Calvino e il paesaggio sanremese. La lettura anarchica di Piero Ferrua

Author di Cecilia Spaziani

Chissà quale sarebbe stato il modo migliore per parlare di lui, degli anni formativi, del battesimo del fuoco, dei debutti, delle scorrazzate sanremesi! Questo proto-Calvino per noi inizia il 2 ottobre 1925, data del suo arrivo a San Remo da Cuba, e si conclude il 7 luglio 1949 quando lo scrittore elegge residenza nel comune di Torino, cessando di essere sanremese e diventando universale.

Di San Remo non aveva più bisogno: la sua retina, la sua mente, il cuore ne erano imbevuti per sempre[1].

Il passaggio conclusivo con il quale Piero Ferrua (1930-2021) – intellettuale e anarchico recentemente scomparso – chiude il volume dedicato all’Italo Calvino sanremese testimonia la presenza di prospettive d’indagine passibili di importanti ampliamenti nel ricco panorama degli studi sull’autore. Italo Calvino a San Remo (1991)[2] di Ferrua si colloca nel novero delle indagini calviniane ingiustamente dimenticate, il cui recupero permette invece di integrare con informazioni nuove e uniche nel loro genere la già dettagliata ricostruzione biografica e letteraria sull’intellettuale. All’interno della vastissima bibliografia e tra la moltitudine di progetti di ricerca a lui dedicati – pari probabilmente solo a quelli pasoliniani – il volume di Ferrua dimostra sin dalle prime pagine l’eccezionalità della prospettiva adottata per l’indagine sui luoghi d’origine di Calvino, collocandosi dunque tra le ricostruzioni più significative degli ultimi decenni: il carattere testimoniale della ricerca, la prossimità dell’autore alla famiglia Calvino-Mameli, la sua provenienza sanremese e la vivace partecipazione alla vita e alle dinamiche del giardino di Villa Meridiana sono solo alcune delle questioni che provano la necessità di un recupero della ricerca di Ferrua, lucida e approfondita ricostruzione spaziale quasi dimenticata di uno dei classici della letteratura italiana del Novecento che molto deve alla città che lo ha cresciuto.

Con tali premesse, la riflessione che segue intende riscattare la particolare e profonda analisi che Ferrua dedica al rapporto tra il paesaggio sanremese e Calvino, provando la costante e durevole influenza del primo sul secondo, sulle sue opere e sulla sua poetica sulla base di una bibliografia di impronta paesaggistica e naturalistica collegata alla Storia del giardino e del paesaggio, che a mio avviso permette di integrare le indagini letterarie sull’autore e sui suoi luoghi elettivi. Conferendo adeguato valore all’educazione familiare e al retroterra culturale entro cui si formò Calvino, sostenendo la centralità della professione dei genitori – agronomo e botanica – nella sua formazione e nondimeno attraverso il recupero dell’originale personaggio del giardiniere Libereso Guglielmi, Ferrua getta infatti nuova luce, negli anni Novanta, sul persistente dualismo tra il carattere universale della scrittura dell’autore del Sentiero dei nidi di ragno (1947) e la specificità dei richiami all’ambiente natale; oltre a essere portatore di una simbologia che attraversa l’intera produzione, il substrato sanremese si erge a strumento di poetica e di riflessione critica sulla società, chiave interpretativa e lente sul mondo.

Docente universitario e di scuola, scrittore, anarchico e obiettore di coscienza, Piero Ferrua nasce a Sanremo, osservatore dunque privilegiato nel racconto di un Calvino spesso inedito. Il volume Italo Calvino a San Remo, da questa prospettiva, sviluppa un discorso locale con riferimento a luoghi, ambienti e personaggi ma, con affondi sul percorso scolastico e professionale, sull’attività politica e resistenziale e sui legami familiari e d’amicizia, riesce a integrare e arricchire il profilo di un Calvino già molto studiato, assumendo i toni di una biografia commentata, a tratti autobiografia dell’autore stesso che spesso incrocia la vita del giovane intellettuale e della famiglia. Ne nasce così un libro autentico, nel quale gli episodi raccontati nei brevi capitoli che lo compongono acquisiscono un alto grado di eccezionalità conferita dal confronto diretto con gli eventi e con i personaggi. Lungi dal ripercorrere in questa sede gli studi dedicati al ruolo del contesto spaziale nella produzione letteraria di Calvino, su cui molto ormai si è detto negli anni[3], l’obiettivo delle pagine che seguono vuole essere una riflessione più specifica sulla «sanremaschità» e sulla «liguritudine»[4] di Calvino – per introdurre una prima terminologia ferriana – a partire dal sostrato autobiografico e relazionale degli anni di Villa Meridiana, che con Renato Guglielmi, il figlio Libereso e con Piero Ferrua stesso costituisce una componente essenziale dell’opus dello scrittore.

Sebbene infatti le immagini di città, di campagna, di montagna e di mare[5] nella produzione letteraria dell’autore si siano dimostrate rappresentative di una particolare attenzione all’ambiente naturale e di un’eccezionale sensibilità intellettuale nei confronti dei mutamenti antropologici e sociali del secondo Novecento, per dirla stavolta con Pasolini[6], tali individuazioni testuali non colmano il vuoto di notizie relativo alla formazione calviniana, soprattutto ai motivi della competenza agronomica sottesa alla letterarietà dell’opera. Motivata tale sensibilità con alcuni significativi passaggi biografici riletti dalla particolare prospettiva ferriana, si intende infine riflettere sulla tensione di Calvino a trasporre letterariamente tali competenze, facendo di esse il sostrato della propria poetica.

Le competenze agronomiche di Calvino. “Paesaggi dell’esperienza”

Calvino possiede una profonda conoscenza dei luoghi che hanno ispirato le sue opere. Ne sono una prova non solo i bollettini di guerra, le locomotive a vapore della Riviera, l’esodo verso i centri industriali, il Giro d’Italia o la corsa ciclistica Milano-Sanremo minuziosamente descritti, ma anche i paesaggi sanremesi trasfigurati in esotiche moschee, minareti od oasi delle Città invisibili: «Italo si siede nottetempo, all’aperto […] e trasforma l’antenna della radio di San Martino in minareto, i giardini di Villa Ormond in tregende di palmizi, Villa Meridiana in un’oasi da respirare»[7]. Egli appartiene del resto, come afferma Alberto Asor Rosa, alla fragorosa e illuminata generazione di scrittori e scrittrici nati negli anni Venti del Novecento[8]. Con Pier Paolo Pasolini, Beppe Fenoglio, Carmelo Samonà, Mario Tobino, Natalia Ginzburg[9], solo per citarne alcuni, egli vive il passaggio da una struttura economica agricola o marinara, come si diceva, a una invece prettamente industriale che, attraverso il progresso tecnologico, l’intensificazione dell’attività produttiva e il consumismo, modifica irrimediabilmente l’immagine della società, su un piano tanto antropologico quanto culturale. «Sanremo fino a un secolo fa era un paesotto con un quartiere di marinai […]. Gli abitanti vivevano della raccolta e della vendita collettiva dei limoni, di cui a quel tempo il paese era circondato, quelli della marina navigando dal piccolo porto e pescando nel mare povero», denuncia nel 1946 dalle pagine del «Politecnico»[10]. Con il sopravvento dell’industria turistica e la riapertura del Casinò tale cambiamento si rende manifesto; scrive a tal proposito Benussi:

Sanremo, il suo paesaggio antico e il suo consumismo moderno, Sanremo come luogo dell’interiorità, della mente, da cui deve partire per descrivere qualsiasi altro (la Venezia di Marco Polo nelle Città invisibili), è comunque sempre al centro della memoria e della storia di questo scrittore in cui possiamo ancora ritrovare, seppur affrontati in modi ormai vicini a chi si sente cittadino di un villaggio planetario, gli ultimi temi cari a una cultura […][11].

Estendendo il discorso a tutta la Riviera di Ponente, nell’articolo egli descrive con minuzia di dettaglio le «piaghe della natura»[12], scrive Ferrua, dall’abbandono culturale alla difficoltà di comunicazione con la città, dalla presenza dei parassiti alla scarsità dei concimi per combatterli, dalla mancanza di attrezzi al problema dell’erosione, proponendo così, allo stesso modo dei genitori, una forma alternativa di denuncia al progresso sociale dalla prospettiva privilegiata di chi (ri)conosce e padroneggia le questioni ed è in grado di proporre valide soluzioni. Si legge ancora nell’articolo Riviera di Ponente:

La storia della Riviera di Ponente si può raccontare in due maniere: una che tratta della lotta degli uomini tra loro, del popolo e della piccola borghesia prima contro i saraceni, poi contro i nobili, poi contro i vescovi, poi contro i genovesi, poi contro i Savoia, poi contro i fascisti. L’altra che racconta la lotta degli uomini contro la terra, di come i terreni coltivati a segale o a fave tornarono incolti, di come agli agrumeti succedettero le piantagioni di rose o di garofani, di come gli uliveti deperirono e furono abbandonati o distrutti[13].

Si tratta di una lettura del contesto urbano e naturale indubbiamente connessa alla cultura agronomica e botanica ereditata dai genitori e assorbita negli anni sanremesi di villa Meridiana[14], come provato dai contenuti e dai toni perfettamente aderenti agli studi sulle città e sull’ambiente, alla Storia del giardino e del paesaggio. Attraverso le riflessioni sulla «lotta degli uomini contro la terra», Calvino anticipa dunque una prospettiva di indagine che sarà propria – nei decenni a venire – di studi di settore relativi al connubio città-natura, come quelli di Gilles Clément sui Giardini, paesaggio e genio naturale[15], di Luigi Zangheri sulla storia del «verde nella cultura occidentale»[16], di Alvaro Standardi, docente di Arboricoltura all’Università di Perugia, secondo cui «la corsa verso le città e l’espandersi di queste, hanno determinato l’allontanamento dalla natura dell’uomo il quale forse inconsapevolmente continua a desiderarla vicina»[17].

A fronte dei «numerosi ritratti parziali»[18] dei genitori che Calvino traccia nel Barone rampante, nella Speculazione edilizia, nel Visconte dimezzato e, ancora, tra gli altri, nei racconti L’occhio del padrone e Pranzo con un pastore – «talora appena velati dal gioco di trasposizioni […] talora decisamente criptici, calati in un contesto che volutamente distoglie il lettore dalla tentazione di procedere a identificazioni certe»[19] –, le riflessioni ambientali e urbanistiche rappresentano secondo chi scrive la più concreta e sincera testimonianza di un’eredità morale e culturale, «intellettuale e civile»[20], di una fedeltà intima all’interpretazione del mondo «delle erbe e dei venti», del mondo dell’opaco[21] – scriverà poi Italo – di Mario Calvino ed Eva Mameli:

Fin dall’adolescenza, Italo optò per i romanzi d’avventura, per le riviste umoristiche, i fumetti, il cinema: poi rifiutò di laurearsi in Agraria, decise di vivere in una grande città…Ma proprio mentre rinunciava a seguire le orme solenni dei suoi, mentre si avviava a seguire fino in fondo la propria vocazione, non trascurava l’essenza degli insegnamenti ricevuti[22].

