L’incremento di studi, dovuto alla vasta organizzazione di convegni e dibattiti sulla Grande Guerra in occasione del centenario, ha portato a riflettere su posizioni critiche e ideologiche sul mito della Grande Guerra e sulle caratteristiche letterarie e strutturali delle opere che l’hanno raccontata. La memorialistica di guerra di Emilio Lussu e di Carlo Emilio Gadda, pur se profondamente diversa nelle due opere (basti dire che Lussu scrive venti anni dopo gli avvenimenti, mentre Gadda redige i suoi diari in presa diretta), offre la possibilità di esprimere alcune considerazioni su ciò che realmente è stata per gli italiani spediti al fronte l’esperienza bellica della prima guerra, il tutto inserito in un contesto di lettura e studio letterario più che storico, come è giusto che sia.
L’opera sulla Grande guerra di Lussu manifesta sin dalle prime pagine il preciso scopo della dissacrazione del mito eroico della guerra, del rendere giustizia di una guerra che, combattuta eroicamente da tanti soldati «mandati al macello», era poi gestita in modo ridicolo e amorale dai comandanti dell’esercito, dai generali e dai vertici della politica italiana. Lussu è, così, coerente con se stesso, con il proprio intento sempre dichiarato di non voler essere scrittore di narrativa ma di impegno, di non voler fare romanzi ma politica, di voler essere sempre e comunque uomo di azione e di attività. E in questo caso, visto anche il particolare periodo storico e politico che l’Italia stava vivendo (siamo nella seconda metà degli Anni Trenta quando Lussu scrive il libro), anche uomo di denuncia.
Uno studio sulla genesi e sulle varie fasi di stesura del libro è stato effettuato da Giovanni Falaschi[1. Cfr. G. Falaschi, Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Le opere, vol. IV, Il Novecento, II – La ricerca letteraria, Torino, Einaudi, 1996, pp. 167 e sgg.]; non si ripercorrerà in questa sede la lunga e travagliata gestazione del libro, il fondamentale ruolo di Salvemini né le tante titubanze pratiche e ideologiche che caratterizzarono a lungo il lavoro di Lussu. Ci si limiterà ad affermare che il volume sembra essere arrivato alla sua stesura più per volontà e insistenza di altri che per un preciso progetto creativo o di necessità dell’autore stesso. La realtà è che in Lussu la materia non ha mai trovato una corretta e completa elaborazione, ha covato dentro con tutta la sua carica di rabbia e di frustrazione per gli inutili massacri ai quali i soldati venivano inviati in nome di una causa mal gestita e ancor peggio sentita. Per Lussu il Generale Cadorna era più utile al nemico da vivo che da morto; i troppi massacri di soldati erano comandati a livello puramente dimostrativo, massacri in cui ragazzi perdevano la vita consci dell’inutilità del perderla e consci di andar verso il nemico senza alcun tipo di speranza di sopravvivere e ancor meno di vincere.
I ragazzi inviati allo scoperto a sistemare i fili di ferro, a mettere le mine sotto il limpido tiro dei nemici non sono neppure lontanamente convinti di essere eroi o di servire alla patria; sono solo costretti alla morte che, se non arriva (ma è certo che arrivi) per il tiro nemico, arriva dai propri commilitoni ai quali verrebbe ordinato di fucilare il soldato che non ha obbedito ad un ordine.
Caporetto è per Lussu una rivolta passiva di un esercito stanco di inutili massacri. Lussu tentenna e si fa pregare da Salvemini, ma in realtà sa che può finalmente crearsi l’alibi per dire ciò che da tempo sentiva come bruciante necessità: denunciare il massacro inutile e la follia della gestione fallimentare di una guerra che trasforma l’utile in inutile, l’eroismo in stupidità. Lussu è perfettamente consapevole della precisa scelta ideologica che fa nello scrivere questo difficile libro, il cui peso e la cui portata vanno ben oltre la memorialistica di guerra e la semplice stesura di un documento della Grande Guerra. Troppo controllato e freddo è lo scrittore, il cui obiettivo è dire a chiare lettere (mascherate) che lo Stato ha delle responsabilità gravissime sia nella guerra che nella successiva situazione politica che di quella guerra e di quella trascuratezza e faciloneria è figlia. In uno Stato e in una Nazione che ha fatto quella guerra, e in quel modo l’ha gestita, non ci si può meravigliare che il fascismo abbia trovato terreno fertile; e se l’attività antifascista dovesse trionfare o se si dovesse arrivare ad un’altra guerra (siamo nel 1938 quando Lussu scrive), quest’altra guerra deve avere fondamenta e basi e serietà ben più solide per non essere perduta e per non portare poi a qualcosa di peggiore del fascismo stesso.
