Italo Calvino lettore dell’”Autre monde ou Les États et Empires de la Lune” di Cyrano de Bergerac

Author di Nunzio Allocca

Quando individua, in apertura delle incompiute Norton Lectures, nella leggerezza il primo dei valori letterari da salvaguardare nel Terzo millennio, Italo Calvino chiama in causa, tra i numerosi autori passati in rapida rassegna dall’antichità all’età contemporanea, una delle figure più originali nel panorama filosofico-scientifico dell’età galileiana, Savinien Cyrano de Bergerac (1619-1655)[1]. Elogiato da Calvino come «scrittore straordinario», l’autore di L’autre monde ou Les États et Empires de la Lune e di Les États et Empires du Soleil ‒ usciti postumi (ed espurgati dei passi ritenuti più sconvenienti) rispettivamente nel 1657 e nel 1662[2] ‒ è ricordato nelle Lezioni americane come «il primo scrittore del mondo moderno che fa esplicita professione d’una concezione atomistica dell’universo nella sua trasfigurazione fantastica»[3].

Entusiasta frequentatore delle conferenze parigine del canonico Pierre Gassendi (1592-1655)[4], le cui opere erano ammirate dai dotti e dagli eruditi libertini, rinnovatore in Francia del naturalismo materialistico e dell’epicureismo tornati prepotentemente alla ribalta nel secondo Cinquecento, Cyrano aprì la filosofia clandestina a esplorazioni narrative che mettevano alla prova del demone del paradosso e della ludica imprevedibilità dell’immaginazione i discorsi del senso comune e quelli dell’autorità scolastica[5].

Cyrano è personalità “comique” opposta e complementare a quella tragica di Blaise Pascal, il quale in un noto ed emblematico passaggio dei Pensées ‒ «Le silence éternels de ces espaces infinis m’effraie»[6] ‒ aveva espresso il proprio sgomento di fronte al crollo post-copernicano dell’antica immagine del Cosmo, un tutto ordinato e conchiuso in cui si rispecchiava una scala assoluta di valori (armonia, significato, finalità) secondo la gerarchia al contempo fisica e ontologica fissata dalla cosmologia aristotelico-tolemaica, che risaliva dall’oscura e pesante Terra (immobile al centro dell’universo, regno della generazione e della corruzione) all’inalterabile perfezione dei pianeti, delle stelle e delle sfere celesti[7].

La piena adesione alla tradizione filosofica e letteraria del materialismo fisico-etico epicureo divenne in Cyrano ‒ prolifico autore di mordaci Mazarinades nonché di brillanti commedie e tragedie improntate alla critica della religione, della spiritualità dell’anima e della sua immortalità ‒ fertile sfondo teorico e strumento per piegare lo spazio infinito spalancato dalla cosmologia secentesca alla sperimentazione narrativa non antropocentrica della navigazione interplanetaria. Questa nell’Autre monde ou Les États et Empires de la Lune e negli États et Empires du Soleil assumeva, con libero e giocoso reimpiego delle fonti letterarie e mitologiche classiche, forma di esplorazione romanzata dell’inesauribile variabilità materiale dell’universo e dei suoi abitanti quale prodotto dell’incessante e precaria combinatoria di particelle indivisibili inosservabili, gli atomi, celebrando la fraternità di tutti gli esseri inanimati e animati, plasmati dalla stessa materia[8].

Nel commentare un brano di particolare efficacia polemica antifinalistica contenuto nell’Autre monde ou Les États et Empires de la Lune[9], così Calvino scrive:

In pagine la cui ironia non fa velo a una vera commozione cosmica, Cyrano celebra l’unità di tutte le cose, inanimate o animate, la combinatoria di figure elementari che determina la varietà delle forme viventi, e soprattutto egli rende il senso della precarietà dei processi che le hanno create: cioè quanto poco è mancato perché l’uomo non fosse l’uomo, e la vita la vita, e il mondo un mondo[10].

Il continuo avvicendarsi degli esseri in un universo post-copernicano à part entière materiale, quello descritto nell’Autre monde ou Les États et Empires de la Lune, che non conosce più gerarchie ontologiche e rigetta ogni dualismo spirito-corpo, porta Cyrano a proclamare, osserva Calvino, la fraternità degli uomini con i cavoli in un divertente e spiazzante brano anticartesiano sull’intelligenza sensitiva dei vegetali, ritenuti capaci di avvertire dolore dagli abitanti della Luna, i quali non si nutrono di carne o verdure «se non sono morte da sole»[11]. Si legge nelle Lezioni americane:

Se pensiamo che questa perorazione per una vera fraternità universale è stata scritta quasi centocinquant’anni anni prima della Rivoluzione francese, vediamo come la lentezza della coscienza umana a uscire dal suo parochialism antropocentrico può essere annullata in un istante dall’invenzione poetica. Tutto questo nel contesto di un viaggio sulla luna, dove Cyrano de Bergerac supera per immaginazione i suoi più illustri predecessori, Luciano di Samosata e Ludovico Ariosto. Nella mia trattazione sulla leggerezza, Cyrano figura soprattutto per il modo in cui, prima di Newton, egli ha sentito il problema della gravitazione universale; o meglio è il problema di sottrarsi alla forza di gravità che stimola talmente la sua fantasia da fargli inventare tutta una serie di sistemi per salire sulla luna, uno più ingegnoso dell’altro: con fiale piene di rugiada che evaporano al sole; ungendosi di midollo di bue che viene abitualmente succhiato dalla luna; con una palla calamitata lanciata in aria verticalmente ripetute volte da una navicella[12].

In un articolo apparso il 24 dicembre 1982 su «la Repubblica», che sarebbe servito da materiale preparatorio per la lezione sulla leggerezza delle Norton Lectures, Calvino si era soffermato più in dettaglio sull’analisi del contenuto dell’Altro mondo ovvero Stati e imperi della Luna e sul suo significato per la modernità[13]. «Qualità intellettuale e qualità poetica convergono in Cyrano, e ne fanno uno scrittore straordinario, nel Seicento francese e in assoluto», scrive con entusiasmo Calvino: polemista libertino «coinvolto nella mischia che sta mandando all’aria la vecchia concezione del mondo», partigiano del sensismo di Gassendi e dell’astronomia copernicana, sebbene in primo luogo nutrito della filosofia naturale del Cinquecento italiano, da Cardano a Bruno e Campanella, Cyrano è sì uno scrittore «barocco», capace di «pezzi di bravura» nei quali stile e oggetto descritto sembrano identificarsi, ma soprattutto

scrittore fino in fondo, che non vuole tanto illustrare una teoria o difendere una tesi quanto mettere in moto una giostra di invenzioni che equivalgano sul piano dell’immaginazione e del linguaggio a quel che la nuova filosofia e la nuova scienza stanno mettendo in moto sul piano del pensiero. Nel suo Altro mondo non è la coerenza delle idee che conta, ma il divertimento e la libertà con cui egli si vale di tutti gli stimoli intellettuali che gli vanno a genio. È il conte philosophique che comincia: e questo non vuol dire racconto con una tesi da dimostrare, ma racconto in cui le idee appaiono e scompaiono e si prendono in giro a vicenda, per il gusto di chi ha abbastanza confidenza con esse per saperci giocare anche quando le prende sul serio[14].

Sono considerazioni importanti, queste, che misurano la profonda simpatia e affinità avvertita nei confronti dell’«immaginoso cosmografo»[15] Cyrano da parte dell’autore delle Cosmicomiche, racconti, ricorda Calvino in un testo retrospettivo del 1975, «nati dalla libera immaginazione d’uno scrittore d’oggi sollecitata da letture scientifiche, specialmente d’astronomia», racconti aventi per oggetto

l’origine del mondo e della vita, e la prospettiva di una loro possibile fine, […] temi così grossi, che per riuscire a pensarci dobbiamo far finta di scherzare; anzi raggiungere una tale leggerezza di spirito da riuscire a scherzarci davvero è l’unico modo per avvicinarci a pensare in scala “cosmica”. […] Gli antichi partivano dai miti per avvicinare e comprendere i fenomeni della terra e del cielo; lo scrittore contemporaneo prende spunto dalla scienza attuale per ritrovare il piacere di raccontare, e di pensare raccontando[16].

Nel viaggio sulla Luna di Cyrano, sottolinea Calvino nelle Lezioni americane, si trova uno dei nuclei generatori dell’immaginazione letteraria illuministica, influenzata dalla teoria newtoniana della gravitazione universale, concepita come «l’equilibrio delle forze che permette ai corpi celesti di librarsi nello spazio»[17]:

L’immaginazione del XVIII secolo è ricca di figura sospese per aria. Non per nulla agli inizi del secolo la traduzione francese delle Mille e una Notte di Antoine Galland aveva aperto alla fantasia occidentale gli orizzonti del meraviglioso orientale: tappeti volanti, cavalli volanti, geni che escono dalle lampade. Di questa spinta dell’immaginazione a superare ogni limite, il secolo XVIII conoscerà il culmine con il volo del Barone di Münchausen su una palla di cannone, immagine che nella nostra memoria si è identificata definitivamente con l’illustrazione che è il capolavoro di Gustave Doré. Le avventure di Münchausen, che come le Mille e una Notte non si sa se abbiano avuto un autore, molti autori o nessuno, sono una continua sfida alla legge della gravitazione: il Barone è portato in volo dalle anatre, solleva sé stesso e il cavallo tirandosi su per la coda della parrucca, scende dalla luna tenendosi a una corda più volte tagliata e riannodata durante la discesa[18].

In rapporto alle teorie della gravitazione di Newton vanno anche situati i «miracolosi» versi sulla luna di Leopardi[19], autore ancora adolescente, ricorda Calvino, di un’eruditissima storia dell’astronomia, poeta la cui ispirazione non era soltanto lirica: «quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava»[20]. Nelle Lezioni americane, destinate a divenire il proprio testamento poetico, è ribadito con forza quanto Calvino aveva affermato in risposta ad Anna Maria Ortese sulle pagine del «Corriere della sera» il 24 dicembre 1967[21], all’indomani della pubblicazione della seconda raccolta di racconti cosmicomici Ti con zero, quando aveva con scalpore eletto Galileo a massimo scrittore della letteratura italiana:

Ma la Luna dei poeti ha qualcosa a che vedere con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la Luna in un modo nuovo ci porterà in un modo nuovo tante cose. […] Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana d’ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa a un grado di precisione ed evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiosa. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare…[22].