Pur nella decisione di non intraprendere la professione dei genitori, svincolandosi dunque dalla rigidità delle strutture intellettuali di stampo scientifico, egli mantiene comunque salda l’adesione nei confronti di un modus vivendi di origine familiare di cui Sanremo, villa Meridiana e le sue attività sono il fulcro: «Egli diceva di non aver saputo far tesoro del sapere dei suoi e di essere la pecora nera della famiglia: al contrario, il mondo vegetale e la mentalità scientifica di Mario ed Eva Calvino rappresentarono una fonte di riferimento fondamentale per la sua ispirazione letteraria»[23]. Si tratta di un modo di recepire la realtà circostante che si traduce in un’ostinata attenzione ai contesti e nella trasposizione letteraria degli ambienti naturali e cittadini della sua giovinezza, «in una finale assimilazione affettiva della vegetazione naturale, cara ai genitori botanici»[24], sino a divenire cifra stilistica dell’intera sua produzione. Come ricorda Ferrua, infatti, «Calvino portò sino all’ultimo San Remo nel cuore e nella mente. […] Sanremesi sono i paesaggi, le abitudini, il cibo, il linguaggio, i personaggi. Anche i più fantasiosi, che tali appaiono, fanno tutti parte della nostra realtà quotidiana»[25]. Si dimostrano in tal senso esemplificativi di tale adesione al reale, alla sincerità dei luoghi e alle topografie le descrizioni degli ambienti in cui si muovono i partigiani del Sentiero dei nidi di ragno, scrupolosamente ricostruiti all’interno di Italo Calvino a San Remo nel capitolo dedicato al Partigiano «inesistente»[26], «immersi nell’ambiente» ed «estensione della natura»[27]. San Giovanni e Colabella – «dove accompagnava il padre sin da ragazzo»[28] –, Saccarello – dov’era stato nell’estate del 1940 –, Triora Upega, Mongioia e i luoghi dove trascorre i mesi estivi del 1941 o Monte Ceppo l’anno seguente possiedono il fascino storico e memoriale di quanto descritto nelle opere resistenziali del Sentiero e dei racconti di Ultimo viene il corvo (1949) di cui Ferrua – diversamente dalle indagini più canoniche sul Calvino in guerra – propone però una lettura “altra”, ricca di testimonianze dirette di amici e partigiani da lui stesso intervistati: Antonio Montini, Gino Napolitano, Eugenio Carugati e Rinaldo Ferrero, tra gli altri, permettono di colmare vuoti cronologici, forniscono notizie inedite e interessanti smentite relative, ad esempio, alla presenza di Calvino in montagna in alcune battaglie chiave, mentre egli invece «se ne stava tranquillamente a Torino e frequentava l’Università», sostiene Montini[29]. Le trattazioni del Calvino «badogliano», nelle SAP e del Garibaldino comunista si dimostrano dunque significative nel nostro discorso sul substrato spaziale sanremese, a riprova di quanto lo scrittore possieda una conoscenza profonda e intima degli ambienti che gli permettono di stabilire una connessione tra l’elemento identitario e familiare cui desidera rimanere ancorato e l’iter professionale:

Oltre a tutto e forse al contrario di altri partigiani di abitudini urbane o addirittura forestieri, Italo aveva una profonda conoscenza dei luoghi che percorreva durante l’epopea partigiana: a San Giovanni e Colabella, […] a Triora, Upega, Viozene, al Mongioia, al Marguareis (nell’estate del 1941 con Maiga, Pigati e Cossu); alle Beulle e a Monte Ceppo (estate del 1942)[30].

Consegnato all’editore nel 1987, il manoscritto originale del volume di Ferrua portava originariamente il titolo di Calvino Inedito, ma la scoperta dell’impossibilità di riprodurre gran parte dei testi e dei documenti iconografici ed epistolari, inediti o rari, lo ha costretto a ridurre consistentemente il corpo del libro, a modificarne di conseguenza anche l’intestazione – volta poi nell’attuale Italo Calvino a San Remo – e a pubblicarlo quattro anni dopo, nel 1991, con l’editore Famija Sanremasca[31]. «Scavando negli archivi si son trovate delle date precise e pian piano si sono raccolte testimonianze»[32], scrive Ferrua, talvolta suffragate da documenti inoppugnabili di cui nel volume fornisce, quando possibile, le preziose riproduzioni. La domanda di ammissione all’ANPI, la dichiarazione del C.L.N. che conferma la sua partecipazione alla brigata cittadina “Matteotti” «distaccamento “Leone” dal 1 ottobre al 15 novembre, cioè allo scioglimento», la Tessera del partigiano, la Scheda e il Registro di smobilitazione[33] sono un’ulteriore prova del rapporto di Calvino col “paesaggio dell’esperienza”, di cui Ferrua ricostruisce e racconta gli aspetti meno noti. «Partendo da questo presupposto di vita vissuta e di comunità», scrive il comandante partigiano Gino Napolitano, «la sua formazione si arricchisce nel tempo, anche culturalmente»: a Calvino va dunque, in questo senso, «il grande merito di aver saputo presentare la Resistenza non in maniera così patriottica, ma in maniera reale…»[34].

«Calvino della prassi»[35] e non più della poesia, come lo definisce Ferrua al ritorno dalla Resistenza, fino all’aprile del 1945 ha lasciato ai genitori il tempo per riflettere sul suo futuro. «Carmina non dant panem», dicevano delle sue inclinazioni letterarie, come egli stesso racconta nel breve estratto del testo inedito Il treno degli illusi che Ferrua fa confluire nel volume: «Devo scegliere la mia carriera… Sono convinto che qualunque professione io intraprenda rimarrò nella mediocrità! Se, invece, mi riesce di pubblicare qualcosa… I miei non vorrebbero… “Carmina non dant panem” dicono…»[36]:

Sono figlio di scienziati: mio padre era un agronomo, mia madre una botanica; entrambi professori universitari. Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano in onore; un mio zio materno era un chimico, professore universitario, sposato a una chimica (anzi ho avuto due zii chimici sposati a due zie chimiche); mio fratello è un geologo, professore universitario. Io sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia[37].

Avremmo dovuto imitarlo in tutto, per imparare come si governa una campagna, per assomigliare a lui, come è giusto che i figli assomiglino al padre, ma presto s’era capito da una parte e dall’altra che non avremmo imparato niente, e l’idea di educarci all’agricoltura era stata tacitamente dimessa, o rimandata a un’età di nostra maggiore saggezza, come ci fosse concesso un supplemento d’infanzia[38].

Nel giardino di Villa Meridiana – dal 1934 adibito a Centro Sperimentale di Floricoltura e Frutticoltura diretto da Mario Calvino – i giovani Calvino acquisiscono i primi rudimenti di botanica e di ibridazione attraverso le lezioni impartite dalla madre. Al loro fianco Libereso Guglielmi (1925-2016) – dall’età di quindici anni alle dipendenze della Stazione Sperimentale in qualità di giardiniere – rappresenta l’anello di congiunzione tra il giovane Italo e Piero Ferrua. «Pittore ligure, studioso di botanica», così raccontato dalla «Cronaca di Calabria» (1972), Libereso era figlio di Renato Guglielmi, noto attivista anarchico, animatore del gruppo «Alba dei Liberi» (da cui la specie di rosa rosso-nera Alba dei Liberi, appunto, che sviluppò col figlio), naturista, vegetariano, pacifista e ibridatore floreale. Mentre il figlio dipingeva fiori su quadretti che poi regalava agli amici, componeva poesie sui nasturzi e sulle sterlizie dedicandole alle ragazze, in costante e simbiotico contatto con ogni specie naturale e animale, il padre, ricorda Ferrua, «distribuiva opuscoli e giornali rivoluzionari e, di domenica, sostituiva alla messa la passeggiata proselitistica, ostentando il nodo a farfalla degli anarchici della vecchia generazione. Aveva chiamato il figlio Libereso che, come Calvino fa osservare nel racconto, significa Libertà in esperanto»[39]. Amico dello scrittore e fonte d’ispirazione per il racconto Un pomeriggio, Adamo, Libereso è un profondo conoscitore di piante e animali e ricopre un ruolo decisivo nel discorso relativo alle competenze di Calvino in ambito botanico, zoologico, entomologico e micologico:

dove altri scrittori parlerebbero confusamente di alberi, lui elenca con gusto tutte le specie arboree della sua Liguria… e dove altri andando in campagna, o portandovi il protagonista, hanno tutt’al più il presentimento di una vita animale, lui ha l’occhio sempre ai ghiri, alle vespe, alle gazze, ai lombrichi, alle ghiandaie, alle farfalle, agli scriccioli, ai rampichini, alle rane; e agli scoiattoli, ai cardellini, alle cince, alle larve…[40].

Calvino, al contrario, «preferisce modestamente schernirsi di questa sua supposta scienza linneana e travestendo la verità, dichiara»[41]:

Io non riconoscevo né una pianta né un uccello. Per me le cose erano mute… mentre continuavo a seguire in silenzio mio padre, che additava certe foglie di là da un muro e diceva: “Ypotoglaxia jasminifolia” (ora invento dei nomi; quelli veri non li ho mai imparati), “Photophila wolfoides” diceva, (sto inventando; erano nomi di questo genere), oppure “Crotodendron indica” (certo adesso avrei potuto pure cercare dei nomi veri, invece di inventarli, magari riscoprire quali erano in realtà le piante che mio padre andava nominandomi)…[42]

Le lezioni casalinghe della madre botanica e la frequentazione del primo anno della Facoltà di Agraria – prima a Torino, poi a Firenze[43] – provano al contrario le sue competenze agronomiche e motivano sia i puntuali riferimenti scientifici a piante e arbusti all’interno dei suoi appunti privati – si pensi al taccuino del 1934 (fino agli anni Novanta in possesso di Libereso Guglielmi), nel quale accanto al nome si legge a matita “Acer platanoides” – sia le ambientazioni naturali fedelmente riprodotte negli scritti dichiaratamente sanremesi della Strada di San Giovanni ma anche nella narrativa più sperimentale.

I frequenti riferimenti botanici, la centralità letteraria di Sanremo e «l’aspirazione a un Umanesimo non antropocentrico» di cui gran parte della sua produzione è testimonianza «ben prima che l’ecologismo diventasse di moda»[44] costituiscono la rappresentazione più tangibile e concreta del retaggio di Mario Calvino ed Eva Mameli. Confermandosi quale «cittadino di un “villaggio planetario”», Italo mantiene i genitori, Sanremo e i suoi protagonisti, Libereso Guglielmi, Renato, Ferrua e gli altri al centro della memoria e della storia, salvando «ciò che non esiste più»[45]. Luogo interiore e della mente, ispirazione per la Venezia di Marco Polo nelle Città invisibili, la tangibilità di Sanremo e la concretezza del suo ambiente entro i confini della finzione letteraria si ergono nella sua produzione a un livello superiore, come egli stesso spiegherà più tardi negli Appunti sulla narrativa come processo combinatorio (1975):

la macchina letteraria può effettuare tutte le permutazioni possibili in un dato materiale; ma il risultato poetico sarà l’effetto particolare di una di queste permutazioni sull’uomo dotato di una coscienza e d’un inconscio, cioè sulla società, sull’uomo storico, sarà lo shock che si verifica solo in quanto attorno alla macchina scrivente esiste una società con i suoi fantasmi nascosti[46].

