Anatomia di un dissidio. Filosofia e politica nell’ultimo volume del Carteggio Croce-Gentile (1915-1924)

Author di Rosalia Peluso

Abstract: Nell’ottobre del 1924 il lungo sodalizio e la sincera amicizia che hanno legato Benedetto Croce e Giovanni Gentile si interrompono. L’ultimo volume del loro carteggio aiuta a far luce su questo evento. Il dissidio filosofico, che li aveva visti protagonisti già dal primo decennio del Novecento e che aveva raggiunto il suo apice nella “discussione tra filosofi amici” del 1913, cambia natura: nelle parole di Croce, il dissidio, da “mentale”, diventa pratico-politico. Inevitabile che le loro diverse percezioni della natura del regime incidano su questa sofferta decisione. Una pagina drammatica e decisiva di storia filosofico-culturale e politica su cui riflettere a distanza di un secolo e all’alba della pubblicazione dei due Manifesti del 1925, che collocheranno definitivamente Gentile sul fronte del fascismo e Croce su quello antifascista. Un’occasione per scendere più a fondo nelle ragioni di questo dissidio e per comprendere quanto esso, seppur spesso dissimulato, avesse da sempre scandito le relazioni tra i due filosofi.

Abstract: In October 1924, the relationship between Benedetto Croce and Giovanni Gentile deteriorated to the point of irreparable estrangement, marked by a complete cessation of communication and collaboration. The publication of the final volume of their correspondence in 2024 offers a crucial perspective on this tumultuous period. Croce characterized the philosophical discord, which had persisted for years, as having evolved into a political disagreement. This assessment illuminates the divergent paths that two philosophers might take when confronted with the political challenges posed by fascism. A century has elapsed since the exchange of their final correspondence and the publication of the two Manifestos of 1925. The present moment offers an opportune occasion to revisit this momentous decision, a turning point that stands as a testament to the profound philosophical, cultural, and political ramifications within the context of Italian history.

Il dissidio

Lo scorso anno si è conclusa una benemerita iniziativa editoriale: la pubblicazione congiunta e integrale del carteggio tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile[1]. La curatela, paziente, sobria e rigorosa, si deve a Cinzia Cassani e Cecilia Castellani, che hanno tenuto conto delle precedenti edizioni separate degli epistolari, ma hanno controllato nuovamente ogni singola lettera e talvolta hanno stabilito una datazione differente[2]. Il primo volume, apparso nel 2014, è introdotto da uno scritto di Gennaro Sasso, che, da “prefatore non pedagogico”, anticipa al lettore i principali temi alti del carteggio, lasciando tuttavia, a chi legge e studia le migliaia di lettere, la possibilità di individuare percorsi alternativi, anche secondari, nonché l’occasione di gustare contemporaneamente la qualità umana e letteraria di quello che, senza enfasi, si potrebbe definire il carteggio più importante della storia filosofica italiana del Novecento[3].

L’ultimo volume, che si articola in due tomi, permette di seguire, lettera dopo lettera, le fasi della rottura tra i due filosofi. In realtà le ragioni del “dissidio” – così è definito più volte nel corso degli anni da entrambi i corrispondenti – si stratificano nel tempo e mettono radici in alcune occasioni di contrasto che cominciano a divenire sempre più evidenti a partire dal 1906. Negli ultimi mesi di quest’anno, infatti, nasce quello che, da entrambi i protagonisti, sarà definito un dissidio aspro e doloroso. I motivi del contrasto sono tutti “mentali”, direbbe Croce, riguardano cioè alcuni dissonanti idee relative alla logica, al nesso dei distinti e alla sintesi degli opposti, di cui Croce aveva ragionato nel suo confronto con Hegel e nei Lineamenti di Logica, nonché all’idea che entrambi stanno maturando della relazione tra filosofia e storia (da parte di Croce) o tra filosofia e storia della filosofia (da parte di Gentile)[4].

Un secondo momento fondamentale nell’evoluzione del dissidio filosofico è la nascita dell’attualismo gentiliano nel 1911 e la decisione, da parte di Croce, di rendere pubbliche le sue perplessità e obiezioni con alcuni interventi che appariranno sulla rivista «La Voce» nel 1913: gli scritti saranno poi raccolti da Croce, nel 1918, sotto il titolo Una discussione tra filosofi amici[5].

Nell’ultimo volume del Carteggio compare tuttavia un elemento nuovo, che porta Croce a parlare di un’aggiunta significativamente qualitativa del dissidio filosofico già in corso, se non addirittura di un’autentica metamorfosi del dissidio teoretico in dissidio pratico, vale a dire morale e politico. È pertanto di notevole interesse seguire lo svolgimento di questa evoluzione nelle lettere tra il 1915 e il 1924, anno della rottura definitiva e alba di quel contrasto politico che nel 1925 sarà ufficializzato con la pubblicazione dei due Manifesti: quello degli intellettuali fascisti di Gentile e quello degli intellettuali antifascisti di Croce[6].

Da una complessiva ricostruzione del Carteggio ci si rende conto che il dissidio, nelle varie forme in cui si articola, costituisce l’autentica anima delle lettere e, si potrebbe dire, del rapporto umano, filosofico e politico tra Croce e Gentile. La vera nota alta delle loro relazioni non è il consentire su questioni filosofiche, su battaglie culturali, su giudizi relativi a persone, libri ed eventi, ma è invece nel dissentire, ogni volta dell’uno dalle posizioni dell’altro, sulle grandi questioni della storia, della logica, della natura della filosofia. Verrebbe pertanto da chiedersi se, senza il dissidio o senza le sue articolazioni plurali, questo carteggio avrebbe avuto la stessa importanza che riveste oggi per chi, da differenti prospettive, indaga sull’identità della filosofia italiana. Questa indagine, sia teoretica sia storiografico-filosofica, non può prescindere infatti dalle sue matrici, la prima idealistico-storicistica, la seconda idealistico-attualistica, da cui promanano due diverse soluzioni al problema della natura generale della filosofia: è essa momento categoriale o trasformativo della realtà[7]? Il dissidio che divampa e lacera il tessuto relazionale degli individui coinvolti si chiarisce, dopo circa un secolo, come dissidio tra visioni del mondo che hanno attraversato e scandito le sorti filosofiche e politiche del secolo breve.

Dall’ultima lettera

Il 23 ottobre 1924 Giovanni Gentile indirizza a Benedetto Croce la sua ultima lettera. Scrive di aver appreso con grande dispiacere del suo passaggio per Roma senza aver avuto la possibilità di vedersi: avrebbe voluto parlargli a lungo a voce. Gli sarebbe stata riferita da Alessandro Casati l’intenzione di Croce di «volerla rompere»[8] con lui perché «scontento», «scontento per motivi d’ordine morale». Infine aggiunge:

Ho fatto parecchie volte esami di coscienza; fatto ogni sforzo per frugare e rifrugare nella memoria. Ho trovato che qualche volta forse gli atti miei potevano esserti spiaciuti; come ho trovato che dalla parte tua non c’era stata sempre una grande cura di risparmiarmi ogni dispiacere. Ma, tutto sommato, son venuto sempre alla conclusione che nulla ci sia stato da attenuare, nonché spezzare […] quel vincolo che ho sempre considerato indissolubile, di reciproca stima e d’affetto reciproco che ci lega da trent’anni. M’inganno?

Non ti chiedo una lunga lettera che ti costringa a rimescolare cose che so ad ogni modo dolorose all’animo tuo, come al mio. Ti chiedo soltanto due parole franche e nette, quali esse debbano essere, ma che vengano dal fondo del tuo cuore.

Malgrado tutto, io sarò sempre il tuo Giovanni[9].

Il giorno successivo Croce invia a Gentile la sua ultima lettera. Dice di non ricordare di aver riferito a Casati qualcosa in merito alla loro rottura; dichiara di non essersi fermato a Roma nel suo viaggio di ritorno da Torino a Napoli né di aver avvisato alcuno del suo passaggio. Seguono e chiudono le richieste “parole franche e nette”:

Certo, noi da molti anni ci troviamo in un dissidio mentale, che per altro non era tale da riflettersi nelle nostre relazioni personali. Ma ora se n’è aggiunto un altro di natura pratica e politica, e anzi il primo si è convertito nel secondo; e questo è più aspro. Non c’è che fare. Bisogna che la logica delle situazioni si svolga attraverso gl’individui e malgrado gl’individui[10].

Croce invoca quasi un motivo di filosofia della storia per indicare all’antico amico il percorso da intraprendere: lasciar agire la “logica delle situazioni” che procede oltre i destini individuali. Aggiunge che, per parte sua, a rompere non aveva mai pensato, per diverse ragioni: per il suo temperamento bonario; per non darsi in pasto ai comuni nemici; infine, perché ha «fiducia nel tempo»[11]. Spera dunque che, grazie all’azione del tempo, «molte asprezze si spianeranno da sé»[12]. Conclude dicendo di aver risposto con molta «franchezza» e si augura che il suo interlocutore approvi e condivida le ragioni di questo imminente distacco. «Abbimi sempre con molti saluti Tuo Benedetto»[13].

Finisce così, con queste due intense e dolorose testimonianze epistolari, la più che trentennale e intesa collaborazione, che era stata anche amicizia profonda, tra Croce e Gentile. È noto che, dopo il 24 ottobre 1924, il dissidio non si sanerà e si farà addirittura “più aspro”, il tempo non appianerà divergenze, il contrasto assumerà nuove forme e si espliciterà attraverso altri documenti, pubblici e privati[14].

Nell’introduzione al carteggio, Sasso ci invita a riflettere sul fatto che la cosiddetta “rottura” fra i due principali protagonisti dell’Idealismo italiano fu percepita dai contemporanei come un evento che, senza esagerare, si potrebbe definire epocale. Il loro lavoro filosofico, la loro attività culturale, la loro stessa privata amicizia sembravano esprimere «un’unitaria filosofia, e un’unitaria cultura»[15]. Fu così? Il privilegio di poter disporre ora dell’edizione unitaria del loro scambio epistolare aiuta l’interprete anche a meglio chiarire a sé stesso la tenuta, i confini e i limiti di questa unità. Aiuta altresì – ulteriore dato evidenziato da Sasso – a riflettere certamente sulle ragioni della fine di un sodalizio, ma anche sulla nascita di una singolare e irripetibile amicizia umana e filosofica tra due personalità molto eterogenee fra loro per temperamento, origine, provenienza culturale, interessi non sempre convergenti, per non dire poi del variegato campo delle opinioni, a partire da quelle relative alla guerra che silentemente rimbombano in questo carteggio, soprattutto negli anni del conflitto mondiale tra il 1915 e il 1918.

La chiarezza e la franchezza delle finali parole uscite a entrambi dal cuore, anzi da due cuori che evidentemente, da una parte e dall’altra, erano scossi dal dolore di sapersi destinati a imparare a vivere lontani dopo una lunga consuetudine, impongono al lettore una riflessione retrospettiva. L’unitarietà e l’integralità di questo carteggio, finalmente ricostituito dopo un secolo, aiutano a seguire, passo dopo passo, i motivi di un congedo e aiutano a meglio chiarire che non fu la politica più forte della filosofia. Il “dissidio mentale”, come mostrano alcune lettere che saranno di seguito analizzate, non fu mai ricomposto. Un altro, nuovo dissidio si aggiunge al primo e renderà incomponibile anche il precedente. In virtù della sua natura pratica, il sopraggiunto rende intollerabile la coesistenza umana oltre il dissentire nella sfera dei concetti. Anzi, per meglio dire, il dissidio mentale si è ora trasformato, si è specificato, è evoluto in dissidio “pratico e politico”. La sfera pratica diventa allora il banco di prova che specifica e illumina le ragioni di un contrasto che fino a quel momento si era mostrato solo in forma teoretica. Si apre allora un “baratro”, come sentiremo dire da parte di Croce, profondo ed enorme.

Quel che di oscuro c’è tra noi

La prima lettera di Gentile del 1° gennaio 1915 introduce subito nell’atmosfera del “dissidio”. Nel corso del 1913 Croce aveva tratto, anche da un suo personale dolore (la morte di Angelina Zampanelli), il diritto alla franchezza e alla chiarezza. Aveva così deciso di rendere pubbliche alcune divergenze con Gentile relative all’Idealismo attuale. La “discussione tra filosofi amici” affidata alla «Voce» riecheggerà più volte in questi anni. Nella succitata lettera del ’15 Gentile ricorda, abbastanza bonariamente, di esser stato definito da Croce «un mistico»[16]; ringrazia inoltre per il giudizio crociano relativo alla prolusione pisana su L’esperienza pura e la realtà storica[17] (1914) e aggiunge: «ho fiducia che chiarendo sempre meglio le nostre idee finiremo col ritrovarci interamente d’accordo in ciò che è sostanziale. Quanto al giudizio sullo Spaventa e sul Jaja la nostra divergenza mi pare senza importanza. […] Ciò che rimane di oscuro tuttavia in mezzo a noi dovrà pure una volta illuminarsi»[18].

Nella risposta del 2 gennaio Croce ritorna sui giovani attualisti – a suo dire, vero bersaglio polemico e, come avremo modo d’appurare, pomo della discordia – che versano in una «morbosissima condizione d’animo»[19]. Esprime l’augurio che Gentile possa passare «dall’idealismo attuale allo spiritualismo assoluto»[20], trapasso che egli intende provocare con la sua critica.

Nella lettera del 21 febbraio, Croce annuncia un «lavoro […] sul secolo XIX»[21], elemento non trascurabile per chi lavora sugli studi crociani degli anni Venti e Trenta. In un’altra, del 22 giugno, dà notizia del Contributo alla critica di me stesso[22]. Scrive a Gentile, utilizzando un’espressione che comparirà anche nell’autobiografia, che sta realizzando una «compiuta liquidazione del passato»[23], nella quale, oltre alla ricostruzione della sua “vocazione”, rientra anche la sistemazione dei lavori giovanili[24]. Utilizza anche un’altra espressione, «come se guerra non ci fosse», che ricorre in una postilla della «Critica» del 1915[25]. Dopo il tentativo di contribuire con altra più pratica occupazione alle sorti della guerra italiana, Croce si risolve a «continuare alacremente»[26] i suoi studi, a dedicarsi alla «storia del secolo decimono» (di cui Gentile è stato poco prima informato), alla quale vorrebbe attendere nei tre anni successivi (avendo, tra le altre cose, già tutti pronti i fascicoli della «Critica» fino al 1918). A suggello di questo alacre lavoro, fatto anche di autoriflessione e liquidazione, conclude così la lettera: «Vuoi ridere? Ho perfino scritto un mio fascicoletto di memorie, col titolo filosofico di: Contributo alla critica di me stesso[27]. Nella lettera del 2 luglio, Gentile definirà il Contributo un «saggio autobiografico alla Vico»[28], vale a dire un’autobiografia mentale su modello vichiano.