Carlo Cassola, come è noto, intervenne con durezza una settimana più tardi sulle pagine del «Corriere»:

Domenica scorsa, su questo giornale, Italo Calvino ha affermato che Galilei è il più grande scrittore italiano di ogni secolo. Io credevo che Galilei fosse il più grande scienziato, ma che la palma di massimo scrittore spettasse a Dante. E che oltre Dante, in otto secoli, la letteratura italiana avesse dato alcuni altri poeti, come tali più importanti di Galilei. Ma mentirei se dicessi che l’affermazione di Calvino mi ha scandalizzato. Lo spirito di dimissioni di molti miei colleghi è giunto a un punto tale che non mi scandalizzo più di niente. L’augurio che rivolgo loro è di liberarsi del complesso di inferiorità nei confronti della cultura scientifica e della tecnologia. E se no, che cambino mestiere[23].

La replica di Calvino non si fece attendere[24]. L’umanità si apprestava a un evento epocale, la conquista del suolo lunare, che grazie all’incredibile successo tecnologico della missione Apollo 11 avrebbe avuto luogo di lì a breve, un anno e mezzo più tardi, il 21 luglio 1969. Di questo nuovo epocale contatto con il satellite terrestre per Calvino la letteratura doveva necessariamente farsi carico, così come con l’ulteriore progresso delle missioni spaziali. Dopo il lancio della sonda «Voyager 2» per esplorazione del sistema solare esterno il signor Palomar, a dispetto di Cassola, non si fece sfuggire nulla negli anni successivi di quanto venne riportato sulla struttura ad anelli di Saturno:

che sono fatti di particelle microscopiche; che sono fatti di scogli di ghiaccio separati da abissi; che le divisioni tra gli anelli sono solchi in cui ruotano i satelliti spazzando la materia e addensandola ai lati, come cani da pastore che corrono intorno al gregge per tenerlo compatto; ha seguito la scoperta ad anelli intrecciati che poi si sono risolti in cerchi semplici molto più sottili; e la scoperta di striature opache disposte come raggi della ruota, poi identificate in nubi gelide. Ma le nuove notizie non smentiscono questa figura essenziale, non diversa da quella che per primo vide Gian Domenico Cassini nel 1676, scoprendo la divisione tra gli anelli che porta il suo nome. Per l’occasione è naturale che una persona diligente come il signor Palomar si sia documentata su enciclopedie e manuali. Ora Saturno, oggetto sempre nuovo, si presenta al suo sguardo rinnovando la meraviglia della prima scoperta, e risveglia il rammarico che Galileo col suo sfocato cannocchiale non sia arrivato a farsene che un’idea confusa, di corpo triplice o di sfera con due anse, e quando già era vicino a capire com’era fatto la vista gli venne meno e tutto sprofondò nel buio[25].

24 dicembre 1967-24 dicembre 1982: non è probabilmente un caso che Calvino abbia scelto di far uscire, esattamente quindici anni dopo l’elogio di Galileo sul «Corriere della sera», e in un quadro cosmologico nel frattempo rapidamente mutato, quello di Cyrano sulle pagine della «Repubblica», che così si apriva: «Nell’epoca in cui Galileo si scontrava col Sant’uffizio, un suo sostenitore parigino proponeva un suggestivo modello di sistema eliocentrico: l’universo è fatto come una cipolla, che “conserva, protetta da cento pellicine che la volgono, il prezioso germoglio da cui 10 milioni da altre cipolle dovranno attingere alla loro essenza… L’embrione, nella cipolla, è il piccolo sole di questo piccolo mondo, che riscalda e nutre il sale vegetativo di tutta la massa”»[26].

 

  1. Rielaboro qui alcune delle considerazioni da me svolte nella comunicazione The Modern Human Nature in Context: Italo Calvino, Cyrano de Bergerac and the Post-Copernican Image of Nature al Convegno internazionale Literature and Science: 1922-2022, a cura di M. Martino, F. Mitrano, D. Crosara e Y. Chung, Sapienza Università di Roma, 30-31 marzo 2023. Rinvio per il testo completo della comunicazione alla pubblicazione degli Atti del Convegno.

  2. Cyrano de Bergerac, Les États et Empires de la Lune et du Soleil. Avec le Fragment de Physique, édition critique, textes étabilis et commentés par M. Alcover, Paris, Honoré Champion, 2000.

  3. I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, in Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, 2 voll., vol. I, pp. 647-48.

  4. Giunto alla notorietà sin dalla giovinezza per le osservazioni astronomiche da lui condotte a partire dal 1618, in particolare quella del transito di Mercurio di fronte al Sole, il primo mai rilevato, oltreché dell’aurora boreale, Gassendi pubblicò nel 1924 un fortunato volume di Saggi polemici contro gli aristotelici (Exercitationes Paradoxicœ adversos Aristoteleos), dedicando negli anni seguenti la sua attività di erudito e scienziato alla restituzione della filosofia di Epicuro, esponendola nei suoi principi gnoseologici, fisici e morali (la conoscenza è fondata sul criterio primo della sensazione; ogni esistenza è ricondotta al movimento nel vuoto infinito di pulviscoli della materia, gli atomi impercettibili e indivisibili; le regole dell’azione umana sono fondate sulla ricerca del piacere e la fuga dal dolore). La grande opera in latino alla quale Gassendi attese fino alla sua morte, avvenuta nel 1655, era volta a costituire, sulla base di quella antica e pagana, una nuova filosofia atomistica adattata con “correzioni” al sapere coevo, ovvero resa compatibile con le credenze e l’ortodossia ecclesiastica. Quella che doveva inizialmente profilarsi come un’indagine sulla vita e la dottrina di Epicuro (cfr. P. Gassendi, Commentarium de vita, moribus et placitis Epicuri libri octo seu Amimadversiones in decimum librum Diogenis Laertii, 1649; Id., Syntagma philosophiae Epicuri, cum refutationibus dogmatum quae contra fidem Christianorum ab eo asserta sunt, 1649) sfocerà infatti nel progetto, parallelo alla vibrante polemica condotta da Gassendi contro il dualismo mente-corpo di Descartes (Disquisitio metaphysica seu dubitaiones et instantiae adversus Renati Cartesii metaphysicam et responsa, 1644), della redazione di un grande trattato filosofico-scientifico, i cui manoscritti erano noti ai suoi soli amici e discepoli, il Syntagma philosophicum, che fu pubblicato postumo negli Opera Omnia (1658). Su Gassendi cfr. in part. O. Bloch, La philosophie de Gassendi, Nominalisme, matérialisme et métaphysique, La Haye, Martinus Nijhoff, 1971; B. Brundell, Pierre Gassendi. From Aristotelianism to a New Natural Philosophy, Dordrecht, Reidel, 1987.

  5. Cfr. J.-Ch. Darmon, Le songe libertin. Cyrano de Bergerac d’un monde à l’autre, Paris, Klincksieck, 2004.

  6. ‘Il silenzio di questi spazi infiniti mi atterrisce’: B. Pascal, Frammenti, a cura di E. Balmas, 2 vol., Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1983, vol. I, p. 275 (ed. orig. 1669).

  7. Sul contesto cosmologico, metafisico e religioso del brano di Pascal cfr. il sempre classico A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano, Feltrinelli, 1970 (ed. orig. Baltimore, The John Hopkins, 1957).

  8. Un autorevole studioso di Cyrano così ne descrive la formazione e gli intenti: «La nourriture que Gassendi lui peut dispenser … n’est pas à la mesure de son appetit. Pour fair oeuvre d’écrivain philosophe, il faudra puisier encore dans la gibecière et dans celle de Rohault, emprunter aux hérésiarques et piller les incrédules, embruiller enfin toutes les suggestions du libertinage érudit dans le desordres du libertinage flamboyant: alors seulement il disposera d’une assez grande provision de paradoxes pour peupler ses fabuleux États de la Lune»: R. Pintard, Le libertinage érudit dans la première moité du XVIIe siècle, Paris, Boivin, 1943, 2 voll., vol. I, p. 330.

  9. «Vi meravigliate come questa materia mescolata alla rinfusa, in balia del caso, può aver costituito un uomo, visto che c’erano tante altre cose necessarie alla costruzione del suo essere, ma non sapete che cento milioni di volte questa materia, mentre era sul punto di produrre un uomo, si è fermata a formare ora una pietra, ora del piombo, ora del corallo, ora un fiore, ora una cometa, per le troppe o troppo poche figure che occorrevano o non occorrevano per progettare un uomo. Come non fa meraviglia che tra un’infinita quantità di materia che cambia e si muove incessantemente, sia capitato di fare i pochi animali, vegetali minerali che vediamo, così come non fa meraviglia che su cento colpi di dati esca una pariglia. È pertanto impossibile che da questo lieve movimento non si faccia qualcosa, e questa cosa sarà sempre fonte di stupore per uno sventato che non pensa quanto poco è mancato perché non fosse fatta»: Cyrano de Bergerac, L’altro mondo ovvero Stati e imperi della Luna, a cura di V. Bernieri, introduzione di L. Erba, traduzione di G. Marchi, Roma, Theoria, 1982, p. 109.

  10. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 648.

  11. «Si dirà che noi, e non i cavoli, siamo fatti a immagine dell’Essere Supremo. Quando ciò fosse vero, noi abbiamo cancellato questa somiglianza macchiando l’anima per la quale gli somigliamo, non essendoci nulla che sia più contrario a Dio che il peccato. Se dunque la nostra anima non è più il suo ritratto, non gli somigliamo di più per le mani i piedi la bocca la fronte le orecchie che il cavolo per le foglie, i fiori, il gambo, il torsolo e il cappuccio. In verità, se quella povera pianta potesse parlare quando la tagliano, non credete che direbbe: “mio caro fratello uomo, che cosa ho fatto per meritare la morte? Cresco solo nei tuoi orti, e non mi si trova mai nei luoghi selvaggi, dove vivrei sicuro; disdegno di essere opera di altre mani che non siano le tue, ma ne sono appena uscito che vi ritorno. Mi sollevo da terra, mi schiudo, stendo le braccia, ti offro i miei figli in seme e, per ricompensa della mia cortesia, tu mi fai tagliare la testa!”. Ecco cosa direbbe quel cavolo se potesse parlare»: Cyrano de Bergerac, L’altro mondo ovvero Stati e imperi della Luna, op. cit., p. 97. Un estratto di questo brano è riportato in I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 649.

  12. Ivi, pp. 649-50.

  13. «Precursore della fantascienza, Cyrano nutre le sue fantasie delle cognizioni scientifiche del suo tempo e delle tradizioni magiche rinascimentali, e così facendo si imbatte in anticipazioni che solo noi più di tre secoli dopo possiamo apprezzare come tali: i movimenti da astronauta che s’è sottratto alla forza di gravità (lui ci arriva mediante ampolle di rugiada che viene attratta dal Sole), i razzi a più stadi, i “libri sonori” (si carica il meccanismo, si posa un ago sul capitolo desiderato, si ascoltano i suoni che escono da una specie di bocca). Ma la sua immaginazione poetica nasce da un vero sentimento cosmico e lo porta a mimare le commosse evocazioni dell’atomismo lucreziano; così egli celebra l’unità di tutte le cose, inanimate e viventi, e anche i quattro elementi d’Empedocle non sono che uno solo, con gli atomi ora rarefatti ora più densi»: I. Calvino, Cyrano sulla Luna, in Id., Saggi, op. cit., vol. I, p. 821.