  1. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, Sanremo, Famija Sanremasca, 1991, p. 192. Al passaggio si ritiene interessante aggiungere l’ultima nota del volume, significativa tanto sul piano della relazione Ferrua-Calvino quanto relativamente all’autenticità delle intenzioni dell’autore, profondo conoscitore sanremese e calviniano: «I frequenti spostamenti di Italo Calvino possono essere desunti dalle numerose iscrizioni nelle schede anagrafiche del Comune di Torino. Se avesse avuto agio di conoscere questo ufficio, in cui l’efficienza elettronica è abbinata alla cortesia, lo scrittore gli avrebbe dedicato un racconto»: P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 193.
  2. A causa della difficoltà di reperimento del volume, si ritiene utile dare contezza della già di per sé esplicativa articolazione interna dei capitoli: I suoi antenati; All’ombra di Valdo; Lo scolaro rampante; Arte, primo amore; La vena poetica; Il debutto teatrale; Il critico cinematografico: prime collaborazioni giornalistiche; I primi racconti inediti; Lo studente «dimezzato»; La sua evoluzione politica; Attività pubblicistiche di Calvino in campo politico; Il partigiano «inesistente»?; Sanremaschità e liguritudine; I personaggi si tolgono la maschera; In memoriam; Il mare della soggettività.
  3. Oltre ai volumi già citati nel saggio, tra gli studi più recenti su Calvino e Sanremo si vedano anche L. Guglielmi, Dal fondo dell’opaco io scrivo. Calvino da Sanremo a New York, Genova, De Ferrari Editore, 1999; Ead., Italo Calvino e Sanremo, Genova, Il Canneto Editore, 2023; Italo Calvino, Sanremo e dintorni. Un itinerario letterario (1923-2023), a cura di L. Guglielmi, V. Pesce, Palermo, Il Palindromo, 2023. Si leggano anche M. Bucciantini, Pensare l’universo. Italo Calvino e la scienza, Roma, Donzelli, 2023; E. Ferrero, Italo, Torino, Einaudi, 2023.
  4. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 127.
  5. Il riferimento è a Scrittori di terra, di mare, di città di C. Benussi (Cinisello Balsamo, Pratiche editrice, 1998).
  6. Sul rapporto Calvino-Pasolini si legga C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Si segnala anche l’ultima ristampa del volume con una nuova prefazione dell’autrice (Torino, Bollati Boringhieri, 2022), pubblicata in occasione dei cento anni dalla nascita dello scrittore di Casarsa. Sul confronto tra i due intellettuali in merito ai linguaggi della scienza e della letteratura, si veda M. Paino, Il Barone e il Viaggiatore e altri studi su Italo Calvino, Venezia, Marsilio, 2019 (in particolare il capitolo Riflessioni sulla lingua (tra scienza e letteratura), pp. 141-49). Il volume di Paino propone riflessioni interessanti anche relativamente al discorso autobiografico dello scrittore sanremese e degli ambienti naturali da lui frequentati: «C’è un padre che, nella sua quotidianità votata agli alberi e alla natura, si risolve in tal modo esclusivamente per un’esistenza indirizzata “all’in su”, e un figlio che trova senso solo nella vita “laggiù”, di sotto, nella dimensione di tutti» (M. Paino, Il Barone e il Viaggiatore, op. cit. Il capitolo Alberi, giardini e dinamiche autobiografiche è alle pp. 39-57. La cit. è a p. 40).
  7. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 45.
  8. Asor Rosa inserisce Calvino tra «gli ultimi “classici”» (A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, III. La letteratura della nazione, Torino, Einaudi, 2009, in particolare il riferimento agli «ultimi “classici”» è alle pp. 550-51).
  9. Nonostante sia nata nel 1916, Ginzburg può dirsi tra le esponenti più rappresentative del giovane gruppo intellettuale che negli anni del dopoguerra partecipa attivamente alla ricostruzione politica, sociale e culturale dell’Italia.
  10. I. Calvino, Sanremo città dell’oro, in «Il Politecnico», 21, 16 febbraio 1946, p. 2.
  11. C. Benussi, Scrittori di terra, di mare, di città, op. cit., p. 195.
  12. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 144.
  13. I. Calvino, Riviera di Ponente, in «Il Politecnico», 21, 16 febbraio 1946, p. 2. Sullo stesso tema si veda anche Id., Terra di Liguria… terra mia, in «A Gardiora du Matussian», II, 1, 1983, pp. 1-4.
  14. Sul ricco parterre di pubblicazioni scientifiche raccolte nell’arco di oltre settant’anni dagli stessi genitori dello scrittore e sulla bibliografia dei coniugi Calvino-Mameli, si veda L. Marchi, Nozze di fiori. Per una biografia scientifica di Eva Giuliana Mameli Calvino (in Il giardino segreto dei Calvino, a cura di P. Forneris, L. Marchi, Genova, De Ferrari, 2004, pp. 45-64) e, nello stesso volume, Il fondo Mario Calvino – Eva Mameli Calvino della Biblioteca civica di Sanremo, pp. 17-22.
  15. G. Clément, Giardini, paesaggio e genio naturale, Macerata, Quodlibet, 2013.
  16. L. Zangheri, Storia del giardino e del paesaggio. Il verde nella cultura occidentale, Città di Castello, Leo S. Olschki, 2003.
  17. A. Standardi, Albero e città ovvero La natura in trincea, Roma, Albatros, 2019, p. 75.
  18. C. Milanini, El hijo de Carbino y de Eva, in Il giardino segreto dei Calvino, a cura di P. Forneris, L. Marchi, op. cit., pp. 11-14. La cit. è a p. 11.
  19. Ibidem. Per il dettaglio dei personaggi dietro i quali si celano il padre e la madre, si veda la puntuale ricostruzione di Ferrua: entrambi hanno i caratteri di alcuni personaggi delle opere Gli avanguardisti a Mentone, L’entrata in guerra, I figli poltroni, del Barone Rampante e di Pranzo con un pastore. Le notti dell’UNPA, La strada di San Giovanni, Uomo nei gerbidi e L’occhio del padrone sono dedicati al padre; ispirata alla madre è invece, oltre alle precedenti, anche la signora Anfossi nella Speculazione edilizia. «Il primo ritratto tipico del padre è forse questo: “Mio padre aveva attorcigliato petto e schiena di sciarpe, mantelline, cacciatore, gilecchi, bisacce, borracce, cartuccere, in mezzo a cui nasceva una bianca barba caprina; alle gambe aveva un vecchio paio di schinieri di cuoio tutti graffiati (Uomo nei gerbidi, 1946)”» (P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 185).
  20. C. Milanini, El hijo de Carbino y de Eva, op. cit., p. 12.
  21. Il riferimento è a I. Calvino, Dall’opaco, in Id., Romanzi e racconti, vol. III, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, C. Milanini, Milano, Mondadori, 1994. Su Dall’opaco – nel quale Boselli rintraccia «alcune caratteristiche fondamentali dei […] modi [di Calvino] di immaginare ed esprimere la realtà» (M. Boselli, Italo Calvino: l’immaginazione logica, in «Nuova Corrente», 78, 1979, p. 150) si veda il capitolo «Che forma ha il mondo?». Dall’opaco in L. Spera, Geografie della memoria. Italo Calvino, Pisa, Pacini, 2020, pp. 41-46. Tra le descrizioni più belle di Mario Calvino, c’è il seguente passaggio: «bastava che dall’alto di una fascia qualcuno che poteva o che dava il solfato delle viti lo interpellasse e gli chiedesse un consiglio sulle miscele dei concimi sull’epoca migliore per gli innesti ed egli rasserenato…si fermava a spiegargli il perché e il percome, non aspettava altro che un segno che in questo suo mondo fosse possibile una convivenza civile mossa da una passione di miglioramento» (I. Calvino, La strada di San Giovanni, in Id., Romanzi e racconti, vol. III cit.).
  22. C. Milanini, El hijo de Carbino y de Eva, op. cit., p. 13.
  23. L. Marchi, Nozze di fiori. Per una biografia scientifica di Eva Giuliana Mameli Calvino, op. cit., p. 45.
  24. M. Paino, Calvino, Cosimo e l’«altra vegetazione», in «Oblio», VIII, 32, 2018, pp. 151-66: 165.
  25. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 128.
  26. Ivi, pp. 89-126.
  27. F. Migliaccio, Il paesaggio nella narrativa di Italo Calvino. L’immagine della natura, l’esperienza della camminata, in Convocare esperienze, immagini, narrazioni. Dare senso al paesaggio, a cura di S. Aru, M. Tanca, vol. 2, Milano, Mimesis, 2015, pp. 99-110.
  28. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 90.
  29. Ivi, p. 89. Antonio Montini è il compagno di stanza universitario di Calvino a Torino, intervistato da Ferrua a Sanremo, il 31 maggio 1986.
  30. Ivi, p. 90.
  31. Per il dettaglio dei documenti omessi non autorizzati, si rimanda alla Premessa dell’autore (pp. 11-13); di questi Ferrua offre i dati bibliografici suddividendoli in Inediti assoluti, Scritti anonimi, acefali o adespoti attribuiti a Italo Calvino (per evidenza interna, analisi stilistica, circostanze storiche, ricordo personale, ecc…), Scritti siglati I.C. attribuiti a Italo Calvino, Scritti pubblicati in giornali a tiratura limitata, di diffusione locale, e scritti di soggetto partigiano o sanremese usciti sulla stampa nazionale. Di ciascuna sezione sono scrupolosamente riportati i riferimenti.
  32. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 90.
  33. Provenienti dalle collezioni dell’Istituto Storico della Resistenza di Imperia, le riproduzioni di tali documenti si trovano alle pagine 102117 di Italo Calvino a San Remo.
  34. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., pp. 99-100. Sul rapporto di Calvino con la Resistenza, si legga il brano estratto da Calvino: quel che la Resistenza ha dato alla letteratura (p. 124).
  35. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 49.
  36. Ivi, p. 67.
  37. Ivi, p. 69.
  38. Ibidem.
  39. Ivi, p. 133.
  40. Ivi, p. 130. Di Guglielmi si legga Mario Calvino nei miei ricordi (in Il giardino segreto dei Calvino, op. cit., pp. 133-35) e il volume-intervista Libereso, il giardiniere di Calvino (a cura di I. Pizzetti, Padova, Franco Muzzio, 1993), poi negli anni ristampato da Tarka Edizioni.
  41. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 130.
  42. Ibidem.
  43. Sostiene Ferrua che lo spostamento di Calvino dalla Facoltà di Agraria di Torino a quella di Firenze ha comportato problemi nella ricostruzione della sua carriera accademica. Dell’esperienza piemontese rimane testimonianza dei seguenti esami sostenuti e relative votazioni: Zoologia generale, voto 25; Botanica generale, voto 25; Chimica generale inorganica, voto 24; Matematica, respinto una prima volta, poi 21. Più precisi sono invece i riferimenti fiorentini, con annesse date: Mineralogia geologica, voto 23 (24 febbraio 1943); Botanica sistematica, voto 21 (13 giugno 1943); Entomologia agraria, respinto (19 giugno 1943).
  44. C. Milanini, El hijo de Carbino y de Eva, op. cit., p. 14.
  45. L. Spera, Geografie della memoria. Italo Calvino, Pisa, Pacini, 2020, p. 38. Sulle implicazioni memoriali degli spazi, si rimanda anche, tra gli altri, a M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007; G. Sandrini, Le linee d’una mano: Italo Calvino e la memoria ne «Le città invisibili», in «Studi Novecenteschi», XVIII, 42, 1991, pp. 357-93 e A. Battistini, Le città visibili e invisibili di Italo Calvino, in «Esperienze letterarie», 26, 2, 2001, pp. 21-37.
  46. I. Calvino, Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in «Nuova corrente», 46-47, 1975, pp. 414-25.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

“Le città invisibili” e il desiderio

Author di Fabio Baccelliere

Conoscenza e scacco 

Le città invisibili prende avvio da un momento epifanico e disperato, di «vuoto»[1] e «vertigine»[2], nel quale il Gran Khan percepisce e scopre che l’impero che gli era sembrato «la somma di tutte le meraviglie del mondo è in realtà uno sfacelo senza fine né forma»[3], afflitto da una corruzione talmente incancrenita che nessuno scettro vi potrebbe porre rimedio. Un momento, questo, preceduto, in un primo tempo, dall’orgoglio provato dal Gran Khan davanti alla sterminata estensione del suo impero; e subito dopo da una strana e aporetica compresenza di malinconia e sollievo di fronte alla consapevolezza che i territori di sua proprietà sono troppo sterminati per essere conosciuti e compresi.