A ben leggere il lavoro di Lussu, appare evidente come la sua missione sia antieroica e demistificatoria, tutta la materia narrativa sia ricondotta dal mito al pratico; non c’è stato eroismo nella Grande guerra e, se c’è stato, è stato un atto inutile perché inserito in un contesto che relega l’atto in sé (eroico, invero, come quello di un soldato che va avanti senza retrocedere a farsi ammazzare) in un senso completamente differente dalle apparenze, cioè in un atto inutile. Lì dove la retorica di guerra esalta la morte gloriosa, la straordinaria vita della trincea, Lussu fa scorrere fiumi e fiumi di cognac, unico e vero propellente alle azioni militari. Il libro è sopra ogni altra cosa un’aperta denuncia.
Il soldato, costretto alla morte nel VII capitolo dal demente ordine del generale Leone che lo espone in maniera del tutto inutile e improduttiva al fuoco nemico, viene definito «un vero eroe» solo dal Generale stesso, che lo vede immediatamente morire colpito dai nemici; in realtà quella morte annunciata non ha nulla di eroico e smaschera quella retorica di guerra che vede idolatrati i superiori per il solo fatto di esserlo, per la sola posizione che rivestono. Meglio quindi continuare a bere che ascoltare la follia di un generale chiaramente inadeguato al suo ruolo, meglio digerire tutto con l’alcool, onnipresente nella narrazione di Lussu, che non esita a presentare ufficiali, tenenti, colonnelli con la bottiglia in mano.
Perché tanto alcool in Lussu e perché il bere viene sempre presentato come necessità e mai come vizio? Si torna alla denuncia, si deve bere per accettare, non tanto il pericolo e il freddo, quanto la guerra che si sta vivendo; è necessario stordirsi, inebetirsi, arrivare a far meccanicamente dei gesti, eseguire degli ordini che nessuna logica porterebbe a fare. I soldati sono costantemente ubriacati dall’alcool, al punto da non capire più, al punto da non avere non tanto volontà di reazione, quanto coscienza della necessità di reagire. Di questo sembrano avere consapevolezza i capi e i governanti che riforniscono le truppe di alcool con la stessa logica dei materiali bellici. Le parole del tenente colonnello che Lussu incontra alla fine del IV capitolo sono emblematiche:
Io mi difendo bevendo. Altrimenti sarei già al manicomio. Contro le scelleratezze del mondo, un uomo onesto si difende bevendo. È da oltre un anno che io faccio la guerra, un po’ su tutti i fronti e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra […] Eppure se tutti, di comune accordo, lealmente, cessassimo di bere, forse la guerra finirebbe. Ma, se bevono gli altri, bevo anch’io. Veda, io ho una lunga esperienza. Non è l’artiglieria che ci tiene in piedi, noi di fanteria. Anzi, il contrario. La nostra artiglieria ci mette spesso a terra, tirandoci addosso. […] Abolisca l’artiglieria, d’ambo le parti, la guerra continua. Ma provi ad abolire il vino e i liquori. Provi un po’. Si provi […] estenda l’esempio come ordine, come norma generale. Nessuno di noi si muoverà più. L’anima del combattente di questa guerra è l’alcool. Il primo motore è l’alcool. Perciò i soldati nella loro infinita sapienza, lo chiamano benzina[3. E. Lussu, Un anno sull’Altipiano, introduzione di M. Rigoni Stern, Torino, Einaudi, 2000, pp. 37-38.].