  14. Ivi, pp. 823-24.

  15. Ivi, p. 821.

  16. I. Calvino, Postilla a Id., La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, Torino, Einaudi, 1975 (pagina non numerata).

  17. I. Calvino, Saggi, op. cit., vol. I, p. 650.

  18. Ivi, pp. 650-51.

  19. «[…] il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della sua assenza»: ivi, pp. 651-52.

  20. Ivi, p. 651.

  21. Nella rubrica Filo diretto Anna Maria Ortese aveva lamentato le conseguenze “disumanizzanti” e “spoetizzanti” dello sviluppo delle tecnologie aerospaziali: «Caro Calvino, non c’è volta che sentendo parlare di lanci spaziali, di conquiste dello spazio, ecc., io non provi tristezza e fastidio; e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia. Mi domando perché. Anch’io, come gli altri esseri umani, sono spesso portata a considerare l’immensità dello spazio che si apre al di là di qualsiasi orizzonte, e a chiedermi cos’è veramente, cosa manifesta, da dove ebbe inizio e se mai avrà fine. Osservazioni, timori, incertezze del genere umano hanno accompagnato la mia vita, e devo riconoscere che per quanto nessuna risposta si presentasse mai alla mia esigua saggezza, gli stessi silenzi che scendevano di là erano consolatori e capaci di restituirmi a un interiore equilibrio. […] Ora questo spazio, non importa da chi, forse da tutti i paesi progrediti, è sottratto al desiderio di riposo di gente che mi somiglia. Diventerà fra breve, probabilmente, uno spazio edilizio. O nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore. Non posso farci nulla, naturalmente, ma questa nuova avanzata della libertà di alcuni, non mi piace. È un lusso pagato da moltitudini che vedono diminuire ogni giorno di più il proprio passo, la propria autonomia, la stessa intelligenza, il respiro, la speranza».

  22. I. Calvino, Saggi, op. cit., vol. I, pp. 227-28.

  23. C. Cassola, Calvino e Galilei, in «Corriere della Sera», 31 dicembre 1967, p. 11.

  24. «Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo per la precisione e l’eleganza congiunte. E basta vedere la scelta di passi di Galileo che Leopardi fa nella sua Crestomanzia della prosa italiana per comprendere quanto la lingua leopardiana – anche del Leopardi poeta – deve a Galileo. Ma per riprendere il discorso di poco fa, Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica. Leggendo Galileo mi piace cercare i passi in cui parla della Luna: è la prima volta che la Luna diventa per gli uomini un oggetto reale, che viene descritta minutamente come cosa tangibile, eppure appena la Luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di rarefazione, di levitazione: ci si innalza in un’incantata sospensione. Non per niente Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto (Galileo appunto commentò anche Tasso, e lì non fu un buon critico: appunto perché la sua passione addirittura faziosa per Ariosto lo portò a stroncare Tasso in modo quasi sempre ingiusto). L’ideale di sguardo sul mondo che guida anche il Galileo scienziato è nutrito di cultura letteraria. Tanto che possiamo segnare una linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più importanti linee di forza della nostra letteratura»: I. Calvino, Due interviste su scienza e letteratura, I (gennaio-marzo 1968), in Id., Saggi, op. cit., vol. I, pp. 231-32. Ho approfondito il tema in N. Allocca, La luna e il libro della natura. Su Italo Calvino e l’eredità di Galileo, in «Azimuth. Philosophical Coordinates in Modern and Contemporary Age», II, 2014, n. 4, pp. 67-81; Le “due culture”. Italo Calvino, Galileo e la scienza moderna, in La scienza nella letteratura italiana, a cura di S. Redaelli, Roma, Aracne, 2016, pp. 107-22; Tecnica, estetica e processi comunicativi nel dibattito sulle “due culture”, in «Versus. Quaderni di studi Semiotici», 2017, vol. 125, pp. 209-22; Le due culture e il caso Galilei, in «Filosofia Italiana», 2018, 2, pp. 35-58.

  25. I. Calvino, Palomar, Torino, Einaudi, 1983, in Id., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 3 voll., 1991-1994, vol. 2, p. 906.

  26. I. Calvino, Saggi, op. cit., vol. I, p. 820.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)

Gadda in TV

Author di Giuseppe Garrera

Sono pochissime, solo quattro, le interviste televisive rilasciate da Carlo Emilio Gadda[1]:

  1. in «Arti e scienze»: Il seguito del “Pasticciaccio” di Alberto Ciattini, del 4 settembre 1962. La titolazione del servizio televisivo, Il seguito del “Pasticciaccio, è legata al fatto che Gadda annuncia che del Pasticciaccio ha già praticamente pronto per la stampa il prosieguo, una seconda parte, dal titolo, après Dumas, Venti giorni dopo. È già scritta, conferma, ma è da vedere se la “tematica imbarazzante” ne permetterà presto la pubblicazione (a quale tematica imbarazzante si riferisca, non avendosi poi alcuna altra notizia di tale prosieguo e probabilmente trattandosi di progetto tutto ancora solo in mente, non è dato sapere);
  2. in «L’Approdo», settimanale di lettere e arti: Il prix international de littérature 1963 alla Cognizione del dolore, dell’11 maggio 1963;
  3. in «L’Approdo», settimanale di lettere e arti: Via Blumentsthil 19, del 23 aprile 1969;
  4. in «Gli scrittori raccontano»: Sulla scena della vita: Carlo Emilio Gadda, di Ludovica Ripa di Meana e Giancarlo Roscioni del 1971, ma trasmessa il 5 maggio 1972.

Non solo pochissime e brevi, ma ingessate spesso nella richiesta da parte dell’intervistato di leggere risposte già stilate, dunque di inscenare una finzione visibile e improbabile: l’intervistatore fa le domande e l’intervistato legge delle risposte direttamente da fogli sotto gli occhi e tenuti in mano, senza neppure lo scrupolo di fingere della spontaneità tramite un gobbo o un suggeritore. E ciò non tanto e solo, come si penserebbe, per invincibile impaccio o timidezza, ma per controllare il fattore e il demone incontrollabile dell’oralità e i capricci dell’umore (non a caso le interviste sono piene di lapsus e correzioni o gesti traditori). Le risposte scritte nelle interviste servono ad arginare gli scherzi e i dispetti della nevrastenia nel parlare a braccio e il borbottare o lasciarsi scappare colpi di tosse o strabuzzo d’occhi (l’oralità è imprudente e spesso c’è lì il corpo fuori controllo a tradire e smentire e deridere il dettato).

Fanno eccezione la prima e l’ultima intervista, soprattutto l’ultima: intervista estrema e senza più scrupoli o timori o altro, ancora nella casa e studio di via Leonardo Blumenstihl, 19. Piano secondo. Interno 13. Dunque pochissime interviste e controllate, ma pur con questo disseminate di folgorazioni.

Intanto la passeggiata a piedi, appena accennata, come appare all’inizio del servizio televisivo del 1962, con Gadda assieme al suo intervistatore ripresi un attimo mentre camminano per via Merulana. Si indica una camminata, percorso o breve pellegrinaggio, che va dalla Basilica di Santa Maria Maggiore per tutta via Merulana e Labicana fino a Sant’Antonio da Padova, San Clemente e ai Quattro Santi Coronati: questo il punto più alto, cima architettonica, che sta a monte del romanzo come segnale paleocristiano e romanico: in questa cima avviene l’intervista e sotto l’arco d’ingresso della certosa o roccaforte della chiesa e convento si mette all’ombra, per rispondere alle domande, Gadda. Il Pasticciaccio, è detto chiaramente, nasce da un innamoramento edilizio e urbanistico per la zona e ha custodito il suo segreto in quel fortilizio romanico, nella severità e in allontanamento dal mondo (e dunque, per apparenza, niente di più lontano dal maledetto palazzo di brillocchi e pescecani di cui tratterà).

La camminata dà un’indicazione fondamentale: perché è sul posto o nella consultazione di una mappa stradale della zona che appaiono l’albero genealogico del Pasticciaccio e la sua posizione: l’araldica del libro e il perché del suo allocarsi in via Merulana; meglio, si capisce cos’è, e dove pretende di essere, il pasticciaccio brutto nella via Merulana. È sufficiente bighellonare, sbirciare le vie limitrofe, passeggiare e percorrerla sui passi indicati da Gadda per comprendere.

Il pasticciaccio brutto de via Merulana è anche e soprattutto il romanzo, il libro, in carne e ossa nella metafora toponomastica del racconto, che ha osato comporre l’ingegner Carlo Emilio Gadda: pasticcio linguistico, letteratura irrispettosa della tradizione, cedimento a modelli pieni di bruttezze e meticciati e risultanze bastarde e disdori, che si stende in mezzo a tutta la grande letteratura d’Italia; interseca le grandi scritture itale, mettendosi di traverso, entrando a gamba tesa, scorrendo con la sfacciataggine del vialone. Cioè, proprio a livello topografico via Merulana si stende tra largo Giacomo Leopardi e viale Alessandro Manzoni (via Labicana vi si getta e vi precipita in viale Manzoni), con in mezzo via Galilei e via Machiavelli (per non voler toccare via Michelangelo e le fantastiche traverse d’Ariosto e di Tasso che, con via Alfieri, addirittura immettono su Piazza Dante): praticamente tutto il sistema di riferimento e di rispetti ed emulazioni di Gadda fino alla foce e al gran mare del Manzoni, culto e venerazione di tutta una vita.

La via Merulana, così estranea e di traverso in realtà nella mappatura del Parnaso stradale delle belle lettere a Roma, fa da asta allo sbandieramento di largo Leopardi e di via Machiavelli e via Galilei e viale Manzoni, “con rispetto parlando”, come direbbe Gadda. Oppure, come un fiume in piena, si alimenta dei sopraddetti affluenti. Via Merulana e le vie adiacenti costituiscono uno straordinario stemma araldico o mappa delle ammirazioni gaddiane e della sua prestigiosa e inopinata collocazione nella storia onorevole della letteratura.