Il 31 maggio 1916 Gentile annuncia a Croce l’invio della prima edizione di Teoria generale dello spirito come atto puro, che nasce dal corso delle lezioni pisane dell’a.a. 1915/16[29]. L’indomani Croce ha già ricevuto e letto il libro. Raccomanda all’amico di continuare a raccogliere altre sue lezioni, ad esempio quelle sulla pedagogia. A proposito della storia letteraria fa un’affermazione importante: raccomanda a Gentile di far fruttare meglio «il principio che ogni storia è storia particolare, cioè storia di un determinato problema: e dissipare l’illusione di una storia universale»[30]. In verità Croce aveva già messo a frutto questo principio in due capitoli di Teoria e storia della storiografia, rispettivamente contro la storia universale e a favore delle storie speciali[31]. Perché, chiede qui a Gentile, non applicare questo stesso principio anche alla storia della filosofia? «Non è anche la vera storia della filosofia storia di un particolare problema?»[32]. Continua: «la vecchia storia generale della filosofia, o che concepisce la totalità dei problemi o un problema fondamentale da cui gli altri derivano, non è qualcosa di astratto, da distruggere come appunto la storia generale della letteratura? […] io insisto che il concreto è la storia, e storia della filosofia, storia dell’arte ecc. sono aspetti singoli della storia, immanente tutta in ciascuna di esse e in ciascuna delle loro manifestazioni»[33]. Nella risposta dell’8 giugno, Gentile si dichiara d’accordo sulle tre questioni sollevate da Croce: la relazione tra storia della filosofia e storia dell’arte, la «particolarità d’ogni storia universale» e l’«universalità d’ogni storia particolare»[34].

Il 27 giugno Gentile apprende dalla «Critica» che l’amico sta preparando un quarto volume della Filosofia dello spirito e si dichiara «interamente con te»[35] relativamente a quanto Croce ha anticipato sulla «Critica» sotto il titolo di Filosofia e metodologia: si tratta, com’è noto, dell’anticipazione della terza appendice a Teoria e storia della storiografia che arricchirà il libro nell’edizione italiana del ’17[36]. Non è possibile in questa sede approfondire meglio i temi sollevati nel carteggio a proposito della storia universale, generale, particolare o speciale e della natura della storia della filosofia: ci si limiterà qui a evidenziare una dichiarata concordia su queste questioni nonché il richiamo crociano, che tornerà pure avanti, all’idea della filosofia come solutrice di problemi da essa stessa posti.

In realtà la concordia su quest’ultimo punto è tutt’altro che raggiunta. Lo dimostra uno scambio epistolare avvenuto tra il 7 e il 10 novembre 1916. Dopo aver letto la memoria pontaniana su Inizio, periodi e caratteri della storia dell’estetica[37], Gentile solleva obiezioni sulla «molteplicità dei problemi estetici, e in generale filosofici»[38], perché «la loro molteplicità è pur sempre lo svolgimento di un unico problema»[39]. Croce risponde così: «La mia repugnanza a considerare come unico il problema dell’Estetica, e in genere della filosofia, viene dal pensare che unico non è il problema ma il problemante (scusa la parola), il pensiero. Se ci fosse il problema estetico, il problema filosofico, o si risolverebbe una volta per tutte, o si aprirebbe un processus ad infinitum. Perciò sono via via pervenuto a quella concezione dell’infinita molteplicità dei problemi che il pensiero pensa, e in ciascuno dei quali è tutto il problema, e non è mai»[40]. Sull’infinità o molteplicità di problemi e sull’unico problema della filosofia esiste una differenza di vedute abbastanza profonda e che risulterà dirimente.

Nell’aprile del 1917 Croce subisce un altro grave lutto: la perdita del figlio Giulio, strappato alla vita a due anni da una polmonite. A fine maggio esce il primo volume del Sistema di logica[41] di Gentile, a luglio l’edizione italiana di Teoria e storia della storiografia, arricchita di tre appendici rispetto a quella tedesca (della terza si è già discusso). Nell’autunno dello stesso anno Gentile è chiamato a Roma a ricoprire la cattedra di Storia della filosofia (a Pisa, dal ’14 aveva insegnato Filosofia teoretica). Sempre nel ’17 Croce sta lavorando su Goethe: nel carteggio di quest’anno non c’è alcun riferimento. Ci sono invece diversi rimandi a «saggi, filosofici e letterari»[42] in cui è impegnato. L’8 agosto Croce dà notizia di voler iniziare sulla «Critica» «una rubrica di Rassegna di letteratura moderna italiana e straniera»: in essa dice che andrà «pubblicando alcuni miei brevi e, spero, succosi saggi, dei quali ho già scritto una ventina. Quando li avrò portati secondo il mio disegno a 60 o 65, avrò tutto il materiale occorrente per una Storia della poesia nel secolo XIX, alla quale mi sono andato da più tempo preparando con molteplici letture»[43]. Questa “storia della poesia” non verrà scritta ma siamo esattamente nel laboratorio da cui usciranno Poesia e non poesia[44], il Goethe[45] nonché il Dante[46], l’Ariosto, Corneille, Shakespeare[47] (di tutti questi autori nell’annata in corso è citato solo Ariosto). Il 13 settembre Croce dichiara di aver terminato «tutto il lavoro letterario […] ho scritto 28 articoli, di varia lunghezza»[48].

Il 10 gennaio 1918 Gentile inaugura il suo corso di Storia della filosofia a Roma con la prolusione Il carattere storico della filosofia italiana[49]. Laterza ne fa di lì a breve un volumetto e Croce lo legge, dandone notizia nella lettera dell’11 febbraio. Innanzitutto si congratula per l’eloquenza, per l’efficace sintesi di storia del pensiero e della cultura in Italia. In secondo luogo aggiunge: «Anch’io tengo per fermo e scorgo chiaro che il problema odierno italiano è tutto di filosofia, o piuttosto di religiosità, che è per me filosofia e tutto il resto, compenetrazione ed armonia di forme spirituali»[50]. Per inciso, il concetto di armonia rimanda allo studio dell’Ariosto. Invia inoltre a Gentile alcuni “frammenti di etica” (composti nel 1916), che saranno pubblicati sulla «Critica» nel primo fascicolo di quell’anno[51]. Dice infine che continuerà a svolgere pensieri che riguardano «la necessità della storia»:

Se filosofia e storia sono uno, oh dunque scriviamo una buona volta le storie che ci sono necessarie. Per mia parte avrei già intrapresa quella dell’Italia nella vita europea [c.m.], se la guerra non mi togliesse e istrumenti di studio e, peggio, determinatezza di problemi. Oh se potessi iniziarla alla luce di una nuova riscossa o semiriscossa italiana! – Per ora sono costretto alla storia della poesia[52].

In quest’ultimo caso si tratta del già citato progetto di storia della poesia.

A fine febbraio Gentile comunica a Croce l’intenzione di fondare una rivista di Storia della filosofia e Croce approva[53]. Intanto, sul primo fascicolo della «Critica» di quell’anno, compaiono le anticipazioni del Goethe. Gentile le legge e, nella lettera del 22 marzo, trova «i saggi goethiani […] bellissimi […] mi pare che tocchino l’ideale della critica, che giudica ricostruendo. E i tedeschi te ne dovrebbero essere gratissimi, poiché questa critica dovrebbe essere per loro una liberazione»[54]. Il 25 marzo Croce è compiaciuto per il gradimento espresso dall’amico sui suoi «studi goethiani»[55]. Aggiunge un’affermazione importante sul valore anche “terapeutico” di questi lavori: essi sono stati «composti in momenti dolorosi, e vincendo rabbiosamente la acedia, la tristizia che mi toglieva vigore. Così traduco versi del Goethe nei lunghi viaggi, e passo il tempo senza abbandonarmi a pensieri tristi, che ora si avvertono di più nel viaggiare»[56]. Croce riferisce anche di una «lettera impertinente». L’autore della lettera è Giulio de Montemayor che, il 18 marzo 1918, scriveva a Croce: «e in questi tragici tempi voi non trovate di meglio a fare che tradurre delle brutte poesie di Goethe?»[57]. Croce è molto seccato da questo giudizio; così ne scrive a Gentile: «[…] mi occupo delle “brutte cose” di Goethe invece di fare… fare che? Se almeno mi sapesse indicare che cosa si può fare ora, sarei ben contento di seguire il cenno»[58].

Nel maggio del ’18 esce la terza edizione di Materialismo storico ed economia marxistica[59] e Gentile la recensisce sul «Resto del Carlino»[60]. Croce ringrazia ma disapprova un punto di assoluta rilevanza. Gentile, dice Croce, avrebbe scambiato per «residuo materialistico» ciò che invece per lui è «idealismo concreto»[61]. Ancora, fa un’aggiunta importante che ci riporta alla discussione sopra accennata sulla natura “problematica” della filosofia. Croce dichiara di non capire «come si possa parlare di pensiero come riflesso del reale, per chi come me concepisce il pensiero come nient’altro che posizione e soluzione di problemi, problemi che sono il suo oggetto, l’unico oggetto, cioè la sua creazione»[62]. Poi, con una nota sconsolata, aggiunge: «Ma accade sempre così: che s’intendono meglio i pensieri precisi dei filosofi lontani nel tempo, che non degli uomini ai quali si è vicini e coi quali si è affiatati»[63].

Nella risposta del 16 maggio, Gentile ritiene di non aver mai attribuito a Croce l’idea secondo la quale il suo pensiero sia un «riflesso del reale»[64]; specifica di aver scritto invece che il materialismo storico sia stato un «riflesso della vita»[65]; aggiunge infine che, in virtù della sua (di Croce) «distinzione della teoria dalla pratica», ne risultava un’«impossibilità del passaggio dalle conoscenze scientifiche ai programmi pratici»[66]. Conclude sostenendo di non aver mai attribuito all’amico «nessuna trascendenza del reale nel pensiero»[67]. Nei giorni di questo scambio epistolare, è in corso anche una discussione sulla politica della forza, sul ruolo dell’utile e dell’economico che rimanda, nella prima decade del Novecento, all’accoglienza gentiliana della quarta categoria del sistema crociano e al ruolo dell’economica nella filosofia della pratica.

Nel maggio del ’18 si sta stampando anche il Contributo che, nella lettera del 16 maggio, Croce presenta come un «saggio pedagogico»: «non avendo altra pratica di scuola che quella che ho fatta io a me stesso, è quello l’unico saggio pedagogico che potessi mai comporre!»[68]. Il 31 maggio Gentile ha letto il «Saggio critico su te stesso»: definisce questo «opuscolo autobiografico» «uno specchio lucidissimo»[69] del Croce da lui conosciuto e frequentato da ormai ventitré anni. È commosso dall’avervi ritrovato dentro anche sé stesso (confessa però di non ricordare la conversazione in cui avrebbe difesa l’identità hegeliana di filosofia e storia della filosofia, ma attribuisce la lacuna a un suo difetto di memoria).

La seconda metà del ’18 passa attraverso una frenetica attività da parte di entrambi: per Croce si tratta di nuovi studi goethiani, della pubblicazione dei primi due volumi della Conversazioni critiche, di lavori su Shakespeare e Baudelaire; per Gentile della traduzione della Critica della ragion pura, della curatela delle Operette morali di Leopardi. Nel mezzo c’è la guerra, l’epidemia di spagnola, lo “spettro bolscevico”. A partire dal ’18, anno della chiamata di Gentile a Roma, le lettere cominciano anche a diradarsi: per i più volte denunciati problemi delle poste, ma anche per la maggiore vicinanza, che rendeva gli incontri più frequenti.

Occorre a questo punto saltare direttamente alla lettera di Gentile del 1° ottobre 1919: vi si annuncia la nascita del «Giornale critico della filosofia italiana» (che non è più la rivista di storia della filosofia di cui aveva già discusso con Croce). Nel presentarlo all’amico ne parla come di un «germoglio della Critica»[70] e lo invita a collaborare fin dal primo numero. Nella risposta del 4 ottobre, Croce annuncia di voler contribuire con un saggio sulla «divinità della Storia»[71] che però non darà mai al «Giornale»: darà invece, per i primi numeri, note di estetica e di etica. Ribadisce inoltre i suoi «dubbii sulle riviste di pura filosofia»[72]. Nella lettera del 28 ottobre, Croce ritorna sul «Giornale»: stavolta esprime diffidenza nei confronti dell’aggettivo italiano. Commentando un passo del Proemio gentiliano, sostiene che l’Italia può essere un «ideale», «ma non è un universale concreto»[73]. Egli può tollerare un «valore sentimentale e oratorio» di quell’«accenno alquanto nazionalistico», ma di più non è disposto a concedere. Anzi, insiste «sulla necessità di schiarire o di abbandonare il concetto nazionale della filosofia»[74]. Nella risposta del 3 novembre, Gentile assicura di non aver nulla a che fare con il «naturalismo nazionalista»; piuttosto egli insiste sulla formazione storica della «personalità concreta, che non può essere altro che personalità storica»[75].

In concorde discordia

Nelle annate comprese tra il 1920 e il 1924 di filosofia si parla relativamente poco. Nelle rare occasioni in cui accade, si parla quasi sempre di attualismo: la nascita del «Giornale critico» aveva provocato gravi frizioni che talvolta verranno metabolizzate, talaltra esploderanno, fino alla conversione del “dissidio mentale” in “dissidio pratico e politico”, come ricorda l’ultima lettera di Croce. Malgrado i discontinui momenti di confronto – bisogna però ricordare che, soprattutto in questi anni, le occasioni di vedersi a Roma diventano quotidiane –, l’ultimo lustro è importante per comprendere le ragioni della polemica crociana contro l’attualismo (non contro Gentile, egli dirà sempre) e le ragioni del risentimento prima e della difesa poi che Gentile farà della sua filosofia e della sua scuola.

Se ne può avere un saggio nella lettera che Gentile indirizza a Croce il 10 gennaio 1920. Croce aveva di recente stroncato sulla «Critica» un saggio di Carmelo Sgroi (al tempo genero di Gentile) sulla sua estetica: Gentile ne parla come di cosa che lo ha colpito «dolorosamente»[76]; non riesce proprio a spiegarsi perché Croce tiri in ballo «l’idealismo attuale con quel giudizio sommario e risentito»[77]. «A te dà i nervi il solo sentire nominare l’idealismo attuale; che io credo un punto di vista molto ben determinato e importante: discutibile, naturalmente, come tutto, ma certo immeritevole del sarcasmo, con cui tu ne parli. Perché tutta questa antipatia?»[78] . E conclude: «Comunque, perché tutta questa forma polemica tra noi? Io non me ne adonto; ma mi pare che essa non sia molto edificante per chi legge, e dirà che noi non possiamo discutere rispettandoci reciprocamente»[79].

