Per un critico letterario prendere coscienza che non potrà mai essere un romanziere o un poeta è un momento drammatico dell’esistenza, spiegava Flaubert, e anche tristissimo, perché, pur riuscendo ad assaporare tutta la bellezza che un singolo verso di Dante o di Petrarca contiene, pur essendo consapevole di cosa sia la vera grandezza, non ne fa parte, è come condannato a non saperla riprodurre. Ogni giorno si ritrova in compagnia dei nobili illustri che abitano il Castello della letteratura, ogni giorno si ciba dei prodotti del loro orto, ogni momento sente l’ebbrezza della vastità universale della loro arte, ne è intimamente attraversato: ma, al di fuori di questa sorta di “necrofilia”, che può tradursi in altissime e illuminanti pagine di critica letteraria, quasi mai riesce a essere altrettanto profondo, analitico, convincente (e, se alcuni scrittori non vengono più pubblicati, sia detto per inciso, non è solo perché non parlano ai lettori di oggi ma perché abbiamo smesso di studiarli, di interrogare le loro parole). In questo senso la scrittura è molto crudele: finché lo studioso resta nel campo della biografia o di un saggio, è in grado di creare spazi finemente inventati; quando, invece, se ne allontana, rischia moltissimo. Soprattutto, c’è un peccato davvero mortale in cui un critico può incorrere: quando si vive tra le ombre dei grandi, si può cedere alla tentazione di sentirsi un po’ come loro, e allora a un certo punto può venire la fantasia di scrivere un bel romanzo, pensando che non sia troppo difficile, ed è questa la vanità che a volte fa precipitare nel vuoto. Continua a leggere Recensione di Marco Santagata, “Come donna innamorata”
(fasc. 6, 25 dicembre 2015)