Galileo, Copernico e la Rivoluzione scientifica: considerazioni a margine del quadricentenario della pubblicazione del “Saggiatore”

Author di Nunzio Allocca

Di grande rilievo per la storia delle scienze, l’anno in corso, nel quale si celebrano il 550° anniversario della nascita di Copernico (1473) e il 480° della pubblicazione del De revolutionibus orbium caelestium (1543) nonché il quadricentenario della travagliata pubblicazione del Saggiatore (1623), il libro con il quale Galileo Galilei riapparve da protagonista sulla scena culturale europea, dopo il monito del 1616 che gli vietava di professare o divulgare l’eliocentrismo[1]. Il Saggiatore interveniva nell’ampia e serrata polemica riguardante la spiegazione dei fenomeni relativi al prodigioso spettacolo offerto dalla grande cometa (la maggiore delle tre apparse a partire dall’agosto del 1618) chiaramente visibile sino a gennaio del 1619, accreditandosi come punto di riferimento di una nuova e rivoluzionaria concezione della natura, emergente dalle sensazionali e dirompenti scoperte telescopiche riportate tredici anni prima da Galileo nel Sidereus Nuncius, il «messaggero celeste» che aveva sferrato il colpo a molti apparso decisivo contro il sistema tolemaico del mondo, già vacillante sotto quelli inferti sul piano astronomico tanto da Tycho Brahe nel De mundi aetherei recentioribus phaenomenis quanto nell’Astronomia nova seu physica caelestis del suo allievo Johannes Kepler.

Il primo, pubblicato nel 1588, dedicato all’analisi della posizione e del moto dei nuovi oggetti luminosi visibili nel firmamento tra il 1572 e il 1577, aveva mostrato la loro inequivocabile collocazione al di sopra della Luna, fornendo la prova osservativa dell’inconsistenza del dogma aristotelico-scolastico dell’immutabilità dei cieli e dell’inesistenza di sfere cristalline concentriche e imponderabili ritenute responsabili del moto di rivoluzione intorno alla Terra (immobile) dei pianeti in essi immaginati incastonati. Nel secondo, corposo trattato copernicano di quasi 400 pagine in-folio stampato a Praga nel 1609, irto di tabelle, diagrammi e calcoli ad uso degli addetti ai lavori (i matematici e gli astronomi), e dunque inaccessibili al largo pubblico, per la prima volta era abbandonata la millenaria convinzione del carattere perfettamente circolare e uniforme del moto dei corpi celesti, le orbite dei pianeti (Terra inclusa) venendo ridefinite come ellissi, con il Sole in uno dei due fuochi.

Proprio dal maggio o giugno del 1609, anno senz’altro del destino per le sorti della causa eliocentrica, Galileo, da tempo convinto copernicano[2], come è noto venne a conoscenza della recentissima costruzione ad opera di artigiani olandesi dei primi cannocchiali, da agosto iniziò a ricostruirli con l’aiuto dei maestri vetrai di Venezia perfezionandone progressivamente il potere d’ingrandimento, tanto da poterli impiegare, dai primi di dicembre, per l’osservazione astronomica sistematica, a partire dall’esame ottico della superficie lunare. I risultati furono stupefacenti. Nel Sidereus nuncius, volume di sole 56 pagine, pubblicato in gran fretta nel marzo 1610 in 550 copie andate immediatamente esaurite, in un linguaggio piano e descrittivo alla portata di qualsiasi lettore colto, Galileo svelò a tutta Europa la presenza di alte montagne e di crateri sulla superficie della Luna, concepita nel sistema tolemaico come un corpo perfettamente liscio e sferico, nonché l’esistenza nella Via Lattea e in alcune Nebulose di una miriade di Stelle invisibili a occhio nudo, oltre a quella di quattro corpi celesti in orbita intorno a Giove, che battezzò Pianeti Medicei in onore del Granduca di Toscana Cosimo II.

Altre inaudite scoperte astronomiche a stretto giro di posta si susseguirono grazie all’osservazione telescopica della volta celeste. Nei mesi seguenti Galileo rilevò in Venere un ciclo completo di fasi direttamente legate alle posizioni successive assunte dal pianeta in rapporto al Sole, come previsto nel sistema eliocentrico di Copernico.

Passando all’analisi telescopica di Saturno, Galileo ne distinse due protuberanze nella sagoma oblunga, dall’apparente aspetto come «tricorporeo», non riuscendo a distinguerne gli anelli.

Nel corso dell’osservazione strumentale del Sole, infine, Galileo rilevò la presenza sulla sua superficie di scure macchie in continuo movimento, il cui studio lo condusse, con argomenti di tipo ottico-prospettico, a una conclusione forse ancora più sorprendente di quella della scoperta della superficie scabra e tellurica della Luna: le macchie solari sono formazioni materiali che dimostrano la presenza di incessanti fenomeni di generazione e corruzione nel corpo celeste tradizionalmente simbolo di purezza, fonte di luce e di vita[3]. Ne risultava frantumata l’immagine antico-medievale del mondo, fondata sulla distinzione aristotelico-tolemaica e scolastica tra fisica celeste e fisica terrestre, che derivava dalla divisione del Cosmo in due sfere ontologicamente e gerarchicamente distinte: la prima, quella della regione sopralunare, perfetta e incorruttibile; la seconda, quella sublunare, imperfetta e soggetta al divenire del moto rettilineo dei quattro elementi, governato dall’opposizione tra moti naturali e moti violenti[4].

Il contesto scientifico e dottrinario, assai complesso e aspramente polemico, che ha segnato la faticosa elaborazione e la stampa del Saggiatore nonché la portata epistemologica di quest’ultimo sono magistralmente ricostruiti da Michele Camerota e Franco Giudice nella loro edizione del volume di Galileo in occasione del quadricentenario, con un ricco e puntuale apparato di note[5], che fa seguito all’edizione critica con commento pubblicata nel 2005 a cura di Ottavio Besomi e Mario Helbing[6]. In questo mio intervento prenderò in esame un aspetto riguardante lo sfondo teorico del Saggiatore, quello della necessità dell’elaborazione di un quadro cosmologico geocinetico unificato e materialmente omogeneo, tra quelli implicati nell’accesissima polemica che vide contrapposto Galileo al gesuita Orazio Grassi, professore di matematica al Collegio Romano, oltreché astronomo, studioso di ottica e valente architetto, autore dell’anonimo opuscolo De tribus cometis anni M. D.C. XVIII disputatio astronomica, andato in tipografia nel febbraio 1619.

La comparsa della maggiore delle comete del 1618 fornì sul finire dell’anno al Collegio Romano, la più prestigiosa istituzione culturale della Compagnia di Gesù, l’occasione di organizzare un ciclo di lezioni sui problemi posti dalla nuova astronomia osservativa.

Nella Disputatio astronomica, che riporta la lezione di Grassi, si sosteneva innanzitutto che l’apparire delle comete non dovesse essere interpretato quale segno premonitore di sciagure o castighi divini, come ritenuto sin dai tempi più remoti dalla credenza popolare, e temuto dai molti che notavano la quasi coincidenza della loro apparizione con l’inizio di un nuovo sanguinoso conflitto religioso, scoppiato a seguito della defenestrazione di Praga del 23 maggio 1618, conflitto armato che avrebbe trascinato il continente europeo nella devastante Guerra dei trent’anni.

Grassi, allo stesso tempo, prendeva senza mezzi termini posizione contro l’opinione aristotelica comunemente accolta secondo cui le comete sarebbero fenomeni riferibili alla combustione per attrito di esalazioni terrestri al di sotto della sfera della Luna. Al lettore era suggerito, senza farvi diretto riferimento, che la corretta teoria delle comete fosse quella formulata da Tycho Brahe, il cui sistema del mondo si presentava geostatico al pari di quello aristotelico-tolemaico, ma con la Terra al centro unicamente delle orbite della Luna e del Sole, e quest’ultimo al centro di quelle degli altri cinque pianeti allora conosciuti (Mercurio, Venere, Giove e Saturno). L’osservazione telescopica (la prima mai sino ad allora effettuata) delle tre comete apparse nel 1618 ‒ si legge nella Disputatio astronomica ‒ confermava che esse sono corpi celesti reali, al pari dei pianeti, con traiettorie altrettanto circolari aventi luogo nella regione compresa tra la Luna e il Sole.