Si tratta di un’aporia che restituisce, dunque, da una parte la malinconia di un desiderio che si sa inappagabile, e dall’altra il sollievo che deriva, probabilmente, dalla consapevolezza che un desiderio soddisfatto rischia di diventare un desiderio “morto”. Essa, inoltre, riassume il contrasto essenziale che sarà sviluppato nelle cornici che scandiscono il libro: il conflitto, cioè, tra il desiderio di totalità (intesa come voglia di conoscere tutto interamente, che poi altro non è che un modo di possedere il proprio impero in modo più profondo rispetto al semplice dominio materiale), di cui si fa portatore il Khan (che sembra dimenticare il sollievo iniziale provato di fronte alla presa d’atto dell’inconoscibilità), e il suo scacco, che Marco si incarica di evidenziare tanto nei dialoghi con l’imperatore quanto nel racconto delle singole città invisibili.

La spinta verso la totalità ricorda molto da vicino il godimento, uno dei concetti pivotali, assieme al desiderio, dell’insegnamento lacaniano: di quel Lacan presente con quattro dei suoi volumi nella biblioteca di Calvino (Gli scritti, Il Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, Il Seminario XX. Ancora, Televisione), che qui si cita intendendolo come ricerca del sapere assoluto, totalizzante; un sapere che pretende di precedere, come vedremo, le città stesse, prescindendone, o addirittura pretende che le città vi si adeguino. Potremmo dire, dunque, che il percorso delle città invisibili è anche un percorso che tende a dimostrare che il desiderio di conoscenza/godimento di Khan non può che fallire: che non c’è, cioè, conoscenza assoluta, non c’è possesso integrale, non c’è riduzione all’unità che tenga. E a questo assunto, vedremo, si oppone il frammento: che è un modo per preservare il desiderio.

Alla contraddizione tra sollievo e malinconia vissuta dal Khan segue la sua percezione del disfacimento dell’Impero. Però, sembra poterci essere rimedio alla rovina: «Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Khan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti»[4]. Il rimedio all’infelicità (al disfacimento, alla rovina) sembra passare per la conoscenza delle città nelle quali l’infelicità prende effettivamente forma. Non una conoscenza di fatti, dati o cose, però, ma una conoscenza del “senso”; non il resoconto fedele di una città, ma l’essenza, la proprietà, il segreto che la rende diversa da tutte le altre.

Il racconto di Marco Polo, dunque, si incarica di trovare al disfacimento la cura del senso: Kublai Khan, infatti, rintraccia nei resoconti di Marco Polo «la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti»[5]. Un disegno, quindi, che tenga insieme in un senso le cose e le rispettive forme anche quando saranno polverizzate. Un disegno tra le città, che Marco realizza nelle categorizzazioni attraverso cui è strutturato il libro (le città e la memoria, le città e il desiderio, le città e i segni, le città sottili, le città e gli scambi, le città e il nome, le città e gli occhi, le città e i morti, le città continue); e insieme un disegno nelle città, dal momento che Marco cerca di volta in volta l’essenza, la proprietà, il segreto di ciascuna di esse. Il bisogno di porre rimedio alla rovina con il senso sembra, dunque, mascherare la pulsione primaria di Khan: possedere interamente, integralmente i suoi possessi.

La seconda cornice

Nella seconda cornice Calvino racconta delle relazioni dei messi e degli esattori inviati a ispezionare le remote province. Gli ambasciatori parlano idiomi incomprensibili al Khan, ma nonostante ciò riescono a comunicare le cifre incassate dal fisco, i nomi dei funzionari, le dimensioni dei canali di irrigazione. Vale a dire: a prescindere dalla trasparenza del segno linguistico, c’è una dimensione che oltrepassa la lingua, e cioè il codice dei numeri, del calcolo, del registro, per così dire.

La comunicazione con Marco Polo, invece, si presenta subito come diversa: Marco si esprime con «gesti, salti, grida di meraviglia e di orrore, latrati o chiurli d’animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce»[6]. Per rappresentare ogni città Marco utilizza pantomime che il sovrano ha il compito di interpretare; pantomime che hanno la forza dell’emblema. Quando Marco apprende la lingua dell’imperatore, è finalmente in grado di fornire notizie e informazioni più circostanziate; i dati, però, non prendono significato autonomamente, ma sempre e solo retrospettivamente, grazie agli emblemi che in precedenza avevano contraddistinto le città che ora vengono descritte con parole: «il nuovo dato riceveva un senso da quell’emblema e insieme aggiungeva all’emblema un nuovo senso»[7]. Un senso che la lingua da sola non sembra in grado di restituire: c’è, dunque, uno stadio pre-linguistico in qualche modo superiore, che precede il taglio del linguaggio. In filigrana sembra emergere il fatto che il linguaggio impedisca il senso, che gli è fornito invece dall’emblema, dal gesto, dall’immagine. Un godimento pre-verbale: un ritorno, sembrerebbe ancora, a quella fusionalità tra sé e mondo che è propria dell’esperienza del soggetto prima del linguaggio. “La Cosa”, la chiamerebbe Lacan: quella dimensione mai esperita di cui tutti gli animali linguistici hanno nostalgia.

«Forse l’impero», conclude Kublai al termine di questa seconda cornice, «non è altro che uno zodiaco di fantasmi della mente»[8]. Il Gran Khan chiede a Marco: «Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?»[9]. Il Gran Khan ipotizza, dunque, una conoscenza fantasmatico/emblematica dell’Impero: se ogni emblema è un fantasma della mente, conoscerli tutti può significare possederlo? «Sire, non lo credere: quel giorno sarai tu stesso emblema tra gli emblemi»[10], lo ammonisce Marco. La conoscenza degli emblemi, dei fantasmi è a sua volta un emblema, un fantasma. Non c’è il segno ultimo, direbbe Lacan: allo stesso modo, non c’è un fantasma ultimo che dia un senso definitivo ai fantasmi che viviamo. Non c’è un punto di arrivo: la catena del senso non si chiude. Se, a questo punto del libro, Khan propende per la ricerca della totalità emblematica, potremmo ipotizzare che Khan e Marco rappresentino due istanze di Calvino: la prima che tenta il sapere assoluto; la seconda che naviga tra le perigliose acque della significazione mai definitiva, impossibilitata a diventare assoluta. La prima cerca il godimento: la saturazione dei vuoti, dei sensi sfuggenti; il secondo il desiderio, inteso come movimento perenne, fantasma che non si svela.

Pensiamo alla città di Cloe, appartenente alla serie Le città e gli scambi: in essa le persone che si incrociano realizzano incontri appassionati senza quasi neppure guardarsi, con la sola potenza dell’immaginazione. Conclude Marco: «Se uomini e donne cominciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia di inseguimenti, di finzioni, di malintesi, di urti, di oppressioni, e la giostra delle fantasie si fermerebbe»[11]. Come a dire: senza fantasmi viene meno il desiderio. I fantasmi sono il desiderio: per preservarlo devono restare tali.

C’è anche un’altra città in cui si parla esplicitamente di fantasmi: si tratta di Zobeide (la quinta della serie La città e il desiderio). Zobeide fu costruita a partire da un sogno: i fondatori volevano ricreare la città nella quale avevano sognato di rincorrere una donna nuda. «Nella disposizione delle strade», dice Marco Polo, «ognuno rifece il percorso del suo inseguimento; nel punto in cui aveva perso le tracce della fuggitiva ordinò diversamente che nel sogno gli spazi e le mura in modo che non gli potesse più scappare»[12]. Inutile dire che nessuno vide mai la donna del sogno, giungendo a dimenticarla. I fantasmi funzionano così: alla fine finiscono per lavorare silenziosamente all’interno. Khan desidera un emblema ultimo, un fantasma ultimo che ponga fine alla catena del senso; ma bloccare questa catena vorrebbe dire bloccare il desiderio: il godimento dell’assoluto, ancora, si dà come impossibile.

La terza cornice

La seconda parte del libro si apre con la terza cornice, dove ci imbattiamo in una riflessione di Khan e Marco sul passato. Marco dice di aver compreso che il passato non può essere un dato acquisito una volta per tutte: il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto. Il passato, come il futuro, è un altrove: «L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che ha avuto e non avrà»[13]. Ci si riconosce, quindi, scoprendo quello che non si è: si apprende, ci si apprende per differenza. Ed è un apprendimento che non finisce mai, poiché un presente ha bisogno di diventare a sua volta passato per essere compreso e il passato, a sua volta, non è un possesso definitivo, ma un possesso variabile. Che si tratti di fantasmi, che si tratti di storia e passato, le città invisibili non si fanno afferrare.

La settima cornice

Nella settima cornice il Khan lancia a Marco un’accusa: le sue città «non esistono»[14]. Non esistono per un duplice motivo. Il primo è che non sono in grado di cogliere la marcescenza che corrode l’Impero: a questo Marco risponde che per conoscere il buio bisogna guardare le luci lontane, per misurare l’infelicità bisogna osservare le felicità che sono distanti. Il secondo, specularmente inverso, è che le impressioni di viaggio di Marco si fermano alle «delusive apparenze»[15], non riuscendo in tal modo a cogliere il «disegno perfetto»[16] con il quale sono aggregate le molecole dell’impero e il «processo inarrestabile»[17] secondo il quale prende forma, nel «ribollire degli elementi»[18], il «diamante splendido e durissimo»[19]. Dopo il Niente (la rovina), Khan sembra tendere verso il Tutto (la perfezione): a quella che prima era un’assoluta infelicità ora oppone, improvvisamente, un’assoluta felicità. Siamo nei pressi della città ideale, dell’utopia: l’altro lato, verrebbe da dire, della distopia.