Nella sua risposta dell’11 gennaio, Croce specifica di prendersela non con Gentile ma coi suoi “scolari”, che per lui sono «scolaretti pappagalli»[80], «insipidi ripetitori»[81]: sono costoro i responsabili della trasformazione dell’attualismo in un «ente misterioso»[82]. Dichiara inoltre di avercela con l’idealismo attuale nella misura in cui «minaccia di diventare una scoletta»[83] e che questa “scoletta” è il solo bersaglio della sua «avversione»[84]: «Non ce l’ho punto con l’idealismo attuale in quanto è il tuo pensiero su certi problemi logici o etici»[85]. Anzi, aggiunge che, se non lo avesse ancora inventato, lo avrebbe richiesto lui stesso, dando a intendere che Gentile rappresenta ancora il suo interlocutore ideale, anche nel contrasto.

Il 18 gennaio Gentile indirizza a Croce un’altra lunga lettera sullo stesso tema e riesuma la discussione del ’13 sulla «Voce»[86]. È palpabile il dolore del filosofo siciliano: rimprovera a Croce di essere troppo infervorato, di mettere in campo «una passione che non riesci a dominare»[87]. Evidenza il punto per lui più doloroso: l’istituzione della cosiddetta “scoletta”, come se lui non avesse abbastanza autonomia e senso critico per selezionare i suoi allievi o abbastanza forza per dominarli (quando invece l’ufficio di un maestro è lasciarli camminare con le loro gambe). Croce non ha nulla da temere: dalla sua voce «hanno appreso tutti a rispettarti, a venerarti ed amarti»[88]. Segue la risposta di Croce in data 22 gennaio. Nuovamente è stabilito un argine alla discussione ancora in corso sull’idealismo attuale: essa aveva diritto di svolgersi in ambito filosofico, ma non aveva nessuna ragione per toccare il lato umano, vale a dire l’amicizia e l’affetto. I filosofi possono essere dissenzienti, gli amici no. «Ciò che bisogna fare, e io come te a ciò ci siamo sempre adoperati, è che il contrasto d’idee resti quel che è: una differenza di posizioni logiche (e anche di interessi spirituali)»[89]. Anche Croce ritorna sull’affaire «Voce» per negare che in quel tempo doloroso a lui venisse voglia di ridere, deridere o ironizzare. A tal proposito ricorda la ristampa, nel ’18, della “discussione tra filosofi amici” nel secondo volume delle Conversazioni critiche, che Gentile aveva anche recensito. Per Croce la soluzione è quella di continuare per la stessa strada: «Tu collaborando alla Critica, ed io al tuo Giornale critico, smentendo col fatto i maligni, come già li smentiamo nel nostro animo»[90]. Il 1° febbraio Gentile dichiara che «l’incidente è chiuso»[91] e annuncia il primo fascicolo del «Giornale critico»; il 21 di quel mese Croce lo riceve, se ne compiace in mezzo a qualche fastidio; il 3 marzo Gentile chiama la sua rivista un «rampollo della Critica»[92]; ad aprile, per il terzo fascicolo, Croce propone la sua introduzione «tutta filosofica»[93] al suo volume su Dante e Gentile ringrazia per il «magnifico dono»[94].

Intanto esce la terza edizione della Teoria generale dello spirito come atto puro, che si apre con una dedica molto intensa a Croce: sono parole commosse ma ovviamente finalizzate anche a risolvere il contrasto dei mesi precedenti. In questa dedica Gentile parla del suo rapporto con Croce nella forma di una «concordia discors», «di un’amicizia fatta di collaborazione spirituale e perciò di discussione»[95]. Specifica che «la collaborazione è divenuta sempre più intima, l’amicizia sempre più salda»[96]. C’è tuttavia un riferimento ai “giovani”, che guardano con ammirazione a questa amicizia filosofica. Croce risponde il 7 giugno, sostenendo che nella «concordia discors» egli ha «bene interpretato il comune nostro sentimento»[97]: tra «amici intelligenti»[98] accade questo. Il fuoco, tuttavia, continua a covare sotto la cenere. Non a caso Croce torna indirettamente sulla questione della scuola “attualistica” perché aggiunge: «cerchiamo di persuadere o piuttosto di costringere gli altri a intendere che in filosofia come in ogni seria produzione spirituale non ci sono scolari, ma solo spiriti produttivi»[99]. Esattamente il punto nevralgico che, come documenta il carteggio precedente, ora maggiormente irrita Gentile.

Nel giugno 1920 Croce è nominato Ministro dell’istruzione nell’ultimo governo Giolitti e terrà questa carica fino al luglio 1921. Gentile è subito coinvolto in diverse attività e soprattutto collaborerà con Croce a una radicale riforma dell’istruzione che si concluderà quando, a sua volta, sarà Gentile Ministro dell’istruzione nel primo governo Mussolini, a partire dall’ottobre 1922. Riforma che Croce difenderà strenuamente e che considererà sempre come anche sua.

Il 20 dicembre 1923, dopo quasi tre anni di interruzione, si riprende a parlare per lettera di Idealismo attuale: comincia ora l’ultimo atto del dissidio. Ad appiccare nuovamente il fuoco è Croce, con la sua recensione al secondo volume del gentiliano Sistema di logica[100]. Prima che la recensione appaia sul primo fascicolo del ’24 della «Critica», manda le bozze a Gentile, che ringrazia per le «cose affettuose»[101] che lo commuovono. Viene però subito dopo al nocciolo della contesa, chiedendo al recensore di eliminare un periodo relativo al «protagorismo»[102] di alcuni esponenti dell’attualismo. Gentile non riesce a comprendere perché Croce si ostini a riferire errori di singoli a una «dottrina filosofica»[103]. «Possibile – gli chiede – che debba ripetere tu che l’idealismo attuale è fenomenismo e smarrimento della distinzione tra vero e falso e simili, senza curarti di dire una sola parola contro gli argomenti delle mie distinzioni, che io persisto a credere molto serie e fondatissime, tra l’idealismo di Protagora e il mio?»[104]. Il punto nevralgico arriva subito dopo:

ti confesso che da qualche anno a questa parte ho l’impressione che tu non faccia attenzione e non metta interesse alle ragioni che io vengo esponendo del mio modo di pensare, e che dovrebbero essere esaminate per poter essere giudicate utilmente. Mi dispiace però che la tua critica ti spinga fino ad assumere una forma da dar ragione a’ miei più feroci avversari mentre non diverge nella sostanza da quella che non solo contro me, ma anche contro te e contro tutti gli idealisti rivolgono i cattolici e tutti gli altri piagnolosi critici del “soggettivismo hegeliano”.

E devo anche dirti che mi dispiace di vedere in te un certo spirito di persecuzione contro i giovani che credi in errore[105].

Nella risposta del 23 dicembre Croce si dichiara certamente pronto ad attenuare quel passaggio sul protagorismo, ma se lo riterrà opportuno. L’oggetto del contendere rimane però sempre lo stesso: la costituzione della scuola attualistica, la sterile ripetizione cui essa va incontro nonché – e qui si percepisce più facilmente la metamorfosi del dissidio da mentale a pratico – le fatali alleanze politiche che si cominciano a stringere. Per Croce non basta dire: una cosa è la dottrina filosofica, altro ciò che qualcuno fa di quella dottrina. «Il difetto – lui dice – [è] nel manico»[106]. Lo attestano i libri di Guido de Ruggiero, che pure viene riconosciuto come l’allievo più dotato, ma soprattutto «i recenti politicizzamenti dell’idealismo, che, come se niente fosse, si fa coincidere col fascismo o con quale altro sia contingente atteggiamento politico»[107]. Quanto alle scuole:

la formazione delle “scuole”, degli apostoli, dei fedeli, dei fanatici, degli imbroglioni, sarà sempre inevitabile; avrà, e anzi ha certamente, la sua utile efficacia sociale e culturale; ma nella vita degli studii, nella ricerca e nella critica, è un peso e un impaccio, e bisogna sgombrarlo davanti a sé. Così fo io, e così ti consiglio di fare, per quanto ti è possibile. Non è da ora che la penso a questo modo[108].

Segue un chiaro passaggio sulla nascita del «Giornale critico»:

Ti ricorderai che ti sconsigliai d’intraprendere, in luogo di un Archivio di storia della filosofia, il Giornale critico della filosofia italiana, perché considerava che le riviste di scuole filosofiche erano riuscite, sempre e tutte, insipide: e tu certo non leggerai con molto interessamento quel tuo Giornale. La Critica non è riuscita insipida, perché l’abbiamo fatta in due, ciascuno dei quali aveva le proprie tendenze e la propria storia[109].

In risposta alla recensione crociana Gentile pubblica, sul suo «Giornale» (primo fascicolo del ’24), un intervento dal titolo Un altro giudizio di B. Croce sull’idealismo attuale[110]. La replica, dice nella lettera del 25 marzo 1924, è il tentativo di difendere quei «giovani che si dicono attualisti»[111]. Si augura che il tentativo non dispiaccia a Croce e che lui lasci cadere «una polemica»[112] da cui molti traggono gusto ma che a lui riesce «estremamente incresciosa, e più che incresciosa»[113] perché non vi scorge alcun vantaggio per gli studi filosofici. «Devi infatti convenire che il tuo bersaglio più che una filosofia è un certo atteggiamento spirituale e morale, che tu non approvi, ma che, secondo la tua filosofia, non si corregge con la discussione dei concetti»[114]. Il 27 marzo Croce si dichiara non dispiaciuto: potrebbe anche lasciar cadere «la disputa»[115] a meno che, prima della prossima uscita della «Critica», non gli venga l’ispirazione a rispondere. Decisivo questo passo:

Credi pure che la mia riluttanza all’avviamento dell’idealismo attuale è di tale qualità che non può non avere nel suo fondo una seria obiezione filosofica, l’avvertimento di una grave difficoltà. Del resto, l’idealismo attuale già non mi persuadeva nella sua anticipazione spaventiana. Tu dici che io ho fatto passi verso di esso. Vorrei conoscere quali: sarebbero passi verso un baratro, che temo[116].

In mezzo a tante altre «faccenduole private»[117], queste sono le ultime lettere a contenuto filosofico prima del congedo dell’ottobre 1924.

Per chiudere, cosa è stato questo congedo? È stato un addio e il lettore di oggi lo sa. Non lo sapevano al tempo i diretti interessati, anche se un presentimento echeggia nella risposta di Croce, proprio nel suo riferirsi alla nuova natura pratico-politica del dissidio: fin quando si fosse trattato di divergenza logica, rimaneva la possibilità che il dissidio si svolgesse per concetti, attraverso concetti. Ma la natura pratico-politica esige azioni e le azioni saranno divergenti e dissenzienti. Il dissidio mentale poteva comporsi in una concordia discors, il dissidio pratico-politico si nutre di discordia concors: se la prima ha prevalso dal 1896 al 1924, dal 1924 in poi Croce e Gentile continueranno a rimanere uniti in una reciproca e ancora oggi effettiva concorde discordia. Si perderanno, senza lasciarsi mai.

Rosalia Peluso

 