L’opuscolo di Grassi mostrava in maniera brillante con quanta rapidità il sistema ticonico, compatibile con la decisiva scoperta galileiana delle fasi di Venere, si stesse allora affermando tra i Gesuiti come capace di sostituirsi a quello tolemaico, ormai compromesso sul piano cosmologico dalle «novità celesti», senza entrare in conflitto con il testo delle Sacre Scritture, dal momento che lasciava la Terra immobile al centro dell’universo, ritenendo Tycho Brahe insostenibile sul piano fisico e matematico l’ipotesi geocinetica copernicana. La sezione della splendida tavola con cui si apre il volumetto illustra su un planisferio della sfera celeste, ricavato per proiezione gnomonica, il maestoso «incedere della cometa» più risplendente di esse, nel suo percorso siderale rilevato dal 29 novembre a fine 1618 in diversi collegi della Compagnia dislocati in Europa. In esso è riportato in didascalia il verso dell’Eneide «incessu patuit dea»[7]. Rimarca Grassi a questo proposito:

E invero non favoleggiarono forse una volta i poeti, che segno di riconoscimento degli Dei di fama fosse il loro incedere e il loro moto, e che chi incedesse come uno degli Dei, sarebbe considerato un Dio? Da quell’indizio, si legge in Virgilio, che Enea avesse riconosciuto chiaramente sua madre Venere. E questa luce non si manifestò, invero, anch’essa con un venerabile e augusto incedere da Dea? Non fu dunque luce accesa nell’aria prodotte dalle sozze di questa terra, ma destinata ad una sede tra i lumi celesti, dove, con comportamento palesemente non indegno, benché di fulgore breve e caduto, risplendette; e tuttavia, mentre visse, mai si mostrò prole degenere di quello stesso cielo, dal quale attinse la sua indole di essere celeste[8].

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[O. GRASSI], De tribus cometis anni M. D.C. XVIII disputatio astronomica, Roma 1619.

La Disputatio, resoconto scientifico che testimoniava il grado di eccellenza garantito in campo astronomico della Compagnia di Gesù, non mancava di salace vis polemica. La cometa costituiva la prima novità astronomica dal tempo di quelle annunciate dal «messaggero celeste»: rigettata senza indugi la tesi aristotelica delle comete come ardenti esalazioni prodotte nel mondo sublunare, perché al pari delle stelle del firmamento quella del 1618 non presentava significativi spostamenti angolari quando osservata da due luoghi diversi, Grassi tacque il nome di Galileo. Né si limitò a questo. La cometa mostrava alla lente del cannocchiale un ingrandimento nullo o molto ridotto rispetto a quando era vista a occhio nudo, effetto che doveva ritenersi ulteriore prova ‒ sentenziava Grassi in beffardo riferimento indiretto all’autore del Sidereus Nuncius (accolto sin dal 1611 nell’istituzione considerata rivale, l’Accademia dei Lincei) ‒ della sua grande distanza dalla Terra: chi si rifiutava di accettare questa spiegazione si dimostrava ignaro dei principi dell’ottica telescopica[9].

Dopo il forzato silenzio seguito al drammatico monito anticopernicano del 1616, Galileo non si lasciò sfuggire l’occasione di replicare a Grassi intervenendo nel concitato dibattito cometario che in quei mesi lasciava con il fiato sospeso l’intero continente europeo, e che segnava un’ulteriore possibile decisiva tappa a sostegno della teoria eliocentrica: lo fece dapprima attraverso il suo allievo Mario Guiducci, poi in prima persona nel Saggiatore. Galileo, occorre ricordare, non aveva potuto osservare direttamente gli straordinari fenomeni cometari, causa l’aggravarsi dei dolori reumatici che lo affliggevano da tempo, come riferirà nel Saggiatore[10]. Nel Discorso delle comete, pubblicato nel giugno del 1619 a nome di Guiducci, Galileo contestava l’inadeguatezza epistemica della concezione ticonica delle comete quali oggetti celesti effimeri di natura divina, come abbiamo visto non esplicitata ma sottostante alle analisi di Grassi nella Disputatio astronomica:

Il dire con Ticone, che come a stelle imperfette e quasi scherzi della natura e trastulli delle vere stelle, ma però, benché caduche, d’indole ad ogni modo e di costumi celesti, basta una tale quale condizion divina; ha tanto più della piacevolezza poetica che della fermezza e severità filosofica, che non merita che vi si ponga considerazione alcuna, perché la natura non si diletta di poesie[11].

Sostenendo la tesi della traiettoria rettilinea uniforme e perpendicolare alla superficie della Terra del movimento delle comete, secondo una prospettiva cosmologica prefigurante in chiave insieme antiaristotelica e anticonica l’unificazione della regione celeste e di quella sublunare in uno spazio cosmico materialmente omogeneo, Galileo ipotizzava che esse, piuttosto che oggetti «veri, reali, uni e permanenti» procedenti in circolo, come affermato da Grassi[12], fossero viceversa «apparenze, riflessioni di lumi, immagini e simulacri vaganti», derivate da esalazioni illuminate dal Sole innalzatesi perpendicolarmente nella regione celeste dalla superficie terrestre:

A me, al quale non ha nel pensiero avuto mai luogo quella vana distinzione, anzi contrarietà, tra gli elementi e i cieli, niun fastidio o difficultà arreca che la materia in cui si è formata la cometa avesse tal volta ingombrate queste nostre basse regioni, e quindi sublimatasi avesse sormontato l’aria e quello che oltre di quella si diffonde per gli immensi spazi dell’universo[13].

È questa un’affermazione controversa, ma di grande rilievo, su cui, nei sopraggiunti limiti di questo saggio, vorrei qui in breve soffermarmi. Molto giustamente Michele Camerota e Franco Giudice denunciano le ricostruzioni anacronistiche dei molti che hanno rimproverato a Galileo l’aver prospettato una teoria cometaria palesemente erronea, niente affatto all’altezza di quella elaborata dall’odiato avversario gesuita Grassi[14]. Da Kepler in poi, per la maggior parte degli astronomi copernicani del XVII secolo, inizialmente Newton incluso, le comete saranno ritenute procedere lungo traiettorie semi o interamente rettilinee[15]. Grassi stigmatizzerà nella Libra astronomica ac philosophica ‒ la risentita e virulenta replica al Discorso delle comete, pubblicata nell’ottobre 1619, il cui testo è inglobato e sottoposto, punto per punto, a critiche demolitrici nel Saggiatore ‒ lo fondo geocinetico, e perciò eretico per i cattolici, della spiegazione del moto delle comete da parte di Galileo[16], il quale in questi termini allusivi si era espresso in merito:

Io non voglio in questa parte dissimular di comprendere che quando la materia in cui si forma la cometa non avesse altro movimento che ’l retto e perpendicolare alla superficie del globo terrestre, cioè al centro verso ’l cielo, egli a noi dovrebbe parere indirizzato, precisamente verso il nostro vertice e zenit; il che non avendo ella fatto, ma declinato verso settentrione, ci costringe a dovere o mutare il sin qui detto, quantunque in tanti altri rincontri così ben s’assesti all’apparenze, o vero, ritenendole, aggiunger qualch’altra cagione di tale apparente deviazione. Io né l’uno saprei, né l’altro ardirei di fare[17].

«Aggiunger qualch’altra cagione di tale apparente deviazione», che il monito anticopernicano del 1616 aveva impedito di esplicitare: la teorica cometaria delineata da Galileo, formulata come un’ipotesi «conforme alle apparenze» ‒ in grado di spiegare nel segno della probabilità, non della certezza, i dati rilevati nelle osservazioni del 1618[18] ‒, si inseriva, mi preme qui sottolinearlo, con coerenza nell’immagine della natura fisica radicalmente trasformata dall’estensione telescopica delle frontiere del visibile, che minava la fisica sostanzialistica delle qualità alla base dell’opposizione, di matrice aristotelica, tra l’immutabile perfezione dell’etereo mondo celeste e i fenomeni di generazione e corruzione determinati entro il mondo sublunare dalle reciproche trasformazioni dei quattro elementi.

