann, il quale, ricevuto in omaggio il saggio crociano, si disse molto onorato del dono, e partecipe di uno stato d’animo di forte ambascia per la situazione storico-spirituale della Germania[13]. Karl Vossler scriveva a Croce nell’ottobre del ’30 che Friedrich Meinecke avrebbe pubblicato nel prossimo numero della «Historiches Zeitschrift» il suo discorso, che aveva molto apprezzato[14]. In Italia, invece, Croce dovette registrare reazioni negative e accuse forse non del tutto impreviste, che lo colpirono comunque profondamente: Giovanni Gentile, in un pubblico discorso e interventi sulla stampa, lo accusò di aver messo in cattiva luce l’Italia contemporanea parlando per di più da una cattedra internazionale, finendo così per additare Croce a una possibile vendetta del regime[15]. Va ricordato che nel 1926, l’anno successivo alla pubblicazione del Manifesto degli intellettuali antifascisti, Croce aveva avuto la casa invasa durante la notte da squadristi che misero in serio allarme lui e la famiglia, motivo per il quale egli visse con comprensibile sdegno e rinnovato timore l’invettiva dell’antico amico Gentile.

Nel tempo della dittatura fascista Croce scrisse, tra l’altro, la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) e la Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932)[16]. Testi di storiografia, che gli storici di mestiere hanno per lo più giudicato, dal punto di vista della raccolta dei fatti empirici, parzialmente insoddisfacenti, nei quali scorreva tuttavia il succo filosofico di uno storicismo in embrione, diverso dalla tradizione, fatta eccezione per Vico, basato sulla natura dello spirito vivente che ha in sé l’energeia della libertà come forza propulsiva degli eventi, un primum incondizionato non collocabile altrove rispetto al tempo storico. Più vicino a Goethe nel ritenere la presenza dell’eterno nel transeunte, Croce non concepiva visioni sovratemporali del cammino umano, nemico come fu sin da giovane delle filosofie della storia che si fondano per lo più su rivelazioni e fedi dogmatiche[17].

L’espressione “religione della libertà”, adottata nel Prologo della Storia d’Europa, indicava con particolare enfasi l’ideale liberale come la categoria di tutte le categorie dello spirito e non riguardò certo il culto per una particolare confessione mitico-rituale. Neppure è corretto ritenere ch’egli volesse semplicemente restaurare il passato[18]. Croce confidava piuttosto nella nascita di una possibile nuova coscienza del futuro, senza falsi profetismi o annunci catastrofici[19]. Potrà accadere, diceva, che dal passato, riletto e interpretato alla luce di nuove esperienze, nascano altri concetti sociali, politici, storici; può accadere che, per esempio, dall’assurdo di nazionalismi estremi possa germinare l’idea di una nazionalità senza basi etniche e naturalistiche.

Croce aveva costruito il suo racconto a partire dalla fine dell’era napoleonica, quando in molte parti dell’Europa si erano accese le richieste di indipendenza e di libertà, che tuttavia parvero dare segni di cedimento man mano che ci si accostava ai tempi che precedettero la grande guerra. Nella gran mole dei fatti rievocati Croce mirò a cogliere qualcosa di essenziale, estraendo da essi, scrive Galasso, «una sorta di teorema della libertà». Descrisse un mondo che non c’era più per figurarsi in avvenire molto più di una speranza nel meglio. Immaginava un’Europa dei popoli, diversi per lingua e cultura, uniti nella comune lotta per la civiltà contro ogni barbarie in nome di un linguaggio antico, originario, che è la filosofia stessa, ovvero la capacità di discernimento che scevera i fatti nella funzione conoscitiva del giudizio storico. Non c’è un ordine liberale da sostituire con la forza in qualità di dominio rispetto ad altre convinzioni politiche o istituti giuridici[20]. La regola del gioco liberale e democratico è quella di non consentire che se ne capovolga il principio, ferma restando la libertà di professare ogni idea e opinione che non si traduca nel torbido culto della nazione, della razza, del dominio materiale, dell’idolatria del passato. Questo il senso delle fedi religiose opposte.