La guerra è per Lussu combattuta da cantina contro cantina, non da artiglierie contro artiglierie; non ha nulla di grandioso né di esaltante e porta l’uomo non verso la gloria dell’onore, ma verso la devastazione della follia. Gli stessi protagonisti tornano a volte nel libro dopo diverse pagine devastati dall’alcool e dall’abbrutimento psichico, vivi ma morti dentro e incapaci di reazione. Ciò che denuncia costantemente Lussu è l’abbrutimento dell’uomo, la mancanza di spirito e di razionalità, che difettano anche nei momenti più attivi della guerra. Tutto, intorno, fa pensare a questo: non solo l’alcool ma anche le tante azioni meccaniche svolte dai soldati in ottemperanza a ordini anch’essi meccanici. Tutto questo diventa elemento strutturale del libro, finalizzato a far emergere la figura del narratore protagonista che prende forza non perché voce narrante ma perché elemento di contrasto con il mondo asservito e passivo che ha intorno. Un uomo che ragiona e riflette, che cerca di capire il perché delle azioni e soprattutto le possibili conseguenze delle azioni stesse.
Si è insistito molto sull’origine sarda dello scrittore e sul tipo quindi di formazione e di mentalità che si porta dietro e si è voluto leggere il libro di Lussu all’insegna di questo percorso e di questa identità dello scrittore. Lussu sarebbe fiero e risponderebbe ad un codice di onore interno che lo porta verso la cieca obbedienza solo quando questa è per ordini dei quali si riconosce il valore e l’autorità. In Il Cinghiale del diavolo[3. Cfr. E. Lussu, Il cinghiale del diavolo, Roma, Lerici, 1969.] riporta un episodio nel quale emerge la figura del capo (di una battuta di caccia) al quale tutti i cacciatori obbediscono in ragione di una stima cieca e di una piena fiducia. Il senso di appartenenza ad una comunità è fortissimo nella cultura e nella tradizione sarda, e il riconoscimento di un capo è altrettanto forte e sacro. Ma il capo deve essere capo perché universalmente riconosciuto dalla comunità come il migliore, colui nel quale poter riporre la propria fiducia e la propria stima, un uomo che convinca più che comandi, i cui ordini siano riconosciuti come validi e giusti. Questa è la matrice dalla quale Lussu proviene: piena adesione alla causa, pieno senso del dovere e della responsabilità, grande coraggio ed eroismo, che furono poi le qualità e i meriti universalmente riconosciuti alla gloriosa Brigata Sassari.
C’è un episodio fortemente emblematico nel capitolo XIX, quando Lussu riflette se uccidere o meno un nemico tenuto sotto tiro, e tale passo rappresenta l’unico caso nel volume in cui si trovano un monologo interiore e una profonda riflessione morale. Ma Lussu, ottimo soldato e grande tiratore, sente qualcosa che lo porta ad allentare la pressione sul grilletto. La vita del giovane ufficiale austriaco è totalmente nelle sue mani e quel giovane ufficiale austriaco, che avrà avuto si e no diciotto anni, è un uomo, un uomo: un uomo, come Lussu ripete per ben tre volte. E non si può tirare su un uomo così come si spara su un cinghiale. Fare la guerra, dice Lussu, è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa: per la dinamica vissuta con l’ufficiale austriaco sarebbe assassinare un uomo, e questo Lussu non può volerlo.
Ecco allora che, educato a quei principi, ben più forte sarà la delusione una volta arrivato in guerra. Ciò che contesta Lussu nel suo libro (e in questo comunque, volente o nolente la critica, rientra la sua natura sarda) è la sudditanza cieca, la dovuta obbedienza. Per Lussu ben vengano i capi, coloro che comandano, ma ben vengano se illuminati dalla ragione e dalla capacità, dal convincere un popolo più che opprimerlo. Lussu non potrà mai essere d’accordo con il maggiore Melchiorri che, nel capitolo XXIV, dice che la guerra europea si vincerà solo quando le truppe saranno organizzate con lo stesso metodo disciplinare con cui, in colonia, sono stati organizzati gli ascari. Obbedienza cieca.
La denuncia di Lussu qui è palese: nella prima grande guerra era presente in toto l’ideologia fascista e la nascita della dittatura. Uscito dalla guerra, Lussu inizia la sua attività politica, passa alla militanza attiva per scongiurare il pericolo di ciò che ha visto in nuce nell’esercito. Se questa è la mentalità della classe dominante, se questa è la logica e la dinamica del comando, meglio intervenire subito, rendersi da subito attivi per scongiurare il pericolo. Gli andrà male e dovrà attivarsi nell’opposizione e nell’antifascismo. La nascita del Partito sardo d’Azione trova la sua matrice proprio nell’esperienza della guerra.