Nata in un quadro concettuale intriso d’influssi platonici, pitagorici ed ermetici, la cosmologia elaborata nel De revolutionibus da Copernico non aveva di per sé affatto rinnegato, in realtà, il postulato classico della perfezione della figura sferica e del moto circolare dei corpi celesti, aspirando a una maggiore semplicità e armonia rispetto al sistema del mondo aristotelico-tolemaico nel riferire le apparenti irregolarità osservabili a occhio nudo del moto orbitale dei pianeti al continuo mutamento di punto di vista dell’osservatore posto sulla Terra in moto. Maggiore semplicità, quella della cosmologia copernicana, che tuttavia non poggiava, a garanzia del suo paradossale statuto fisico, su una elaborata teoria del movimento alternativa a quella di Aristotele, con la quale era incompatibile. Né, sul piano fisico, il geocinetismo del De revolutionibus aveva posto in discussione la natura materiale, solida degli orbi celesti, nei quali corpi celesti erano incastonati e dai quali erano trasportati nel loro moto di rivoluzione. Copernico sosteneva l’impossibilità, da un punto di vista ottico, di stabilire se è in movimento l’osservatore o l’osservato. Ma tale relatività del punto di vista, ammessa sin dall’antichità, non era affatto conclusiva: come poter decidere in favore del moto reale della Terra? Quali spiegazioni “fisiche” a suo sostegno? Nel 1619, a distanza di decenni, Kepler, un quarto di secolo prima autore del Mysterium Cosmographicum, il cui progetto di radicale rinnovamento dell’astronomia aveva tratto origine da un terreno ugualmente platonico, pitagorico ed ermetico, chiudeva il suo De cometis libelli tres con queste trionfali parole: «quante sono le comete in cielo, tante sono le prove (oltre quelle che si deducono dai moti dei pianeti) che la Terra si muove con moto annuo intorno al Sole»[19].

Il copernicanesimo di Galileo aveva un’altra impronta[20]. Il Sidereus Nuncius e l’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari avevano mostrato i corpi celesti esser del tutto simili alla Terra, la superficie della Luna rocciosa e irregolare, quella del Sole attraversata da nuvole intermittenti, la superficie di Venere esser opaca al pari di quella lunare, Giove al centro del moto di rivoluzione di ben quattro satelliti, e Saturno dall’aspetto deforme, oltre alle migliaia di stelle invisibili a occhio nudo portate alla luce dal telescopio, disseminate nelle costellazioni. Nel contesto di questo rivoluzionario terreno osservativo e sperimentale va letto il celeberrimo brano del Saggiatore sul «grandissimo libro» della natura, «che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi», libro «scritto in lingua matematica», senza la cui conoscenza «è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto»[21], così come la teoria della materia enunciata da Galilei nel § 48, dalle lontane origini atomistiche, che riconosceva come sue uniche proprietà oggettive quelle geometrico-meccaniche (grandezza, forma posizione moto ecc.), suscettibili di misura, ribaltando la gnoseologia aristotelico-scolastica nella spiegazione delle qualità sensibili, ricondotte a «puri nomi» esprimenti le unicamente nostre sensazioni[22].

È lungo questa via maestra, destinata nel lungo periodo a segnare la Rivoluzione scientifica, come ben mostra l’edizione del Saggiatore curata da Michele Camerota e Franco Giudice, che si spalancava un nuovo universo, ben diverso dal mondo finito, concluso e ordinato in cui si rifletteva una scala assoluta di valori secondo la gerarchia fissata dalla cosmologia e dall’immagine premoderna della natura.

  1. Il 24 febbraio del 1616 i consultori del Sant’Uffizio, dopo cinque giorni di camera di consiglio, dichiararono la teoria eliocentrica «formalmente eretica», perché contraddicente il senso del testo delle Sacre Scritture e la comune interpretazione e comprensione dei Santi Padri e dei teologi. Il 26 febbraio il cardinale Bellarmino, su ordine del papa Paolo V, convocò Galileo per «ammonirlo ad abbandonare» la tesi eliocentrica. Il 5 marzo, infine, la Congregazione dell’Indice sospendeva per decreto il De revolutionibus orbium caelestium (1543) di Copernico «fino alla sua correzione». Su ciò cfr. in part. M. Camerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell’età della controriforma, Roma, Salerno Editrice, 2004, pp. 3017-21 e M.-P. Lerner, Copernic suspendu et corrigé: sur deux décrets de la Congregation romaine de l’Index (1616-1620), in «Galilaeana», I, 2004, pp. 21-89.
  2. «Già da molti anni ho aderito alla dottrina di Copernico», scriveva Galileo in una nota lettera a Kepler del 4 agosto 1597 (in G. Galilei, Opere, Edizione nazionale a cura di A. Favaro, 20 voll., Firenze, Barbera, 1890-1909, vol. X, p. 68).
  3. G. Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, Roma, G. Mascardi, 1613.
  4. Per un’appassionante e dettagliata ricostruzione delle straordinarie scoperte astronomiche galileiane e dei dibattiti suscitati dal Sidereus Nuncius cfr. M. Bucciantini, M. Camerota, F. Giudice, Il telescopio di Galileo. Una storia europea, Torino, Einaudi, 2012.
  5. G. Galilei, Il Saggiatore, Edizione commentata, a cura di M. Camerota e F. Giudice, Milano, Hoepli, 2023.
  6. G. Galilei, Il Saggiatore, Edizione critica e commento a cura di O. Besomi e M. Helbing, Roma-Padova, Editrice Antenore, 2005.
  7. Il riferimento è a Eneide I, 401-405: Dixit et avertens rosea cervicere fulsit / ambrosiaeque comae divinum vertice odorem / spiravere; pedes vestis defluxit ad imos; / et vera incessu patuit dea. Ille ubi matrem / adgnovit […]».
  8. [O. Grassi], De tribus cometis anni M. D.C. XVIII disputatio astronomica, Roma 1619, trad. it. in G. Galilei e M. Guiducci, Discorso delle comete, Edizione critica e commento a cura di O. Besomi e M. Helbing, Padova, Antenore, 2002, p. 283.
  9. «In terzo luogo, il seguente argomento conferma tale conclusione: la cometa, osservata con il telescopio, non presenta appena un ingrandimento, è stato tuttavia appurato da duratura esperienza e provato con motivi ottici, che tutti gli oggetti visti con questo strumento, appaiono maggiori di quelli osservati ad occhio nudo, in conformità tuttavia alla legge, per cui gli oggetti dicevano da esso telescopio ingrandimento vieppiù minore, quanto sono più lontani dall’occhio. Ed è in conformità a questa legge che le stelle fisse, la cui distanza da noi è superiore a quella di tutti gli altri oggetti celesti, non acquisiscono tramite telescopio ingrandimento sensibile. Poiché dunque si è osservato che la cometa mostrava solo un debole ingrandimento, dovremmo dire che ad una distanza maggiore di quella a cui si trova la luna, apparendo quest’ultima al telescopio molto più grande di [quanto appaia a occhio nudo]. So che, per taluni, questo argomento è di scarsa portata; ma costoro forse prendono pochi esami i principi dell’ottica, dai quali risulta necessariamente l’efficacia di questo argomento per confermare ciò che trattiamo»: ivi, p. 283. Rispetto a ciò Galileo, nel Saggiatore, confermerà quanto sostenuto nel Discorso delle comete, ovvero che «l’argomento preso dal minimo ingrandimento degli oggetti remotissimi non val nulla, perché falso», il telescopio ingrandendo tutti gli oggetti visibili secondo la medesima proporzione, indipendentemente dalla distanza.
  10. «Per tutto il tempo che si vide la cometa, io mi ritrovai in letto indisposto, dove, sendo frequentemente visitato da amici, cadde più volte il ragionamento sulle comete, onde m’occorse dire alcuno de’ miei pensieri, che rendevano piena di dubbi la dottrina datane sin qui»: G. Galilei, Il Saggiatore, Edizione commentata a cura di M. Camerota e F. Giudice, op. cit., § 35, p. 35 [a questa edizione farò riferimento nelle note che seguono].
  11. G. Galilei e M. Guiducci, Discorso delle comete, op. cit., § 177.
  12. La continuazione del moto cometario oltre lo zenit declinando verso settentrione costituiva infatti per Grassi la prova schiacciante del loro muoversi in circolo: cfr. [O. Grassi], De tribus cometis, op. cit.
  13. G. Galilei e M. Guiducci, Discorso delle comete, op. cit., § 195.
  14. Cfr. M. Camerota, F. Giudice, «La strada al ritrovamento del vero». Il Saggiatore come manifesto del nuovo sapere, Introduzione a G. Galileo, Il Saggiatore, op. cit., p. XXXV.
  15. Nell’autunno del 1619, dando alle stampe il De cometis libelli tres, Kepler riaffermava la realtà del movimento di rotazione e rivoluzione della Terra, ribadendo che i corpi celesti apparsi nel 1618 si muovevano in linea retta nello spazio cosmico, in accordo con la teoria cometaria per primo da lui enunciata nel 1604 nell’Appendix de motu cometarum del decimo capitolo dell’Astronomia pars optica, parte seconda del monumentale Ad Vitellionem Paralipomena (Ad Vitellionem Paralipomena, quibus Astronomiae pars optica traditur, Frankfurt, Claudium Marnium & haeredes Ioannis Aubrii,1604, in Id., Gesammelte Werke, a cura di W. Von Dick, M. Caspar, München, C. H. Beck, 1937-2017, 22 voll., vol. II).
  16. «Ma a questo punto odo un non so chi sussurrarmi all’orecchio, di nascosto e con timore: il moto della Terra. Lungi da me questa espressione, falsa e sgradita a orecchie pie. Certo, la hai bisbigliata con prudenza e a bassa voce, ma se così fosse, risulterebbe un fatto conclamato che l’opinione di Galileo non si baserebbe che su questo falso movimento. Se infatti la Terra non si muove, tale moto rettilineo non si accorda con le osservazioni della cometa; ma è certo per i cattolici che la Terra non si muove; sarà dunque altrettanto certo che questo moto rettilineo non si concilia con le osservazioni cometarie e perciò deve stimarsi non adatto al nostro caso. Non ritengo però che ciò sia mai venuto in mente a Galileo, che conobbi sempre per persona Pia e devota»: G. Galilei, Il Saggiatore, op. cit., § 29, p. 166.
  17. G. Galilei e M. Guiducci, Discorso delle comete, op. cit., §§ 209-10.
  18. «[…] noi non ci allontaniamo dal nostro costume, ch’è di non affermar per certe se non le cose che noi sappiamo indebitamente, ché così c’insegna la nostra filosofia e le nostre matematiche»: G. Galilei, Il Saggiatore, op. cit., § 20, p. 123.
  19. J. Kepler, Gesammelte Werke, op. cit., vol. VIII, p. 220.
  20. Per un confronto, anche riguardo alla componente platonica del pensiero galileiano, cfr. M. Bucciantini, Galileo e Keplero. Filosofia, cosmologia e teologia nell’Età della Controriforma, Torino, Einaudi, 2003.
  21. G. Galilei, Il Saggiatore, § 6, pp. 46-47.
  22. Ivi, pp. 246-53.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)