Là dove era stato possibile attingere alla fonte di energie spirituali e filosofiche di stampo liberale, la cultura europea aveva respirato e agito con buona lena fuori dell’oppressione chiesiastica e assolutistica. Quando invece intellettualismi, irrazionalismi, uniti a un puro naturalismo e a un certo darwinismo si insinuarono nelle pieghe della vita culturale europea del primo dopoguerra, là ripresero dimora assolutismi e dispotismi di ogni sorta. Come accadde nell’arte e nella letteratura, quando la decadenza da concetto negativo si fece ideale da perseguire con compiacimento e in politica ripresero centralità i temi della forza e del potere per il potere da parte di Stati e di sedicenti condottieri. Lo storicismo si andava affermando nella mente del Croce assieme alla concezione della storia che, se malauguratamente è guidata da forze cieche, esterne all’umana capacità d’iniziativa, si caratterizza per la negatività di tirannie e tendenze reazionarie. L’attraversava in ogni modo un filo conduttore etico-religioso, immanente agli eventi, drammatico, attivo e creativo, che in tempi bui opera senza esaurirsi così come nella vita morale mai si esce dalla dialettica di bene e male.

Nel 1933 Croce tenne ancora a Oxford, al Lady Margaret Hall, un discorso di carattere estetico-politico, dal titolo Difesa della poesia, nel quale, ispirandosi a una prosa del poeta inglese Shelley, spirito romantico del primo Ottocento dall’animo fieramente libero rispetto ai conformismi dell’epoca, si rivolgeva al mondo creativo per un’educazione del genere umano. Non mancò di ricordare parimenti l’opera di Friedrich Schiller, filosofo e drammaturgo tedesco del Settecento, che fu eccentrico teorico dell’arte come un «nobile gioco»[21].

La religione della libertà, invocata nella Storia d’Europa, che non fu però espressione di novella fede nell’opera di una provvidenza che sappia agire sopra le volontà umane, si incarnava ora nel compito salvifico affidato ai creatori del linguaggio, della musica, della pittura, i quali, proprio quando la tradizione pare essersi malauguratamente perduta, aiutano a colmare il dissidio tra Stato di forza e Stato di ragione[22]. La poesia, come Croce la intese, è lontana dalla naturalistica effusione di passioni sfrenate, perché essa è fonte di civiltà, istitutrice di leggi e di solidarietà sociale, nell’unità della “cultura” in generale, capace di affinare le menti e i cuori nell’armonia di intelletto e sensibilità.

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Altrettanto interessante è la terza nota autobiografica aggiunta al Contributo nel 1941. Essa contiene brevi ed essenziali osservazioni sui sette anni intercorsi dagli appunti redatti nel ’34. Nel frattempo era accaduto il peggio: la guerra aperta e violentissima aveva preso forma politica, pur mantenendo agli occhi di Croce echi significativamente “religiosi” per aver messo del tutto in ombra l’idea di libertà, alla difesa della quale egli si era così tanto impegnato in quegli anni. Scriveva:

Ora, nella difesa che si è dovuta ripigliare della non più riverita e indiscussa libertà, era necessario agli sforzi pratici e alle asserzioni passionali unire per sostegno e fondamento la vigorosa affermazione e dimostrazione logica, la teoria speculativa della libertà[23].

Si apprestò a darne corso nel volume La storia come pensiero e come azione e nella raccolta di saggi dal titolo Il carattere della filosofia moderna, rispettivamente del 1938 e del 1941. Un ritorno dunque alla teoria, alla teoria speculativa della libertà, senza che però dovesse venir sovvertito l’impianto logico del 1909, che era stato significativamente già rimodulato in Teoria e storia della storiografia edito negli anni 1915-1917.