Lussu è narratore e protagonista del libro: ha quindi un doppio ruolo e una posizione di forza rispetto al lettore, che è ignaro delle vicende che andrà a vivere con la lettura. Inoltre Lussu racconta la guerra, la sua guerra, non all’inizio della propria esperienza bellica ma a più di un anno di presenza nell’esercito. Va ricordato infatti che il libro narra di un solo anno dei quattro che Lussu trascorse in guerra, e nella fattispecie il secondo; il che significa che il suo livello di conoscenza della materia è decisamente superiore a quello del lettore, costretto a procedere per scoperte successive. Lussu sarebbe nella possibilità di commentare e di portare quindi il lettore dalla sua parte, nel suo punto di vista, ma preferisce lasciare il lettore alle proprie scelte e alla proprie impressioni, così da farlo maturare in un crescendo di presa di coscienza di quale realtà si sta vivendo e rappresentando. La struttura e la scrittura del libro sono quindi a servizio di una fruizione del libro che deve essere assimilato, meditato, più che letto e goduto nella sua immediatezza. Il lettore, man mano che avanza nella lettura, si scopre coinvolto in un processo che è più riflessivo che di conoscenza: il tutto quale fine del disegno di Lussu, che elabora, costruisce e scrive il libro con il preciso intento di denunciare una realtà. E la denuncia non ha il compito di portare effetti pratici immediati, ma quello di far salire il grado di tensione e di emozione in chi legge, di andare ad incidere sulla coscienza dei lettori in maniera tale che la storia, l’esperienza diventino esempio.
In questo Lussu è un maestro ancor più efficace nel non detto. Tante scene vengono troncate appena enunciate: lì dove il lettore si aspetterebbe pagine di riflessioni, di commenti, di aperte accuse, Lussu pone il silenzio. Quando nel capitolo XXVIII un intero battaglione fa fuoco sul maggiore Melchiorri che, ubriaco, aveva ucciso tre soldati volendo da solo decimare una compagnia rea, a suo dire, di ammutinamento, Lussu non aggiunge nemmeno una parola perché ha già portato il lettore dalla sua parte, che è la parte della ragione e della razionalità. Tutti sono a favore e dalla parte di quei soldati italiani che in guerra sparano contro un loro capo, italiano anch’esso, ma che in quel momento è assurdamente più nemico del loro nemico ufficiale. L’impatto emotivo di queste descrizioni è molto forte e trasforma il non detto dello scrittore in una vera e propria parte del libro. E va inoltre indicato come il sentimento nato dal non detto di Lussu sia sentito dal lettore come universale e non come il solo sentire dell’autore protagonista, perché Lussu parla in ragione di un’umanità comune e di una logica umana di comportamento che è data, prima ancora che dalla riflessione, dalla natura, dall’istinto e dal buon senso. In guerra si dovrebbe stare dalla parte dell’obbedienza e degli ordini dati dai superiori, ma basta sentirli per capire che è impossibile, ed è lì che scatta il sentimento di immedesimazione lettore-protagonista, lì dove il lettore sente che, nella logica del racconto, della guerra e soprattutto dell’uomo, qualcosa di forte stona.
Lussu scrive nel 1938 episodi accaduti nel 1916, quindi con venti anni di esperienza e di maturità in più, con il senno di poi e con la consapevolezza storica di cosa sia stata quella guerra. Lo sforzo dello scrittore nel restare fuori dal commento è quindi enorme, perché la distanza lo porta istintivamente a capire quegli avvenimenti nella loro giusta dimensione e non più nell’immediatezza del loro svolgersi.
Ma che effetti procura questa distanza sull’opera? Che è scritta dal protagonista, allora ventenne, divenuto quarantenne in una situazione storica sociale ed economica dell’Italia radicalmente diversa. Emblematico è a tal proposito il capitolo XXV, il più discusso dell’intero libro, tacciato da Salvemini di essere estraneo al resto della narrazione e al centro di un’intensa polemica interpretativa sul cambio di posizione riguardo al proprio interventismo da parte dello stesso Lussu, soprattutto dopo quanto espresso da Mario Isnenghi su «Belfagor» nel 1971[4. Cfr. M. Isnenghi, L’inutile strage degli “Uomini contro”, in «Belfagor», 26, 1971, pp. 109-112; nello stesso fascicolo: E. Lussu, Salvemini interventista, pp. 230-231; M. Isnenghi, Salvemini e Lussu, p. 349; E. Lussu, L’influsso di Salvemini e la bussola classica, pp. 606-607. Cfr. anche M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, Bari, Laterza, 1970 e Id., Emilio Lussu, “Ritratti critici di contemporanei”, in «Belfagor», 31 maggio 1966.].