  1. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, a cura di C. Cassani e C. Castellani, Torino, Aragno, 2024.
  2. Per tutte le informazioni si rimanda alla Nota di edizione delle curatrici in B. Croce, G. Gentile, Carteggio. I. 1896-1900, a cura di C. Cassani e C. Castellani, Torino, Aragno, 2014, pp. XXXVII-XLI.
  3. «Carteggio fondativo del Novecento» è stato definito da E. Giammattei, Croce epistolografo, in Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, sotto la direzione scientifica di M. Ciliberto, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2016, pp. 789-97. Cfr. inoltre G. Sasso, Introduzione a B. Croce, G. Gentile, Carteggio. I. 1896-1900, op. cit., pp. IX-XXXV: XXXIV, e, dello stesso autore, Dalla concordia discors alla polemica: filosofia e psicologia di una vicenda, in Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, op. cit., pp. 856-63.
  4. Per una ricostruzione di questo primo notevole dissidio filosofico si rimanda al secondo e terzo volume del Carteggio: B. Croce, G. Gentile, Carteggio. II. 1901-1906, a cura di C. Cassani e C. Castellani, Torino, Aragno, 2016, pp. 563-94, e B. Croce, G. Gentile, Carteggio. III. 1907-1909, Torino, Aragno, 2017, pp. 7-43: di questo dissidio sembrerà soffrire in modo particolare Gentile, il quale comincerà, proprio a seguito della proposta, venuta da entrambi, di un differimento della discussione per via orale, a dismettere l’uso del “voi” e a passare direttamente al “tu”. Per un approfondimento critico del dissidio sul tema della storia della filosofia si veda G. Sasso, La polemica epistolare con G. Gentile sul problema dell’unità di storia e filosofia, in Id., Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli, Morano, 1975, pp. 897-906. Per un primo generale inquadramento dei rapporti tra Croce e Gentile rimando a E. Cutinelli Rendina, Benedetto Croce. Una vita per la nuova Italia, vol. I: Genesi di una vocazione civile (1866-1918), Torino, Aragno, 2022, pp. 167-84, e a P. D’Angelo, Benedetto Croce. La biografia. I. Gli anni 1866-1918, Bologna, il Mulino, 2023, pp. 145-60.
  5. Per la ricostruzione di questi eventi si vedano B. Croce, G. Gentile, Carteggio. IV. 1910-1914, a cura di C. Cassani e C. Castellani, Torino, Aragno, 2019, e B. Croce, Una discussione tra filosofi amici, in Id., Conversazioni critiche, Serie seconda, Bari, Laterza, 1950, pp. 67-95.
  6. Per più recenti edizioni dei due documenti si rimanda a B. Croce, G. Gentile, 1925. I due manifesti, a cura di A. M. Carena, Torino, Aragno, 2016, e Manifesto degli intellettuali fascisti e antifascisti, introduzioni di G. Scirocco e A. Tarquini, Milano, Fuoriscena, 2023.
  7. Cfr. M. Maggi, Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia della realtà, Napoli, Bibliopolis, 2011.
  8. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. II, op. cit., p. 898.
  9. Ibidem.
  10. Ivi, p. 899.
  11. Ibidem.
  12. Ibidem.
  13. Ibidem.
  14. Tra i tanti documenti che andrebbero ricordati mi limito a citare in questo contesto soltanto B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Ed. Nazionale a cura di G. Talamo, con la collaborazione di A. Scotti, Napoli, Bibliopolis, 2004: quest’opera, apparsa per la prima volta nel 1928, contiene un duro giudizio sull’attualismo gentiliano e sanzionerà in via definitiva la rottura tra i due filosofi.
  15. G. Sasso, Introduzione a B. Croce, G. Gentile, Carteggio. I. 1896-1900, op. cit., p. XIV.
  16. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 5.
  17. G. Gentile, L’esperienza pura e la realtà storica, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, III ed., Opere complete, vol. XXVII, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 233-62.
  18. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 6.
  19. Ivi, p. 8.
  20. Ibidem.
  21. Ivi, p. 22.
  22. Si legge oggi in B. Croce, Etica e politica aggiuntovi il Contributo alla critica di me stesso, Ed. Nazionale a cura di A. Musci, Napoli, Bibliopolis, 2015, pp. 345-89.
  23. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 66.
  24. Si veda B. Croce, Primi saggi, Ed. Nazionale a cura di D. Bondì, Napoli, Bibliopolis, 2024.
  25. B. Croce, Intorno a questa rivista, in «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce», 13 (1915), pp. 318-20.
  26. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 66.
  27. Ibidem.
  28. Ivi, p. 67.
  29. Si cita la settima edizione riveduta: G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, in Id., Opere complete, vol. III, Firenze, Le Lettere, 2012.
  30. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 161.
  31. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Ed. Nazionale a cura di E. Massimilla e T. Tagliaferri, con una nota al testo di F. Tessitore, 2 voll., Napoli, Bibliopolis, 2007.
  32. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 161.
  33. Ibidem.
  34. Ivi, p. 164.
  35. Ivi, p. 172.
  36. B. Croce, Filosofia e metodologia, in Id., Teoria e storia della storiografia, op. cit., pp. 128-39.
  37. B. Croce, Inizio, periodi e caratteri della storia dell’estetica, in Id., Nuovi saggi di estetica, Ed. Nazionale a cura di M. Scotti, Napoli, Bibliopolis, 1991, pp. 87-110.
  38. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 214.
  39. Ibidem.
  40. Ivi, p. 217.
  41. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, vol. I, III ed. riv., in Id., Opere complete, vol. V, Firenze, Le Lettere, 2012.
  42. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 284.
  43. Ivi, p. 287.
  44. Cfr. B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Ed. Nazionale a cura di P. D’Angelo, Napoli, Bibliopolis, 2023.
  45. Cfr. B. Croce, Goethe, con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, Ed. Nazionale a cura di D. Conte, apparati critici a cura di C. Cappiello, Napoli, Bibliopolis, 2024.
  46. Cfr. B. Croce, La poesia di Dante, Ed. Nazionale a cura di G. Inglese, Napoli, Bibliopolis, 2021.
  47. Cfr. B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, Laterza, 1968.
  48. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 300.
  49. G. Gentile, Il carattere storico della filosofia italiana, in Id., I problemi della Scolastica e il pensiero italiano, in Id., Opere complete, vol. XII, Firenze, Le Lettere, 1963, pp. 209-36.
  50. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 331.
  51. Oggi si leggono in B. Croce, Etica e politica aggiuntovi il Contributo alla critica di me stesso, op. cit., pp. 9-202.
  52. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., pp. 331-32.
  53. Cfr. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., pp. 334 e 337.
  54. Ivi, p. 341.
  55. Ivi, p. 342.
  56. Ibidem.
  57. Ivi, p. 342, nota 2.
  58. Ivi, p. 342.
  59. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Ed. Nazionale a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi Garampi, con una nota al testo di P. Craveri, Napoli, Bibliopolis, 2001.
  60. Oggi la recensione si legge in G. Gentile, Il marxismo di B. Croce, in Id., Frammenti di storia della filosofia, in Id., Opere complete, vol. LIII, Firenze, Le Lettere, 1999, pp. 217-21.
  61. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. I, op. cit., p. 350.
  62. Ibidem.
  63. Ibidem.
  64. Ivi, p. 354.
  65. Ibidem.
  66. Ibidem.
  67. Ibidem.
  68. Ivi, p. 356.
  69. Ivi, p. 357.
  70. Ivi, p. 467.
  71. Ivi, p. 469.
  72. Ibidem.
  73. Ivi, p. 472.
  74. Ibidem.
  75. Ivi, p. 474.
  76. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. II, op. cit., p. 492.
  77. Ibidem.
  78. Ibidem.
  79. Ivi, pp. 492-93.
  80. Ivi, p. 494.
  81. Ivi, p. 495.
  82. Ivi, p. 494.
  83. Ivi, p. 495.
  84. Ibidem.
  85. Ibidem.
  86. Ivi, pp. 500-501.
  87. Ivi, p. 499.
  88. Ivi, p. 500.
  89. Ivi, p. 504.
  90. Ivi, p. 505.
  91. Ivi, p. 509.
  92. Ivi, p. 524.
  93. Ivi, p. 538.
  94. Ivi, p. 544.
  95. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. II, op. cit., p. 548, nota 1.
  96. Ivi, p. 548.
  97. Ibidem.
  98. Ibidem.
  99. Ibidem.
  100. Cfr. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, vol. II, V ed. riv., in Id., Opere complete, vol. VI, Firenze, Le Lettere, 2012, e B. Croce, recensione a G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, volume secondo, Bari, Laterza, 1923, in «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce», 22 (1924), pp. 49-55.
  101. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. II, op. cit., p. 848.
  102. Ibidem.
  103. Ibidem.
  104. Ibidem.
  105. Ivi, pp. 848-49.
  106. Ivi, p. 850.
  107. Ibidem.
  108. Ivi, p. 851.
  109. Ibidem.
  110. G. Gentile, Un altro giudizio di B. Croce sull’idealismo attuale, in «Giornale critico della filosofia italiana», V, 1 (1924), pp. 67-72.
  111. B. Croce, G. Gentile, Carteggio. V. 1915-1924, t. II, op. cit., p. 876.
  112. Ibidem.
  113. Ibidem.
  114. Ibidem.
  115. Ivi, p. 877.
  116. Ibidem.
  117. Ivi, p. 855.

(fasc. 55, 25 febbraio 2025)

Un ritratto di Franco Matacotta tra poesie, amicizie e inediti

Author di Riccardo Renzi

Far emergere in un unico intervento la complessità di un intellettuale come Franco Matacotta, che spaziò dalla poesia al giornalismo fino alla critica letteraria, è impresa assai ardua.

Matacotta nacque a Fermo l’11 ottobre 1916 da una famiglia di modeste condizioni economiche. L’amore per la letteratura e la poesia furono presenti in lui fin dalla tenera età: in particolare prediligeva i classici greci, che lesse e tradusse. All’età di sedici anni iniziò a collaborare al periodico «L’Araldo», in cui pubblicò l’articolo Cultura fascista e la poesia Per i fatti di Traù. Nel 1935 conseguì la maturità e nel novembre dello stesso anno s’iscrisse alla facoltà di Lettere e filosofia di Roma, frequentando i corsi tenuti, tra gli altri, da Gentile, Toesca e Sapegno. Fu fin da subito affascinato dalla figura di Giovanni Gentile, anche se il suo ardore per il fascismo durò ben poco[1].

Agli inizi del secondo anno accademico conobbe di persona Rina Faccio, più nota come Sibilla Aleramo, scrittrice celebre all’epoca con la quale aveva avuto un fitto scambio epistolare e con la quale iniziò un rapporto che, a fasi alterne, proseguì almeno fino alla fine degli anni Quaranta, e che la donna nel proprio Diario definì un «amore insolito», essendo lei già in là con gli anni[2]. Questo incontro, dal punto di vista intellettuale, fu uno dei più determinanti nell’esperienza dello scrittore fermano, in quanto fu Sibilla a fargli scoprire David Herbert Lawrence, Colette, Paul Valéry, Omar Khayyam, e George Sand, e gli permise di studiare gli inediti di Dino Campana che la stessa Aleramo custodiva, avendo avuto una nota relazione con il poeta[3]. Matacotta rimase folgorato dalla poesia di Campana e da quegli inediti: ne scrisse dapprima in «Prospettive», poi in volume[4].

Sibilla, inoltre, introdusse Matacotta nell’ambiente letterario e artistico romano: fu lei a presentargli Cecchi, Bontempelli, Alvaro, Moravia, Malaparte, Zavattini, Guttuso e Fazzini. La sua figura fu importante per tutto l’ambiente intellettuale fermano di quegli anni, poiché, come ha affermato Domenico Pupilli, testimone di seconda generazione di quella temperie culturale, ella fece quasi da «madrina a quei ragazzi fermani»[5] ovvero Franco Matacotta, Gino Mecozzi, Giuseppe Brunamontini detto Pino e Alvaro Valentini.

Sibilla spesso ospitava gli amici fermani del “suo” Franco nella propria soffitta: «Roma 21 gennaio, sera. Esattamente dopo un mese di accampamento qui nella soffitta, i due giovani han potuto oggi andare ad abitare in uno studio ceduto a loro da un amico»[6] (si parla di Gino Mecozzi e Giuseppe Brunamontini). Sibilla conosceva bene l’ambiente intellettuale fermano; così scrisse del suo viaggio a Fermo nel settembre del 1944:

Giovani poeti che sono venuti a farmi visita qui nello studio di Franco. Con i fiori avevano mandato opuscoli di loro versi: per lo più di derivazione della scuola “ermetica”, Montale, Quasimodo… Più tardi imiteranno Franco […] ma è commovente questo amore per la poesia che in questi piccoli centri si perpetua nonostante la guerra[7].

La scrittrice dunque conosceva Fermo, ne era affascinata e per la piccola Città collinare provava al contempo un’insoddisfatta attrazione; come quando – svanito il lungo rapporto con Franco – passò in treno fra San Benedetto e Ancona e, il 17 maggio del 1949, annotò: «in alto, sul poggio, poco fa, Fermo: la mia ultima illusione, Franco…»[8].

In lei l’amore per Franco fu sempre forte, sino alla morte, sebbene fosse conscia del grande divario d’età e delle difficoltà della relazione stessa. Anni prima, passando attraverso le terre marchigiane, così le descriveva: «Lontano sorgeva una doppia catena di altezze, colline dinanzi, dietro gli Appennini. Borgate in cima a qualche poggio si sporgevano, evocando il Medioevo colle loro cinte merlate, colle casette brune raggruppate intorno a qualche campanile aguzzo. La campagna e il mare erano talora abbaglianti»[9]. Sibilla amò profondamente il Fermano: come racconta in Dal mio diario 1940-1944, Franco rappresentava per lei quel territorio, quella ruralità e quella poetica intrinseca dei luoghi.

Egli si laureò il 14 luglio 1939, discutendo una tesi su Ungaretti, Campana e Aleramo. Nel 1941, dopo tanti articoli e poesie apparsi in varie riviste e testate, pubblicò la sua prima monografia, Poemetti (1936-1940)[10]. L’opera fu dedicata all’Aleramo, con la quale era ancora in stretto rapporto. La raccolta, però, non si ispira ai poeti ermetici da lui tanto studiati, ma privilegia una tonalità decisamente aulica, con reminiscenze dalla linea classica della lirica italiana, da Foscolo a Leopardi[11].

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, Matacotta nel luglio 1941 fu chiamato alla difesa della patria e destinato a Macomer, in Sardegna, come allievo ufficiale di artiglieria. Già da prima del 1939 aveva iniziato a prendere le distanze dal fascismo, ma l’impatto della guerra lo allontanò totalmente da quella ideologia e lo segnò per il resto della vita. Anche attraverso le conoscenze di Sibilla e spesso fingendosi malato, riuscì a ottenere permessi e ad allontanarsi spesso dalla Sardegna. Il giorno dopo l’Armistizio, assieme a Pratolini e Vedova, prese contatto con Lizzani, che ricopriva un ruolo primario nel Partito Comunista Italiano, per prender parte alla lotta contro i tedeschi. Ma entrò immediatamente nel loro mirino e fu costretto a rifugiarsi nella soffitta dell’Aleramo in via Margutta per sfuggire alle retate; in seguito riparò avventurosamente a Fermo e di lì a Monte San Giusto vicino a Macerata[12].

La partecipazione alla Resistenza, tanto quanto la chiamata alle armi, lo segnò profondamente e fu alla base della raccolta di versi Fisarmonica rossa[13]. La barbarie della guerra, gli orrori e le devastazioni sul territorio italiano, l’occupazione tedesca e le rappresaglie contro la popolazione civile, con il loro strascico doloroso di lutti e di sangue, fanno da sfondo a un racconto poetico che privilegia il ritmo popolare della ballata e un linguaggio teso e fortemente improntato a un crudo espressionismo. Questi sono i caratteri distintivi di Fisarmonica rossa, opera impregnata di sangue, sudore e sofferenza, probabilmente uno degli esempi meglio riusciti di poesia resistenziale. Quella di Matacotta è una poesia in presa diretta, scritta sotto l’incalzare di tragici eventi, come stanno a indicare spesso le date in calce ai componimenti[14]. D’altra parte, però, c’è la mitizzazione dell’evento, del fenomeno, intriso di pathos storico per il radicale cambiamento che si sta vivendo.

Con la fine della Guerra si chiuse anche il rapporto con l’Aleramo: stando a Cavatassi e Verducci[15], i due si incontrarono un’ultima volta nel novembre del 1947.

La raccolta Fisarmonica rossa, fatte rare eccezioni[16], fu apprezzata fin da subito; così nel 1953 Matacotta la ripropose all’interno di Canzoniere di libertà. Fisarmonica rossa. Nella Prefazione alla riedizione dei Poemetti del 1998, così si esprimeva Francesco De Nicola: «è uno dei pochi canzonieri sulla seconda guerra mondiale e sulla Resistenza scritti in Italia»[17]. Luzi ne diede vari giudizi, tutti molto positivi; uno dei più completi si trova nell’Introduzione a La lepre bianca dell’82: «Col suo linguaggio vivido e crudo, essenziale, rappresenta una rottura nella linea stilistica e tematica della poesia italiana»[18]. Franco Fortini affermò, invece, che quelle «strofe sono scatenate e colorate»[19].

Le criticità evidenziate da Valentini negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione dell’opera non erano legate all’epopea delle vicende narrate, ma al linguaggio, considerato in un primo momento troppo vivido e sanguigno[20]. Il giudizio di Valentini divenne positivo solo a partire dagli anni Ottanta; infatti, nel 1987, in Il Leopardismo di Franco Matacotta scrisse: «vuole restituire alle parole non la purezza che gli Ermetici perseguivano, ma lo spessore storico»[21]. Egli aprì il saggio sottolineando la centralità di Fisarmonica rossa nella letteratura italiana post bellica[22]: il suo contributo originava dall’intervento di Mario Petrucciani del 1972 tenuto a Recanati in occasione del II Convegno Internazionale di Studi Leopardiani.