Croce riassumeva così il suo pensiero nel contenuto del saggio del ’39 intitolato La filosofia come storicismo assoluto, nel quale formulava la nuova denominazione ritenuta ora più calzante alla filosofia dello spirito. L’idealismo era andato via via declinando nel passare dalla classica metafisica “degli oggetti” a una metafisica “della mente”, intestata quest’ultima a Hegel, esponente sommo dell’Ottocento tedesco in epoca romantica. Lo storicismo assoluto è comunque ora il nome stesso della filosofia nel suo principio logico che è l’unità del pensiero con i fatti, vale a dire del pensiero alla prova del nesso con le situazioni particolari. Croce chiariva infatti che le definizioni filosofiche, e certo anche la denominazione del proprio filosofare, affondano le radici nel terreno storico, hanno cioè sempre un esplicito riferimento al mondo concreto in cui il pensatore si trova a vivere. Veniva da lui così congedato definitivamente il dualismo metafisico, che nasce quando si rompe l’unità di categoria e fatto nell’entificazione di tipo naturalistico, perciò adialettico, di bene e male, di anima e corpo, di immanenza e trascendenza. La filosofia storicistica così intesa non avrebbe preso il dominio sulla storiografia come un sovrano fa con i sudditi, come fa una “guida” volta a indirizzare le cose umane a forza di apriori, di miti e di quelle pure astrazioni o perversioni logiche che sono la razza, la classe, il diritto naturale, la società senza stato[24]. Le categorie dello spirito non mutano, pena la fine del mondo umano, ma mutano i concetti che di esse ci facciamo in un continuo processo di arricchimento storico, che dissolve la costruzione metaforica di entità sovratemporali[25].

Nello stesso anno usciva sulla «Critica» un articolo su La fine dello Stato etico, rivolto icasticamente a Gentile che però non è mai nominato nel testo, nel quale Croce decretava la morte per sfinimento di un concetto che si era fatto malamente risalire a Hegel e che dopo quindici anni di teoria fascista dello Stato si sperava liberasse l’Italia dalla sua «goffa presenza», visto che la politica spregiudicata di quei tempi evocava tutt’altro che qualcosa di riconducibile alla vita morale[26].

Nel dicembre del ’39 Croce scriveva su richiesta della direzione della rivista «Science of Culture», edita presso Harcourt and Brace di New York, un trattatello di filosofia della libertà che pubblicò in italiano con il titolo: Principio, ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà. Si ispirò al criterio verificabile per il quale, al crollo dell’ideale liberale dopo la prima grande guerra, avrebbe dovuto far seguito, come sempre accade dopo le “crisi”, un ideale nuovo, un ideale morale di umanità e di civiltà. Nonostante il pessimismo indotto dal «fragore di gridi e di armi», e al cospetto dei poteri totalitari in Europa, non restava altro al filosofo che ribadire i concetti fondamentali relativi alla storia come storia della libertà, che è forza creatrice di bellezza, di verità e di azioni utili e morali. Deve essere chiaro, però, che «tutto il peggio del peggior passato può sempre tornare, sebbene torni in condizioni sempre nuove e perciò, vinto e superato che sia, porti a un nuovo maggiore elevamento: l’epopea della storia è più vicina alla tragedia che non all’idillio»[27].

Nel libro del ’38 La storia come pensiero e come azione Croce fa del suo storicismo un vero e proprio posto di combattimento in chiave etico-politica. Avverso all’antiquata metafisica, lo storicismo mostrava il suo carattere distintivo nel confronto con il razionalismo astratto che nel diciottesimo secolo ebbe il nome di Illuminismo[28]. Il nerbo della polemica, scriveva Croce, sta nella dimostrazione che le idee o valori, assunti a modelli della storia, non sono immobili entità fuori del concreto movimento dei fatti, ma sono fatti storici essi stessi. Ribadiva una tesi altre volte confermata, ma ora riferita in aperto conflitto con quella forma di storicismo «perfetto e definitivo» che si era già affermato nella Germania bismarckiana e che preluse alla catastrofe totalitaria dell’hitlerismo. Gli parve anzitutto un potenziale errore logico il convincimento che si possa parlare di uno storicismo «definito» in ogni modo, che sarebbe di fatto la via migliore da imboccare nella direzione di un antistoricismo per definizione[29]. Non per la prima volta Croce interveniva sull’opera di Friedrich Meinecke, avendone stimato in passato le teorie storiografiche. Nei primi anni Cinquanta Croce tornerà su di esse, esprimendo per lo studioso tedesco antica stima assieme ai contrasti insanabili: «Che il Meinecke potesse rappresentare in Germania una unificazione della storia con la filosofia quale io procuravo di avviare in Italia, credetti alla prima quando egli pubblicò il suo libro sul cosmopolitismo e lo stato nazionale»[30].