Con falsa modestia, con il “dovuto rispetto”, essendo un pasticcio di lingue, babelico, plurale, sparlato e dialettale e tutto maleodorante di realtà, non può che apparire un pasticcio di carni e verdure in mezzo al florilegio e all’antologia delle Muse. Ma pur sempre amatissime Muse, come le mai interrotte letture attestano, tanto che il libro di Gadda e la sua posizione centrale e di riferimento e raccoglimento di tutte le acque di scolo della letteratura e di affluenza e d’incontro delle migliori sorgenti gli meritano l’appellativo di “capolavoro”: di traverso alle patrie lettere come la via di Gadda, la sua via, sempre parlando con il “dovuto rispetto”.

Pensare al Pasticciaccio significa, allora, anche pensare a tutta la Letteratura e allo straordinario ingombro del libro, alla sua locazione nella città delle Lettere. Il Pasticciaccio si incunea nel nervo scoperto della letteratura, entra a gamba tesa.

Domande di rito in tutte le interviste riguardano i piaceri del lettore Gadda, le ammirazioni letterarie, con sosta obbligata nei Promessi sposi. Dunque, veniamo a sapere della preferenza per i Fratelli Karamazov; del peso che sempre più va assumendo l’Amleto di Shakespeare, libro insondabile e inesauribile viene detto nell’ultima intervista con la volontà di rileggerlo e ritradurlo come uno scolaro; dello spostamento di preferenza storiografica sempre più, andando avanti con gli anni, da Cesare e Livio a Tacito (ultimo territorio storiografico superstite, inesorabilmente, per accumulo di amarezza e disincanto). Così come, nella lettura di Dante, della sempre maggiore preferenza accordata al Purgatorio, e infine a Manzoni e ai Promessi sposi, con non più solo della simpatia e della comprensione per Don Abbondio, ma addirittura dell’identificazione: rappresentante assoluto, e giustificato, contro la morale illustre. Se Gadda aveva sempre ritenuto la fifa di Don Abbondio “ragionevolissima”, ora essa diviene addirittura segno contro le vessazioni e le pretese della morale illustre.

In realtà, tutto questo elenco di letture e riletture ha proprio come legame quello di contemplare testi che attentano alla morale illustre sia come “materia” sia come “parabola”: Amleto e la sua inadeguatezza alle idiozie e ai crimini della reggenza o alle ragioni d’onore della vendetta e delle faide (la povera Ofelia è detta da Gadda una povera oca sottomessa alle coercizioni del padre); tutto il racconto di miseria e piccineria del potere e dei potenti in Tacito; la dimensione purgatoriale dell’anima e della sorte di peccatori comunque perdonati, senza l’intransigenza e l’assunto d’abisso di un giudizio come quello d’Inferno. Ma, come detto, soprattutto Don Abbondio in mezzo alle pretese e aspirazioni, più o meno esaltate, di un Federico Borromeo e agli slanci e alle caldane di un Innominato e di un Fra Cristoforo come anche alle angherie e alle impunità di tanti, tutti, i prepotenti della terra da cui tocca pur difendersi, se si vuol vivere. La morale illustre è stata uno dei nutrimenti costitutivi dell’educazione e del credo di Gadda, dei mangimi della sua anima, a iniziare anche dal mito della patria e del popolo italiano e di una propria eroica guerra da farsi, e precipitata in breve tempo nel fango, nella disorganizzazione, nella cialtroneria, nella furberia italianesca e nella micidiale incompetenza delle gerarchie militari, per passare all’entusiasmo fascista, all’abbaglio di magnifiche sorti di terra e di imperio (al ripristino dei commentari della Storia). Non ci sono antidoti alle fessissime idee, se non si familiarizza con la disonorabilità, con le ragioni della viltà e dell’incoerenza, della dolcitudine di vivere, del sospetto per ogni ideale e slancio, dell’ingenerosità di ogni vittoria.

Davanti alla richiesta dell’intervistatore sulla propria carriera scolastica, è lo stesso Gadda a ricordare una Licenza liceale che gli fa onore, per subito correggersi: “per chi crede nell’onore”. In questa direzione tra le cose più commoventi e delicate c’è, nell’intervista del 1963 per l’uscita della Cognizione del dolore, lo scusarsi con i lettori (e i lettori e l’umanità sono di Don Abbondio), che devono pur vivere, per l’aver dato alle stampe un testo con una materia così dura e inconsolabile. Dichiara dolente nell’intervista Gadda, leggendo:

Il titolo La cognizione del dolore è da interpretare alla lettera: cognizione è anche il procedimento conoscitivo, il graduale avvicinamento ad una determinata nozione. Questo procedimento può essere lento, penoso, amaro; può comportare il passaggio attraverso esperienze strazianti della realtà. La morte di un giovane fratello caduto in guerra può distruggere la nostra vita, si ricordino i versi disperati di Catullo. Moralmente il titolo è troppo lontano da ogni forma di gioia e di illusione che mi possa valere il consenso di chi deve pur vivere: di ciò chiedo perdono a coloro che vivono e che ancora vivranno.

È significativo, allora, che nella disamina delle preferenze letterarie Gadda, senza ombra di dubbio, arrivi a indicare il modello di tutto il suo scrivere, il referente principe in LouisFerdinand Céline, nessun altro.

L’ultima intervista poi è la più amara, disperata, già dentro la tenebra, piena di lapsus, correzioni, giustificazioni, martoriata da allocuzioni di scusa e richiesta di perdono per ciò che va dicendo: intervista senza gobbo e senza controlli e prudenze e ormai con la libertà, o meglio la mortale stanchezza, della vecchiaia, fino a maldicenze senza più galatei o scrupoli da educanda, se non, a ogni ingiuria o furia e inclemenza di giudizio verso amici e colleghi, l’intercalare dell’espressione “con rispetto parlando” o “con il dovuto rispetto”, che si tratti del narcisismo ridicolo di Ungaretti o dell’instancabile chiacchierare di Palazzeschi o della pochezza della scrittura di un Landolfi o della severità della madre che ha rovinato, al figlio, l’intera esistenza.

L’intervista è piena di movimenti correttivi o colpi di coda riparatori: ad esempio, l’attribuire, senza infingimenti o circonlocuzione, alla madre la dannazione della propria esistenza, la colpa di avergliela (a loro figli) avvelenata tutta fino alla radice, con la sua severità e il senso della reputazione, salvo appellarla «la poverina», e dirla salvatrice e santa mamma per sacrifici e spirito materno di dedizione. Ancora, in queste ultime dichiarazioni, ritornano decise le accuse per le vessazioni familiari subite in nome della rispettabilità, a cominciare da quello che Gadda chiama essere stato il «male murario», la maledetta villa a Longone voluta dal padre, a costo di tutti i sacrifici possibili, per la gente e i parenti, per sfida col fratello, per ostentazione, per narcisismo, trofeo borghese, e proseguita, nell’erezione, dopo la morte del padre, tra debiti e ipoteche, dalla madre, per una questione di onore e memoria e condivisione, impresa scellerata che ha mortificato tutte le vite dei figli, così come la pretesa di una carriera da ingegnere per stare alla pari con il prestigio di certi parenti.

«Mi si polverizza la memoria», esclama Gadda, di fronte al pensiero della madre, dopo aver confessato che si tratta della persona più importante della sua vita, in assoluto: anche se è stato un amore non corrisposto perché lei era innamorata dell’altro figlio più bello e più giovane e più tutto (e morto eroicamente); e anche se, è ripetuto, gli ha avvelenato la vita con l’idiozia dell’onorabilità e della carriera ingegneresca come il cugino “fortunato”, schiava di tutte le convenzioni borghesi, boicottandogli la vocazione letteraria o anche solo rinfacciandogli mancanza di gaiezza. Tutto sacrificato a ciò che potrebbe dire la gente, per gli occhi degli altri.

Non ci si libera dalla famiglia. Si scontano le colpe della famiglia, e i boicottaggi della famiglia. Non ci si salva dalla famiglia. Neppure da morti, anzi soprattutto da morti. Mai più appropriata profezia o minaccia vale per Carlo Emilio Gadda che, da morto, è riuscito finalmente a liberarsi della famiglia, non senza il dovuto, inaudito, dall’oltretomba, obolo da versare a burocrazie terrene e onorabilità familiari e rancori e battaglie legali per il decoro e l’onore familiare e milanese e lombardo offesi: infatti, solo nel 2000, il 3 novembre del 2000, la volontà di Gadda viene esaudita, quella di essere sepolto al Cimitero acattolico di Testaccio, a Roma, nell’estremo confine, fuori della città benedetta, in giardino straniero: il corpo è finalmente traslato, presso la Zona Vecchia al n° 15.08, dopo lunghissima (16 anni) battaglia burocratica e resistenze e dolori di familiari e rivendicazioni cittadine milanesi e ritardi, rinvii, sospetti, infinite verifiche delle legittimità testamentarie e di volontà e coscienza e consapevolezza del morituro e dei testimoni.

In realtà, la sepoltura attuale di Gadda nel cimitero acattolico di Roma assume il valore di un atto ingiurioso, del più ingiurioso degli atti verso le rivendicazioni e le pretese di sangue e le convenzioni e la rispettabilità della famiglia. Ennesimo figlio che giace e sceglie di giacere lontano dalla cappella sacrosanta di famiglia, voltando le spalle in sepoltura solitaria e d’esilio, o meglio ancora in compagnia promiscua di compagni eletti da lui, peggio di un traditore e assassino e ingrato e figliuolo improdigo.

Così Giacomo Leopardi, dopo convivenza con Antonio Ranieri, che muore ed è sepolto a Napoli, offesa per tutto il casato che non si fa scrupolo di accusare Ranieri di circonvenzione, di sospetta e astuta manovra di sottrazione o, peggio ancora, di sequestro, per togliere e allontanare un figlio, non disubbidiente, il migliore dei figli, dalle braccia paterne e materne e dei fratelli (in realtà, tuttora gli eredi Leopardi non fingono di ignorare l’affronto, l’oltraggio, lo sgarbo, e di Recanati hanno fatto e continuano a fare il nido naturale e agognato e accogliente per l’ultimo e definitivo riposo, la culla ripristinata per il genio di famiglia, per l’orgoglio dei genitori e del paese: Recanati smemorata gestisce la memoria di Leopardi come se lo avesse in seno, come se fosse tra le sua braccia tornato amorevole alla famiglia. Si tratta, invece, di scappato di casa).

A Longone al Segrino giacciono il papà e la mamma e la sorella e il fratello (quello così tragicamente e prematuramente strappato all’affetto dei suoi) di Carlo Emilio Gadda: l’intera famiglia tranne lui; famiglia insieme ricostituita, pascolianamente consolata direbbesi, se non fosse per il dispetto di Carlo Emilio, relegatosi a Roma, in tomba non battezzata e cimitero sconsacrato, nelle latebre e nelle luci abbacinanti di suolo meridionale, estraneo suolo, offesa per l’intera terra di Lombardia. Gadda appartiene ai figli disubbidienti e vendicativi fino all’estremo della ferocia.