Marco ammonisce per questo Khan: la città che ha pensato è una città che «una e ultima innalza le sue mura senza macchia»[20]. Una città ideale nella quale la felicità precede e pretende di espungere l’infelicità. Nella visione di Marco, invece, l’ideale non è mai prima: è, semmai, dopo. È partendo dalle piccole infelicità che si progetta il diamante; è dalla natura intrinsecamente tragica dell’umano che si possono costruire ipotesi di felicità. Dice Marco al Khan: «Solo se conoscerai il residuo di infelicità che nessuna pietra preziosa arriverà a risarcire, potrai computare l’esatto numero di carati cui il diamante finale deve tendere, e non sballerai i calcoli del tuo progetto dall’inizio»[21]. Il progetto deve, quindi, partire dal dato di realtà: dall’umana imperfezione.

Gli stessi concetti di felicità e infelicità, d’altro canto, non servono per dividere tra loro le città: «è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati»[22]. C’è una duplice declinazione del desiderio in questo passo: una generativa, che ha a che fare con la trasformazione continua, che è vita, nella quale le città danno forma ai desideri, e cambiando queste forme vanno avanti; e una passiva, nella quale i desideri si subiscono, non si soggettivizzano, nella quale i desideri non trovano una forma. È una struttura che fa del desiderio uno strumento di schiavitù.

Avevamo proposto prima di definire “godimento” la tendenza di Khan alla conoscenza totalizzante; siamo di fronte, in questo caso, a un’altra forma di quella che Lacan chiama jouissance: il soggetto, appunto, come la città, è formato dal desiderio, fino a esserne cancellato. Si intrecciano, dunque, in questo complesso e imprendibile libro, il desiderio di Khan di possedere attraverso una conoscenza totalizzante il proprio impero e di cancellare l’infelicità, e le città invisibili che sono risposte a una domanda o a una paura, luoghi in cui al desiderio è stata data una forma, ma anche luoghi in cui il desiderio può farsi prigione, cancellando città e soggetti che le abitano.

Il modello, l’utopia

Nella cornice successiva, l’ottava, il Khan, riprendendo l’accusa lanciata nella precedente a Marco («le tue città non esistono»), decide che d’ora in avanti sarà lui a descrivere le città: sarà compito di Marco verificare la loro esistenza nel corso dei suoi viaggi. Invano, poiché non v’è mai corrispondenza tra l’immaginazione dell’imperatore e la realtà delle cose. Ciò che Khan tenta di fare è partire da un modello su cui effettuare variazioni; un modello che racchiude al suo interno tutto ciò che, secondo Khan, risponde alla norma: poiché le città che esistono si allontanano in vario modo dalla norma, secondo lui basterebbe «prevedere le varie eccezioni alla norma e calcolarne le combinazioni più probabili»[23].

Marco capovolge il ragionamento: la sua città-modello è fatta solo di eccezioni: diminuendo il numero degli elementi abnormi, si accrescono le probabilità che le città ci siano veramente. Un modello, quello del Khan, fatto com’è di tutte le possibili normalità e dal quale costruire città con piccoli scarti, che tende a riportare le differenze all’Uno: un Uno ideale, per l’appunto, che fa delle eccezioni delle fisiologiche e accettabili (quando nei limiti, si intende) manifestazioni di identità (che è, dunque, nient’altro che una riproduzione della norma con qualche scarto). Per Marco, invece, il modello di partenza racchiude tutte le eccezioni: che è come dire che ciascuna città fa delle differenze la propria identità e che i tratti normali non sono altro che il terreno comune che gli appartenenti a una medesima categoria (urbana come umana) condividono. Ogni città, alla fine, non è che un’eccezione: «basta che io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi ordine proceda arriverò a trovarmi davanti una delle città che, pur sempre in via d’eccezione, esistono»[24]. Alla fine della cornice, viene messa in discussione da Marco la categoria stessa di verità che è sottesa al modello di Khan: ciò che è troppo verosimile non è vero. La verità, dunque, è fatta di eccezioni e differenze: sfugge all’ideologia, che stabilisce il verosimile.

La quindicesima cornice

Il lavoro di astrazione di Khan alla ricerca del possesso intellettuale e immaginario delle città del proprio impero prosegue nella quindicesima cornice: paragonando una città a una partita a scacchi, Khan crede che, quando conoscerà perfettamente le regole del gioco, possiederà finalmente il proprio impero, pur non conoscendo in dettaglio ogni città. Il gioco degli scacchi racconta il desiderio di scorporamento di Khan: trovare la forma essenziale che è alla base delle città. Il punto è che alla fine resta il Nulla: «A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato: il nulla…»[25]. Il gioco finisce per sfuggire a Khan, poiché gliene sfuggono le motivazioni. Di certo c’è che il Tutto della conquista definitiva coincide con il Nulla (una riflessione più approfondita sul Tutto e sul Nulla e sulle loro reciproche implicazioni ci viene regalata da Calvino in una cosmicomica delle Cosmicomiche vecchie e nuove, dal titolo Il Niente e il Poco).

Le città che si assomigliano tra loro (come Khan rimprovera a Marco) e la ricerca della legge formale uguale per tutte si ricollegano all’ambizione alla città senza macchia che Marco Polo, come abbiamo visto, rimproverava al Khan. L’utopia non è solo l’assenza di macchia, ma anche la ricerca del modello identico per tutti.

Mi è tornato in mente, a questo punto della rilettura delle Città invisibili, un libro di qualche secolo fa: sto parlando dell’Utopia di Tommaso Moro, pubblicato (in latino) nel 1514. In particolare, mi è venuta in mente la parte seconda, nella quale l’umanista inglese descrive l’isola di Utopia. Le città di quest’isola sono 54: sono «ampie e magnifiche, quasi tutte uguali per lingua, usanze, istituzioni e leggi; identico è anche il piano di tutte e, per quanto consente la posizione, anche l’aspetto»[26]. Nel capitolo dedicato alla capitale, che si chiama Amauroto, Moro così esordisce: «Chi conosce una sola città le conosce tutte, tanto sono interamente simili tra loro, per quel che consente la natura del luogo: perciò ne dipingerò una purchessia, non importa quale»[27]. Descrive dunque Amauroto, disegnata a suo tempo dal fondatore che si chiama, nomen omen, Utòpo. Mentre le 54 città utopiche, che sono in nessun luogo, sono tutte identiche, o quasi, le 55 città invisibili di Calvino sono tutte differenti tra loro. Calvino inserisce Utopia, non a caso, tra le terre promesse (Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Oceana, Tamoé, Armonia, Icaria, New Lanark) contenute nell’atlante del Gran Khan; dove ci sono anche, secondo quel contrasto tra opposti che abbiamo visto prima, anche le città infernali: Enoch, Babilonia, Yahoo. Il Tutto e il Niente. Il Tutto, l’Utopia, è però infernale come il Niente, l’inferno: anzi, alle volte è l’Utopia stessa il vero Inferno, come accade nella città di Bersabea, che «crede virtù ciò che è un cupo invasamento a riempire il vaso vuoto di sé stessa»[28].

La diciassettesima cornice

Nella diciassettesima cornice, l’avventura del desiderio di conoscenza del Khan acquista un carattere nuovo e ulteriore, che in qualche modo rifocalizza tutto ciò che lo ha preceduto. Una sorta di confessione, potremmo dire:

Alle volte mi pare che la tua voce mi giunga da lontano, mentre sono prigioniero d’un presente vistoso e invivibile, in cui tutte le forme di convivenza umana sono giunte a un estremo del loro cielo e non si può immaginare quali nuove forme prenderanno. E ascolto dalla tua voce le ragioni invisibili di cui le città vivevano, e per cui, forse, dopo morte, rivivranno[29].

È la prima volta che nei discorsi del Khan appare l’aggettivo «umana» e, più in generale, l’orizzonte dell’umana convivenza. Sembra quasi che l’Imperatore l’abbia evitata volontariamente, ma che ci sia sempre stata, nel sottotesto, in filigrana. Khan sembra dire a Marco e al lettore: i miei tentativi finora non sono stati che disperate risposte alla decomposizione delle relazioni umane.

Vorrei citare due città. Raissa è una città triste, dove però corre un filo invisibile che «allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra i punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere»[30]. Sono le relazioni tra gli umani, dunque, ciò che meno d’ogni altra cosa è descrivibile dagli ambasciatori del Khan, a far germogliare dall’infelicità la felicità. È nelle crepe di un’infelicità che sembra tetragona che si nascondono tracce di felicità: non è nell’utopia il rimedio.

L’ultima città del libro, aggiungerei non a caso, è Berenice. Se in Raissa si embricavano in modo inestricabile felicità e infelicità, qui si sovrappongono giustizia e ingiustizia. Nella città dei giusti è nascosto il seme dell’ingiustizia: cioè la certezza e l’orgoglio di essere nel giusto, che può portare alla trasformazione di una città giusta in una città ingiusta. È il rischio dell’ideale eretto a sistema, dell’utopia, quindi, e diremmo ancora dell’ideologia: creare una città sulla carta, certa della propria giustizia, non è altro che il primo passo verso la distopia.

Non si dà conoscenza definitiva, ultima; non si danno felicità e giustizia in senso assoluto. Possedere l’umano è progetto fallimentare: nessuna ideologia, forma, modello può farlo. Pertanto, nessun imperatore può possedere le città del proprio impero. La conoscenza del vero, come del giusto, si dà sempre come non definitiva: parte dall’accettazione che nel positivo si annidi il negativo, e viceversa. La città perfetta si dà solo per frammenti, come dice Marco nell’ultima cornice, in cui ‒ lo abbiamo in parte già visto ‒ Khan prima allude a futuri utopici da raggiungere, poi ad approdi infernali senza speranza: questa visione per frammenti è ciò che ci permette di fuggire l’incubo totalitario. Il godimento delle leggi universali e il desiderio delle declinazioni particolari sono in conflitto: le seconde possono impedire l’affermazione delle prime.

Conclusioni

Per concludere il ragionamento, mi sembra utile ricordare un altro Calvino. Amerigo Ormea, protagonista della Giornata di uno scrutatore, portatore di un razionalismo laico e illuminista, fa i conti con tutto ciò che nella realtà non segue pedissequamente le istanze della ragione o dell’ideologia. La sua fidanzata, Lia, è da lui definita «prelogica»[31]; ma nel pensarlo (non avrà il coraggio di dirlo) egli prova una forma di godimento: «e provava un doppio piacere, a riproporsi la sofferenza che gli dava il modo di pensare di Lia, e a esercitare crudelmente su di esso l’aggressione della logica più elementare»[32]. Comprende, a un certo punto, che il desiderio non è cosa autistica (godimento dell’Uno, direbbe Lacan), ma strutturata dalla relazione («il desiderio di desiderio, l’Altro, il Riconoscimento»[33]; in questo passo Calvino cita apertamente Hegel); in una telefonata con Lia, viene ancora messo di fronte a ciò che la ragione non può governare: il corpo («per lei non conta la logica della ragione, ma solo la logica della fisiologia!»)[34]. Nelle righe finali, di fronte a delle donne nane che spingono una carretta di fascine, di fronte quindi all’ultima scena dell’irrimediabile imperfezione del Cottolengo, e di fronte al loro riso collettivo, ha l’epifania che anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua “ora perfetta”: «l’ora, l’attimo in cui in ogni città c’è la Città»[35]. La sua “città invisibile”.