Nei Marginalia, aggiunti nel ’27 alla terza edizione di Teoria e storia della storiografia, aveva riportato con soddisfazione le parole dello storico tedesco: «Il mio libro [Weltbürgertum und Nationalstaat] – scriveva Meinecke ‒ si fonda sul convincimento che l’indagine storiografica tedesca […] si deve innalzare a più libero moto e contatto con le grandi forze della vita politica e della cultura, […] deve tuffarsi nella filosofia e nella politica, e così solo potrà svolgere la sua intima essenza insieme universale e cosmopolitica»[31]. Dalle opere posteriori di Meinecke sarebbero emerse tuttavia differenze tali che spinsero Croce a contraddirne le tesi punto per punto, pur restando immutato il rispetto per la probità scientifica dell’amico di antica data. Si spiega così il frequente confronto di Croce con storici di valore (come il Ranke, del quale Meinecke era stato fedele allievo), i quali avevano contribuito a uno storicismo (Historismus) su fondamenti teorici profondamente diversi dal suo, specie in momenti storici cruciali che imponevano un forte posizionamento di carattere etico-politico.

Nel volume del ’36 Le origini dello storicismo, Meinecke aveva indicato nella nozione dell’individuale, già presente in età illuministica, il segno della nascita di un’idea di storicismo anticipatrice del Novecento. Croce non ritenne questo riferimento, pur non contestabile nei fatti, un motivo sufficiente per rivedere l’interpretazione del secolo dei Lumi, dal momento che, fatta salva la necessaria prossimità al particolare propria della storiografia in ogni tempo e dunque anche di quella settecentesca, non si dovrebbe parlare di storicismo vero se si prescinde dall’esperienza del pensiero con l’ausilio di concetti puri che sono le forze generatrici e giudicatrici dello svolgimento del reale[32]. Il puro e semplice individuale sarebbe altrimenti esposto all’irrazionale, al mistero, al bisogno di trascendenza colmo di devozione per l’Inesplicabile. L’irrazionale, lungi dal venir abolito, andava, secondo Croce, riveduto nel suo proprio ufficio, non meno importante del compito della ragione che indaga il significato.

Al rapporto dello storicismo con la vita politica è dedicato il secondo capitolo della prima sezione del libro del ’38. Si fa qui più chiaro l’obiettivo militante dello storicismo crociano; occorreva professarlo e mantenerlo vivo in primo luogo ai fini del risanamento della vita morale dell’Europa. Il nemico da combattere, non solo avversario di una disputa filosofica, era a quel tempo l’amoralismo, che veniva allargandosi sotto mentite forme storicistiche nelle parti corrotte della nazione tedesca. I segni erano questi: accettazione della necessità storica, fatalismo, inerzia, negazione della storiografia come fonte di attività e preparazione all’azione[33]. Gli storici “puri”, senza problema storico, alla maniera di Leopold von Ranke, che ne fu il caposcuola, escludevano con buona ragione l’ingerenza di pregiudizi di ogni sorta, ma negavano la narrazione pensata dei fatti che è il presupposto di ogni lotta politica, morale e di civiltà.