Petrucciani in quell’occasione mise in evidenza la grandezza rivoluzionaria di Fisarmonica rossa, in quanto lontana dall’Ermetismo ma allo stesso tempo vicina al leopardismo e conscia di tutta la tradizione poetica precedente[23], da Valéry al Porto di Ungaretti, all’Ulisse di Seferis[24]. Egli sottolineava, però, anche un certo distacco dal leopardismo, poiché Matacotta nel poemetto vedeva l’Europa come «una luna / piena di crateri e di tombe»[25].

Valentini partiva proprio da questa affermazione per dimostrare, invece, quanto in Matacotta fosse forte il leopardismo. Il poeta aveva detto della terra: «O desolato cranio del pianeta / fatto gemello dell’infelice luna». Tali affermazioni, secondo Valentini, non sono così lontane dal Poeta recanatese: infatti, per esempio, nel Dialogo a esse dedicato la Terra si rivolge alla Luna chiedendole se sia vero «che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno? Che sei fatta, come affermano alcuni inglesi, di cacio fresco?». Nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, com’è noto, si legge di una luna sitientis, arida, secondo Properzio[26]: una luna molto simile a quella che descrive Matacotta. Valentini sottolineava come alcuni elementi molto presenti in Fisarmonica rossa fossero stati ripresi da opere pubblicate o in via di pubblicazione dello stesso poeta fermano. La fisarmonica, per esempio, è un elemento presente anche in Lepre bianca: «La fisarmonica suonava con il suo miele caldo che scioglieva l’asfalto della notte»[27]. Inoltre nei Poemetti, e precisamente nella Canzone del lupo d’agosto, è già presente il paragone tra uomo e lupo che ebbe poi molta fortuna in Fisarmonica rossa in relazione al parallelismo con i partigiani imboscati[28]. Secondo Valentini, quindi, l’operazione di rinnovamento della poesia italiana compiuta da Fisarmonica rossa non fu dettata dal caso, ma fu un’attenta elaborazione culturale nella quale confluirono, con la maturazione morale, lunghe letture di poeti italiani e stranieri[29].

Tornando alla vicenda umana del poeta, concluso il Secondo conflitto mondiale, egli continuò a vivere attivamente e a raccontare l’Italia del dopoguerra e degli anni Cinquanta e Sessanta. È del 1948 la breve raccolta Naialuna, con cui vinse il premio San Pellegrino[30]. Nell’opera il poeta sviluppava gli appunti poetici presi

durante il soggiorno in Sardegna, nel corso del tormentato periodo di servizio militare, quando era maturata la sua crisi esistenziale in una situazione di solitudine che aveva trovato corrispondenza nella natura selvaggia, pietrosa e solitaria dell’isola. I frequenti richiami mitologici e le reminiscenze leopardiane collegano questi versi ai Poemetti, di cui sembrano costituire una propaggine, piuttosto che a quelli legati all’impegno sociale e politico[31].

Il suo primogenito Massimo gli nacque il 28 luglio 1948, il secondogenito Francesco Cino nel 1956; l’anno successivo pubblicò, influenzato dalla nascita del figlio, la raccolta Ubbidiamo alla terra[32], nella quale, come sottolineato da Valentini, si faceva nuovamente vivo il suo leopardismo[33]. Nel contempo il poeta passò dalle vicende nazionali e internazionali di Fisarmonica rossa all’ambiente privato, quello intimo e famigliare, alla ricerca di un nuovo equilibrio dopo la nascita del bambino. La cronaca e la grande poesia epica politicizzata tornarono però nel 1953, quando sotto lo pseudonimo partigiano di Francesco Monterosso, con il Canzoniere di libertà[34], riprese i toni più politicizzati della sua poesia, senza peraltro riscuotere i consensi della critica, che notò anzi il carattere retorico di gran parte delle liriche aggiunte con l’occasione; a essa seguì, nel 1956, con il medesimo pseudonimo la raccolta poetica I mesi[35] in cui riprendeva, nella prima parte, la pacificata tematica di Ubbidiamo alla terra, mentre, nella seconda, sviluppava ancora tematiche civili, questa volta collegando, sul filo della memoria privata e di quella storica, gli eventi drammatici degli anni della lotta antifascista.

In quello stesso 1956, dopo gli eventi legati alla repressione sovietica in Ungheria, egli maturò la crisi che lo indusse a lasciare il PCI e a pubblicare, nel 1957, i Versi copernicani[36]. Questo momento risultò decisivo per la poetica di Matacotta, che dal 1954 al 1959 visse una profonda crisi ideologica che lo portò a un dubbio costante:

In esso predomina, accanto al senso profondo di radicamento nella sua terra e nei valori trasmessi per generazioni dalla sua gente, una meditazione profonda sulla morte e sulla vita come percorso faticoso nel dolore. Se Foscolo e Leopardi costituiscono i punti di riferimento obbligati del poeta fermano, sul piano sia tematico sia della scelta di una scrittura poetica tesa al sublime, occorre anche osservare che con il riaffiorare delle memorie familiari e infantili il tono dei componimenti tende a virare decisamente verso l’elegiaco e si evidenziano vistose sedimentazioni di ascendenza pascoliana[37].

Questa crisi ideologica ebbe enormi ripercussioni anche nella sua vita privata. Legato da sempre a Fermo e alla sua famiglia, a settembre del 1959 decise di abbandonare moglie e figli, e di chiedere il trasferimento come insegnante dal prestigioso Istituto Tecnico Industriale di Fermo (ITI)[38] a un istituto di Milano[39]. Una decisione, questa, legata, oltre che al tentativo di evadere dalla sonnolenta provincia marchigiana[40] e in parte anche dagli oneri e doveri della vita famigliare, anche al desiderio di saggiare le opportunità che poteva offrire Milano, soprattutto dal punto di vista editoriale. Così tra il 1959 e il 1961 insegnò all’Istituto tecnico industriale di Rho e a Milano. Ma nel 1960 due lutti pesantissimi lo colpirono: il 15 gennaio 1960 scomparve a Roma Sibilla Aleramo, mentre l’8 luglio dello stesso anno morì, in circostanze mai chiarite, il primogenito Massimo, ospite dei nonni materni ad Ancona[41]. Inoltre, Matacotta al momento della morte del figlio fu irreperibile e giunse ad Ancona solo una settimana dopo i funerali, accompagnato da Pratolini[42]. Questo lutto segnò e logorò la sua vita.

L’esperienza milanese si rivelò negativa: «Anni brutti e incerti […] per lui e per me»[43]. Così decise di ricongiungersi alla famiglia andando a insegnare a Osimo, quindi a Genova e infine a Levanto. Nel 1963, dopo una lunga malattia, si spense a Genova anche la moglie Rosa[44]. Agli inizi del 1964 conobbe la collega Emma Marini, che sposò alla fine dello stesso anno. Nel 1965, dopo la morte del padre, decise di rientrare a Fermo, per tornare nell’ottobre 1968 definitivamente in Liguria, a Nervi, dove insegnò nella scuola media Vivaldi. Matacotta morì a Genova il 27 aprile del 1978, dopo una lunga malattia[45].

La critica letteraria

Una frase di Fortini del 1975 svela quale fosse stato il destino di Matacotta: «un poeta che conosce la notorietà da giovane e la dimenticanza del mondo in età matura»[46]. La precoce vocazione ritmico-poetica e la fama giovanile per il poeta fermano furono, infatti, quasi una disgrazia. Con Fisarmonica rossa prima e Lepre bianca poi, egli raggiunse un livello qualitativo cui non riuscì più ad avvicinarsi negli anni seguenti.

Nelle sue opere giovanili, dalla narrativa alla poesia, passando per la critica letteraria, la maggior parte dei critici, Valentini e Luzi su tutti, sentono una grande musicalità e armoniosità tra le parole e i periodi, condizione questa che rende i suoi testi particolarmente fruibili. «Nella Lepre bianca, romanzo pubblicato nel 1946, è possibile trovare frequenti tracce della sua passione per la musica e della poesia»[47], ha scritto Luzi. Fu proprio questo amore per la musica che lo spinse a inserire in tutte le sue opere giovanili elementi musicali: si pensi, ad esempio, alla fisarmonica e al suo suono o ai canti partigiani. Anche nel contributo del professor Dolfi intitolato Il suono della fisarmonica[48] si rileva che «Leggere Fisarmonica rossa di Franco Matacotta vuol dire muoversi in uno straordinario pentagramma di suoni e sensazioni, movimenti e stupori, paura e delusioni, passioni e speranze»[49]. È il suono stesso a tenere insieme le parole e a dare il senso della distruzione e del dolore:

La terra danza danza. È un subbuglio

Di viscere di catrame di nebbia di ossa,

Dentro il velluto carnale del buio

Suona un’ubriaca fisarmonica rossa.

Suona lombrico suona[50]

La terra è avvolta dal suono dello strumento, il quale rivendica il diritto dell’uomo alla vita e magicamente irradia di rosso l’universo, per capovolgerlo, reinterpretarlo e poterlo così vedere sotto una nuova luce. Secondo Dolfi, la musicalità in questa lirica è totale, poiché avvolge il lettore stesso e lo scuote con il suo ritmo[51]. Questa è una danza di unione, che permette di unire individui diversi come Matacotta e il partigiano Montegallo sotto un’unica bandiera, quella della libertà. Il ritmo rabbioso, rosso della fisarmonica esprime anche le necessità della lotta per raggiungere l’azzurro e il bianco della bontà e della serenità. Già nella Lepre bianca egli consegna al lettore una scala cromatica delle proprie emozioni:

Tutto era mobilità, metamorfosi. Il mare, spruzzo azzurro, la

Terra, polvere nera. Il cielo nebbia blu. Perfino i miei pensieri e i

Miei sentimenti erano aliti colorati. Bontà, bianco. Amore, giallo.

Pazienza, marrone. Odio rosso[52].

Secondo Dolfi, «Fisarmonica rossa è, dunque, una raccolta di liriche, ispirate dalle note dello strumento popolare marchigiano, il quale si rivolge a tutta l’umanità, perché rappresenta il distacco di una condizione sociale inattiva»[53]. A tal proposito, Matacotta ha rivelato:

Ero un uomo, un uomo che andava in cerca di difesa contro quei giovani pieni d’odio, e il peso sulle spalle era come il peso di tutta la mia vita di ragazzo, gli stessi stracci, le stesse cose lacerate, gli stessi errori, gli stessi supplizi, la lunga assenza dal terreno quotidiano del vivere, il mio lungo torpore. E rivedendo la mia vita con Bella, tutta la pigrizia, non solo dei gesti, ma anche dell’intelligenza, come un prezzo che io non fascista, ma preso nel gioco del fascismo, avevo pagato al fascismo per non entrare nel suo gioco. Ma era esso stesso un fascismo, perché ero stato assente, e con la mia assenza avevo consentito io pure al fascismo di avanzare e crescere, standomene seduto nel mio olimpo di dolcezza[54].

Dunque, è come se Matacotta volesse sopperire per mezzo della letteratura alla mancata partecipazione attiva alla lotta antifascista: la guerra aveva sancito per gli uomini di cultura, come osservato da Dolfi[55] e Valentini[56], anche uno stallo intellettuale. Il Neorealismo, che stava sorgendo in quegli anni, traeva nutrimento dalla consapevolezza del fallimento della vecchia classe dirigente e del ruolo che, per la prima volta nella storia, si erano conquistate sulla scena della società civile le masse popolari.

Fisarmonica rossa è una densa silloge di poesia ove il dolore è tangibile e sovrasta ogni altra sensazione. L’opera presenta un linguaggio duro, tagliente, aspro e senza possibilità di redenzione. Le immagini, icastiche e pregne di una desolazione morale vergognosa,

si trasmettono al lettore come vere e proprie pugnalate capaci di inasprire il tormento di chi, imbevuto di lotte civili e amico dell’intera umanità, sente ancora oggi sulla sua pelle – sebbene non abbia vissuto direttamente le vicende ‒ l’ingiuria subita da un popolo che significò lo svilimento della coscienza, la mortificazione delle carni, l’autodistruzione del genere umano»[57].

Un esempio emblematico di questa poesia è il componimento Ottobre 1942 in cui Matacotta mostra la prevaricante stanchezza e la derelizione dinanzi a una condizione snervante e dolorosa che si protrae con la guerra: «Ce ne stiamo rigidi e murati / Con le cataratte sugli occhi. / Il vento s’è messo a urlare, / E buio, tenebra sul mondo»[58]. Come sottolinea Spurio, in questi versi sono l’asfissia del colore, l’annullamento della vita, il buio a dominare; l’uomo è descritto nel suo stato di spersonalizzazione, come se fosse una cosa e avesse perso la propria identità[59]. Con una sineddoche fisiologica Matacotta rileva che nessun organo gli si muove più: il cuore, impietrito e affranto, sembra aver perso battito e vitalità, e i polmoni si sono induriti[60]. Il corpo dal cuore impietrito è, ormai, non più umano, poiché imbruttito dalla barbarie della guerra.

Nel poeta fermano vi è una predilezione per un linguaggio prettamente materico e fisico, con ampia frequenza di materiali, tanto naturali che dell’edilizia:

si tratta di materiali che si caratterizzano per essere freddi, inermi, pesanti, fastidiosi al contatto con l’uomo di carne ed ossa: il Nostro parla di “polvere e piombo nel cervello” ad intendere forse, nella polvere la vacuità del senso della ragione, la perdita irrecuperabile della coscienza e nel piombo l’esposizione alle mitraglie e alle armi del conflitto[61].

Nonostante la costante condizione di sofferenza, l’uomo non vi si abitua, perché per sua natura fugge le barbarie e la violenza: a questo punto la lirica diviene occasione di riflessione. I temi della Fisarmonica sono ormai chiari nella mente del poeta, che coltiva instancabilmente le sue nuove passioni ideologiche:

Di nuovo scrivevo versi. Con parole nuove, forti. Li scrivevo durante le mie galoppate in bicicletta di giorno e di notte, nei momenti più impensati. Le immagini mi nascevano nelle volate a capofitto per le discese delle colline o girando pei campi o seduto sulle logge delle case coloniche col bicchiere del vino cotto in mano aspettando i PW. Annotavo i versi in fretta sul taccuino e lo nascondevo sotto la tuta. Incrociando i camion tedeschi la sola preoccupazione era di salvare quel fascio di foglietti segnati a lapis dove era la mia vita e la mia disperazione d’allora, e anche la disperazione della gioventù italiana, il sangue la fede l’amore di quanti combattevano per sopravvivere […][62].