«Vengon di Lecco nuvole pesanti». Due quartine di una trilogia giovanile di Gadda poeta

Author di Pier Paolo Pavarotti

Tra le produzioni certo minori del Gadda giovane, o piuttosto adolescente, restano alcune poesie di metrica tradizionale e gusto arcaicizzante che si potrebbero considerare, anche per contiguità cronologica, un’incipitale minima trilogia del poeta esordiente. Il valore in sé modesto dei versi non ne giustifica il quasi completo oblio della critica, se non altro per il riscontro di alcune tematiche poi rilevanti nel Gadda maturo prosatore. Della prima poesia in particolare, un sonetto, ci si è occupati di recente[1], mentre della terza, un capitolo incompiuto in terza rima, si ha intenzione di occuparsi prossimamente nello specifico. Questa sezione pone l’attenzione sul secondo brano, un paio di quartine (forse spurie), fornendo alcuni elementi di analisi formale e storico-critica.

Testi

Si danno di seguito i testi definitivi della trilogia secondo l’edizione critica di Maria Antonietta Terzoli[2] per un’utile sinossi.

I (1910/1912)

Poi che sfuggendo ai tepidi tramonti

Vaní declive in nebbia la pianura

Per i boschi e i pascoli de’ monti

Senza grido né suono il dì s’oscura

Mute guardano l’erme in su le fronti

De le ville il fornir de l’aratura

E lunghi fuochi accender gli orizzonti

Donde ogni volo ai mesti dì si fura

Nel pomario che al colle il pendío tardo

Sparse già tutto di sue fronde molli

Poi che il greve suo dono ebbe diviso

Del vespro dolce ne le luci io guardo

I pomari deserti i tristi colli

Salutare il vostro ultimo sorriso

***

II (1909/1912)

Vengon di Lecco nuvole pesanti

Oscurandosi il dí roggio, affannoso

E mentre de’ villan sperdonsi i canti

Coglieli il primo soffio impetuoso

La pioggia manda il suo profumo avanti,

Che s’affretti il rozzon lento, affannoso

Per le valli ed i pascoli sonanti

Anzi la notte le mandrie avran riposo

***

III (1909/1912)

Non da le rive spiccasi il rupestro [Grigna: chiosa]

Ma lungi assai ergesi dalle rene

Oltre un sito orrido ed alpestro.

[…]

A lui si vien per duplice convalle

[…]

Prima passar con lunghissimo calle

[…]

Poi che corso buon tratto ebbimo il monte

A mezza costa per castani e forre

Un ermo bianco vidimi di fronte

Che per ispide rupi alza la torre

E battendolo il sol morendo arrossa

La roccia e il muro che sovr’essa corre.

Sotto la valle, d’alto suon commossa

Del suo torrente, ombrandosi per sera

Chiama al riposo in sua silvestre fossa

Ma le pinete nella notte nera

Crosciano lungi per forre e per gole

Ululando si addentra la bufera

Trasmissione

Della prima poesia di Gadda si hanno tre versioni con minime varianti[3]: quella a testo, che corrisponde all’unica pubblicata (su «Epoca»), una ricavata da una lettera a Contini[4] del 1946 e una dettata all’amico critico e scrittore Carlo Roscioni[5] nel 1970. Quest’ultima risale a un incontro tra i due scrittori in occasione della XXXV Biennale di Venezia, in cui il primo dettò al secondo tutte le tre poesie su un cartoncino d’invito (mm. 190×200) conservato nell’archivio Roscioni e recante sul margine sinistro l’indicazione: «Poesie di Gadda scritte sotto dettatura (1970) probab. degli anni del liceo». Della seconda[6] e terza[7] poesia non esistono altre versioni e le minime correzioni presenti sul cartoncino non sono state ritenute degne di menzione dall’editrice, a parte la chiosa topografica segnalata a testo: “Grigna” sta per Grignone (già Monte Coden). Si tratta del nome del rilievo di 2410 metri tra il lago di Como (ramo di Lecco) a ovest e la Valsassina a est, con vista del Resegone manzoniano a sud, probabile meta del Gadda camminatore provetto, già prima del servizio alpino (Non da le rive, v. 6: «Poi che corso buon tratto ebbimo il monte»).

Fonti

Alcune tessere lessicali sono già state individuate perspicuamente e ricalcano quelle segnalate per il primo sonetto (Poesie, pp. 60 e sgg.). Il qualificativo «affannoso» (v. 2) riferito al giorno al tramonto risale probabilmente al Carducci di Rime Nuove (libro III) «e impreca al giorno, che affannoso cala» (Rosa e fanciulla, v. 11). Anche «roggio» come rosso di sera o come cromatismo agreste ricorre nel resto della triade poetica d’inizio secolo. Pascoli in Myricae scrive (sezione Ultima passeggiata): «Al campo, dove roggio nel filare» (Arano, v. 1). In d’Annunzio ricorre undici volte tra prosa e poesia, tra cui (Elettra): «calmo guardò pei fiumi il campo roggio» (La notte di Caprera, XII, v. 358). Nella seconda quartina (v. 6) due elementi rimandano ai trascorsi liceali di Gadda[8]: «rozzon» e la dittologia «lento, affannoso». Il primo si legge in Ariosto: «o ch’io son di natura un rozzon lento» (Satira III, v. 6); poi «rozzon normanno» nella stessa sezione di Myricae (Il cane, v. 5). La seconda si ritrova nell’altro cinquecentesco Annibal Caro: «[traeva sospiri talora impetuosi e rotti] talora lenti e affannosi» (Gli amori pastorali di Dafni e di Cloe. Ragionamento primo). Infine l’espressione «per le valli e pascoli sonanti» (v. 7), ripresa del primo sonetto («per i boschi e pascoli de’ monti»), pare rimontare a Virgilio in tre passi: silvas saltusque (Georgiche III, 40), che si ritrova simile in saltus […] atque in pascua (Georgiche III, 323) e invertito in saltus silvasque (Georgiche IV, 53)[9].

Struttura

Lo schema rimario delle due quartine è ABAB ABAB con rima identica B1-B2 (affannoso), poi frequente in Gadda (Poesie, XIV). I rimanti sono tra loro in relazione eterogenea: antinomica («pesanti-avanti / impetuoso-riposo»), omologa («canti-sonanti»). Quanto agli accenti ritmici dei piedi d’attacco, vige una varietà forse inattesa: il v. 1 è trocheo («vengon»: ‒˄), i vv. 2 e 8 solo peoni terzi («oscurandosi»: ˄˄‒˄), i vv. 3 e 5 anfibrachi («e mentre / la pioggia»: ˄‒˄), il v. 4 dattilo («coglieli» ‒˄˄), i vv. 6 e sgg. sono anapesti («che s’affretti / per le valli»: ˄˄‒[˄]). Ne derivano endecasillabi piani di quattro accenti ritmici principali tranne il v. 7 (di tre), con possibilità di una lettura a tre accenti del v. 4, il più tribolato, e (più difficilmente) del v. 6.