Il dialogo può apparire costruito in ragione del senno di poi, della mutata posizione di Lussu non più in linea, nel 1938, con i propri pensieri interventisti di inizio guerra, in una posizione che rivede alla luce della storia non solo il proprio interventismo quanto la logica dell’intera guerra. La posizione è comunque chiara: Lussu è un valoroso soldato, stimato e rispettato dai suoi soldati, coraggioso e ligio alle regole della dura logica della guerra. Sa che quella guerra è condotta in una maniera stupida e inutile, ma sa di doverla fare. E così salva la faccia e giustifica il proprio interventismo. È coerente anche con la sua posizione attuale: non è che non sia più interventista, è che giustifica l’intervento se spinto da una giusta causa, come la lotta al fascismo.
Tutti questi moventi, queste premesse prettamente ideologiche nel libro sono abilmente mascherate dalla narrazione dei fatti, cosicché il libro si possa presentare in un duplice piano: la narrazione di accurate e precise memorie di guerra da un lato e, dall’altro, una sorta di saggio sulle condizioni e le cause della politica e della società italiane nel 1938. Ma il mascherare l’ideologia con la narrazione rende Un anno sull’Altipiano un’opera di letteratura, sia anche quella letteratura impegnata che grande sviluppo ha avuto dopo entrambe le grandi guerre del XX secolo, ma non per questo letteratura minore artisticamente o esteticamente parlando, perché, sebbene Lussu si sia risentito nei confronti di chi, traducendo il suo libro, ha posto sotto il titolo la dicitura “romanzo”, il suo libro anche romanzo è, nel senso più squisitamente letterario del termine, cioè opera di narrazione e di letteratura, e di quella letteratura che, pur partendo dalla tragicità di un fatto reale e autobiografico, diventa latrice di messaggi universali nell’originalità stilistica e di impianto, così come il diario di guerra e prigionia di Gadda raccoglie lo sfogo del soldato e rappresenta letterariamente una pagina, lunga e tragica, della storia d’Italia.
Gadda parte per la guerra con un entusiasmo straordinario, spirito ardimentoso, una volontà di azione spinta anche all’estremo sacrificio. Educato ai valori della patria, del dovere, della famiglia, della disciplina, del coraggio, del sacrificio, sente che la guerra è il “luogo” dove può raggiungere il suo ideale di eroismo. Dovrà ricredersi e subire poi anche l’umiliazione della prigionia: Gadda, all’epoca Sottotenente del V° Reggimento Alpini (dove era stato quasi subito trasferito), è infatti costretto ad arrendersi il 25 ottobre 1917 ai Tedeschi nella disfatta di Caporetto. Il tutto è annotato con maniacale attenzione sul “documento” di quegli anni, quel Giornale che dal 24 agosto 1915 al 31 dicembre 1919 lo scrittore redige in guerra e in prigionia: sei quaderni, il terzo dei quali purtroppo definitivamente perso proprio negli eventi di Caporetto; sei block notes dove Gadda rivive la propria vita in forma scritta, riportando tanto gli eventi militari e di vita vissuta quanto le proprie impressioni, i propri commenti, i propri sfoghi a volte tanto rabbiosi quanto liberatori. E in più disegni, schemi, piantine, immagini che rievocano o che meglio chiariscono quanto scritto, oltre poi a una serie lunghissima di numeri[5. È da notare che scorrendo il diario ci si imbatte di frequente in pagine che sembrano quasi testi di matematica o geometria per la presenza di formule o grafici (si veda ad es. il 17 dicembre del 1915 il problema della trisezione dell’angolo). Roscioni (G. C. Roscioni, Il Duca di Sant’Aquila. Infanzia e giovinezza di Gadda, Milano, Mondadori, 1997, p. 152) ricorda che «appunti scientifici anteriori o posteriori a Caporetto figurano in altri quaderni: Gadda ora studiava “una questioncella di geometria analitica”, ora redigeva (prima a Rastatt, poi a Celle-Lager) uno scritto di “Teoria dei numeri complessi”. Al momento della cattura aveva con sé, insieme alle Laudi di D’Annunzio e alle Prose di Carducci (dono della madre), un Trattato sul calcolo di Isaac Todhunter e un libro di fisica di Oreste Murani». Occorre però fermare l’attenzione anche sul fatto che la presenza dei numeri è ricorrente nella letteratura “di prigionia”, dove il carcerato o il prigioniero è identificato appunto con un numero.].