Lo Historismus tedesco, con le dovute eccezioni, sembrò al Croce intellettualistico, astratto, intriso di prussianesimo e del connesso culto dello Stato forte, accentratore del potere. Croce imputava a Ranke un certo naturalizzamento delle determinazioni ideali e delle nazioni, che sono, come le diverse epoche storiche, tutte ugualmente vicine a Dio[34]. Ne derivava scarso interessamento per il senso del politico, unito alla tendenza al quietismo e al conservatorismo tradizionalista. Era nata così e andò diffondendosi una forma mentis che in Germania fece scuola per servilità verso i governi di stampo bismarckiano fino al regime nazista. A questa mentalità Croce aveva rivolto una critica negativa e senza appello due anni addietro nell’articolo inviato al giornale di Berna «Die Nation» (1936) dal titolo accorato La Germania che abbiamo amato[35].

Com’è stato possibile, si chiedeva, che la cultura venisse istituzionalizzata al punto di ricondurla a un dato popolo e a un regime basato su principi autoritari e razzistici? Se la grande stagione della creatività tedesca, tra Sette e Ottocento in particolare, fosse stata la “quintessenza della germanicità”, sarebbe rimasta del tutto estranea all’Europa. Croce amava la cultura tedesca, rimpiangendo quel sentimento cosmopolitico che un tempo l’aveva ispirata, quand’era stata priva dell’impronta di un nazionalismo estremo[36]. Degenerata è dunque la cultura di quei popoli per i quali l’unità della loro storia è risposta nella “razza”. Miti che, sobbollendo «dei peggiori istinti della disumanità», della prepotenza e della violenza tipiche dell’anti-Storia, finiscono per indicare l’elemento unificatore non in un fatto politico mitizzato ma nel dato naturale, con l’esito di ottenere l’assurda identificazione di storiografia e zoologia[37].

In conclusione, lo storicismo crociano degli anni Trenta, riprendendo i fondamenti logici dell’inizio del secolo ventesimo, ne aggiornava i contorni e la fisionomia non per smentirli ma per indirizzarli al compito di esercizio critico della ragione in occasione dei nuovi problemi all’ordine del giorno della storia. Ebbe dunque un significato intimamente liberale, una valenza umanistica e un evidente sfondo estetico, ferma restando la natura dialettica della storia che, come la vita morale, è lotta inesausta di elementi opposti. In quegli anni al Croce, come a molti contemporanei, si erano palesate nel loro potere terribile e travolgente la potenza del negativo e l’intrusione non del tutto aggirabile dell’irrazionale, che è una forza distruttiva all’origine di profondi disastri non solo nel campo delle idee. Eppure in esso dimora qualcosa di propulsivo e sorgivo al tempo stesso, una spinta Vitale di foggia comunque “spirituale” allo stato nascente, foriera di imprevedibili esiti nel cammino umano. L’allerta etico-politica, dal tono laicamente religioso in lotta contro la miscredenza nel valore sommo della civiltà, si era fatta perciò cosa urgente e necessaria. Croce scriveva nelle pagine finali del libro del ’38:

Al sorgere dell’umanismo, che parve soltanto un moto di fastidio contro la scolastica e un inno alla bellezza antica e che operò principalmente nel campo dell’arte, tennero dietro presto gl’incalzanti progressi della cultura e del pensiero, che rinnovarono la filosofia e tutte le discipline morali, l’etica e la politica e la teoria dell’arte, e la metodologia delle scienze; e di questo gran lavoro spirituale erede è lo storicismo[38].

Lo storicismo, erede dunque dell’umanesimo classico, rappresentava al meglio il nocciolo di verità in esso contenute, cioè il senso sempre vivo di un’inquietudine morale che allora Croce intravedeva, ahimè, riflessa di luce oscura nelle acque agitate dell’imminente tempesta bellica.