Numerose e diffuse le allitterazioni nasali, meno insistenti le sibilanti, rare quelle liquide (ma significative: «coglieli il primo / per le valli»). In entrambe le quartine compaiono simmetricamente (vv. 1 e 3 / vv. 5 e 8) due forme apocopate e allitteranti in coppie alternate di predicato-sostantivo con gusto arcaicizzante: «vengon-villan / rozzon-avran». Allitterano in particolare i due termini più desueti nel rispettivo secondo verso di ogni quartina: «roggio-rozzon».

Allargando lo sguardo, si rileva come pregevolmente si possa leggere con immediata coerenza ogni verso della seconda quartina di seguito al corrispondente nella prima:

1 e 5) «vengon di Lecco nuvole pesanti / la pioggia manda il suo profumo»

2 e 6) «oscurandosi il dí roggio, affannoso / che s’affretti il rozzon lento, affannoso»

3 e 7) «e mentre de’ villan sperdonsi i canti / per le valli ed i pascoli sonanti»

4 e 8) «coglieli il primo soffio impetuoso / anzi la notte avran riposo»

La combinazione di tutti questi elementi fonici e sintattici genera due quartine di ritmo diverso. La prima ha un andamento alternato, scorrevole (vv. 1 e 3) e claudicante (vv. 2 e 4 con dialefe); la seconda alterna i primi due ritmi (vv. 5 e sgg.), ma termina di slancio con gli ultimi due versi[10].

Tropi

Tra le figure retoriche più rilevanti si contano due ipallagi («dí-affannoso» per la fatica del villano / valli e pascoli – sonanti» per il riverbero del vento), un iperbato («de’ villan […] canti»), un allotropo («sperdonsi» per disperdonsi), un’apostrofe («che s’affretti), una prosopopea («la pioggia manda»), una dittologia («lento, affannoso»), un aulicismo latineggiante («anzi notte»; cfr. ‘commossa’↓)[11]. Un dispositivo figurale di parola e di pensiero non eccessivamente elaborato eppure non disprezzabile. Del resto, fatta salva la maggior lunghezza e la comune tendenza a personificare il paesaggio (Vengon di Lecco, v. 5: «mute guardano l’erme» / Non da le rive spiccasi il rupestro, v. 18: «ululando s’addentra la bufera»), anche le altre due poesie presentano un apparato retorico cospicuo ma non abbandonano un registro narrativo piuttosto piano, colorito da usi lessicali arcaicizzanti (Poi che fuggendo, v. 5: «erme»; v. 6: «fornir»; v. 8: «fura»; v. 9: «pomario» / Non da le rive, v. 2: «rene»; ivi, v. 13: «commossa») o negli allotropi (Poi che fuggendo, vv. 1 e sgg.: «tepidi / vaní declive»; Non da le rive, v. 1: «rupestro»; ivi, v. 3: «alpestro»).

Commento

Si offrono in questa seconda sezione alcuni spunti di lettura stilistica e tematica, per poi spingersi a rilevare la ricezione di questi materiali nel prosieguo dell’opera gaddiana.

Paesaggi

Il punto di vista del poeta è simile al sonetto per come espresso da Gadda:

L’enunciato comporta una visualizzazione: il poeta è, idealmente, sopra un’altura o un poggio o una costa donde veda la pianura discendente verso Milano: per esempio Invernigo. Così può accadere che la pianura discenda verso le nebbie mentre il cielo, sopra la Ca’ Merlata poniamo, si accende nei fuochi della sera[12].

Il periodo adolescente è ricordato sempre con qualche nostalgia. Nel mio caso, tale nostalgia si colora di tonalità romantico-paesistiche profonde, e determinanti il carattere. Il paesaggio e le sue alberature mi hanno affascinato[13].

A queste parole di autocommento basta cambiare alcune località, che qui diventano esplicite almeno nella dizione del capoluogo, ma la geografia e le atmosfere brianzole non mutano: Invernigo sta a Milano come le valli e la Grigna stanno a Lecco. A mutare è lo sviluppo dell’aspetto climatico nelle due poesie. Nel sonetto, dall’inizio coi «tiepidi tramonti» alla fine con «ultimo sorriso» (e il prolettico «dolce»)[14], si alternano scene «mute, nebbia […] senza grido né suono», per concludersi tra «pomari deserti e tristi colli». Nella prima poesia «il dí si oscura» e nella seconda «nuvole pesanti» minacciano pioggia copiosa, annunciata da «soffio impetuoso». Eppure non vi mancano particolari espressivi a ingentilire l’iniziale lontanante sequenza («di Lecco»), giocando su elementi sonori e spaziali («sperdonsi i canti, il suo profumo, pascoli sonanti»), per chiudere sull’immagine quieta della sera. Se nel sonetto la dolcezza della sera a malapena compensa la desolante scena dei saluti finali, qui la pioggia incombente non pregiudica il riposo notturno delle mandrie[15].

Il terzo brano si distingue dai primi due per la caratteristica verticalità dantesca, o meglio piramidalità, pur restando ben identificabile la predilezione montana e agreste dell’autore, e non discostandosi il passo dall’alta Brianza prealpina. L’iniziale riferimento al lago (vv. 1-2: «rive, rene») si eleva subito alle vette (vv. 1 e 3: «rupestro, alpestro») e poi riposa nel «prima passar con lunghissima calle» (v. 6). Ridiscende a tappe, prima nell’inatteso ermo bianco poi «la valle» (v. 13), colpita dal suono della corrente (v. 14). Quindi il torrente stesso, esito al declivio della valle che va «ombrandosi» (v. 14 → Vengon di Lecco, v. 2: «oscurandosi»; Poi che fuggendo, v. 4: «s’oscura»). Infine un’impennata sonora, minerale e vegetale, precipita la scena (vv. 17-18): «crosciano lungi per forre e gole / ululando si addentra la bufera» (lupi ≠ buoi).

Soltanto nella primavera del 2023 è stata pubblicata la nuova edizione critica del Giornale di Guerra e di Prigionia completo di sei taccuini ignoti fino al 2019 e finora inediti, di proprietà degli eredi Bonsanti e acquisiti dalla Biblioteca Centrale di Roma a un’asta bandita da Finarte. In uno di questi si legge un capoverso dedicato alla poesia in esame.

Contro le ragioni dell’egoismo, sopra accennate, c’è anche in me il solito sentimento che chiamerò «brivido piacevole ante tempestatem». L’aspettazione della burrasca non mi turba di sgomento, il vento freddo che scende dal monte mi piace, mi fa gradevolmente accapponare la pelle. Vecchio elemento della mia struttura morale: ricordare la mia adolescenza, il pre-guerra, il mio vecchio sonetto: «Vengon di Lecco núvole pesanti», scritto in un momento di grande sincerità (Cellelager, 15 dicembre 1918)[16].

Come si chiosava nelle pagine precedenti relativamente alle Prealpi lombarde, ancora durante l’ultima fase della prigionia tedesca di Gadda il ricordo del paesaggio alpestre è riconosciuto motore dell’attività poematica dallo stesso autore soldato. Queste annotazioni non contraddicono il commento, ma lo approfondiscono e arricchiscono di una tonalità, evidentemente retrospettiva, morale e temperamentale. Richiamando con l’usato latinorum ginnasiale quel brivido dell’azione, così attesa come salvifica per il tenente Gadda e nei fatti per gran parte sfumata[17].

Pascoli

Un riscontro, di tale ampiezza insperato, con due episodi di Myricae sulle concordanze pascoliane (Il cane, La vite e il cavolo) induce all’approfondimento delle corrispondenze rielaborate qui sotto in forma di sinossi attorno alle quartine gaddiane. Si tratta rispettivamente di due terzine + una quartina dalla sezione Ultima passeggiata e un sonetto dalla sezione Le gioie del poeta.

Da G. Pascoli, Il cane, vv. 1-6

Noi, mentre il mondo va per la sua strada,
noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l’affanno,
e perché vada, e perché lento vada

Tal quando passa il grave carro avanti

del casolare, che il rozzon normanno

stampa il suolo con zoccoli sonanti

***

Da C. E. Gadda, II (1909/1912)

Vengon di Lecco nuvole pesanti

Oscurandosi il dí roggio, affannoso

E mentre de’ villan sperdonsi i canti

Coglieli il primo soffio impetuoso

La pioggia manda il suo profumo avanti,

Che s’affretti il rozzon lento, affannoso

Per le valli ed i pascoli sonanti

Anzi la notte le mandrie avran riposo

***

Da G. Pascoli, La vite e il cavolo, vv. 12 e sgg.