Gadda parte volontario, non restando indifferente al clima politico e sociale degli anni immediatamente precedenti la Grande guerra, alle campagne interventiste e alle azioni degli studenti di Milano scesi in piazza. Ventiduenne studente del Politecnico, prima ancora dell’ingresso italiano in guerra, fa (il 27 marzo) domanda di arruolamento nella milizia territoriale senza ricevere risposta. Il 5 maggio del 1915 D’Annunzio, invitato a commemorare l’impresa dei Mille, pronuncia sullo scoglio di Quarto un memorabile discorso interventista sulla falsa riga del discorso della montagna del Vangelo di Matteo («Beati i….; Beati i…»); nello stesso maggio del 1915, insieme ad altri due amici, Gadda invia al Vate un accorato appello a favore della propria partenza per la guerra. Finalmente il 1° giugno Gadda riceve la chiamata ed inizia a prestare servizio presso il 1° Reggimento Granatieri a Parma; la sua permanenza nell’esercito si concluderà il 3 ottobre del 1919.
Sin da subito, dai primi giorni dell’addestramento e della presa di coscienza della vita militare e delle sue logiche, Gadda inizia a redigere i propri appunti, su quaderni che egli stesso ha definito ben curati, e redatti scrivendo direttamente in bella copia. Va sottolineato come le note di guerra rappresentino nella produzione narrativa di Gadda l’unico esempio di scrittura in presa diretta, lontana dalle costanti e continue rielaborazioni che lo scrittore farà più e più volte sui propri testi prima di licenziarli per la stampa. È inoltre una scrittura nella quale personaggio, protagonista e scrittore coincidono, mettendo quindi in primo piano gli aspetti più intimi e personali, familiari e sentimentali. Il diario è quindi caratterizzato da un aspetto di antiletterarietà dato dalla forte personalità dello scritto, cosa che ha sempre preoccupato molto Gadda e che è motivo delle sue forti ritrosie nella pubblicazione. Gadda è sempre stato molto riluttante alla pubblicazione del suo diario, sia per l’inevitabile coinvolgimento delle persone citate sia per la difficoltà che mai lo ha abbandonato nella vita di fare i conti con il periodo tanto della guerra che della prigionia, vissuta come una vera e propria sconfitta personale, umiliazione, impotenza all’azione ecc. Né una figura migliore avrebbero fatto l’Italia, o i generali o i comandanti o gli stessi italiani. Negli anni Cinquanta, proprio quando vide la luce la prima pubblicazione del diario, Gadda dichiara che la guerra in questo mondo non la si vince mai. Una sorta di rassegnazione che gli permette di far uscire, con riserve, una parte dei suoi scritti.
Sin dal primo quaderno emergono subito la minuziosa attenzione e la grande serietà che lo scrittore pone nella redazione delle sue note e sin da subito emerge come in Gadda le guerre fossero due: una esterna che si apprestava a combattere e una interna, contro se stesso, contro il proprio corpo, contro una tirannia interiore che lo portava a soffrire della vicinanza di gente inadatta, incapace, svogliata e disordinata. In gioco lo scrittore mette tutto se stesso: la sua condotta e il suo impegno sono impeccabili. Tutto arriva sulla pagina scritta, immediato, senza filtri né mediazioni, in un diario che annota di pari passo il perfetto comportamento del soldato e il mare in subbuglio che bolle all’interno, controllato perché non esploda. L’ansia, i rovelli, la nostalgia di casa, il pensiero costante alla madre e al fratello, la maniacale nevrosi dello scrivere, tutto e tutto si placa solo un poco con il battesimo del fuoco, con l’esaltazione della guerra attiva e con il costante pericolo della morte che ne farebbe un eroe. Ma non durerà a lungo: i quaderni successivi saranno ancora all’insegna della doppia guerra che lo scrittore deve combattere dentro e fuori di sé, contro i nemici del fronte che sparano e uccidono, e contro se stesso, che deve tenere a freno le invettive nei confronti di commilitoni codardi, capi incapaci, dell’industria bellica fallimentare, che fornisce ai soldati scarpe inadatte a neve e fango, la cui suola di cartone si sfalda in poco tempo.