  1. Il riferimento è tratto dal capitolo Lo storicismo e la sua storia, in B. Croce, La storia come pensiero e come azione [1938], Edizione Nazionale a cura di M. Conforti, con una Nota di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002.
  2. Cfr. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1989, Aggiunta all’edizione 1950 del Contributo, p. 99.
  3. Ivi, Note autobiografiche (1934), p. 73.
  4. Un florilegio di pagine autobiografiche è ora proposto nel volumetto B. Croce, Soliloquio, a cura di G. Galasso, con prefazione di P. Craveri, Milano, Adelphi, 2022.
  5. Ivi, p. 78.
  6. Ivi, p. 80
  7. Aggiunta all’edizione 1950 del Contributo cit., pp. 99-101.
  8. Ivi, p. 102.
  9. B. Croce, Una denominazione filosofica da abbandonare: l’«idealismo», in Id., Discorsi di varia filosofia, Edizione nazionale a cura di A. Penna e G. Giannini, con una nota di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2011, vol. II, pp. 314-16.
  10. B. Croce, Antistoricismo, in Id., Ultimi saggi [1935], Edizione nazionale a cura di M. Pontesilli, Napoli, Bibliopolis, 2012, pp. 233-44. Si veda il recente B. Croce, Discorsi di Oxford. Antistoricismo e «Difesa della poesia», con un saggio di G. Sasso, a cura di E. Giammattei, Roma, Treccani, 2023.
  11. Ivi, p. 243.
  12. Ivi, p. 240.
  13. Si veda la lettera di Thomas Mann indirizzata a Croce da Monaco il 28-XI-1930 nel volume B. Croce-T- Mann, Lettere 1930-1936, a cura di E. Cutinelli Rèndina, prefazione di E. Paolozzi, Napoli, Pagano, 1991, p. 3.
  14. Cfr. Carteggio Croce-Vossler (1991-1949), a cura di E. Cutinelli Rèndina, Napoli, Bibliopolis, 1991, p. 338.
  15. Per la notizia del fatto criminoso rinvio a G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, il Mulino, 1989, p. 113, nota 83.
  16. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1991 e Id., Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1993. Di quest’ultimo testo rinvio alla recente edizione a cura di Massimo L. Salvadori, Roma, Donzelli, 2022. Si veda inoltre G. Sasso, Storia d’Italia e Storia d’Europa, Napoli, Bibliopolis, 2017.
  17. Le filosofie della storia, secolarizzate in età moderna, sono tutte, da Agostino a Bossuet, di natura teologica e indirizzate a un fine predestinato di salvezza. Rinvio al volume di K. Lȏwith, Significato e fine della storia, Milano, Il Saggiatore, 2010.
  18. Nella Storia d’Europa è stata colta una fede agostiniana nella “Città di Dio”, per essere nata anch’essa in tempi di instabilità politica e di “invasioni barbariche”. In particolare F. Chabod, nel saggio Croce storico (in «Rivista storica italiana», 1952), intese rilevare in quell’opera, in dissonanza con le affermazioni di Croce, una determinata filosofia della storia, carente di cose concrete e dunque ricca di afflato religioso.
  19. Nell’Epilogo della Storia d’Europa, in tempi di semplicismo e credulità, Croce formulava l’idea di unità europea opposta alle competizioni dei nazionalismi. Rimando al mio saggio Croce e la storia del futuro, in Saggi sul futuro. La storia come possibilità, Firenze, Le Lettere, 2015, pp. 115-34.
  20. Lo storicismo annunciato da Croce in quegli anni parve a Gramsci del tutto privo di “scientificità”, neppure imparziale e disinteressato come si addice alla contemplazione dell’eterno divenire umano. Il fatto è che Croce non pensava affatto in termini di filosofia della storia. D’altronde, non intese certo formulare un programma politico a scadenza immediata in senso ideologico. Gramsci leggeva, invece, nello storicismo crociano dei primi anni Trenta un progetto di trasformazione della realtà, certo teoricamente in linea con la filosofia della prassi, ma priva del momento “etico” che nella forma della storiografia etico-politica escludeva la propaganda di chi vuol cambiare a breve e in una certa direzione il corso del mondo. Cfr. A. Gramsci, Quaderno X (1932-1935).
  21. B. Croce, Difesa della poesia, in Id., Ultimi saggi, op. cit., pp. 63-80.