E il core allegra al pio villan, che d’esso

Trova odorato il tiepido abituro

mentre a’ fumanti buoi libera il collo

Si guardino le terzine riprese quasi a calco da Gadda nella seconda quartina ‒ affanno, lento, avanti, rozzon, sonanti → affannoso, avanti, rozzon, lento, sonanti ‒ che pare completarsi nella terzina che chiude il sonetto a fianco: villan, odorato, buoi, libera → villan, profumo, mandrie, riposo.

Pur muovendo da un tema piuttosto diverso come il cane e la sua esistenza a fianco degli uomini (libertà e compagnia)[18], e da un altro invece non lontano come le modeste gioie del contadino (cavolo bollito e tepore domestico), Gadda trae incontestabilmente dal poeta di Castelvecchio alcune delle tessere utili a informare lessico e immagini delle sue quartine. Anche il punto di mira dinamico e sonoro non è molto dissimile perché, mentre Pascoli guarda con simpatia cane, cavallo e contadino (per riduzione metonimica del carro) con lo scalpiccio delle «ruote per la sua strada», Gadda guarda allo stesso modo contadini («villan» plurale < «coglie-li»), cavallo e buoi col sibilo umido[19] «per le valli ed i pascoli». Vi sono certo tensioni fra gli omologhi, come «odorato e profumo», laddove il primo (apax in Gadda) è unicamente positivo mentre il secondo è minaccioso; come «carro dilungato lento lento e rozzon lento, affannoso», laddove il primo non cambia marcia mentre il secondo è invitato ad affrettarsi. Sono proprio tali tensioni che il più reattivo atteggiamento gaddiano produce, benché originate in parte dal medesimo lutto, quello di un padre e poi di fratelli morti troppo presto (il calesse fatale a Ruggero Pascoli, l’odiata villa in Brianza di Francesco Gadda), con la perdita di status e il notorio imprinting di figure femminili castranti (le sorelle Ida e Maria Pascoli, la sorella Clara Gadda e la madre Adele Lehr).

Questa denominazione d’origine entra in modo discreto e geniale nel discorrere gaddiano, insinuandosi nel penultimo verso della poesia come la Purloined letter di Poe, col suo tipico gusto per l’invenzione e il calembour, ovvero semplicemente come (P)ascoli. Da ciò si comprende come i vertici della sperimentazione linguistica si raggiungeranno nei molteplici generi e registri della sua produzione, dalla poesia adolescenziale e matura (Autunno) alla prosa d’arte (Rosai, De Pisis), dalla divulgazione storica e scientifica (I Luigi di Francia, Pagine di divulgazione tecnica) al romanzo multivernacolare (Il Pasticciaccio), dalla critica (Foscolo) al cinema (Il palazzo degli ori), dal drammatico (La cognizione) al comico (A tavola, In ufficio), dalla narrazione autobiografica (Diario di guerra) all’invettiva (Eros e Priapo), fino alla corrispondenza professionale (Ammonia Casale).

Cahiers

Nei materiali preparatori del sempre fecondo Racconto italiano di ignoto del Novecento (incompiuto del 1925)[20], in particolare nel secondo dei Cahiers d’Études, si leggono due passi contigui e una dichiarazione autocritica che rimandano ai paesaggi analizzati poc’anzi.

Le ville in Brianza, i poderi meridiani, i vecchi castelli! Non c’è più nulla! Meglio così. Passavo ragazzo… di prima mattina… sul ponte della Malastrada… con il mio cavallino… con un calesse… con il Giacomo che guidava… Povero vecchio!…» Il ragazzo si arrestò. Passava fanciullo sul ponte della Malastrada: la luna dell’alba vaniva nell’opale meraviglioso, presago di un gaudio fervido, di una chiara esultanza. Ville, case, uomini, buoi: e le foglie gemmanti dalla [per quella] freschezza[21].

Difficile tradurre in prosa i miei vecchi versi[22].

Il panorama socio-economico è desolante[23] e passa in rassegna – «elenca» avrebbe poi scritto Gadda nella Cognizione – ciò che Grifonetto, alter ego dell’autore, ha perduto e rimanda alla scena delle quartine adolescenziali, compreso il preziosismo dell’allotropo verbale («vaniva» → Poi che fuggendo, v. 2: «vaní»). La famigerata villa, i campi a solatio, vestigia medievali[24], poi un diminutivo animale e un cimelio che paiono ricopiati dal poeta di Castelvecchio: tutto riprende il lucido delirio reazionario della pagina precedente. Eppure la natura riserva ancora qualcosa per cui lottare, uno spettacolo astronomico che ridisegna i confini psicologici dello spettacolo agreste[25]. Contadini e buoi, come la vegetazione, sono per un attimo trasfigurati da tanta bellezza, prima della tragica risoluzione finale.

Pasticciaccio e Cognizione

In questa sede si vogliono rilevare i recuperi dei lessemi più caratteristici delle quartine in esame nelle due opere narrative più importanti della piena maturità (1957, 1963). I termini trascelti (participio gaddiano, if any) sono – consci di una scelta con inevitabili margini arbitrari ‒ espressi in ordine alfabetico. Mentre per gli antichismi allitteranti «roggio» e «rozzon» non vi sono occorrenze, ve ne sono per il participio allotropo «sperso/e».

In Quer Pasticciaccio brutto di via Merulana (redazione definitiva, fine capitolo IX) si legge: «nereggiò l’ala d’un tùffolo, o d’una spersa ghiandaia»[26]; anche qui in ambito campestre, lungo il tragitto Roma-Velletri («[un calesse…] verso Tor di Gheppio e poi verso Casale Abbrusciato»). Il volo d’uccello richiama quello del primo sonetto (Poi che fuggendo, v. 8) nella crescente desolazione («le case dei viventi, mute nella lontananza dei coltivi»).

Nella Cognizione del dolore (redazione 1970, parte I, cap. IV) si trova: «non credo nel vigile… che trasvola… come un’ombra… a infilare il bigliettino dentro la serratura… del cancello; che ha duecentocinquanta ville, e relativi boschi, da biciclettargli accanto, nel buio…. sperse in tre o quattro comuni»[27]. Il contesto si ricava dal dialogo tra il medico Felipe Higueróa e il paziente-protagonista Gonzalo, una lunga tirata contro il sistema sociale, tributario e di sicurezza del Maradagál.

Sempre nella Cognizione del dolore (parte II, capitolo VI) leggiamo: «carri discoperti con passerella centrale che il gaucho dai malinconici occhi, sovrintendendo percorre. Tale gli appariva fortuna nel Sud America. Tempestoso mare addosso le zattere sbatacchiate delle genti sperse, slavate»[28]. Al principio dell’ennesima tirata contro il mondo circostante, dell’ennesimo mala tempora di liceale memoria (liceo Uguirre, Lukones < liceo Parini, Milano), Gadda, memore dell’esperienza professionale in Argentina, getta uno sguardo al caotico aggregato antropologico sudamericano, tenendo un occhio alla tradizione della pampa.

Il lemma “villan”, nell’accezione intesa nella poesia, ricorre un paio di volte nel Pasticciaccio. La prima al plurale, come nella seconda quartina ma nella forma piana; la seconda come riproduzione del noto proverbio nell’identica forma apocopata ma di numero singolare.

In Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana (capitolo VI) si legge: «a vincere, ne’ cuori dubbiosi, ne’ villani incaponiti, il timor contraria, il timor della privata vendetta»[29]. L’ambiente è quello del commissariato romano in cui alcuni agenti puntano a scardinare la reticenza di possibili testimoni non proprio signorili e ben disposti nei confronti della pubblica sicurezza, impauriti dalle possibili rappresaglie.

Nel capitolo VIII si trova: «abilita il destinatario entrato in coma, carta canta villan dorme, vien fulgurato a esercitare quell’arte assonnata, quel mestieruccio zoppo che aveva tocche tocche esercitato fin là, fino all’Olio»[30]. Disceso dal commissariato di Marino, accompagnato da una lirica veduta della capitale sullo sfondo di Tivoli, del Soratte, degli Equi, del Velino, sintetizzata «in un mattutino di Scialoia», il brigadiere Pestalozzi si dirige in città e riflette sulle lungaggini delle pratiche burocratiche, spesso sbrogliabili postume. Il proverbio emerge, dunque, da una lunga virtuosistica descrizione giocata fra cromatismi e gergo locale. Nella Cognizione il termine ricorre in accezioni spregiative e soltanto col vezzeggiativo “villanello” in quella intesa nella poesia: a questa, dunque, ci si limita nella rassegna degli usi.