«La Repubblica» così riportava, il giorno dopo, 3 novembre 2000, l’evento, non senza involontaria e gaddesca comicità: Gadda nel cimitero acattolico finita la querelle con Milano. Una lapide sobria, così com’è sobria la dedica di Mario Luzi incisa sul travertino: «Qui, nel cuore antico e sempre vivo di sogni e utopie Roma dà asilo alle spoglie di Carlo Emilio Gadda, geniale e studioso artista dalle forti passioni morali e civili, signore della prosa». «Ieri a Testaccio, nel cimitero acattolico per stranieri dove Gadda cercava ispirazione sulla tomba di Shelley, si è chiusa la querelle tra Roma e Milano sulle spoglie dell’autore di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”. Palazzo Marino voleva seppellire il “gran lombardo” nel cimitero monumentale dove riposa, tra l’altro, Manzoni. Ma alla fine, forti delle ultime volontà, si è deciso per l’acattolico. Con il pieno accordo di tutti, tanto che ieri ha partecipato alla cerimonia anche un “inviato” del sindaco Albertini. “Gadda ‒ ha detto Francesco Rutelli ‒ è stato uno degli artefici funambolici e sorprendenti di una nuova stagione della lingua italiana. Personaggi come Gadda e Pasolini, ma anche come Moravia e tanti altri oggi ci mancano”».

  1. Cfr. Quattro interviste televisive a Gadda, a cura di Giulio Ungarelli, Torino, Nuova ERI/Video RAI, 1993.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)

«Vengon di Lecco nuvole pesanti». Due quartine di una trilogia giovanile di Gadda poeta

Author di Pier Paolo Pavarotti

Tra le produzioni certo minori del Gadda giovane, o piuttosto adolescente, restano alcune poesie di metrica tradizionale e gusto arcaicizzante che si potrebbero considerare, anche per contiguità cronologica, un’incipitale minima trilogia del poeta esordiente. Il valore in sé modesto dei versi non ne giustifica il quasi completo oblio della critica, se non altro per il riscontro di alcune tematiche poi rilevanti nel Gadda maturo prosatore. Della prima poesia in particolare, un sonetto, ci si è occupati di recente[1], mentre della terza, un capitolo incompiuto in terza rima, si ha intenzione di occuparsi prossimamente nello specifico. Questa sezione pone l’attenzione sul secondo brano, un paio di quartine (forse spurie), fornendo alcuni elementi di analisi formale e storico-critica.

Testi

Si danno di seguito i testi definitivi della trilogia secondo l’edizione critica di Maria Antonietta Terzoli[2] per un’utile sinossi.

I (1910/1912)

Poi che sfuggendo ai tepidi tramonti

Vaní declive in nebbia la pianura

Per i boschi e i pascoli de’ monti

Senza grido né suono il dì s’oscura

Mute guardano l’erme in su le fronti

De le ville il fornir de l’aratura

E lunghi fuochi accender gli orizzonti

Donde ogni volo ai mesti dì si fura

Nel pomario che al colle il pendío tardo

Sparse già tutto di sue fronde molli

Poi che il greve suo dono ebbe diviso

Del vespro dolce ne le luci io guardo

I pomari deserti i tristi colli

Salutare il vostro ultimo sorriso

***

II (1909/1912)

Vengon di Lecco nuvole pesanti

Oscurandosi il dí roggio, affannoso

E mentre de’ villan sperdonsi i canti

Coglieli il primo soffio impetuoso

La pioggia manda il suo profumo avanti,

Che s’affretti il rozzon lento, affannoso

Per le valli ed i pascoli sonanti

Anzi la notte le mandrie avran riposo

***

III (1909/1912)

Non da le rive spiccasi il rupestro [Grigna: chiosa]

Ma lungi assai ergesi dalle rene

Oltre un sito orrido ed alpestro.

[…]

A lui si vien per duplice convalle

[…]

Prima passar con lunghissimo calle

[…]

Poi che corso buon tratto ebbimo il monte

A mezza costa per castani e forre

Un ermo bianco vidimi di fronte

Che per ispide rupi alza la torre

E battendolo il sol morendo arrossa

La roccia e il muro che sovr’essa corre.

Sotto la valle, d’alto suon commossa

Del suo torrente, ombrandosi per sera

Chiama al riposo in sua silvestre fossa

Ma le pinete nella notte nera

Crosciano lungi per forre e per gole

Ululando si addentra la bufera

Trasmissione

Della prima poesia di Gadda si hanno tre versioni con minime varianti[3]: quella a testo, che corrisponde all’unica pubblicata (su «Epoca»), una ricavata da una lettera a Contini[4] del 1946 e una dettata all’amico critico e scrittore Carlo Roscioni[5] nel 1970. Quest’ultima risale a un incontro tra i due scrittori in occasione della XXXV Biennale di Venezia, in cui il primo dettò al secondo tutte le tre poesie su un cartoncino d’invito (mm. 190×200) conservato nell’archivio Roscioni e recante sul margine sinistro l’indicazione: «Poesie di Gadda scritte sotto dettatura (1970) probab. degli anni del liceo». Della seconda[6] e terza[7] poesia non esistono altre versioni e le minime correzioni presenti sul cartoncino non sono state ritenute degne di menzione dall’editrice, a parte la chiosa topografica segnalata a testo: “Grigna” sta per Grignone (già Monte Coden). Si tratta del nome del rilievo di 2410 metri tra il lago di Como (ramo di Lecco) a ovest e la Valsassina a est, con vista del Resegone manzoniano a sud, probabile meta del Gadda camminatore provetto, già prima del servizio alpino (Non da le rive, v. 6: «Poi che corso buon tratto ebbimo il monte»).

Fonti

Alcune tessere lessicali sono già state individuate perspicuamente e ricalcano quelle segnalate per il primo sonetto (Poesie, pp. 60 e sgg.). Il qualificativo «affannoso» (v. 2) riferito al giorno al tramonto risale probabilmente al Carducci di Rime Nuove (libro III) «e impreca al giorno, che affannoso cala» (Rosa e fanciulla, v. 11). Anche «roggio» come rosso di sera o come cromatismo agreste ricorre nel resto della triade poetica d’inizio secolo. Pascoli in Myricae scrive (sezione Ultima passeggiata): «Al campo, dove roggio nel filare» (Arano, v. 1). In d’Annunzio ricorre undici volte tra prosa e poesia, tra cui (Elettra): «calmo guardò pei fiumi il campo roggio» (La notte di Caprera, XII, v. 358). Nella seconda quartina (v. 6) due elementi rimandano ai trascorsi liceali di Gadda[8]: «rozzon» e la dittologia «lento, affannoso». Il primo si legge in Ariosto: «o ch’io son di natura un rozzon lento» (Satira III, v. 6); poi «rozzon normanno» nella stessa sezione di Myricae (Il cane, v. 5). La seconda si ritrova nell’altro cinquecentesco Annibal Caro: «[traeva sospiri talora impetuosi e rotti] talora lenti e affannosi» (Gli amori pastorali di Dafni e di Cloe. Ragionamento primo). Infine l’espressione «per le valli e pascoli sonanti» (v. 7), ripresa del primo sonetto («per i boschi e pascoli de’ monti»), pare rimontare a Virgilio in tre passi: silvas saltusque (Georgiche III, 40), che si ritrova simile in saltus […] atque in pascua (Georgiche III, 323) e invertito in saltus silvasque (Georgiche IV, 53)[9].

Struttura

Lo schema rimario delle due quartine è ABAB ABAB con rima identica B1-B2 (affannoso), poi frequente in Gadda (Poesie, XIV). I rimanti sono tra loro in relazione eterogenea: antinomica («pesanti-avanti / impetuoso-riposo»), omologa («canti-sonanti»). Quanto agli accenti ritmici dei piedi d’attacco, vige una varietà forse inattesa: il v. 1 è trocheo («vengon»: ‒˄), i vv. 2 e 8 solo peoni terzi («oscurandosi»: ˄˄‒˄), i vv. 3 e 5 anfibrachi («e mentre / la pioggia»: ˄‒˄), il v. 4 dattilo («coglieli» ‒˄˄), i vv. 6 e sgg. sono anapesti («che s’affretti / per le valli»: ˄˄‒[˄]). Ne derivano endecasillabi piani di quattro accenti ritmici principali tranne il v. 7 (di tre), con possibilità di una lettura a tre accenti del v. 4, il più tribolato, e (più difficilmente) del v. 6.

Numerose e diffuse le allitterazioni nasali, meno insistenti le sibilanti, rare quelle liquide (ma significative: «coglieli il primo / per le valli»). In entrambe le quartine compaiono simmetricamente (vv. 1 e 3 / vv. 5 e 8) due forme apocopate e allitteranti in coppie alternate di predicato-sostantivo con gusto arcaicizzante: «vengon-villan / rozzon-avran». Allitterano in particolare i due termini più desueti nel rispettivo secondo verso di ogni quartina: «roggio-rozzon».

Allargando lo sguardo, si rileva come pregevolmente si possa leggere con immediata coerenza ogni verso della seconda quartina di seguito al corrispondente nella prima:

1 e 5) «vengon di Lecco nuvole pesanti / la pioggia manda il suo profumo»

2 e 6) «oscurandosi il dí roggio, affannoso / che s’affretti il rozzon lento, affannoso»

3 e 7) «e mentre de’ villan sperdonsi i canti / per le valli ed i pascoli sonanti»

4 e 8) «coglieli il primo soffio impetuoso / anzi la notte avran riposo»

La combinazione di tutti questi elementi fonici e sintattici genera due quartine di ritmo diverso. La prima ha un andamento alternato, scorrevole (vv. 1 e 3) e claudicante (vv. 2 e 4 con dialefe); la seconda alterna i primi due ritmi (vv. 5 e sgg.), ma termina di slancio con gli ultimi due versi[10].

Tropi

Tra le figure retoriche più rilevanti si contano due ipallagi («dí-affannoso» per la fatica del villano / valli e pascoli – sonanti» per il riverbero del vento), un iperbato («de’ villan […] canti»), un allotropo («sperdonsi» per disperdonsi), un’apostrofe («che s’affretti), una prosopopea («la pioggia manda»), una dittologia («lento, affannoso»), un aulicismo latineggiante («anzi notte»; cfr. ‘commossa’↓)[11]. Un dispositivo figurale di parola e di pensiero non eccessivamente elaborato eppure non disprezzabile. Del resto, fatta salva la maggior lunghezza e la comune tendenza a personificare il paesaggio (Vengon di Lecco, v. 5: «mute guardano l’erme» / Non da le rive spiccasi il rupestro, v. 18: «ululando s’addentra la bufera»), anche le altre due poesie presentano un apparato retorico cospicuo ma non abbandonano un registro narrativo piuttosto piano, colorito da usi lessicali arcaicizzanti (Poi che fuggendo, v. 5: «erme»; v. 6: «fornir»; v. 8: «fura»; v. 9: «pomario» / Non da le rive, v. 2: «rene»; ivi, v. 13: «commossa») o negli allotropi (Poi che fuggendo, vv. 1 e sgg.: «tepidi / vaní declive»; Non da le rive, v. 1: «rupestro»; ivi, v. 3: «alpestro»).