  22. Ivi, p. 68.
  23. B. Croce, Note autobiografiche II, in Id., Contributo cit., p. 95.
  24. B. Croce, Il concetto della filosofia come storicismo assoluto [1939], in Id., Il carattere della filosofia moderna, Edizione nazionale a cura di M. Mastrogregori, Napoli, Bibliopolis, 1991, pp. 9-28.
  25. Rinvio alle Osservazioni intorno alla dottrine delle categorie in B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici [1951], Edizione nazionale a cura di A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, 1997, p. 135.
  26. Negli anni Trenta i professori del terzo Reich venivano a tenere conferenze in Italia (Heidegger, Carl Schmitt, il sociologo Hans Freyer e altri), come narra Karl Löwith nelle sue memorie La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Milano, Il Saggiatore, 1988. Racconta l’incontro a Napoli con Benedetto Croce, con il quale ebbe anche modo di passeggiare per i vicoli della città.
  27. B. Croce, Il carattere della filosofia moderna [1941], op. cit., pp. 103-21.
  28. Sempre utile il volume di G. Cotroneo, Croce e l’Illuminismo, Napoli, Giannini, 1970.
  29. Segnalo la voce “storicismo” redatta da F. Tessitore nel Lessico crociano, a cura di R. Peluso, Napoli, La scuola di Pitagora, 2016, pp. 681-716, per un confronto serrato tra i diversi storicismi, a partire dalla storia della formazione di un concetto che ha attraversato la tradizione del pensiero europeo tra Italia e Germania. Di F. Tessitore si veda comunque l’ampio volume La ricerca dello storicismo. Studi su Benedetto Croce, Bologna, il Mulino, 2012.
  30. B. Croce, Le teorie storiografiche di Federico Meinecke, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, op. cit., p. 211. Esce nel ’46 il volume di Meinecke Die deutsche Katastrophe. Betrachtungen und Erinnerungen, tr. it. La catastrofe della Germania, Firenze, La Nuova Italia, 1948.
  31. B. Croce, Teoria e storia della storiografia [1917], a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1989, p. 341 (Ed. naz.: a cura di E. Massimilla e T. Tagliaferri, con una nota di F. Tessitore, Napoli, Bibliopolis, 2007).
  32. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit.: Il suo carattere proprio e l’inizio dell’età che fu sua, capitolo dedicato al testo di F. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, München, R. Oldenbourg, 1936. Si veda R. Franchini, L’Illuminismo e la polemica Croce-Meinecke, in Id., La logica della filosofia, Napoli, Giannini, 1971, pp. 57-66.
  33. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit.
  34. Ibidem.
  35. B. Croce-T. Mann, Lettere (1930-36), op. cit.: La Germania che abbiamo amato, pp. 33-42. Già nella Storia d’Europa Croce palesava la delusione per quell’Europa che aveva amato. Rinvio al saggio di R. Peluso, La malattia europea e il crepuscolo dell’idealismo, in Ead., La cura Goethe. Poesia e storia in Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, 2022, pp. 167-83.
  36. B. Croce-T. Mann, La Germania che abbiamo amato, ed. cit., p. 40. Si veda in particolare D. Conte, Dalla “germanofilia” alla “inumanità”. Benedetto Croce e la Germania, in «Archivio di storia della cultura», XXVI (2013), pp. 201-20; e più in generale, Benedetto Croce e la cultura tedesca, a cura di G. Furnari Luvarà e S. Di Bella, Firenze, Le Lettere, 2013.
  37. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., Appendice: Recenti controversie intorno all’unità della storia d’Italia. Nel ’40 Croce recensiva sulla «Critica» (n. 38, pp. 302-03) il libro di Carlo Antoni Dallo storicismo alla sociologia (Sansoni editore): vari saggi, legati dalla constatazione del passaggio dalla concezione storica alla sociologia e dalla filosofia all’empirismo. Cosa grave, scriveva, per un paese di cultura come la Germania, che aveva portato alto il senso dello speculativo.
  38. Ivi, cap. XI: Storicismo e umanismo.

(fasc. 51, 25 febbraio 2024)