Si legga ancora La cognizione del dolore (parte II, capitolo VII):

lo villanello, a cui la robba manca Tale è infatti, pensò, è la funzione sociale dello hildago, e tanto più del marchese, al cui nome venga intitolata, nei registri del catasta maragadalese, la proprietà di una villa serruchonese: insaccare le pudenda del villico nei propri ex-pantaloni, pagando a di lui conto le tasse, dopo averlo intensamente amato[31].

Gonzalo inveisce sarcasticamente contro il fattore importuno che si aggira per la villa sporcando dovunque, mentre riceve dalla generosa madre i vestiti buoni dismessi dai figli. Continua la sua speciale “filosofia della villa” (platonica IdeaVilla) come ricettacolo delle sventure economiche e tributarie causate dall’incauto padre. Non si può, infine, eludere che le citazioni già ritenute pertinenti come echi narrativi del primo sonetto “contornano” quest’ultima, vicina alla seconda poesia gaddiana[32].

Conclusioni

L’attenzione critica verso la poesia di Carlo Emilio Gadda «signore della prosa», come recita l’epigrafe al cimitero acattolico del Verano, è stata decisamente modesta, se si eccettuano la magistrale lettura di Autunno da parte di Guglielmo Gorni (1973)[33] e naturalmente il lavoro della curatrice dell’edizione critica utilizzata, Maria Antonietta Terzoli. Manca una monografia di riferimento e mancano strumenti specifici di cui godono altri poeti come le concordanze e i rimari.

Se la qualità intrinseca della sua produzione lirica risulta in gran parte non eccelsa, non sono esclusi versi degni di memoria e di analisi e, nel complesso, la silloge mostra consapevolezza linguistica e retorica e un’ampia gamma di riferimenti culturali. Soprattutto lo studio della sua poesia è fecondo di rimandi alla produzione narrativa posteriore, cosa che dovrebbe interessare ogni specialista gaddiano, tanto più che esistono utili strumenti informatici online (senza distinzione di genere letterario) elaborati dall’Istituto di Linguistica Computazionale Antonio Zampolli di Pisa.

In questo contributo ci si è concentrati soprattutto sull’analisi della seconda poesia, offrendo alcuni spunti di lettura, senza trascurare il contesto rappresentato dalle altre due poesie citate: come si è tentato di dimostrare, i rimandi interni, infatti, autorizzano a considerare le tre composizioni come parti di una primitiva trilogia liceale.

Si è rilevato come in questi campi le due quartine adolescenziali non siano del tutto scevre da qualità artistiche e dall’uso consapevole degli strumenti linguistici tipici della poesia in rima. Registrati i debiti maggiori verso le figure letterarie più significative del periodo e della formazione liceale dell’autore, si è ulteriormente verificato quello con Pascoli, fino a trovarne un probabile Urtext formato dalla combinazione di due testi di simile metrica nella prediletta raccolta Myricae: il cantore di Barga emerge, dunque, sempre più come un modello compositivo determinante per Gadda.

La seconda parte del contributo è dedicata al rilevamento della fortuna di alcuni lessemi rari all’interno della produzione narrativa successiva. In particolare, sono stati verificati come apax l’aggettivo “roggio”, facilmente dannunziano, e il sostantivo “rozzon”, dapprima ariostesco ma non meno pascoliano quanto al recupero, riguardo al qualificativo allotropo “sperso” e al sostantivo “villano”, in alcuni loci di opere maggiori quali Pasticciaccio e Cognizione o di rilevante interesse filologico quale il Racconto italiano di ignoto del Novecento.

Non si è rinunciato a fornire in nota ulteriori riscontri relativi alla produzione novellistica (Madonna dei Filosofi, Il castello di Udine, LAdalgisa, La Meccanica) e non solo (Meditazione Milanese), anche rispetto ad altri termini caratteristici della poesia in esame (come “sonanti”), o più in generale all’atmosfera paesaggistica tipica della trilogia. Quest’ultima, eredità biografica precocemente fissatasi, si conferma infatti come l’immaginario dominante nella figurazione letteraria di Gadda poeta, studente e soldato.

Il cinquantesimo anniversario della sua morte potrebbe rivelarsi l’occasione propizia per un risveglio degli studi sulla poesia, il cui corpus complessivo ammonta a venticinque composizioni secondo il “canone Terzoli”, cui va la gratitudine per molti recuperi “archeologici” negli archivi gaddiani.

Bibliografia essenziale di riferimento

Di C. E. Gadda:

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Id., Opere di Carlo Emilio Gadda. Romanzi e Racconti I [1989], a cura di D. Isella ed E. Manzotti, Milano, Garzanti, 2007;

Id., Opere di Carlo Emilio Gadda. Saggi Giornali Favole e altri scritti I [1991], a cura di Dante Isella, vol. III, Milano, Garzanti, 2008;

Id, Opere di Carlo Emilio Gadda. Saggi Giornali Favole e altri scritti II [1992], a cura di D. Isella, M. A. Terzoli, vol. IV, Milano, Garzanti, 2008;

Id. Racconto italiano di ignoto del Novecento, in Opere di Carlo Emilio Gadda. Scritti vari e postumi, a cura di D. Isella, vol. V, Milano, Garzanti, 2008;

Id., Opere di Carlo Emilio Gadda. Romanzi e Racconti II [1989], a cura di D. Isella, Milano, Garzanti, 2011;

Id., Giornale di guerra e di prigionia, nuova edizione, a cura di P. Italia, Milano, Adelphi, 2023;

G. Contini-C. E. Gadda, Carteggio 19341963. Con 63 lettere inedite, a cura di D. Isella, G. Contini, G. Ungarelli, Milano, Garzanti, 2009.

Su C. E. Gadda:

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U. Betti, Il re pensieroso, Milano, Treves, 1922;

G. Gorni, Lettura di ‘Autunno’ (Dalla ‘Cognizione’ di Carlo Emilio Gadda), in «Strumenti critici», XXI-XXII, 1973, pp. 291-325;

A. Caro, Gli amori pastorali di Dafni e di Cloe. Ragionamento primo, in Id., Opere, a cura di Stefano Jacomuzzi, Torino, UTET, 1974;

G. Pascoli, Myricae, edizione critica a cura di G. Nava, voll. 2, Firenze, Sansoni, 1974;

L. Ariosto, Satire, edizione critica e commentata a cura di Carlo Segre, Torino, Einaudi, 1987;

G. C. Roscioni, Il duca di SantAquila. Infanzia e giovinezza di Gadda, Milano, Mondadori, 1997;

C. Fagioli, Una «chiave antilirica» di interpretazione. La poesia «Autunno» nella «Cognizione del dolore», in «Allegoria» XIV, 40-41, 2002, pp. 21-52;

J. L. Borges, Juan 1, 14, in Id., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, vol. II, Milano, Mondadori, 2005;

D. Alighieri, La Divina Commedia, testo di Giorgio Petrocchi, commento di Giuseppe Villaroel (1964), a cura di Guido Davico Bonino, Carla Poma, Milano, Mondadori, 2008;

M. A. Terzoli, Alle sponde del tempo consunto, Pavia, Effigie, 2009;

G. d’Annunzio, Elettra, edizione critica a cura di Sara Compardo, Venezia, Cà Foscari, 2013;

A. R. Dicuonzo, Lacheronte della mala suerte. Sociostoria del dolore nella «Cognizione» gaddiana, in «Intersezioni», XXXIII, I-2013, pp. 81-112;

Virgilio, Tutte le opere, a cura di Guido Paduano, Milano, Bompiani, 2016;

G. Patrizi, Gadda, Roma, Salerno Editrice, 2017;

P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville: annotazioni su Gadda poeta e il suo primo sonetto, in «Kepos», IV, 1-2021, pp. 104-29.

  1. Cfr. P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville: annotazioni su Gadda poeta e il suo primo sonetto, in «Kepos», IV, 1-2021, pp. 104-29.

  2. Questo contributo si basa sulla preziosa e insostituibile edizione critica di Maria Antonietta Terzoli, verso cui il debito è destinato a restare sottostimato (C. Gadda, Poesie, Torino, Einaudi, 1993).

  3. C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 3 (testo), pp. 59-60 (commento), pp. 103-104 (note filologiche). Si rinvia all’Introduzione di questa edizione e al saggio M. A. Terzoli, Alle sponde del tempo consunto, Pavia, Effigie, 2009, pp. 56-80, per i raffronti e i cospicui debiti con la raccolta poetica di Ugo Betti (1892-1953; scrittore e giudice di cui Gadda fu amico al fronte e recensore in congedo), Il re pensieroso, Milano, Treves, 1922.

  4. G. Contini & C. E. Gadda, Carteggio 19341963. Con 63 lettere inedite, a cura di D. Isella, G. Contini, G. Ungarelli, Milano, Garzanti, 2009, pp. 229-31: «A tergo ti scrivo un mio sonetto (ridicolo) del 1912, alla fine del liceo: ottobre. Scritto a Longone al Segrino, per gentilissima […] A Mina» (Firenze, 27/1/1946).