Il desiderio totalizzante dell’ideologia, che abbiamo chiamato “godimento”, cede di fronte ai piccoli momenti di perfezione: gli attimi umani, dove il desiderio si costruisce, nella sua illogicità e nella struttura delle proprie misteriose e non modellizzabili relazioni. E dove, di tanto in tanto, la perfezione si affaccia nell’unica declinazione che possiamo dire umana: nell’attimo del rapporto.

Non esiste la città ideale o dei modelli di città; esistono gli umani che le abitano, e dei momenti di perfezione sfuggente che le loro relazioni sanno costruire; per questo, l’Imperatore che le voglia governare ideologicamente, o possederle nel possesso/godimento di chi vuole imporre loro una sola forma, non potrà che farne un inferno in terra: perché non è imponendo la propria idea di felicità ai governati che li si rende felici, ma trovando nell’infelicità dell’umano i suoi momenti di incomparabile e desiderante felicità. È questa, secondo chi scrive, una delle lezioni di Italo Calvino.

  1. I. Calvino, Le città invisibili, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1993, p. 5.
  2. Ibidem.
  3. Ibidem.
  4. Ibidem.
  5. Ibidem.
  6. Ivi, p. 21.
  7. Ivi, p. 22.
  8. Ibidem.
  9. Ibidem.
  10. Ibidem.
  11. Ivi, p. 52.
  12. Ivi, p. 55.
  13. Ivi, p. 27.
  14. Ivi, p. 59.
  15. Ivi, p. 60.
  16. Ibidem.
  17. Ibidem.
  18. Ibidem.
  19. Ibidem.
  20. Ibidem.
  21. Ibidem.
  22. Ivi, pp. 34-35.
  23. Ivi, p. 69.
  24. Ibidem.
  25. Ivi, p. 123.
  26. T. Moro, L’Utopia, Bari, Laterza, 1993, p. 56.
  27. Ivi, pp. 58-59.
  28. I. Calvino, Le città invisibili, op. cit., p. 112.
  29. Ivi, pp. 137-38.
  30. Ivi, p. 149.
  31. I. Calvino, La giornata di uno scrutatore, in Id., Romanzi e racconti. Volume secondo, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Arnoldo Mondadori Editori, 2004, p. 53.
  32. Ibidem.
  33. Ivi, p. 55.
  34. Ivi, p. 58.
  35. Ivi, p. 78.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

“Un borghese piccolo piccolo”: la «mostruosa singolarità» dei violenti anni Settanta

Author di Monica Jansen

Nel 1976 esce il romanzo Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami[1], che esamina la materializzazione di un sadismo vendicativo in un uomo medio il cui figlio viene ucciso in una rapina. Il romanzo viene salutato con entusiasmo dai due maggiori scrittori e critici dell’epoca, Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino. Nel 1977 il regista Mario Monicelli traspone il libro in film[2], per il quale Cerami prepara l’adattamento su cui si basa la sceneggiatura di Monicelli e Sergio Amidei. Rispetto al libro viene alterato il finale che mostra il protagonista commettere un altro omicidio, questa volta di un giovane di borgata che l’ha insultato. Il film divide la critica tra chi lo considera un’apologia reazionaria della violenza e chi invece lo trova coerente con il comico grottesco della fine degli anni Settanta.

Nelle loro divergenze, le valutazioni critiche del libro e del film riconoscono nella violenza rappresentata una novità “mostruosa” che potrebbe essere sintomatica del momento storico del 1976-1977, e che richiede nuovi parametri morali ed estetici per interpretarla. In questo contributo si parte dalle riflessioni di Pasolini e Calvino che condividono con il libro lo stesso contesto storico e letterario, ma che, basandosi sul sentire comune di una crisi dei valori con cui interpretare la realtà culturale e politica, arrivano a conclusioni diverse. Mentre il primo teorizza una “mutazione antropologica” irriversibile che con la diffusione del consumismo comporta il progressivo imborghesimento delle classi popolari, l’altro s’impegna come scrittore per la sopravvivenza di un discorso “umano” in una società permissiva che mette in questione la funzione politica della letteratura. Gli studi critici del film di Monicelli invece spostano la discussione sulla “banalità” della violenza su un altro piano, quello della crisi del genere della commedia all’italiana e del suo ruolo di lente deformatrice e critica dei mali della società.

Con Un borghese piccolo piccolo Cerami stesso adotta una definizione duplice del comico che gli permetta di interpretare “l’assurdo” del male sia in una chiave umana sia in una chiave grottesca. Il presente saggio ipotizza che Cerami, identificando in Pasolini il suo maestro, riconosca in Salò il film con cui misurare quando e come la violenza da funzionale diventa gratuita, ovvero quando si inizia a parlare di una “mostruosa singolarità”, la definizione coniata da Klossowski in Sade mon prochain. La rappresentazione della morte nel libro e nel film, che stabilisce ogni volta un rapporto diverso tra colpevole e vittima in relazione al contesto in cui è avvenuta, sarà la lente con cui valutare l’impatto sugli individui e sull’arte del “mostro” dei violenti anni Settanta.

La sopravvivenza dell’umano in una storia di vittime e di mostri

Pier Paolo Pasolini, nella sua rubrica letteraria su «Tempo illustrato», leggendo il manoscritto nel 1973, lo aveva definito «un bellissimo romanzo neocrepuscolare, atroce»[3], e Italo Calvino lo aveva presentato per la prima edizione Garzanti come «una storia di vittime e nello stesso tempo di mostri […]: vittime d’un assurdo che possiamo scegliere di definire sociale oppure metafisico senza che questo cambi nulla nell’oscura, quasi inarticolata determinazione con cui vi si muove chi non ha altro fine che il farsi largo entro un chiuso orizzonte»[4]. Pasolini nella sua rubrica aveva inserito il romanzo all’interno di quei prodotti culturali a cui attribuire «un reale valore»[5], opere di giovani autori con «una vocazione letteraria»[6] non rimasti bloccati né dalla «neo-avanguardia del quinquennio 1963-68»[7] né dalla «Contestazione»[8], ma che erano stati travolti dalla «cultura di massa e la civiltà dei consumi, che il Potere è andato macinando e preparando, nei primi anni Sessanta, passando ormai, oggi, su tutto come un rullo compressore»[9]. Che i critici, subendo «il ricatto del terrorismo sessantottesco»[10], si fossero resi complici del Potere ignorando la nascita di una nuova narrativa fuori dagli schemi prestabiliti non era però soltanto colpa loro, ma anche di un sistema binario di valori che era andato in frantumi: «Infatti alle loro spalle si sta verificando non solo la dissoluzione del grande Dualismo (cultura di destra e cultura di sinistra, comunismo e cattolicesimo), ma la dissoluzione di una cultura e di un’epoca della storia (la cui ultima fase era stata caratterizzata da una sorta di egemonia marxista)»[11].

Calvino invece, con la sua duplice interpretazione del romanzo, si era espresso in linea con il saggio sugli Usi politici giusti e sbagliati della letteratura del 1976 in cui diceva di trovarsi intrappolato tra due sensazioni di vuoto: «il vuoto d’un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto d’un progetto letterario in cui io possa credere»[12]. Analogamente a Pasolini, egli ravvisava a partire dagli anni Sessanta una messa in questione di tutti «i parametri, le categorie, le antitesi che usavamo per definire, classificare, progettare il mondo»[13]. Lo scrittore notava che negli anni Settanta si era «allargata la coscienza della complessità della società in cui viviamo», segnata «da una parte di crescente deterioramento e corruzione del nostro quadro istituzionale – e dall’altra parte d’una maturazione collettiva e d’una ricerca di vie d’autogoverno»[14]. In tale situazione il posto della letteratura, secondo Calvino, avrebbe dovuto essere quello di «garantire la sopravvivenza di quel che si chiama umano in un mondo dove tutto si presenta inumano», intendendo “umano” non in un senso umoriale e «non rigoroso», ma invece nel senso di un «discorso umano». Egli poneva così l’ipotesi del caso «molto raro» di «qualcuno che creda in un rigore della letteratura, superiore e contrapposto al falso rigore dei linguaggi che oggi guidano il mondo»[15]. Tale convinzione portava Calvino ad affermare che:

Qualsiasi risultato raggiunto dalla letteratura, se rigoroso, può essere visto come un punto fermo per ogni attività pratica, per chi miri alla costruzione d’un ordine mentale così solido e complesso da contenere in sé il disordine del mondo, per chi tenda a stabilire un metodo così sottile e duttile da essere l’equivalente dell’assenza d’ogni metodo[16].

Si trattava in fondo non di pensare in un senso degenerativo la morte dei valori tradizionali che conduceva Pasolini nel 1974 a formulare la sua famosa ipotesi della «mutazione antropologica» degli italiani, ma di creare «quel genere di modelli-valori che sono al tempo stesso estetici ed etici» e di modellare quel «genere di consapevolezza» essenziale per mettere in crisi la «malattia» e per «inventare un nuovo modo di essere»[17].

La comicità come glorificazione della morte

La discussione sul film di Monicelli che esce nel 1977 rispecchia la stessa preoccupazione sul processo di omologazione culturale segnalato da Pasolini e Calvino. A Monicelli stesso era stata attribuita la frase che il suo film sarebbe stato «la pietra tombale della commedia all’italiana», ma in La commedia umana, che raccoglie le sue conversazioni con Sebastiano Mondadori, egli ne nega l’appartenenza, ribadendo che «Un borghese piccolo piccolo è ancora a tutti gli effetti una commedia all’italiana. […] Emerge una nuova ferocia, che a tratti schiaccia il ridicolo […] Ma non ci è passata la voglia di ridere»[18].

Un volume di saggi dedicato al cinema di Monicelli contiene due giudizi contrari che illustrano questo contrasto nella ricezione. Aldo Viganò intravede nel film «il rischio ‘mostruoso’ di fare del suo protagonista Vivaldi un ‘positivo’ eroe dei nostri tempi», ma il difetto del regista di non aver saputo trovare la «giusta distanza» che crea la comicità sarebbe in fin dei conti da attribuire al contesto storico:

Un borghese piccolo piccolo appare come il prodotto di un cinema confuso […]. Sullo sfondo restano i residui della commedia (la ‘mostruosa’ abilità del protagonista nel destreggiarsi nel traffico urbano, il suo maniacale attaccamento alla famiglia, il servilismo e l’arte d’arrangiarsi), ma costituiscono ormai solo il precipitato cinematografico di una società sempre più incapace di ridere di se stessa[19].

Per Gianni Canova invece il film,

a torto interpretato – ai tempi – come declinazione grottesca del ‘poliziottesco all’italiana’ o come reazionario richiamo all’ordine e alla legge, […] si configura […] come il tentativo più lucido di dar forma all’‘ordine cannibale’ e di mostrare il modo in cui l’istinto omicida si manifesta in un uomo qualunque, pronto a trasformarsi da tranquillo impiegato ministeriale in giustiziere spietato e feroce[20].

Con “ordine cannibale”, un termine preso in prestito da Jacques Attali, il critico intende esprimere «l’effetto disgregante che la morte produce sui suoi universi diegetici»[21]. Egli conclude perciò che «il film è in realtà una asciutta rappresentazione della ‘banalità del male’ e, insieme, dell’insostenibile precarietà del vivere»[22].