Commento

Si offrono in questa seconda sezione alcuni spunti di lettura stilistica e tematica, per poi spingersi a rilevare la ricezione di questi materiali nel prosieguo dell’opera gaddiana.

Paesaggi

Il punto di vista del poeta è simile al sonetto per come espresso da Gadda:

L’enunciato comporta una visualizzazione: il poeta è, idealmente, sopra un’altura o un poggio o una costa donde veda la pianura discendente verso Milano: per esempio Invernigo. Così può accadere che la pianura discenda verso le nebbie mentre il cielo, sopra la Ca’ Merlata poniamo, si accende nei fuochi della sera[12].

Il periodo adolescente è ricordato sempre con qualche nostalgia. Nel mio caso, tale nostalgia si colora di tonalità romantico-paesistiche profonde, e determinanti il carattere. Il paesaggio e le sue alberature mi hanno affascinato[13].

A queste parole di autocommento basta cambiare alcune località, che qui diventano esplicite almeno nella dizione del capoluogo, ma la geografia e le atmosfere brianzole non mutano: Invernigo sta a Milano come le valli e la Grigna stanno a Lecco. A mutare è lo sviluppo dell’aspetto climatico nelle due poesie. Nel sonetto, dall’inizio coi «tiepidi tramonti» alla fine con «ultimo sorriso» (e il prolettico «dolce»)[14], si alternano scene «mute, nebbia […] senza grido né suono», per concludersi tra «pomari deserti e tristi colli». Nella prima poesia «il dí si oscura» e nella seconda «nuvole pesanti» minacciano pioggia copiosa, annunciata da «soffio impetuoso». Eppure non vi mancano particolari espressivi a ingentilire l’iniziale lontanante sequenza («di Lecco»), giocando su elementi sonori e spaziali («sperdonsi i canti, il suo profumo, pascoli sonanti»), per chiudere sull’immagine quieta della sera. Se nel sonetto la dolcezza della sera a malapena compensa la desolante scena dei saluti finali, qui la pioggia incombente non pregiudica il riposo notturno delle mandrie[15].

Il terzo brano si distingue dai primi due per la caratteristica verticalità dantesca, o meglio piramidalità, pur restando ben identificabile la predilezione montana e agreste dell’autore, e non discostandosi il passo dall’alta Brianza prealpina. L’iniziale riferimento al lago (vv. 1-2: «rive, rene») si eleva subito alle vette (vv. 1 e 3: «rupestro, alpestro») e poi riposa nel «prima passar con lunghissima calle» (v. 6). Ridiscende a tappe, prima nell’inatteso ermo bianco poi «la valle» (v. 13), colpita dal suono della corrente (v. 14). Quindi il torrente stesso, esito al declivio della valle che va «ombrandosi» (v. 14 → Vengon di Lecco, v. 2: «oscurandosi»; Poi che fuggendo, v. 4: «s’oscura»). Infine un’impennata sonora, minerale e vegetale, precipita la scena (vv. 17-18): «crosciano lungi per forre e gole / ululando si addentra la bufera» (lupi ≠ buoi).

Soltanto nella primavera del 2023 è stata pubblicata la nuova edizione critica del Giornale di Guerra e di Prigionia completo di sei taccuini ignoti fino al 2019 e finora inediti, di proprietà degli eredi Bonsanti e acquisiti dalla Biblioteca Centrale di Roma a un’asta bandita da Finarte. In uno di questi si legge un capoverso dedicato alla poesia in esame.

Contro le ragioni dell’egoismo, sopra accennate, c’è anche in me il solito sentimento che chiamerò «brivido piacevole ante tempestatem». L’aspettazione della burrasca non mi turba di sgomento, il vento freddo che scende dal monte mi piace, mi fa gradevolmente accapponare la pelle. Vecchio elemento della mia struttura morale: ricordare la mia adolescenza, il pre-guerra, il mio vecchio sonetto: «Vengon di Lecco núvole pesanti», scritto in un momento di grande sincerità (Cellelager, 15 dicembre 1918)[16].

Come si chiosava nelle pagine precedenti relativamente alle Prealpi lombarde, ancora durante l’ultima fase della prigionia tedesca di Gadda il ricordo del paesaggio alpestre è riconosciuto motore dell’attività poematica dallo stesso autore soldato. Queste annotazioni non contraddicono il commento, ma lo approfondiscono e arricchiscono di una tonalità, evidentemente retrospettiva, morale e temperamentale. Richiamando con l’usato latinorum ginnasiale quel brivido dell’azione, così attesa come salvifica per il tenente Gadda e nei fatti per gran parte sfumata[17].

Pascoli

Un riscontro, di tale ampiezza insperato, con due episodi di Myricae sulle concordanze pascoliane (Il cane, La vite e il cavolo) induce all’approfondimento delle corrispondenze rielaborate qui sotto in forma di sinossi attorno alle quartine gaddiane. Si tratta rispettivamente di due terzine + una quartina dalla sezione Ultima passeggiata e un sonetto dalla sezione Le gioie del poeta.

Da G. Pascoli, Il cane, vv. 1-6

Noi, mentre il mondo va per la sua strada,
noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l’affanno,
e perché vada, e perché lento vada

Tal quando passa il grave carro avanti

del casolare, che il rozzon normanno

stampa il suolo con zoccoli sonanti

***

Da C. E. Gadda, II (1909/1912)

Vengon di Lecco nuvole pesanti

Oscurandosi il dí roggio, affannoso

E mentre de’ villan sperdonsi i canti

Coglieli il primo soffio impetuoso

La pioggia manda il suo profumo avanti,

Che s’affretti il rozzon lento, affannoso

Per le valli ed i pascoli sonanti

Anzi la notte le mandrie avran riposo

***

Da G. Pascoli, La vite e il cavolo, vv. 12 e sgg.

E il core allegra al pio villan, che d’esso

Trova odorato il tiepido abituro

mentre a’ fumanti buoi libera il collo

Si guardino le terzine riprese quasi a calco da Gadda nella seconda quartina ‒ affanno, lento, avanti, rozzon, sonanti → affannoso, avanti, rozzon, lento, sonanti ‒ che pare completarsi nella terzina che chiude il sonetto a fianco: villan, odorato, buoi, libera → villan, profumo, mandrie, riposo.

Pur muovendo da un tema piuttosto diverso come il cane e la sua esistenza a fianco degli uomini (libertà e compagnia)[18], e da un altro invece non lontano come le modeste gioie del contadino (cavolo bollito e tepore domestico), Gadda trae incontestabilmente dal poeta di Castelvecchio alcune delle tessere utili a informare lessico e immagini delle sue quartine. Anche il punto di mira dinamico e sonoro non è molto dissimile perché, mentre Pascoli guarda con simpatia cane, cavallo e contadino (per riduzione metonimica del carro) con lo scalpiccio delle «ruote per la sua strada», Gadda guarda allo stesso modo contadini («villan» plurale < «coglie-li»), cavallo e buoi col sibilo umido[19] «per le valli ed i pascoli». Vi sono certo tensioni fra gli omologhi, come «odorato e profumo», laddove il primo (apax in Gadda) è unicamente positivo mentre il secondo è minaccioso; come «carro dilungato lento lento e rozzon lento, affannoso», laddove il primo non cambia marcia mentre il secondo è invitato ad affrettarsi. Sono proprio tali tensioni che il più reattivo atteggiamento gaddiano produce, benché originate in parte dal medesimo lutto, quello di un padre e poi di fratelli morti troppo presto (il calesse fatale a Ruggero Pascoli, l’odiata villa in Brianza di Francesco Gadda), con la perdita di status e il notorio imprinting di figure femminili castranti (le sorelle Ida e Maria Pascoli, la sorella Clara Gadda e la madre Adele Lehr).

Questa denominazione d’origine entra in modo discreto e geniale nel discorrere gaddiano, insinuandosi nel penultimo verso della poesia come la Purloined letter di Poe, col suo tipico gusto per l’invenzione e il calembour, ovvero semplicemente come (P)ascoli. Da ciò si comprende come i vertici della sperimentazione linguistica si raggiungeranno nei molteplici generi e registri della sua produzione, dalla poesia adolescenziale e matura (Autunno) alla prosa d’arte (Rosai, De Pisis), dalla divulgazione storica e scientifica (I Luigi di Francia, Pagine di divulgazione tecnica) al romanzo multivernacolare (Il Pasticciaccio), dalla critica (Foscolo) al cinema (Il palazzo degli ori), dal drammatico (La cognizione) al comico (A tavola, In ufficio), dalla narrazione autobiografica (Diario di guerra) all’invettiva (Eros e Priapo), fino alla corrispondenza professionale (Ammonia Casale).

Cahiers

Nei materiali preparatori del sempre fecondo Racconto italiano di ignoto del Novecento (incompiuto del 1925)[20], in particolare nel secondo dei Cahiers d’Études, si leggono due passi contigui e una dichiarazione autocritica che rimandano ai paesaggi analizzati poc’anzi.

Le ville in Brianza, i poderi meridiani, i vecchi castelli! Non c’è più nulla! Meglio così. Passavo ragazzo… di prima mattina… sul ponte della Malastrada… con il mio cavallino… con un calesse… con il Giacomo che guidava… Povero vecchio!…» Il ragazzo si arrestò. Passava fanciullo sul ponte della Malastrada: la luna dell’alba vaniva nell’opale meraviglioso, presago di un gaudio fervido, di una chiara esultanza. Ville, case, uomini, buoi: e le foglie gemmanti dalla [per quella] freschezza[21].

Difficile tradurre in prosa i miei vecchi versi[22].

Il panorama socio-economico è desolante[23] e passa in rassegna – «elenca» avrebbe poi scritto Gadda nella Cognizione – ciò che Grifonetto, alter ego dell’autore, ha perduto e rimanda alla scena delle quartine adolescenziali, compreso il preziosismo dell’allotropo verbale («vaniva» → Poi che fuggendo, v. 2: «vaní»). La famigerata villa, i campi a solatio, vestigia medievali[24], poi un diminutivo animale e un cimelio che paiono ricopiati dal poeta di Castelvecchio: tutto riprende il lucido delirio reazionario della pagina precedente. Eppure la natura riserva ancora qualcosa per cui lottare, uno spettacolo astronomico che ridisegna i confini psicologici dello spettacolo agreste[25]. Contadini e buoi, come la vegetazione, sono per un attimo trasfigurati da tanta bellezza, prima della tragica risoluzione finale.