Il poeta fermano, come accennato, cerca di sostituire il mancato apporto attivo tra le fila della Resistenza con l’epicità della narrazione poetica. L’accettazione passiva del Fascismo era stata soppiantata dalla fede nella poesia, la quale rappresentava l’unico appiglio alla vita per l’uomo, soverchiato dalle dolorose prove belliche[63]. La negatività della guerra e l’inutile certezza del dolore, temi profondamente neorealisti, sono i motivi ispiratori di Fisarmonica rossa. La parola poetica di Matacotta è sempre tesa fra rassegnazione e rivolta, in un climax espressionistico che molto richiama le pellicole di Fritz Lang[64]. Nella sua poetica, come sottolineato da Dolfi, è presente anche un chiaro richiamo ai quadri di Kirckner, Grosz e Munch; l’urlo stesso, come suggerisce Valentini, è l’emblema poetico di Matacotta[65]:

L’urlo, nell’espressionismo tedesco, rappresenta il passaggio dalla luce impalpabile dell’impressionismo al chiarore cristallizzato e geometrico dell’avanguardia, “ogni macchia di colore, ogni membro del verso è un urlo, una sferzata, uno scoppio; la realtà intera sembra presa da un folle dinamismo spasmodico”[66].

Per Matacotta, invece, il grido/urlo è «il gesto, la qualità della musica. Così rotta, strangolata dal fragore. Questo fragore di cembalo e di sputi… qualcosa di torbido, nel fondo sotto lo spessore delle immagini, verde e trasparente»[67]. La guerra ha costretto l’uomo al silenzio, che però è un fragore soffocato di cembali e sputi, e come tale rappresenta una metamorfosi paradossale dell’urlo. Quello di Matacotta non è un urlo esteriore, ma interiore, uno di quelli che logora dentro, proprio come i segni della guerra hanno logorato il poeta: «Nel silenzio si preannunzia o si manifesta una visione tragica il cui correlativo è l’urlo, sia pure interno, dell’anima»[68]. L’uomo tace e soffre nel dolore ma, ma proprio come nell’opera di Toller, «il silenzio vibra nello spazio ed esplode nel grido»[69]. Matacotta si appropria di tutti i postulati fondamentali dell’espressionismo e propone una parola poetica battuta dal terrore del fascismo, mortificata e avvilita, ma sempre pronta alla sfida e al duello:

E qua chi cerco? Dove sono i campi

perduti nei crepuscoli viola?

Nel fragoroso turbine dei lampi

Ritrovo la mia casa vuota e sola

Siamo accecati d’odio e di dolore

Mordiamo a sangue l’aria dura e avara

Ma per salvarti abbiamo ancora il cuore,

o Italia, cagna nera, patria cara![70]

La poesia muore nei campi di battaglia, ma risorge nella parola degli uomini, che si portano dietro la memoria dell’accaduto:

Io so dove sono le mie mani

I miei piedi e la mia bocca.

Essi affermano battono mordono

Il sapore nudo della terra.

E con questo gusto di morte

Di polvere di radici e di gelo.

Ricomporrò la mia sorte

Per abbattere con un grido il cielo[71].

Un grido decreta la vittoria della poesia, poiché il grido è strazio e vita allo stesso tempo[72]. Il poeta fermano è costantemente teso fra l’innocenza personale e il delitto, tra il desiderio di parlare lasciando testimonianza e l’impossibilità del silenzio, «tra il fascino dell’eroe e il fallimento del santo»[73]. Lo sguardo poetico matacottiano è perduto nelle tenebre della coscienza e la sua ambivalenza intrinseca dell’essere poetico non si risolverà mai. Per Matacotta, come suggerisce Dolfi, si può parlare di “poesia equivoca”, intendendo con “equivocità” la tensione tra l’urlo della disperazione individuale e l’ideologia, la quale esprime l’esigenza di società, di comunione collettiva[74].

La matrice autobiografica in Matacotta fu sempre molto forte, ma egli subì anche varie influenze letterarie. Il critico letterario sangiorgese Alfredo Luzi[75] ritiene che anche l’educazione letteraria e poetica che ricevette durante gli anni del liceo ebbe un grande peso nella sua formazione[76]. Il poeta fermano, nella Confessione di un figlio della vecchia Europa, dichiara di aver avuto «un’educazione letteraria squinternata in tutti i sensi. A nove anni il Capitale di Marx… per gli esercizi di analisi logica… Più tardi ebbi in mano Hugo e Tolstoi. Al Liceo comprai lo Zarathstra di Nietzsche. Più tardi fu Emerson a innamorarmi… poi Whitman, col suo canto terrestre»[77]. La conoscenza della grande poesia francese gli giunse, invece, attraverso Acruto Vitali[78], grande lettore di Rimbaud, Baudelaire e Valery[79].

La formazione vera e propria per il poeta fermano, come già detto, arrivò solo con l’Aleramo e con lo studio della poesia amorosa di d’Annunzio, Omar, Kajam, Sand, Barret, Colette, Lawrence[80]. Lo studio di Leopardi, invece, fu una costante che accompagnò il poeta per tutta la vita, come sottolineato da Valentini[81]. Durante il periodo trascorso a Capri assieme a Sibilla, egli rilesse Leopardi e tradusse Lucrezio[82]. Inoltre, scoprì Rilke, Heine e Holderlin[83]. Da questi poeti trasse «quel senso di nostalgia della bellezza radicata profondamente in un presagio cosmico di distruzione»[84].

La poesia di Matacotta, come osservato da Valentini, Luzi e Manacorda, avendo tale sostrato di base, è di estrazione colta. I Poemetti[85], pubblicati a Roma nel 1941, sono intrisi di suggestioni dannunziane, leopardiane, ungarettiane, mallarmeane e campaniane[86]. Inoltre, in tale raccolta la poesia è concepita secondo il costume latino, cioè come mezzo privilegiato di conoscenza della realtà[87]. Nella raccolta il Poeta definisce più volte la parola: «Fossili dissepolti le parole» (p. 15); «questo peso / di aride parole» (p. 32); «Dimore del silenzio, marmi, antiche / vi chiedo parole» (p. 33); «O desolato atteggiamento della parola» (p. 59); «Parole, o voi, perenni arcobaleni / fra il mio silenzio e il cielo» (p. 63)[88]. La parola è, sì, salvifica, ma è anche una parola ungarettiana, martoriata. Di fondo appare una tensione costante verso la parola pura, ma come ogni tensione nel suo percorso s’imbatte in «una serie di scacchi e di sfiducie»[89]. In Matacotta la parola nel suo apax è ponte tra il silenzio e il cielo, tra il dolore e l’urlo: ciò molto richiama la concezione valeryana dell’esperienza del vivere[90]. La parola viene posta fuori della temporalità: dovrà essere fossile e moderna allo stesso tempo. Ma dovrà essere posta anche al di fuori del concetto spaziale[91]. La parola secondo Matacotta[92], proprio come nella concezione simbolista moderna, deve essere essa stessa legislatrice e generatrice di mondi. Ci sovviene in aiuto un autogiudizio del poeta:

Avuta l’intuizione lirica fulminea io non la resi se non attraverso una quantità di approssimazioni melodiche. La stessa umanità io la sentii in fusione con le pietre con le piante con le nubi con le stelle. Situazioni atmosfera, parole che io resi ma come una nebbia, talvolta come una fiamma, che lascia sempre poi storditi e insieme inappagati. Io mi rivolsi a un mondo arcano, dando di esso accenti dispersi, sparsi, incerti[93].

Parte di questo brano si ritrova nel Diario dell’Aleramo:

Franco ha l’intuizione lirica fulminea, ma poi non la rende se non attraverso una quantità di approssimazioni melodiche. E dato che il mondo delle sue intuizioni è, come dicevo, più cosmico che umano, e la stessa umanità è da lui sentita in fusione con le pietre con le piante con le nubi con le stelle, quella mancanza di ossatura è doppiamente dannosa ai fini dell’espressione[94].

L’Aleramo considera, dunque, come un difetto l’impianto di base dei Poemetti[95]. Rovesciando la prospettiva di Sibilla, si può affermare che le poesie che vanno a comporre l’opera non sono concepibili singolarmente e non hanno vita autonoma, ma partecipano a un sistema simbolico complesso e articolato, nato dalle febbrili esaltazioni giovanili del poeta[96].

A quali simboli fa riferimento il Poeta fermano? L’introduzione ai Poemetti è costantemente costellata da Alberi celesti:

In quelle strane e luminose fronde

dimorano i celesti. Non i vani

esilii dei beati, ma le eterne

idee, le memorie, e le beate

apparenze solenni. E solitarie,

ravvisano la terra. Ah, nello specchio

di questa stella smemorata dormono

le native sorelle, e le pietose

gridano, apparendo dai notturni

orti del cielo, e le fan deste, e insieme

un amoroso vento le alimenta

che confonde la terra ai firmamenti[97].

Compito del poeta è quello di esaltare e riportare alla memoria collettiva delle immagini primordiali del mondo delle idee. I simboli non sono arbitrarie decifrazioni, come nella stagione simbolista, ma concrezioni di materia ctonia e cosmica[98]. Questo è un elemento di novità assoluta sfuggito completamente alla critica sino alla fine degli anni Cinquanta[99]. Il declinare l’immagine in modo archetipico rappresenta una via del tutto nuova, pregna di un pragmatismo del tutto assente nella poesia italiana di quegli anni. È pur vero che i Poemetti contengono evidenti imperfezioni, sbandamenti ed equivoci del testo, ma sono proprio questi elementi a superare la rigidità schematica dell’impianto dei Poemetti[100] stessi.

Fra le immagini più ricorrenti nella poetica di Matacotta, vi è in primis la notte, presente in tutta la sua produzione, dai Poemetti a Fisarmonica rossa, sino alle raccolte tarde ove spesso diviene oscurità. La notte è sempre percepita come fuori e dentro di noi allo stesso tempo, presenza inquietante e ambigua. Essa è sempre legata al sogno e alle immagini più torbide: «Tu che affini ai terrori i denti neri / tu che alimenti i mali pensieri, / Furia notturna, placati»[101]. E ancora: «O sera, / poi che di gelo se circonda l’ombra / e di fiochi lamenti addorme il giorno, / steso nel soffio del notturno vento / a me scendeva il sogno …»[102]. Continua: «la notte agitatrice di larve e di paure»[103]. È quindi tempo mistico, sede di sogni e avvenimenti misteriosi. La notte matacottiana racchiude in sé molto del credo e del folklore tipico del sud delle Marche, legato ai canti notturni delle streghe, ai pastori e alle leggende sibilline[104]. È sempre concepita come un momento magico in cui confluiscono realtà, fantasie e paure. Nei Poemetti e in Fisarmonica rossa è presente una complessa e difficile ermeneutica dei sogni, per cui spesso le immagini hanno una doppia valenza: essi si presentano sempre sotto il segno dell’ambiguità[105]. La doppia valenza della notte è immediatamente percepibile, da una parte come buio carico di terrore e mistero, dall’altra come rischiarata da una candida luce lunare[106].

Mi duole averti nel tuo fosco bacio,

Notte, che fiore delle mie labbra imbruni

E me d’artiglio pugni qui sul casto

Ciglio dell’ombra ove la nube spira…

Ma dal paese

di questa voce naufraga nel nulla,

mi salvi, luna, che i celesti campi

tacendo trascorri impallidita,

tu priva di pietà, arido giglio,

che l’acre vento delle notti sfiora[107].

La luna con la sua luminosità e la sua purezza inscalfibile può essere un punto di riferimento, nel baratro del nulla cosmico costituito dal buio notturno in cui è spinto l’uomo. Tale visione lunare dona a Matacotta un alone leopardiano più volte sottolineato da Valentini e Verdino[108]:

Un caldo

Colorar delle rose sulle guance

A me invidiate dalla luna[109].

A differenza dal Poeta recanatese, però, il difficile e complesso dialogo tra l’uomo e la luna è causato non dalla dura Natura, ma da una condizione umana di perenne esilio terrestre:

me nell’esilio della terra,

cigno

di funesti lamenti[110].

Continua il poeta: «È dolce anche l’esilio sulla terra»[111]. E ancora:

Isole della terra… e mai giunga dolente a quelle rive e trovi

L’esilio tra gli uccelli tenebrosi[112].

Il tema dell’esilio terrestre è ben consolidato nella storia della letteratura italiana e straniera, e spazia da Baudelaire a Quasimodo. Proprio in quel periodo Matacotta si stava imbevendo di tutta la grande poesia francese da Baudelaire a Valéry, passando per Rimbaud: «La condizione d’esilio farà sì che nel testo vengano invocati i difficili punti di reintegrazione in una patria o pace cosmica ed esaltante pertanto le diverse immagini che partecipano alla dimensione dell’agognata purezza, anche se spesso tali immagini sono misurate dallo scacco umano per il loro utopico raggiungimento»[113].

La produzione poetica di Matacotta di quel periodo deve molto anche a Ungaretti: in lui le isole ungarettiane sorgenti di idillio acquisiranno una valenza mitica e mitologica, costituiranno punti d’approdo cosmici e celesti: «rosse isole»; «E voi cinte di rosee ire di venti, / isole della terra»; «Ardono i regni delle pie Comete, / l’isole prime delle stelle»[114]. Il bisogno di purezza, la continua ricerca del cosmico e del celeste; la sua ansia, il suo vivere la vita notturna che lo portavano a ricercare la pace e la tranquillità; dal 1945 in poi, anche i traumi lasciati dalla guerra: tutto questo mondo nei Poemetti si coagula in due immagini aeree costanti e onnipresenti, le nubi e gli uccelli. Le nubi sono presenti come costante termine di discorso[115]. Molto più complessa e articolata è la presenza degli uccelli: spesso si tratta di colombe, emblema di libertà, cristallizzate nei loro voli e movimenti. Gli uccelli, come ha osservato Verdino e in seguito Luzi[116], sono anche testimoni del dolore, che a volte si collega alla preghiera: «Un lamento d’uccelli chiusi in urne»[117]; «le colombe intonano il lamento»[118].

Matacotta nel 1948 pubblicò Naialuna[119], agile volumetto che raccoglieva i versi composti tra il 1941 e il 1942. Il giovane artigliere, ancora non consapevole ideologicamente, iniziò però a rendersi conto della potenza e dell’incisività della parola poetica. Come riporta Valentini, i versi di quest’opera testimoniano anzitutto un primo modo di resistere, non ancora con la maturità di Fisarmonica rossa, ma con la speranza di una resistenza individuale e doverosamente individualistica[120]: «Il poeta e la sua luna sopravvivono nel soldato e nella sua naia: ma sopravvivono al prezzo di un incipiente lacerazione»[121]. Il poeta vive un continuo scontro, quello tra il Paradiso della memoria[122] e l’inferno della guerra vissuto in Sardegna. I due temi leopardiani della giovinezza e del morto giovane[123], che a loro volta richiamano motivi legati a Catullo e a Foscolo[124], in Matacotta rivivono e si innestano nel motivo della tragedia della guerra e dell’inutile spreco di sangue giovane.