Non c’è serietà, non c’è ordine, non c’è metodo, non c’è rigore per una disfatta che è nell’aria da subito, per una vittoria che non arriverà e che, se anche arrivasse, non sarebbe mai e poi mai eroica. Gadda è quindi solo, non può fare altro che osservare e fare il proprio dovere, fare buon viso al cattivo gioco delle stupidaggini che i comandanti si dicono a cena, al devastante disordine che regna in tutti i luoghi, dagli uffici ingolfati di pratiche alle trincee. Osserva giustamente Walter Pedullà[6. Cfr. W. Pedullà, Carlo Emilio Gadda. Il narratore come delinquente, Milano, Rizzoli, 1997, pp. 89 sgg.] che, se tutti i soldati partivano per la guerra, Gadda partiva per Caporetto: la sua era una sconfitta annunciata, sconfitta in guerra e sconfitta poi reale nella tragedia della prigionia.
Strutturalmente l’opera si divide in due parti: una prima che va dall’ingresso nell’esercito alla resa di Caporetto, e una seconda che riguarda la prigionia e il successivo ritorno in Italia con l’abbandono dell’esercito. Tuttavia occorre osservare che in quest’opera di Gadda non si può tracciare una linea netta di separazione tra la scrittura della guerra e quella della prigionia. Gadda non risparmia nel diario il frequente ricorso al vocabolo “deficiente”. Lo rivolge non solo agli altri, ma anche e spesso a se stesso. Chi è il deficiente? Deficiente (dal latino deficere, ‘mancare’) è colui che manca di qualcosa, scarso, insufficiente alle necessità, colui che in guerra si fa prendere prigioniero e non diventa un eroe.
Come detto, Gadda parte per la guerra carico di ambizioni, ideali, valori sacri, coraggio, culto della disciplina e dell’ordine. I suoi superiori diranno sempre che è stato un ottimo soldato, non ci saranno mai parole denigratorie verso il soldato Gadda. Accanto a lui però regnano meschineria, disorganizzazione, affari, vigliaccheria, faciloneria; lo scrittore si sente tradito da una patria e da dei compatrioti palesemente non all’altezza del compito che devono svolgere. La guerra per l’Italia e per gli italiani è un noioso compito dal quale sarebbe molto meglio tirarsi fuori; imboscarsi sembra più dignitoso che lottare. Gadda è spietato verso chi tenta in tutti i modi di sottrarsi al dovere militare, e nel romanzo La Meccanica tornerà sul tema dell’imboscamento. E la stessa meschineria dei commilitoni si trova anche nei comandanti, che sembrano aver abbandonato l’intelligenza in ragione dello spreco e della disorganizzazione. Gadda si sente impotente in guerra, mancante (deficiente, appunto) di qualcosa: sente che a combattere, credendo profondamente non solo in quello che sta facendo ma soprattutto nel senso di quello che sta facendo, è solo. Deve combattere, oltre il nemico, anche l’infingardaggine dei suoi commilitoni e di conseguenza la propria voglia di urlare loro in faccia il disprezzo. Deve trattenersi, Gadda, dal dire al comandante ciò che può scrivergli solamente nella pagine del suo diario. Così, del comandante verso il quale era stato rispettosissimo, nel diario, il 6 ottobre del 1915 scrive: «lo sputacchierei e colpirei a calci nella vescica fino a vederlo sfigurato». Oppure: «Ancora da quel puttano de dio che comanda il reggimento non è venuta alcuna disposizione per mandarci al corso di Bormio o di Vezza che sia…» (9 novembre 1915). Non risparmia nemmeno «quello scemo balbuziente d’un re». E anche contro i suoi compagni, che per quieto vivere e disciplina militare deve sopportare, annota: «Che porca rabbia, che porchi Italiani! Quand’è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi, di tutti i ceti, impareranno a tener ordinato il proprio tavolino da lavoro». E ancor più memorabile è l’invettiva contro i commilitoni che riempiono di escrementi le trincee.