Pasticciaccio e Cognizione

In questa sede si vogliono rilevare i recuperi dei lessemi più caratteristici delle quartine in esame nelle due opere narrative più importanti della piena maturità (1957, 1963). I termini trascelti (participio gaddiano, if any) sono – consci di una scelta con inevitabili margini arbitrari ‒ espressi in ordine alfabetico. Mentre per gli antichismi allitteranti «roggio» e «rozzon» non vi sono occorrenze, ve ne sono per il participio allotropo «sperso/e».

In Quer Pasticciaccio brutto di via Merulana (redazione definitiva, fine capitolo IX) si legge: «nereggiò l’ala d’un tùffolo, o d’una spersa ghiandaia»[26]; anche qui in ambito campestre, lungo il tragitto Roma-Velletri («[un calesse…] verso Tor di Gheppio e poi verso Casale Abbrusciato»). Il volo d’uccello richiama quello del primo sonetto (Poi che fuggendo, v. 8) nella crescente desolazione («le case dei viventi, mute nella lontananza dei coltivi»).

Nella Cognizione del dolore (redazione 1970, parte I, cap. IV) si trova: «non credo nel vigile… che trasvola… come un’ombra… a infilare il bigliettino dentro la serratura… del cancello; che ha duecentocinquanta ville, e relativi boschi, da biciclettargli accanto, nel buio…. sperse in tre o quattro comuni»[27]. Il contesto si ricava dal dialogo tra il medico Felipe Higueróa e il paziente-protagonista Gonzalo, una lunga tirata contro il sistema sociale, tributario e di sicurezza del Maradagál.

Sempre nella Cognizione del dolore (parte II, capitolo VI) leggiamo: «carri discoperti con passerella centrale che il gaucho dai malinconici occhi, sovrintendendo percorre. Tale gli appariva fortuna nel Sud America. Tempestoso mare addosso le zattere sbatacchiate delle genti sperse, slavate»[28]. Al principio dell’ennesima tirata contro il mondo circostante, dell’ennesimo mala tempora di liceale memoria (liceo Uguirre, Lukones < liceo Parini, Milano), Gadda, memore dell’esperienza professionale in Argentina, getta uno sguardo al caotico aggregato antropologico sudamericano, tenendo un occhio alla tradizione della pampa.

Il lemma “villan”, nell’accezione intesa nella poesia, ricorre un paio di volte nel Pasticciaccio. La prima al plurale, come nella seconda quartina ma nella forma piana; la seconda come riproduzione del noto proverbio nell’identica forma apocopata ma di numero singolare.

In Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana (capitolo VI) si legge: «a vincere, ne’ cuori dubbiosi, ne’ villani incaponiti, il timor contraria, il timor della privata vendetta»[29]. L’ambiente è quello del commissariato romano in cui alcuni agenti puntano a scardinare la reticenza di possibili testimoni non proprio signorili e ben disposti nei confronti della pubblica sicurezza, impauriti dalle possibili rappresaglie.

Nel capitolo VIII si trova: «abilita il destinatario entrato in coma, carta canta villan dorme, vien fulgurato a esercitare quell’arte assonnata, quel mestieruccio zoppo che aveva tocche tocche esercitato fin là, fino all’Olio»[30]. Disceso dal commissariato di Marino, accompagnato da una lirica veduta della capitale sullo sfondo di Tivoli, del Soratte, degli Equi, del Velino, sintetizzata «in un mattutino di Scialoia», il brigadiere Pestalozzi si dirige in città e riflette sulle lungaggini delle pratiche burocratiche, spesso sbrogliabili postume. Il proverbio emerge, dunque, da una lunga virtuosistica descrizione giocata fra cromatismi e gergo locale. Nella Cognizione il termine ricorre in accezioni spregiative e soltanto col vezzeggiativo “villanello” in quella intesa nella poesia: a questa, dunque, ci si limita nella rassegna degli usi.

Si legga ancora La cognizione del dolore (parte II, capitolo VII):

lo villanello, a cui la robba manca Tale è infatti, pensò, è la funzione sociale dello hildago, e tanto più del marchese, al cui nome venga intitolata, nei registri del catasta maragadalese, la proprietà di una villa serruchonese: insaccare le pudenda del villico nei propri ex-pantaloni, pagando a di lui conto le tasse, dopo averlo intensamente amato[31].

Gonzalo inveisce sarcasticamente contro il fattore importuno che si aggira per la villa sporcando dovunque, mentre riceve dalla generosa madre i vestiti buoni dismessi dai figli. Continua la sua speciale “filosofia della villa” (platonica IdeaVilla) come ricettacolo delle sventure economiche e tributarie causate dall’incauto padre. Non si può, infine, eludere che le citazioni già ritenute pertinenti come echi narrativi del primo sonetto “contornano” quest’ultima, vicina alla seconda poesia gaddiana[32].

Conclusioni

L’attenzione critica verso la poesia di Carlo Emilio Gadda «signore della prosa», come recita l’epigrafe al cimitero acattolico del Verano, è stata decisamente modesta, se si eccettuano la magistrale lettura di Autunno da parte di Guglielmo Gorni (1973)[33] e naturalmente il lavoro della curatrice dell’edizione critica utilizzata, Maria Antonietta Terzoli. Manca una monografia di riferimento e mancano strumenti specifici di cui godono altri poeti come le concordanze e i rimari.

Se la qualità intrinseca della sua produzione lirica risulta in gran parte non eccelsa, non sono esclusi versi degni di memoria e di analisi e, nel complesso, la silloge mostra consapevolezza linguistica e retorica e un’ampia gamma di riferimenti culturali. Soprattutto lo studio della sua poesia è fecondo di rimandi alla produzione narrativa posteriore, cosa che dovrebbe interessare ogni specialista gaddiano, tanto più che esistono utili strumenti informatici online (senza distinzione di genere letterario) elaborati dall’Istituto di Linguistica Computazionale Antonio Zampolli di Pisa.

In questo contributo ci si è concentrati soprattutto sull’analisi della seconda poesia, offrendo alcuni spunti di lettura, senza trascurare il contesto rappresentato dalle altre due poesie citate: come si è tentato di dimostrare, i rimandi interni, infatti, autorizzano a considerare le tre composizioni come parti di una primitiva trilogia liceale.

Si è rilevato come in questi campi le due quartine adolescenziali non siano del tutto scevre da qualità artistiche e dall’uso consapevole degli strumenti linguistici tipici della poesia in rima. Registrati i debiti maggiori verso le figure letterarie più significative del periodo e della formazione liceale dell’autore, si è ulteriormente verificato quello con Pascoli, fino a trovarne un probabile Urtext formato dalla combinazione di due testi di simile metrica nella prediletta raccolta Myricae: il cantore di Barga emerge, dunque, sempre più come un modello compositivo determinante per Gadda.

La seconda parte del contributo è dedicata al rilevamento della fortuna di alcuni lessemi rari all’interno della produzione narrativa successiva. In particolare, sono stati verificati come apax l’aggettivo “roggio”, facilmente dannunziano, e il sostantivo “rozzon”, dapprima ariostesco ma non meno pascoliano quanto al recupero, riguardo al qualificativo allotropo “sperso” e al sostantivo “villano”, in alcuni loci di opere maggiori quali Pasticciaccio e Cognizione o di rilevante interesse filologico quale il Racconto italiano di ignoto del Novecento.

Non si è rinunciato a fornire in nota ulteriori riscontri relativi alla produzione novellistica (Madonna dei Filosofi, Il castello di Udine, LAdalgisa, La Meccanica) e non solo (Meditazione Milanese), anche rispetto ad altri termini caratteristici della poesia in esame (come “sonanti”), o più in generale all’atmosfera paesaggistica tipica della trilogia. Quest’ultima, eredità biografica precocemente fissatasi, si conferma infatti come l’immaginario dominante nella figurazione letteraria di Gadda poeta, studente e soldato.

Il cinquantesimo anniversario della sua morte potrebbe rivelarsi l’occasione propizia per un risveglio degli studi sulla poesia, il cui corpus complessivo ammonta a venticinque composizioni secondo il “canone Terzoli”, cui va la gratitudine per molti recuperi “archeologici” negli archivi gaddiani.

Bibliografia essenziale di riferimento

Di C. E. Gadda:

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Id, Opere di Carlo Emilio Gadda. Saggi Giornali Favole e altri scritti II [1992], a cura di D. Isella, M. A. Terzoli, vol. IV, Milano, Garzanti, 2008;

Id. Racconto italiano di ignoto del Novecento, in Opere di Carlo Emilio Gadda. Scritti vari e postumi, a cura di D. Isella, vol. V, Milano, Garzanti, 2008;

Id., Opere di Carlo Emilio Gadda. Romanzi e Racconti II [1989], a cura di D. Isella, Milano, Garzanti, 2011;

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G. Contini-C. E. Gadda, Carteggio 19341963. Con 63 lettere inedite, a cura di D. Isella, G. Contini, G. Ungarelli, Milano, Garzanti, 2009.

Su C. E. Gadda:

G. Carducci, Poesie, Bologna, Zanichelli, 1906;

U. Betti, Il re pensieroso, Milano, Treves, 1922;

G. Gorni, Lettura di ‘Autunno’ (Dalla ‘Cognizione’ di Carlo Emilio Gadda), in «Strumenti critici», XXI-XXII, 1973, pp. 291-325;

A. Caro, Gli amori pastorali di Dafni e di Cloe. Ragionamento primo, in Id., Opere, a cura di Stefano Jacomuzzi, Torino, UTET, 1974;

G. Pascoli, Myricae, edizione critica a cura di G. Nava, voll. 2, Firenze, Sansoni, 1974;

L. Ariosto, Satire, edizione critica e commentata a cura di Carlo Segre, Torino, Einaudi, 1987;

G. C. Roscioni, Il duca di SantAquila. Infanzia e giovinezza di Gadda, Milano, Mondadori, 1997;

C. Fagioli, Una «chiave antilirica» di interpretazione. La poesia «Autunno» nella «Cognizione del dolore», in «Allegoria» XIV, 40-41, 2002, pp. 21-52;

J. L. Borges, Juan 1, 14, in Id., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, vol. II, Milano, Mondadori, 2005;

D. Alighieri, La Divina Commedia, testo di Giorgio Petrocchi, commento di Giuseppe Villaroel (1964), a cura di Guido Davico Bonino, Carla Poma, Milano, Mondadori, 2008;

M. A. Terzoli, Alle sponde del tempo consunto, Pavia, Effigie, 2009;

G. d’Annunzio, Elettra, edizione critica a cura di Sara Compardo, Venezia, Cà Foscari, 2013;

A. R. Dicuonzo, Lacheronte della mala suerte. Sociostoria del dolore nella «Cognizione» gaddiana, in «Intersezioni», XXXIII, I-2013, pp. 81-112;

Virgilio, Tutte le opere, a cura di Guido Paduano, Milano, Bompiani, 2016;

G. Patrizi, Gadda, Roma, Salerno Editrice, 2017;

P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville: annotazioni su Gadda poeta e il suo primo sonetto, in «Kepos», IV, 1-2021, pp. 104-29.