Tutta l’esperienza poetica di Matacotta fu incentrata sulla compresenza della dicotomia vita-morte, all’interno della contingenza di bene e male. In Naialuna il poeta non aveva ancora raggiunto un’autenticità autorevole, e le fonti vi emergono in filigrana: si va dal d’Annunzio panico a Pascoli, Gozzano, Montale, Garcia Lorca e Leopardi, passando per la concezione della memoria come luogo di conoscenza petrarchesca[125].

In Matacotta il tanto amato orfismo romantico ritornò con Ubbidiamo alla terra, raccolta pubblicata nel 1949[126] in cui rivive appieno tutto il suo amore per il romanticismo e per l’orfismo, da Novalis a Campana, da Fichte a Nietzsche, ma naturalmente risuonano rombanti anche Pascoli e Leopardi[127]. Però questa è soprattutto una poesia dei dilemmi e degli interrogativi sul senso della vita umana[128].

L’impegno politico in Matacotta iniziò a farsi sempre più presente a partire dagli inizi degli anni Cinquanta e ciò influenzò anche le sue scelte letterarie. Nel 1953 egli riunì nel Canzoniere di libertà tutte le sue opere di carattere politico e civile[129]. Inoltre, tornò allo pseudonimo di Francesco Monterosso, utilizzato per le sue prime comparsate in giornali e riviste. Cercò un macchinoso ritorno laboratoriale alle teorie del realismo socialista che in realtà si rivelò becero populismo. «Se le liriche di Fisarmonica rossa si salvavano proprio per la loro violenta soggettività, per quel loro riferirsi ad un nodo unico di emozioni e sensazioni che è l’individuo del poeta, le poesie del Canzoniere risultano velleitarie proprio nel volere aprirsi verso una simbolizzazione corale e collettiva della storia di un intero popolo»[130]. Da quel momento in poi, la voce del poeta iniziò a perdere di autenticità, senza più ritrovare quella solenne franchezza tanto lodata dai critici. Successivamente avrebbe ripiegato sulla narrazione dell’ambiente famigliare, ma quella nuova strada non fu apprezzata dalla critica, che in poco tempo lo fece sparire nell’anonimato.

Matacotta e il rapporto con gli intellettuali del Fermano

Matacotta ebbe sempre strettissimi rapporti con l’ambiente intellettuale fermano, sin dai tempi dell’Aleramo. Come già accennato, fu molto amico del poeta e pittore sangiorgese Acruto Vitali[131] che, assieme a Osvaldo Licini[132] e al grottese Ermenegildo Catalini[133], creò il circolo degli intellettuali antifascisti fermani. Entrarono a far parte del circolo anche Gino Nibbi[134], Elio Quintili[135] e lo stesso Matacotta[136]. A questi poi si aggiunsero anche quelli della generazione successiva: Alvaro Valentini, Luigi Dania, Luigi Crocenzi, Giuseppe Brunamontini, Giuseppe Morichetti, Gino Mecozzi, Giuliano Montanini, Giancarlo Silvetti e Luigi Di Ruscio[137].

Presso la Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo è conservato l’Archivio Valentini, al cui interno è presente della documentazione inedita significativa anche per spiegare il rapporto di amicizia che Valentini stesso ebbe con Matacotta e per testimoniare che i giudizi sulle opere dei membri del gruppo circolavano spesso in epistole. A tal proposito è interessante il giudizio espresso da Valentini in una lettera a Vitali su La peste di Milano di Matacotta, datata 5 aprile 1975[138]:

Caro Acruto,

ti scrivo per avere uno dei tuoi fini giudizi su un mio articoletto (di poco conto, sai!), in particolare vorrei un tuo parere sul suo incipit che non poco mi turba, ecco qui: “L’introduzione di Fortini a La peste di Milano si apre con parole di rammarico per la sorte di Matacotta il quale ha conosciuto la notorietà da giovane e la dimenticanza del mondo in età matura. Rammarico opportuno per un discorso critico che viene, subito dopo, tracciato; e che potrebbe valere in sede polemica come un allarme affettuoso o una nota moralistica…” Dimmi, caro Acruto, forse troppo frettoloso gettarsi sul giudizio di Fortini? Meglio iniziare parlando di Fisarmonica rossa? Dammi un tuo giudizio.

Un caro saluto, Alvaro[139].

Interessanti sono anche le lettere con cui Licini stroncò nel 1942 i Poemetti. Infatti Matacotta, su suggerimento dell’Aleramo, nel 1942 inviò una copia dei Poemetti alla redazione della rivista «Valori Primordiali», il cui direttore, Franco Ciliberti, girò la richiesta a Licini, che era membro della redazione e conterraneo di Matacotta; Licini, però, con tre lettere bollò l’opera e non la recensì, definendola ricolma di leopardismo e «scolpita di un rettorico bolso»[140]. Probabilmente Matacotta non venne mai a sapere di tale giudizio, poiché Licini concluse la terza lettera con la raccomandazione a Ciliberti: «resti tra noi»[141].

Per continuare sulla linea del Matacotta inedito, sono significativi anche molti suoi giudizi presenti in Confessioni di un figlio della vecchia Europa[142], dattiloscritto esaminato da molti critici, che vi hanno percepito un tono di forte autocritica:

Dicevo, dolci piedi nudi, dolce legno del volto, dolce profondità di sguardi. A tal punto l’oppio della poesia addormenta. A tal punto i poeti sono ciechi raggomitolati in sé stessi come gatti. Deformano la verità del mondo drogandola con la musica. E la guerra divampa in Europa. Cessai di scrivere. Mi ribolliva dentro come un nuovo grumo di voci, detestavo adesso la grassa seriosa musicalità dei miei versi di prima, sentivo nuovi scatti. Tutto dentro di me prendeva il colore della collera, il ritmo rugginoso e sordo della ribellione[143].

Un Matacotta edito, ma sconosciuto ai più, è quello che troviamo in un acceso dibattito all’interno della storica rivista dell’Istituto Tecnico Industriale di Fermo, «Il Montani»[144]. Lo scambio di battute che si sviluppa a suon di articoli è con Giovanni Botturi, vicepreside dell’Istituto, e l’argomento è la didattica della lingua e della scrittura. In quegli anni gli articoli della rivista erano firmati dagli intellettuali di spicco del Fermano, da Luigi Dania a Raul Lunardi, passando per Alvaro Valentini, Francesco Maranesi e Marcello Seta.

Matacotta era un giovane insegnante di lettere di quell’Istituto. Botturi aveva una concezione della didattica ancorata agli stilemi primonovecenteschi, mentre Matacotta era per lo scrivere naturalmente, fuori da artifizi. Tra i due nei corridoi della scuola e nelle riunioni era intercorso qualche acceso confronto[145]. Tutte queste frizzanti diatribe vennero fissate su carta da Matacotta nella Lettera aperta al Prof. Botturi pubblicata nel numero 9 del 1949 del «Montani»: in essa si affrontano le questioni fondamentali dell’insegnamento della lingua italiana, dal concetto di forma estetica della scrittura al suo ruolo e valore sociale.

Per Matacotta la preoccupazione non risiede nelle aberrazioni ortografiche, ma nel fatto che gli studenti non abbiano la minima idea di come si componga un testo[146]. Essi non hanno la più pallida idea di come concepirlo, argomentarlo; hanno solo l’assurda convinzione che il tema sia semplicemente un incolonnamento di parole e la paura di non riuscire a riempire il foglio nella sua interezza: «Questo essi [gli studenti] credono che sia fare il tema: a forza di spasmi espulsivi rovesciare sopra il foglio bianco un ammasso informe di parole, come un feto… ne segue un’immagine pietosa e malinconicissima con l’impressione che stiano succedendo avvenimenti tenebrosi, ciascun alunno lotta con idre spaventose, ha gli occhi stralunati, e il cervello è inabissato in oscuri fondali marini, senza speranza di salvezza»[147]. Gli alunni pensano di dover trovare idee generiche, convenzionali, e cercano di impacchettarle con belle parole. Dei propri pensieri e ragionamenti non tengono conto e preferiscono copiare dal compagno piuttosto che metterci del proprio.

Secondo Matacotta, a questi alunni non è stato insegnato che le due ore di tema dovrebbero servire alla ricerca della verità per mezzo della scrittura. Il poeta fermano auspica che gli allievi si umanizzino e che non siano dei semplici tecnici. A Matacotta poco importa della forma, almeno a un primo livello; considera infatti il dialetto una forma più profonda di humanitas, la vera forma d’espressione dell’uomo, il suo ethos e il suo epos. Qui scopriamo un Matacotta nuovo, che ama i propri alunni e desidera che essi tirino fuori i loro veri sentimenti attraverso la scrittura; un Matacotta pedagogo, che si comporta un po’ come con lui aveva fatto l’Aleramo.

Secondo il poeta, i libri tecnici possono prosciugare l’uomo, allontanarlo dal suo vero nucleo vitale. Il ritorno all’humanitas dell’individuo è un dovere civile post bellico, e l’humanitas può essere ritrovata e ricercata solo nella libertà[148]. Ogni regime, come in Italia il fascismo, «svuota l’individuo della sua unicità di pensiero»[149]. Per esprimerla servono la parola e la poesia, che debbono essere scevre degli artifizi tecnici tanto apprezzati da Botturi. Quella di Matacotta è una posizione tutta protesa verso l’autenticità assoluta e la pregnanza del tema. In questo senso, come già detto in precedenza, egli fu così sincero con sé stesso da autocriticarsi, quando, rileggendosi, non sentì la propria scrittura autentica[150]. Questo per Matacotta era quasi da considerarsi un testamento intellettuale ai suoi alunni: il testamento di un grande poeta che non fu mai realmente apprezzato dalla critica in età matura e sul quale resta ancora molto da dire.