  5. C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 104. In calce al sonetto: «prima della I guerra mondiale».

  6. Ivi, pp. 4 (testo), 60 e sgg. (commento), 104 (note filologiche).

  7. Ivi, pp. 5 (testo), 61 e sgg. (commento), 104 e sgg. (note filologiche).

  8. Commentando il primo sonetto, Gadda racconta: «Dante e l’Ariosto i miei amori […] Arieggia vagamente un ipotetico impasto Carducci-Petrarca. «Pomario» fu parola, allora, dannunziana: (Carducci e molto D’Annunzio a memoria)» (in «Epoca», 12 settembre 1954, citato in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103). Così Dante: «lo sol, che dietro fiammeggiava roggio» (Pg III, 16; cfr. Par XIV, 87).

  9. «Più tardi Orazio e Virgilio. Di Orazio ho molte liriche a memoria, come del resto di tanti lirici» (in «Epoca», art. cit. in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103). Sulle prime prove poetiche si veda anche G. Patrizi, Gadda, Roma, Salerno Editrice, 2017, pp. 191 e sgg.

  10. La metrica del primo sonetto è stata analizzata in P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville…, art. cit., pp. 5-6, e non si discosta in fondo dalle conclusioni della Terzoli: «non segnala particolari tensioni in sede di rima» (C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. XIV). Per le sue caratteristiche (capitolo incompiuto in terza rima) non si ritiene opportuno trattare qui la terza poesia.

  11. Risuona un passo del Diario: «1 volta sola, a sera: il caffè ante lucem, per ragioni di fuoco» (C. E. Gadda, Racconto italiano di un ignoto del Novecento, in Opere di Carlo Emilio Gadda. Scritti vari e postumi, a cura di D. Isella, Milano, Garzanti, 2008, vol. V, p. 566). Quindi nei Miti del somaro: «il prurito […] di dover vivere a tutti i costi una vita commossa» (La consapevole scienza, in C. E. Gadda, Racconto italiano di un ignoto del Novecento, vol. V, op. cit., p. 914). Potrebbe valere anche per queste quartine l’autocommento di Gadda al sonetto: «non è scemo del tutto» (in «Epoca», citato in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103).

  12. Da «Epoca» (in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., pp. 59 e 103). Sempre con riferimento al primo sonetto Poi che fuggendo: «La breve lirica fu erogata di getto e messa su carta senza ripentimenti, senza, ahimè!, varianti: a Longone, in Brianza, nella nostra casa di campagna».

  13. Intervista Rai in via Merulana, non datata ma posteriore al Pasticciaccio (cfr. l’URL https://youtu.be/L3IGFpdo0t4: ultima consultazione: 15 agosto 2023).

  14. Così intende Gadda nell’autocommento (C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103). Sul finir del giorno del contadino si legga Certezza (in C. E. Gadda, Romanzi e Racconti I [1989], a cura di Dante Isella, Emilio Manzotti, Milano, Garzanti, 2007, vol. I, p. 39).

  15. «Il motivo conduttore delle prime poesie (e in realtà un po’ di tutta la raccolta) è lo spazio della natura osservato come teatro di eventi che disegnano un universo ora di pacata ora di drammatica mestizia» (G. Patrizi, Gadda, op. cit., p. 191).

  16. Taccuino DP3, Vita notata. Storia, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, Raccolta ’900, catalogo: A.R.C.59.Gadda.I.1/7; inventario: A2963023, c. 45v, ora in C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, nuova edizione, a cura di P. Italia, Milano, Adelphi, 2023, p. 467.

  17. P. Italia, Note al testo, in C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, nuova edizione, op. cit., p. 557.

  18. Sovviene per la scena pascoliana del cane di campagna il Borges della maturità (1969): «la misteriosa devoción de los perros» (J. L. Borges, Juan 1, 14, in Id., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, vol. II, Milano, Mondadori, 2005, p. 261).

  19. «Le riviere sonanti grondavano giù dai muraglioni […] dove ci sono le stalle con i buoi» (C. E. Gadda, Cahiers II, in Id., Racconto italiano di ignoto del Novecento, op. cit., p. 403). Nel Castello di Udine (1934) si legge: «nel croscio solitario della pioggia» (Sibili dentro la valle in C. E. Gadda, Romanzi e Racconti I, op. cit., p. 265) → C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, in Opere di Carlo Emilio Gadda. Saggi Giornali Favole e altri scritti II, a cura di D. Isella e M. A. Terzoli, vol. IV, Milano, Garzanti, 2008, pp. 784 e sgg.).

  20. Per la tormentata vicenda testuale si rimanda alle preziose note di Dante Isella (C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, op. cit., pp. 1267-78).

  21. C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento, op. cit., p. 568.

  22. Ivi, p. 577.

  23. Il nesso tra rovescio delle sorti, aggressività e status in Gadda è stato indagato con riferimento al contesto geografico e politico (A. R. Dicuonzo, Lacheronte della mala suerte. Sociostoria del dolore nella «Cognizione» gaddiana, in «Intersezioni», XXXIII, I-2013, pp. 81-112). Nell’opera ricorre pure «sonanti» (C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento, op. cit., p. 403), come i «sonanti pini» della Meccanica (C. E. Gadda, Opere di Carlo Emilio Gadda. Romanzi e Racconti II, a cura di D. Isella, vol. II, Milano, Garzanti, 2011, p. 529).

  24. «Avevano avuto ville in Brianza, campi e terre hanno avuto. Hanno avuto una fede, una certezza, una prepotenza addosso […] lo stemma che sui (sull’arco dei) vecchi castelli soleva dire: “State attenti, carogne” e fino il vento e fin la tempesta solevano (parevano) fermarsi davanti mogi» (C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, op. cit., p. 567). Con rimando alle infantili fantasie nobiliari di un gioco inventato col fratello Enrico e il nipote Carlo Fornasini a Longone negli anni 1906-1907. Il Ducato di Sant’Aquila (Carolus Emilius III) aveva stemma araldico e motto: «Justitiam sequamur, nos sequetur victoria» (G. C. Roscioni, Il duca di SantAquila. Infanzia e giovinezza di Gadda, Milano, Mondadori, 1997, pp. 72-78).

  25. Nel contesto letterario assai diverso della Meditazione Milanese (I, XVII), con analogo riferimento astronomico: «Quando un sistema si ‘rilassa’ ciò significa che dei miliardi di miliardi di relazioni in esso convergenti, in lui nucleatasi, alcune si scindono, si sperdono, più non intervengono in esso […] Le infinite relazioni si scindono, come vecchie stelle si frantumano e i loro residui si sperdono nello spazio infinito e vengono assorbiti da altri nuclei stellari» (Il cosiddetto bene in C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, op. cit., p. 758). Notare l’ulteriore allotropo «nucleatosi». Anche qui ricorre «sonanti» (ivi, 893).

  26. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, II, op. cit., p. 268.

  27. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, I, op. cit., p. 653.

  28. Ivi, p. 692. Un identico Urtext di questo passo si trova nel secondo racconto dell’Adalgisa (edizione col titolo I sogni e la folgore) Navi approdano al Parapagàl (C. E. Gadda, Romanzi e Racconti, II, op. cit., p. 429). Ancora in Adalgisa si legge: «come di vaccina che si sia spersa nei laberinti e nei romitaggi del monte: strappata da un rotolare di tuoni alle consuetudini del pascolo, alla sodalità della mandra. E c’era, cosa incredibile, del rossore» (Quando il Girolamo ha smesso, in C. E. Gadda, Romanzi e Racconti, I, op. cit., p. 322). Tanto per restare in continuità vespertina con la trilogia poetica giovanile: «fuochi accender, roggio, arrossa». L’atmosfera cupa torna nel Castello di Udine: «la mala tromba, quando muggirà di sopra dai nùvoli neri […] con sibili dentro le buie valli» (Sibili dentro le valli: ivi, pp. 267 e 274).

  29. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, II, op. cit., p. 143.

  30. Ivi, p. 191.

  31. Ivi, vol. I. p. 707.

  32. Cfr. P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville…, art. cit., pp. 117-122. Si aggiunga a proposito la Casa Merlata della Madonna dei Filosofi (C. E. Gadda, Romanzi e Racconti I, op. cit., p. 101).

  33. G. Gorni, Lettura di ‘Autunno’ (Dalla ‘Cognizione’ di Carlo Emilio Gadda), in «Strumenti critici», XXI-XXII, 1973, pp. 291-325.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)