  1. Cfr. P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville: annotazioni su Gadda poeta e il suo primo sonetto, in «Kepos», IV, 1-2021, pp. 104-29.

  2. Questo contributo si basa sulla preziosa e insostituibile edizione critica di Maria Antonietta Terzoli, verso cui il debito è destinato a restare sottostimato (C. Gadda, Poesie, Torino, Einaudi, 1993).

  3. C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 3 (testo), pp. 59-60 (commento), pp. 103-104 (note filologiche). Si rinvia all’Introduzione di questa edizione e al saggio M. A. Terzoli, Alle sponde del tempo consunto, Pavia, Effigie, 2009, pp. 56-80, per i raffronti e i cospicui debiti con la raccolta poetica di Ugo Betti (1892-1953; scrittore e giudice di cui Gadda fu amico al fronte e recensore in congedo), Il re pensieroso, Milano, Treves, 1922.

  4. G. Contini & C. E. Gadda, Carteggio 19341963. Con 63 lettere inedite, a cura di D. Isella, G. Contini, G. Ungarelli, Milano, Garzanti, 2009, pp. 229-31: «A tergo ti scrivo un mio sonetto (ridicolo) del 1912, alla fine del liceo: ottobre. Scritto a Longone al Segrino, per gentilissima […] A Mina» (Firenze, 27/1/1946).

  5. C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 104. In calce al sonetto: «prima della I guerra mondiale».

  6. Ivi, pp. 4 (testo), 60 e sgg. (commento), 104 (note filologiche).

  7. Ivi, pp. 5 (testo), 61 e sgg. (commento), 104 e sgg. (note filologiche).

  8. Commentando il primo sonetto, Gadda racconta: «Dante e l’Ariosto i miei amori […] Arieggia vagamente un ipotetico impasto Carducci-Petrarca. «Pomario» fu parola, allora, dannunziana: (Carducci e molto D’Annunzio a memoria)» (in «Epoca», 12 settembre 1954, citato in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103). Così Dante: «lo sol, che dietro fiammeggiava roggio» (Pg III, 16; cfr. Par XIV, 87).

  9. «Più tardi Orazio e Virgilio. Di Orazio ho molte liriche a memoria, come del resto di tanti lirici» (in «Epoca», art. cit. in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103). Sulle prime prove poetiche si veda anche G. Patrizi, Gadda, Roma, Salerno Editrice, 2017, pp. 191 e sgg.

  10. La metrica del primo sonetto è stata analizzata in P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville…, art. cit., pp. 5-6, e non si discosta in fondo dalle conclusioni della Terzoli: «non segnala particolari tensioni in sede di rima» (C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. XIV). Per le sue caratteristiche (capitolo incompiuto in terza rima) non si ritiene opportuno trattare qui la terza poesia.

  11. Risuona un passo del Diario: «1 volta sola, a sera: il caffè ante lucem, per ragioni di fuoco» (C. E. Gadda, Racconto italiano di un ignoto del Novecento, in Opere di Carlo Emilio Gadda. Scritti vari e postumi, a cura di D. Isella, Milano, Garzanti, 2008, vol. V, p. 566). Quindi nei Miti del somaro: «il prurito […] di dover vivere a tutti i costi una vita commossa» (La consapevole scienza, in C. E. Gadda, Racconto italiano di un ignoto del Novecento, vol. V, op. cit., p. 914). Potrebbe valere anche per queste quartine l’autocommento di Gadda al sonetto: «non è scemo del tutto» (in «Epoca», citato in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103).

  12. Da «Epoca» (in C. E. Gadda, Poesie, op. cit., pp. 59 e 103). Sempre con riferimento al primo sonetto Poi che fuggendo: «La breve lirica fu erogata di getto e messa su carta senza ripentimenti, senza, ahimè!, varianti: a Longone, in Brianza, nella nostra casa di campagna».

  13. Intervista Rai in via Merulana, non datata ma posteriore al Pasticciaccio (cfr. l’URL https://youtu.be/L3IGFpdo0t4: ultima consultazione: 15 agosto 2023).

  14. Così intende Gadda nell’autocommento (C. E. Gadda, Poesie, op. cit., p. 103). Sul finir del giorno del contadino si legga Certezza (in C. E. Gadda, Romanzi e Racconti I [1989], a cura di Dante Isella, Emilio Manzotti, Milano, Garzanti, 2007, vol. I, p. 39).

  15. «Il motivo conduttore delle prime poesie (e in realtà un po’ di tutta la raccolta) è lo spazio della natura osservato come teatro di eventi che disegnano un universo ora di pacata ora di drammatica mestizia» (G. Patrizi, Gadda, op. cit., p. 191).

  16. Taccuino DP3, Vita notata. Storia, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, Raccolta ’900, catalogo: A.R.C.59.Gadda.I.1/7; inventario: A2963023, c. 45v, ora in C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, nuova edizione, a cura di P. Italia, Milano, Adelphi, 2023, p. 467.

  17. P. Italia, Note al testo, in C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, nuova edizione, op. cit., p. 557.

  18. Sovviene per la scena pascoliana del cane di campagna il Borges della maturità (1969): «la misteriosa devoción de los perros» (J. L. Borges, Juan 1, 14, in Id., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, vol. II, Milano, Mondadori, 2005, p. 261).

  19. «Le riviere sonanti grondavano giù dai muraglioni […] dove ci sono le stalle con i buoi» (C. E. Gadda, Cahiers II, in Id., Racconto italiano di ignoto del Novecento, op. cit., p. 403). Nel Castello di Udine (1934) si legge: «nel croscio solitario della pioggia» (Sibili dentro la valle in C. E. Gadda, Romanzi e Racconti I, op. cit., p. 265) → C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, in Opere di Carlo Emilio Gadda. Saggi Giornali Favole e altri scritti II, a cura di D. Isella e M. A. Terzoli, vol. IV, Milano, Garzanti, 2008, pp. 784 e sgg.).

  20. Per la tormentata vicenda testuale si rimanda alle preziose note di Dante Isella (C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, op. cit., pp. 1267-78).

  21. C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento, op. cit., p. 568.

  22. Ivi, p. 577.

  23. Il nesso tra rovescio delle sorti, aggressività e status in Gadda è stato indagato con riferimento al contesto geografico e politico (A. R. Dicuonzo, Lacheronte della mala suerte. Sociostoria del dolore nella «Cognizione» gaddiana, in «Intersezioni», XXXIII, I-2013, pp. 81-112). Nell’opera ricorre pure «sonanti» (C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento, op. cit., p. 403), come i «sonanti pini» della Meccanica (C. E. Gadda, Opere di Carlo Emilio Gadda. Romanzi e Racconti II, a cura di D. Isella, vol. II, Milano, Garzanti, 2011, p. 529).

  24. «Avevano avuto ville in Brianza, campi e terre hanno avuto. Hanno avuto una fede, una certezza, una prepotenza addosso […] lo stemma che sui (sull’arco dei) vecchi castelli soleva dire: “State attenti, carogne” e fino il vento e fin la tempesta solevano (parevano) fermarsi davanti mogi» (C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, op. cit., p. 567). Con rimando alle infantili fantasie nobiliari di un gioco inventato col fratello Enrico e il nipote Carlo Fornasini a Longone negli anni 1906-1907. Il Ducato di Sant’Aquila (Carolus Emilius III) aveva stemma araldico e motto: «Justitiam sequamur, nos sequetur victoria» (G. C. Roscioni, Il duca di SantAquila. Infanzia e giovinezza di Gadda, Milano, Mondadori, 1997, pp. 72-78).

  25. Nel contesto letterario assai diverso della Meditazione Milanese (I, XVII), con analogo riferimento astronomico: «Quando un sistema si ‘rilassa’ ciò significa che dei miliardi di miliardi di relazioni in esso convergenti, in lui nucleatasi, alcune si scindono, si sperdono, più non intervengono in esso […] Le infinite relazioni si scindono, come vecchie stelle si frantumano e i loro residui si sperdono nello spazio infinito e vengono assorbiti da altri nuclei stellari» (Il cosiddetto bene in C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, op. cit., p. 758). Notare l’ulteriore allotropo «nucleatosi». Anche qui ricorre «sonanti» (ivi, 893).

  26. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, II, op. cit., p. 268.

  27. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, I, op. cit., p. 653.

  28. Ivi, p. 692. Un identico Urtext di questo passo si trova nel secondo racconto dell’Adalgisa (edizione col titolo I sogni e la folgore) Navi approdano al Parapagàl (C. E. Gadda, Romanzi e Racconti, II, op. cit., p. 429). Ancora in Adalgisa si legge: «come di vaccina che si sia spersa nei laberinti e nei romitaggi del monte: strappata da un rotolare di tuoni alle consuetudini del pascolo, alla sodalità della mandra. E c’era, cosa incredibile, del rossore» (Quando il Girolamo ha smesso, in C. E. Gadda, Romanzi e Racconti, I, op. cit., p. 322). Tanto per restare in continuità vespertina con la trilogia poetica giovanile: «fuochi accender, roggio, arrossa». L’atmosfera cupa torna nel Castello di Udine: «la mala tromba, quando muggirà di sopra dai nùvoli neri […] con sibili dentro le buie valli» (Sibili dentro le valli: ivi, pp. 267 e 274).

  29. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, II, op. cit., p. 143.

  30. Ivi, p. 191.

  31. Ivi, vol. I. p. 707.

  32. Cfr. P. P. Pavarotti, Dei pomari e delle ville…, art. cit., pp. 117-122. Si aggiunga a proposito la Casa Merlata della Madonna dei Filosofi (C. E. Gadda, Romanzi e Racconti I, op. cit., p. 101).

  33. G. Gorni, Lettura di ‘Autunno’ (Dalla ‘Cognizione’ di Carlo Emilio Gadda), in «Strumenti critici», XXI-XXII, 1973, pp. 291-325.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)