  1. Per questa prima parte della biografia si veda: A. Mastropasqua, Matacotta, Franco, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 72, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2008; G. Martinelli, Dizionario biografico di personaggi del Fermano, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, pp. 220-21; Matacotta Franco, in siusa.archivi.beniculturali.it, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche (cfr. l’URL: https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=61745&RicSez=produttori&RicFrmRicSemplice=matacotta&RicVM=ricercasemplice; ultima consultazione: 31 gennaio 2024); L. Martellini, Franco Matacotta, Firenze, La nuova Italia, 1981, pp. 5-12.
  2. S. Aleramo, Dal mio diario. 1940-44, Roma, Tumminelli, 1945, p. 22.
  3. Per il rapporto che ebbe con l’Aleramo si veda: G. Armandi, Franco Matacotta: il poeta e l’uomo, in Omaggio a Matacotta, a cura di Luigi Martellini, Fermo, Tipolitografica Fermana, 1982, p. 27; D. Pupilli, Carte fermane: Figure e aspetti della cultura fermana contemporanea, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, pp. 173-75; S. Aleramo, Diario di una donna: inediti 1945-1960, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 476; G. Mecozzi, Conoscere il poeta, inserto dedicato a Franco Matacotta, in «Garofano Rosso», anno III, n. 3, 17/11/1977.
  4. D. Campana, Taccuino, a cura di Franco Matacotta, Fermo, Edizioni Amici della Poesia, 1949.
  5. D. Pupilli, Carte fermane: Figure e aspetti della cultura fermana contemporanea, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, p. 173.
  6. S. Aleramo, Diario di una donna: inediti 1945-1960, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 27.
  7. S. Aleramo, Dal mio diario 1940-1944, op. cit., p. 320.
  8. S. Aleramo, Diario di una donna: inediti 1945-1960, op. cit., p. 236.
  9. S. Aleramo, Una donna, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2003, p. 110.
  10. F. Matacotta, Poemetti (1936-1940), Roma, Edizioni di Prospettive, 1941.
  11. Sui suoi primi poemetti si veda G. Manacorda, I due modi della parola di Matacotta, in Omaggio a Matacotta, a cura di Luigi Martellini, Fermo, Tipolitografica Fermana, 1982, p. 11.
  12. Per tutto ciò che riguarda Matacotta durante la guerra e nel periodo postbellico sino agli inizi degli anni Cinquanta, si veda C. Verducci, Franco Matacotta testimone del suo tempo, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, Fermo, Andrea Livi editore, 2018, pp. 7-15.
  13. F. Matacotta, Fisarmonica rossa, Roma-Milano, Darsena, 1945. Questa fu una delle prime opere pubblicate in Italia che andò a raccontare e mitizzare l’epopea della Resistenza.
  14. Per il giudizio su Fisarmonica rossa ci si rifà a quelli recentissimi di Luzi e Pupilli, mentre Valentini in un primo momento non accolse l’opera entusiasticamente. Parlando dell’evoluzione poetica di Matacotta, esprime un giudizio molto favorevole sull’opera anche Manacorda in Introduzione a F. Matacotta, La lepre bianca, Ancona, Il lavoro editoriale, 1999, p. 5.
  15. C. Verducci, Franco Matacotta testimone del suo tempo, op. cit., p. 7; F. Cavatassi, Comunisti nel dopoguerra. Memorie e biografie dei militanti del Piceno, in «I quaderni. Trimestrale dell’Istituto Gramsci Marche», n. 15/16, 1996, p. 70.
  16. Come anticipato, Alvaro Valentini inizialmente fu un po’ titubante, ma riconsiderò la raccolta negli anni successivi.
  17. F. De Nicola, Prefazione a F. Matacotta, Poemetti, Milano, Viennepierre, 1998, p. 10.
  18. A. Luzi, Introduzione a F. Matacotta, La lepre bianca, a cura di A. Luzi, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 24.
  19. F. Fortini, Introduzione a F. Matacotta, La peste di Milano e altri poemetti, Ancona, L’Astrogallo, 1975, p. 10.
  20. Tale giudizio è presente in due lettere inedite di Alvaro Valentini, una del febbraio del 1946 e una del luglio 1948, entrambe conservate presso l’Archivio del fondo Valentini della Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo, faldone n. 51.
  21. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta, in Franco Matacotta, Atti del convegno di studi di Bergamo 1987, a cura di G. Morelli, Bergamo, Cooperativa Studium Bergomense, 1987, p. 72.
  22. Ivi, p. 71.
  23. M. Petrucciani, Leopardi nelle poetiche e nei poeti dell’ultimo trentennio, in Leopardi e il Novecento. Atti del II convegno internazionale di Studi Leopardiani, Recanati 2-3 ottobre 1972, Firenze, Olschki, 1974, p. 174.
  24. Egli riporta tali osservazioni non solo negli Atti del convegno ma anche in M. Petrucciani, Segnali e archetipi della poesia: studi di letteratura contemporanea, Milano, Mursia, 1974, p. 32.
  25. M. Petrucciani, Leopardi nelle poetiche e nei poeti dell’ultimo trentennio cit., p. 174.
  26. G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, Firenze, F. Le Monnier, 1848.
  27. F. Matacotta, La lepre bianca, a cura di A. Luzi, op. cit., p. 176.
  28. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta, op. cit., p. 71.
  29. Ivi, pp. 72-73.
  30. A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani, op. cit.
  31. Ibidem.
  32. F. Matacotta, Ubbidiamo alla terra, Rieti-Roma, Edizioni del Girasole, 1949.
  33. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 75.
  34. F. Matacotta, Canzoniere di libertà, Roma, La nuova strada, 1953.
  35. F. Matacotta, I mesi, con prefazione di F. Flora, Milano, Schwarz, 1956.
  36. F. Matacotta, Versi copernicani, Firenze, Vallecchi, 1957.
  37. A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani cit.
  38. Il Regio istituto tecnico industriale di Fermo sorse nel 1854 come Opera pia grazie a un lascito testamentario del conte Gerolamo Montani. L’Opera pia immediatamente dopo l’Unità si trasformò in scuola di Arti e Mestieri per le Marche grazie all’interessamento del sindaco di Fermo Ignazio Trevisani e dell’architetto Giovanbattista Carducci. Nel 1863, per portare la scuola a livelli d’avanguardia in campo nazionale nell’ambito dell’istruzione tecnica, fu chiamato a dirigerla l’ingegnere Ippolito Langlois, proveniente dal Conservatoire national des arts et métiers di Parigi e allievo di Arthur Morin. Egli trapiantò a Fermo i metodi delle “Écoles d’Arts et Métiers” francesi e nel 1884 trasformò la scuola in Regio istituto industriale. Tra i docenti illustri dell’istituto si ricordano il fisico Giovanni Giorgi a cui si deve un progetto di nuove Officine, in realtà mai realizzate, e il matematico Ciamberlini. Si veda: ITI Montani, Fermo – 150: Scuola tecnica & società moderna, catalogo a cura di Guglielmina Rogante; testi di Bruno Belhoste et al.; contributi alla sezione strumenti di Luigi Angelici et al.; con la collaborazione di Giuseppe Calcinaro, Fermo, Comune di Fermo, 2004.
  39. A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani cit.; C. Verducci, Franco Matacotta, op. cit., p. 14.
  40. Sul rapporto con l’insegnamento al Montani e gli altri intellettuali presenti nella scuola si veda: G. Rogante, Franco Matacotta al Montani: una discussione sull’insegnare la lingua italiana, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, Fermo, op. cit., pp. 39-49.
  41. Massimo fu ritrovato impiccato: non si è mai chiarito se fosse stato un suicidio o un gioco finito in tragedia.
  42. C. Verducci, Franco Matacotta, op. cit., p. 14; M. Temperini, Tra la perduta gente: il giovane Matacotta a Fermo, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, op. cit., pp. 17- 21. Tra la gente fermana che visse quell’epoca, il suicidio/incidente del figlio di Matacotta fu sempre visto come una mancanza della figura paterna, poco presente.
  43. F. Fortini, Introduzione a F. Matacotta, La peste di Milano e altri poemetti, Ancona, L’ Astrogallo, 1975, p. 10.
  44. A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani cit.; C. Verducci, Franco Matacotta cit., pp. 13-15.
  45. A. Mastropasqua, Franco Matacotta, in Dizionario Biografico degli Italiani cit.
  46. F. Fortini, Introduzione cit., p. 9.
  47. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione, in Franco Matacotta. Atti del convegno di studi, op. cit., p. 19.
  48. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica, in Franco Matacotta. Atti del convegno di studi, op. cit., pp. 51-70.
  49. Ivi, p. 51.
  50. F. Matacotta, Fisarmonica rossa, Urbino, 4 venti, 1980, pp. 47-48.
  51. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 51: cfr. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 78.
  52. F. Matacotta, La lepre bianca, op. cit., p. 101.
  53. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 52.
  54. Archivio di Emma Marini Matacotta: F. Matacotta, Confessione di un figlio della vecchia Europa, romanzo inedito, p. 454.
  55. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., pp. 52, 56.
  56. C. Verducci, Franco Matacotta cit., p. 18.
  57. L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossadi Franco Matacotta, in Blog di Letteratura e Cultura, 27/01/2016, https://blogletteratura.com/2016/01/27/il-partigiano-annientato-in-fisarmonica-rossa-di-franco-matacotta-a-cura-di-lorenzo-spurio/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  58. F. Matacotta, Fisarmonica rossa, op. cit., p. 41.
  59. L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossadi Franco Matacotta, art. cit.
  60. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 14.
  61. L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossadi Franco Matacotta, art. cit.
  62. Archivio di Emma Marini Matacotta: F. Matacotta, Confessione di un figlio della vecchia Europa, romanzo inedito, p. 471.
  63. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 54.
  64. Ibidem; cfr. anche A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 78.
  65. Ibidem.
  66. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 55; L. Mattner, L’espressionismo, Bari, Laterza, 1975, pp. 28-29.
  67. Archivio famiglia Matacotta: F. Matacotta, Passeggiata romana, inedito, pp. 5-6.
  68. L. Mattner, L’espressionismo, op. cit., p. 43.
  69. Ivi, p. 46.
  70. F. Matacotta, Fisarmonica rossa, op. cit., p. 16.
  71. Ivi, pp. 21-22.
  72. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 56.
  73. Ibidem; sul fallimento del santo si veda anche A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 79.
  74. L. Dolfi, Il suono della fisarmonica cit., p. 57.
  75. In particolare: A. Luzi, Introduzione a F. Matacotta, La lepre bianca, op. cit. e A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., pp. 18-20.
  76. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 19.
  77. Archivio di Emma Marini Matacotta: F. Matacotta, Confessione di un figlio della vecchia Europa, romanzo inedito cit., p. 28.
  78. Cfr. R. Renzi, Acruto Vitali: dalla poesia alla pittura, in «Letteratura e Pensiero», n. 16, aprile-giugno 2023, pp. 231-36.
  79. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 20; S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta, in Franco Matacotta. Atti del convegno di studi, op. cit., pp. 37-50.
  80. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione, op. cit., p. 20.
  81. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 82.
  82. S. Aleramo, Dal mio diario 1940-1944, op. cit., p. 321.
  83. Ibidem.
  84. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 20.
  85. F. Matacotta, Poemetti, Roma, Edizioni di Prospettive, 1941. Raccoglie le liriche che vanno dal 1936 al 1940.
  86. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., pp. 20-21.
  87. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit.
  88. F. Matacotta, Poemetti, op. cit.
  89. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 37.
  90. Ibidem. Valéry esercitò una profonda suggestione al tempo dei Poemetti. Scrisse Matacotta nel romanzo inedito Le confessioni di un figlio della vecchia Europa: «Ero ormai incatenato in questa foresta di simboli nella quale Bella (l’Aleramo) aveva avuto l’astuzia di affidarmi la parte di protagonista. Ero come l’organizzatore di quella vasta officina di sensazioni fisiche, quasi avessi avuto dalla mia epoca il compito di raccogliere e registrare in un archivio tutte le emozioni spirituali e casuali di una generazione in sfacelo già prossima a perire. Cimitero marino, è questo il titolo più appropriato di quella nostra rappresentazione caprese? Leggevamo allora Valéry. Mi estasiavo dinanzi al Fragment du Narcisse. Bevevo quella luce grigiodorata dei versi di Charmes simile alla luce d’autunno delle epigrafi tombali. Il medesimo freddo luccicore dei pini il medesimo ronzio di api e vespe, mentre la Jeune Parque mi chiamava diritta sulle soglie del secolo ventesimo scaldando al sole il suo funebre sesso divoratore come un ultimo esemplare di umanità femminile gravida di 100 anni di esperienze e vittorie senza più segreti da offrire».
  91. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 23; cfr. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 37.
  92. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 22.
  93. Questo appunto si trova su un foglietto sciolto dell’Archivio di Emma Marini Matacotta.
  94. S. Aleramo, Un amore insolito, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 36.
  95. Ivi, pp. 36-38.
  96. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 38. Cfr. anche: «Io vissi come per un mirabile delirio in zone abitate dall’acqua dai raggi delle rupi e del fuoco, simile a un vagante uccello», tratto da un foglio sciolto dell’Archivio di Emma Marini Matacotta.
  97. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 3.
  98. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 25; cfr. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 39.
  99. Anche a un critico fine come Jacobbi, che ebbe sempre grande simpatia per Matacotta, sfuggì completamente tale elemento.
  100. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 24.
  101. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 16.
  102. Ivi, p. 39.
  103. Ivi, p. 31.
  104. Per le leggende dei monti sibillini e il folklore rurale a esse legato si rimanda agli studi di Diego Mecenero, esperto di francescanesimo e folklore nel sud delle Marche.
  105. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 40. Cfr. per Fisarmonica rossa L. Spurio, Un corpo pieno di mosche, morte e cecità. Il partigiano annientato in Fisarmonica rossa di Franco Matacotta, op. cit.
  106. F. Matacotta, La lepre bianca, Roma, Nuove edizioni italiane, 1946, p. 12.
  107. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 19.
  108. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 40; cfr. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 82.
  109. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 38.
  110. Ivi, p. 19.
  111. Ivi, p. 50.
  112. Ivi, p. 59.
  113. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., p. 41.
  114. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., pp. 51, 59, 63.
  115. S. Verdino, Immagini e archetipi nei Poemetti di Matacotta cit., pp. 41-42.
  116. Ivi, p. 42; cfr. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 24.
  117. F. Matacotta, Poemetti, op. cit., p. 43.
  118. Ivi, p. 63.
  119. F. Matacotta, Naialuna, Fermo, Amici della Poesia, 1948.
  120. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 83; cfr. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 27.
  121. A. Valentini, La poesia di Franco Matacotta, in «Piceno», II, 2 dicembre 1978, pp. 7-29.
  122. All’interno c’è un frammento tradotto del Paradiso perduto di Milton. Cfr. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 28.
  123. Richiamo del bambino Milis.
  124. A. Valentini, La poesia di Franco Matacotta, art. cit. Cfr. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 28.
  125. A. Valentini, Il Leopardismo di Franco Matacotta cit., p. 86; A. Valentini, La poesia di Franco Matacotta cit., p. 12; cfr. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 28.
  126. F. Matacotta, Ubbidiamo alla terra, Roma, Edizioni del Girasole, 1949.
  127. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., pp. 28-29. Come riportato da Luzi, il naturalismo misterico pascoliano è costantemente filtrato dall’accordo tra natura e cultura leopardiano.
  128. «Perché ti chiamo?»; «Per chi risplendi tu, fuoco del sole?»; «Per chi brilli, fiore?»; «Per chi sei fatto sole?»; «Per chi sospiri tu, vetro di voce? Questo mare di sangue, perché sole?»: F. Matacotta, Ubbidiamo cit., rispettivamente alle pp. 6; 9; 13; 35; 41; 45; 52.
  129. F. Matacotta, Canzoniere di libertà, Roma, La nuova strada, 1953.
  130. A. Luzi, La poetica di Franco Matacotta tra ribellione e tradizione cit., p. 29
  131. R. Renzi, Acruto Vitali: dalla poesia alla pittura, art. cit.
  132. R. Renzi, Nota critica su Osvaldo Licini, in «Avanguardia rivista di letteratura contemporanea», n. 77, 2022.
  133. R. Renzi, Osvaldo Licini: la sua terra, la malinconia e la follia, in «Progetto Babele», 17/09/2023.
  134. A. Luzi, Gino Nibbi: Lettere dall’Australia. Uno scrittore marchigiano tra emigrazione e nomadismo, in Le Marche fuori dalle Marche: migrazioni interne ed emigrazioni all’estero tra 18° e 20° secolo. Atti del Convegno internazionale organizzato dall’Istituto di storia economica e sociologia dell’Università di Ancona: Fabriano 20 e 21, Fermo 21 e 22 marzo 1997, a cura di E. Sori, voll. 3, Ancona, Proposte e ricerche, 1998, pp. 940-54.
  135. O. Rossi, L’immaginario architettonico di Elio L. Quintili, L’Aquila, Angelus novus, 1993.
  136. Sul contesto culturale fermano di quegli anni si veda: D. Pupilli, Fermo è piccola, antica città, in Carte Fermane, Fermo, Andrea Livi editore, 1992, pp. 17-38.
  137. A. Luzi, Un cenacolo di politica e cultura in provincia, in «Quaderni Gramsci Marche», 22/23, 1997, pp. 49-66.
  138. Il giudizio presente fu poi in parte pubblicato in A. Valentini, Franco Matacotta: La peste di Milano e altri poemetti, in «Rapporti», n. 9, 1976, pp. 731-34.
  139. Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo, Fondo Valentini, Archivio Valentini, faldone 36.
  140. Le tre lettere sono nell’Archivio Ciliberti della Biblioteca di Como, lettere del 1°, 8 e 30 aprile 1942. Ringrazio i colleghi della Biblioteca di Como che mi hanno inoltrato le digitalizzazioni.
  141. Archivio Ciliberti della Biblioteca di Como, lettera del 30 aprile 1942.
  142. Archivio di Emma Marini Matacotta: F. Matacotta, Confessione di un figlio della vecchia Europa, romanzo inedito cit.
  143. Ivi, p. 24.
  144. La rivista nasce nel 1888 con il titolo «Eco degli antichi alunni», cambia diversi nomi nel corso della sua storia, nel 1940 si interrompe per mancanza di carta e nel 1949 ricomincia a essere stampata.
  145. G. Rogante, Franco Matacotta al Montani, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, a cura di C. Verducci, op. cit., p. 43.
  146. F. Matacotta, Lettera aperta al Prof. Botturi, in «Il Montani», n. 9, dicembre 1949. Gli studenti scrivono “l’ectio” al posto di “lectio” o “la rida” al posto dell’“arida”.
  147. F. Matacotta, Lettera aperta al Prof. Botturi cit.
  148. Ibidem.
  149. Ibidem.
  150. Archivio di Emma Marini Matacotta: F. Matacotta, Confessioni di un figlio della vecchia Europa, inedito cit., pp. 28-32.
  151. Istruttore direttivo presso la Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo.

(fasc. 51, 15 marzo 2024, vol. II)