Della guerra detesta anche la retorica o l’uso improprio di formule preconfezionate, come egli stesso dice indicando le sue volontà in caso di morte:
l’annuncio della mia caduta, ecc. ecc. sia fatto nella forma più laconica e più seria possibile: cioè senza amplificazioni, né lodi, né parole come: “Patria, onore, fervente giovinezza, fiore degli anni, odiato nemico, fieri e addolorati, costernati ma fieri, triste o tragico annunzio, ecc. ecc.”. Mi raccomando soprattutto di non cader nel ridicolo facendomi “guidare il mio plotone all’assalto”, mentre io comando una sezione di mitragliatrici, che somiglia per il suo peso, a una batteria d’assedio[7. Lettera al Sig. Semenza del 16 settembre 1916. Si cita da G. C. Roscioni, op. cit., p. 129.].
A tutto questo preferisce che venga detto «Carlo Emilio Gadda – Sottotenente del 3° [?] Regg.to Alpini – cadde nelle linee di combattimento»[8. Ibidem.].
E in prigionia le cose non cambiano di molto. Come Gadda in guerra è impedito nell’azione dai limiti dell’Italia e degli Italiani, così in prigionia è impedito dalla mancanza di libertà. Ma il suo cruccio è sempre lo stesso: non poter essere un eroe. Certo, nella prigionia il discorso è più evidente e diciamo pure semplice. Ma la sostanza non cambia. Le invettive di Gadda travolgono gli argini, che faticosamente egli pone, quando vede i commilitoni equiparare la prigionia alla guerra. Per loro sono due torture uguali. Se Gadda prima era libero tra i deficienti che rendevano di fatto forzatamente deficiente anche lui, ora Gadda è deficiente tra i deficienti. Guerra e prigionia sono purtroppo due sfaccettature di una stessa realtà di fallimento. E la realtà genera nell’ipersensibile Gadda impotenza, che a sua volta genera dolore, che a sua volta genera rabbia che sfocia nella scrittura.
La scrittura del carcere di Gadda è allora scrittura della rabbia, è una scrittura che non riesce a trattenersi, una scrittura che a volte rompe i margini, travolge e invade. Il punto di vista di Gadda emerge in queste inondazioni, in queste improvvise impennate del tono che sono tragedia, dolore, disperazione, terrore, sofferenza, nevrastenia. E qui inizia ad emergere lo scrittore, il grande sperimentatore del linguaggio che deve fare i conti con delle strutture sintattiche che non reggono l’onda d’urto della sua nevrosi. Quando i toni salgono, frana quella misura piana nella quale la scrittura è contenuta, i materiali da raccontare non hanno più forma, sono impazziti a tal punto che non esistono aggettivazioni che li caratterizzino. Gadda segue il suo stomaco, la sua scrittura è irreverente e senza argini, come lo è il linguaggio del corpo che non prova vergogna e si lascia andare, quale unica via per poter tornare in pace. Nel diario di guerra non esistono praticamente mai toni medi. Si passa dall’alto dell’invettiva al basso della tristezza e della disperazione, dall’esaltazione pura alla disperata mancanza della mamma e del fratello. È un termometro impazzito che segnala lo stato d’animo del narratore, che trova pace nella guerra solo nel quotidiano rapporto con i quaderni.
Nella diaristica di guerra l’opera di Gadda ha un valore del tutto particolare. È in grado di fornire una testimonianza di grande spessore umano, lirico e storico su una delle pagine più dolorose della storia del nostro paese, mostrando con grande forza espressiva gli orrori della guerra, e la tragedia umana e personale di ogni soldato inviato al fronte. È un’opera caratterizzata da una profonda originalità stilistica e di impianto, nella quale convivono toni e livelli linguistici molto distanti tra loro, tecnicismi, dialetti, linguaggio bellico e letterario, l’uno accanto all’altro, senza che l’opera strida o evidenzi un eccessivo frammentismo.
(fasc. 3, 25 giugno 2015)