Monicelli stesso in un’intervista del 2004 dice del film di aver puntato coscientemente a un’interpretazione ambivalente, e dichiara anche di essersi ispirato a certi film americani che tematizzavano l’aumento della criminalità, della delinquenza giovanile e dell’insicurezza personale nella vita quotidiana di quegli anni. In questo modo il regista viareggino di adozione non stabilisce un legame diretto con la violenza politica degli anni Settanta nel suo Paese, ma con un fenomeno sociale internazionale contingente e con un genere cinematografico americano in cui prevaleva il punto di vista dell’uomo vendicatore. Scegliendo un attore comico amato dagli italiani come Alberto Sordi[23] e trasformandolo in un mostro che compie la propria vendetta torturando e uccidendo l’assassino del figlio, Monicelli voleva rendere il personaggio tanto ambiguo da far riflettere il pubblico sulla liceità del suo comportamento da giustiziere. Poiché la prima parte del film, incentrata sulla figura di Giovanni Vivaldi, piccolo burocrate impiegato in un ministero, corrisponde in tutto al genere comico, il maestro della commedia all’italiana afferma di essere riuscito a costruire una farsa che slitta inavvertitamente nella tragedia[24]. Il film, nel bene e nel male, sarebbe dunque, secondo Vincenzo Buccheri, da definirsi «un’opera ‘terminale’», ma rimane da decidere se «i vecchi ‘mostri’ d’antan – maestri del servilismo e dell’arte d’arrangiarsi, qui condensati nel personaggio interpretato da Alberto Sordi – siano additati come responsabili storici del disastro presente oppure presentati come dei sopravvissuti senza bussola, vittime di un tempo nuovo più ‘mostruoso’ di loro»[25].

Per Rémi Fournier Lanzoni, infine, Un borghese piccolo piccolo dimostra la svolta della seconda fase della commedia all’italiana, quella dell’epoca post-boom (1968-1979), dal sorriso della satira al cinismo del modo grottesco. La morte funge in queste narrazioni tragicomiche da artificio tematico predominante: in una società in preda alla violenza, la morte non è più un’entità esterna limitata a delle funzioni minori, ma piuttosto un elemento completo che ha raggiunto la sua maturità sullo schermo[26]. Lanzoni cita a tal proposito Monicelli, che ha definito il proprio film un passo in avanti verso l’assurdo, il cui elemento grottesco coincide con la disperazione e la solitudine[27]. Per dimostrare come la passione umana possa generare violenza e morte, non serve tanto la compassione della tragedia ma la verità circostanziale della farsa. Intervistato da Lanzoni, Monicelli sostiene che «il potere della commedia è senza ambiguità»[28]. Nelle conversazioni con Sebastiano Mondadori già citate, Monicelli precisa che nel raccontare la violenza ha voluto adottare uno «stile elementare in cui manca del tutto un giudizio morale»[29].

Cerami stesso definisce la comicità come «la distruzione della sociologia, della psicologia, dell’ideologia. È bidimensionale; è come un fumetto. È la poesia del nulla. La glorificazione della morte fatta con allegria»[30]. Moralmente accettabile o meno, il grottesco mette lo spettatore di fronte a un limite, non più concepibile con gli schemi binari della dialettica, come Pasolini e Calvino ebbero a dimostrare, ma piuttosto tangibile nella sua forma di zona di contatto, e dunque travalicabile e analizzabile in termini spaziali ed emotivi.

Nella sua prefazione a Fattacci. Il racconto di quattro delitti italiani, Cerami parla della «linea di demarcazione» della sua infanzia a Roma che separava il suo quartiere dall’“inferno” della guerra:

Mi separava dall’inferno quella linea grossolana che mi son sempre portato dietro nei tanti traslochi. Me la vedo lì, a un passo. Un piede può varcarla per distrazione, per troppa sicurezza. O per sinistra attrazione del male. […] La mia paura più ricorrente, ancora oggi, è di confessare un delitto mai commesso nella convinzione profonda di averlo commesso. Una lampada in faccia e confesso l’inconfessabile. E questo perché in un angoletto della nostra personalità c’è scritto che saremmo capaci di uccidere proprio perché siamo capaci di non farlo[31].

È la parabola di Henry Jekyll e Edward Hyde che per Stevenson aveva reso chiaro che «quella linea è il perno centrale di un equilibrio sempre instabile. Essa non è disegnata sulla strada ma dentro ogni persona. Di qua l’essere umano di là una belva immonda»[32]. Per Cerami rappresenta il «mistero» che «rimane lì, come un monolito, compatto e insondabile», del «perché una persona tranquilla dovrebbe essere tentata dalla tragedia»[33].

La violenza borghese in confronto a Salò

Oltre a sondare l’attrazione inconscia del male, Cerami, seguendo l’esempio di Dostoevskij, ambisce come scrittore anche a fornire «interpretazioni dell’età presente»[34]. Ciò permette di analizzare la violenza rappresentata in Un borghese piccolo piccolo con due approcci ambedue conducenti all’assurdo, uno sociale e uno metafisico, come proposto da Calvino nella sua presentazione del romanzo. Da un lato, partendo dal titolo, lo si potrebbe collocare all’interno della critica della borghesia di stampa pasoliniana di cui Cerami si fa interprete in La trascrizione dello sguardo con cui introduce le sceneggiature di Pasolini raccolte in Per il cinema. Mentre Pasolini, secondo Cerami, «vuoi per principio, vuoi per vocazione d’artista, si è sempre rifiutato di descrivere realisticamente l’universo borghese e piccolo-borghese», protagonista della sua opera rimane pur sempre «la rinnegata, ostile, violenta borghesia»[35]. Cerami invece porta la lezione di Pasolini oltre la barriera ideologica autoimposta dal regista quando medita, intervistato da Giordano Meacci, sulla lezione di umanità del maestro di cui fu allievo alla scuola media “Francesco Petrarca” a Ciampino:

Ogni essere vivente, per me, è santo. E questo sentimento sacro nei confronti di tutto il creato forse l’ho ereditato da Pier Paolo. In questo senso mi sento profondamente religioso, anche se poi provo un dolore potente che mi mette in conflitto con la realtà, così da amare e odiare contemporaneamente. Io ho sempre molto amato Giovanni, il protagonista di Un borghese piccolo piccolo, altrimenti non avrei mai potuto descriverlo. Eppure, se ci pensi bene, è un assassino e un torturatore. L’essere più detestabile che si possa immaginare[36].

A ben vedere, ciò che differenzia la sua opera da quella di Pasolini è il suo volersi fare «carico dell’universo piccolo-borghese», mentre per Pasolini si trattò di un mondo «che lui rifiutava ideologicamente; anzi: era il nemico»[37]. Nella sua introduzione agli scritti Per il cinema Cerami afferma che nell’opera di Pasolini «L’Italia divisa in carnefici e vittime complici fa la sua apparizione in Salò»[38]. La sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma del 1975, paragonata a Un borghese piccolo piccolo, potrebbe illustrare la differenza tra un approccio ideologico di rifiuto e uno “umano” – nel senso della sua “sopravvivenza” attribuitogli da Calvino. Il rapporto tra violenza e borghesia nelle due opere può così essere analizzato all’interno di un contesto storico che Cerami descrive come segue:

Mercato, consumismo e televisione annullano la centralità del potere, creano anomia, dissolvono le culture particolari in favore di una massificazione che trova identità solo nell’edonismo. Le classi sociali si mischiano per una nuova sistemazione su base meramente economica. Quindici anni cruciali, che vanno dai ‘giovani arrabbiati’, al Sessantotto, al terrorismo: sono il frastuono di un cambiamento radicale del nostro paese[39].

A sostegno di tale panorama in sintonia con la cosiddetta “mutazione antropologica” pasoliniana[40], si possono citare anche le parole usate da Guido Crainz per caratterizzare il passaggio dalla crisi politica ed economica del 1976 alla seconda contestazione del 1977: si assiste secondo lo storico «all’irrompere di un’esplosione inaspettata di violenza e di disgregazione sociale, all’emergere di laceranti fratture generazionali e culturali»[41]. È proprio la crisi generale che si manifesta nell’ultima metà degli anni Settanta a determinare, secondo Domenico Guzzo, l’incubo della discesa sociale della famiglia Vivaldi:

Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli […] apre così uno spaccato sugli elementi e sui fattori di conflittualità collaterali al dipanarsi della tradizionale matrice ‘terroristica’ degli anni di piombo; individuando nella crisi esiziale del paternalismo borghese, nell’esaurimento definitivo della teleologia del miracolo economico e nel passaggio dalla ‘produzione’ al ‘consumo’ quale primaria categoria del sociale, alcuni decisivi percorsi di accesso e preparazione a quel combinato disposto di violenza politica e creatività diffusa che sarà il 1977[42].

Se da un lato quindi la crisi della borghesia è sintomatica per la mutazione antropologica e politica che attraversa la società italiana degli anni Settanta, dall’altro lato il romanzo di Cerami nella sua versione filmica segna, come si è visto, la crisi della commedia all’italiana. In questo caso il trattamento della violenza fa parte della risposta cinematografica del genere comico, verso la fine degli anni Settanta, alla violenza politica durante gli anni del terrorismo[43]. Alan O’Leary, in un saggio sul cinema italiano e gli “anni di piombo”, menziona tre film di Monicelli, Vogliamo i colonelli (1973), Caro Michele (1976) e Un borghese piccolo piccolo (1977), che insieme corrispondono alla tendenza del cinema politico di sfruttare due caratteristiche della commedia all’italiana. La prima riguarda la sua essenza di “commedia di costume” e dunque della messa a nudo di comportamenti e attitudini femminili e maschili che possono essere ricondotti a determinati codici sociali. Con la seconda si stabilisce invece un tipo di identificazione che rende il pubblico complice della violenza rappresentata attraverso l’associazione di certe facce iconiche, specie maschili, alla costruzione di un italiano tipico e grottesco, facilmente riconoscibile[44]. Viene dunque da chiedersi se sia possibile paragonare questi due percorsi nella rappresentazione della violenza piccolo-borghese, seguendo la parabola pasoliniana dell’ideologia o quella della commedia umana: ambedue percorsi segnati dalla morte, e all’insegna della mostruosità dell’essere umano. Seguendo il suggerimento che sia l’artificio della morte a mettere alla prova il potere conoscitivo della comicità, si propone a questo punto un’analisi, individuando tre possibili chiavi di lettura delle morti nel libro e nel film: la prima è politico-sociale, in quanto coincide con la violenza che accompagna il rapido cambiamento di una società contadina in una società di consumo con una mentalità piccolo-borghese; la seconda si ispira a Salò per analizzare fino a che punto la violenza sia attribuibile a un sadismo di tipo patriarcale; la terza, infine, indaga i limiti posti dalla violenza all’emancipazione femminile e al genere della commedia all’italiana.

Le morti nel romanzo e nel film

Come anticipato, si distinguono tre casi di morte nel romanzo ‒ un quarto compare nel film ‒, che possono essere analizzati con i parametri del realismo borghese e della commedia grottesca sopra descritti. Il primo è il motore della trama, l’uccisione del figlio Mario, che cammina accanto al padre durante una rapina al Monte di Pietà nel giorno del concorso che doveva fare di lui un ragioniere di successo:

Di lì a poco sbucarono in una piazzetta quadrata dove successe quello che successe. Fu insieme un batter d’occhio e un’eternità. Non aveva finito di dire: ‘Mamma’ che già Mario era morto. Un attimo prima o un secolo prima l’urlo di una donna, di quelli che si possono fare solo in falsetto, a spaccagola. Il sangue usciva dai calzoni del ragazzo come da rubinetti lasciati aperti. A ucciderlo furono alcuni colpi d’arma da fuoco (più tardi si venne a sapere che si trattava di fucili mitragliatori in dotazione ai fanti dell’Esercito)[45].

Il padre di Mario ora si trova a vivere «nei panni di protagonista» un «fatto di cronaca»[46], mentre fino a quel momento occuparsi della cronaca nera era stato per lui una strategia per credersi «al di là dell’inferno»[47]. Ogni mattina, in attesa del caffè, la cronaca nera è il tema di conversazione preferito dei burocrati del Ministero di cui Giovanni fa parte:

Accadimenti straordinari avvenivano ogni giorno, da trent’anni. Ogni giorno una strage, una faida tragica di famiglia, crollo di dighe, esplosioni di delinquenza, i suicidi più atroci erano al centro dei loro discorsi. […] Alla fine, sempre, prima di chiudersi nei rispettivi uffici, gli impiegati si trovavano d’accordo che l’istituzione di una sana pena di morte avrebbe messo a tacere definitivamente tutta la violenza di questo mondo[48].

Durante il lavoro il ripudio di un mondo che nel suo totale viene considerato come “il nemico” trova sfogo nella violenza verbale del ceto impiegatizio: «E intanto i colleghi di stanza blateravano e vomitavano la loro rabbia per tutte le ingiustizie di questo schifoso mondo pieno di froci, di comunisti, di drogati e di ministri corrotti»[49]. Nella sicurezza domestica della propria casa Giovanni commenta inoltre le notizie assieme alla moglie, che dello scetticismo ha fatto la sua strategia difensiva: «la signora Amalia si interessava solo delle cose cattive che succedono a questo mondo. Così pareva trovare un pizzico di consolazione e di significato in quella vita spenta che, tutto sommato, aveva però almeno il merito […] di non essere stata sconvolta dalle più terribili tragedie»[50].

Ancorarsi alla negatività serve da legittimazione per opporvi un mondo autosufficiente, che trova le sue basi in una struttura patriarcale non più a sostegno del mondo contadino di partenza ma del mondo cittadino e burocrate di arrivo. Giovanni, prossimo alla pensione e pronto a lasciare spazio al figlio, riflette su come lui «da contadino abruzzese morto di fame era diventato, col tempo, un burocrate del Ministero»[51]. Era arrivato in città «per arruolarsi nell’esercito reale. Girò un po’ l’Italia, fece la guerra, si tolse la divisa ed entrò gruppo C al Ministero». Si sente fiero «perché nel suo piccolo aveva contribuito lui stesso a creare quella situazione di privilegio per il figlio e anche per tutti i compagni di scuola». Per Mario ora sarà tutta un’altra cosa: «Nato in città, non avrebbe dovuto avere alcuna malinconia: tutto era lì, a portata di mano: la casa, la famiglia, l’ufficio, la carriera…»[52].

Forse non è azzardato vedere in questo percorso di ascesa sociale, al di fuori degli schemi della dialettica antifascista e operaia, un’analogia con il dialogo tra un intervistatore e un gruppo di operai che apre la sceneggiatura di Teorema (1968), la prima opera di Pasolini che mette in scena la borghesia[53] e alla quale Cerami ha assistito nella scrittura[54]. Allora si potrebbe descriverlo come un processo di “borghesizzazione” determinato da quell’«ordine cannibale»[55] di cui parla Canova per spiegare la centralità della morte nelle commedie di Monicelli. Il personaggio «Intervistatore» pone l’ipotesi che, avendo il padrone regalato la sua fabbrica agli operai, e trattandosi non di «un atto isolato» ma della «tendenza generale […] di un mondo moderno», abbia offerto «un primo, preistorico, contributo alla trasformazione di tutta l’umanità in piccoli borghesi». Il personaggio «4º operaio» gli risponde che crede «che la borghesia non ci riesca a portare tutti gli uomini in borghesi». Al che l’intervistatore ribatte: «Questa borghesia sta mutando rivoluzionariamente la sua situazione. Se insomma la borghesia arriva ad identificare tutta l’umanità coi borghesi, non ha più davanti a sé una lotta di classe da vincere, non con l’esercito, non con la nazione, non con la chiesa confessionale…»[56].

Manca infatti completamente in quest’opera di Cerami la lotta di classe, spostatasi tra le mura dell’ufficio del Ministero e ridottasi alla competizione tra piccoli burocrati[57]. Ogni ricordo o testimonianza di miseria viene radicalmente rimosso. La baracca di legno fuori Roma, in una «campagna esangue»[58], unica superstite del passato contadino, è destinata a essere trasformata «in una casa», secondo la «scommessa» che si è prefissa Giovanni, in quanto capostipite dei Vivaldi, che ha «sudato tutta la vita» per farsela[59]. Il passato proletario vi torna però sotto forma spettrale nella gente che frequenta il cosiddetto «bazar», una «specie di chiosco casa-bottega dove vendevano di tutto» con anche «un banconcino da bar»[60]. Qui Giovanni a colazione osserva

il materiale umano […] così lontano, in fondo, dai moderni processi della civiltà. Era, per lui, la passerella degli spettri di cinquant’anni prima: gli esemplari di una razza sopravvissuta nei secoli e destinata all’estinzione. […] Gratta gratta, Giovanni, nella misurazione di quel microcosmo del bazar, sapeva di guadagnare sugli altri almeno qualche centimetro, o, per dirla in altri termini, almeno qualche decennio in più di civiltà[61].

La negazione delle proprie umili origini assume dimensioni darwiniane quando Giovanni s’immagina i colleghi d’ufficio, «tutti figli di gente così, di gente che man mano che scompariva dalla faccia della terra si faceva più mostruosa, più terribile a vedersi… l’ultimo di loro magari era destinato a morire di linciaggio ad opera del resto degli uomini»[62]. Il popolo del “vinti” è anch’esso presente sulla scena, con la «piccola banda di ragazzini», la «ciurma degli ometti» che quasi travolgono Giovanni mentre marciano in fila indiana, verso la fermata dell’autobus che li porterà a Roma, tutti cantando «a tutta gola un motivetto dello Zecchino d’oro»[63]. Tali reminiscenze neorealistiche di un passato traumatico e contraddittorio non elaborato sono indizi di una violenza borghese che può esplodere in ogni momento.

In una mentalità in cui non c’è spazio per una società civile o per uno Stato in cui riconoscere la garanzia istituzionale del contratto sociale, la violenza, sia psicologica che fisica, diventa una forza che permea tutte le relazioni, concepite puramente in funzione del desiderio del borghese capitalista di soddisfare i propri interessi. Come spiega Kriss Ravetto nella sua analisi di Salò, si tratta di una violenza di tipo sadico: il desiderio sadico del borghese capitalista, secondo Nietzsche, non solo mira al privilegio del potere, ma è sempre già iscritto in ogni espressione di potere, e dunque esprime in ogni caso il proprio interesse anche quando questo si maschera come legge universale o morale[64]. Un’istituzione che corrisponde perfettamente a tale visione “interessata” del potere mascherato da un’idea universale è la Massoneria, alla quale Giovanni viene iniziato dal suo capoufficio Spaziani, da lui chiamato a intercedere per favorire la carriera del figlio ragioniere. Uno degli episodi con un più elevato grado di comicità sia nel libro che nel film[65] riguarda il rito della cerimonia nella quale Giovanni, alla domanda su cosa deve a sé stesso e cosa deve alla nazione, risponde con improvvisato patriottismo: «Nulla devo a me stesso […] ma tutto devo alla Nazione, al mio Paese, alla Patria… la mia vita e il mio operato è tutto dovuto per il bene comune del mio popolo… Prima di me viene l’Italia…»[66].

Il contratto massonico che detta la legge per i «Profani», «la Fratellanza, l’Omertà, l’Amor patrio; i Doveri, i Diritti e le Spietate Condanne contro i Traditori»[67] è una chiara parodia del contratto sociale: dimostra che la legge è schizofrenica e, parlando in nome del padre, della Patria e dello Stato, ne nullifica la sovranità[68]. La presunta normalità di una mentalità borghese in cui è avvenuta la fatale indistinzione ‒ secondo i parametri di Pasolini ‒ tra la purezza dell’innocenza e il male, tra il neocapitalismo e il neofascismo[69], si palesa quando Giovanni si reca in Questura per il riconoscimento dell’assassino di suo figlio, comportandosi da “profano” in luogo pubblico: «In fondo tutta quella gente dell’ordine era impiegata come lui e anzi non poteva esistere senza il suo Ministero. […] Giovanni strinse la mano al maresciallo infilandogli il dito indice sotto il polsino della camicia, a mo’ di massone. Il poliziotto sussultò e quasi gli urlò di sedersi»[70]. Non esiste dunque per lui nessuna distinzione tra un piano clientelare basato su favori reciproci – «Poteva ben passare, prima o poi, qualche massone. E forse questi gli avrebbe anche fatto da guida e dato dei consigli utili, ma soprattutto lo avrebbe tirato fuori da qualche pasticcio»[71] – e l’ordine legale che funziona per la tutela dei cittadini.

Sempre interpretando il libro in parallelo a Salò, si può supporre che Giovanni si trasformi in un sadico Superego, il quale agisce secondo la legge patriarcale consumando e annichilendo ogni possibile piacere al di fuori del proprio desiderio di umiliare e distruggere, e che di conseguenza trasforma la famiglia nello spazio primario della sottomissione al suo volere sadico. Come i libertini in Salò non si costituiscono più contro un nemico esterno, così anche Giovanni “internalizza” gli atti di violenza, imprigionando le sue vittime nello spazio intimo della propria abitazione[72]. Privato del figlio, in Giovanni il desiderio di autoaffermazione si sostituisce al desiderio di riproduzione del potere istituzionalizzato. In un simile mutamento, è lecito riconoscere ciò che Pasolini intravedeva come l’istituzionalizzazione della psicosi normativa del fascismo, secondo la quale la legge castra in nome del padre e a favore del padre[73].

Nel caso di Giovanni-padre di Mario la sua violenza sadica non si rivolge tanto contro il pericolo di essere annichilito dal proprio figlio[74] quanto contro il giovane omicida che ha impedito al figlio di succedergli. In quest’ottica Giovanni non corrisponde quindi completamente a ciò che Pierre Klossowski in Sade mon prochain ha chiamato una «mostruosa singolarità», ovvero quella propulsione maschilista a eliminare ogni progenie e differenza che sta alla base dell’estrema espressione di narcisismo sadico[75]. Essendo egli stesso una vittima del desiderio di autoaffermazione di una nuova generazione, non riesce a imporre il proprio potere assoluto, e a negare in questo modo ogni forma di esistenzialismo basato su valori cristiani o umanistici[76].

Invece di accettare che il delinquente venga condannato dall’apparato giudiziario, Giovanni, riconosciutolo in questura, insegue il colpevole fino alla sua casa – per ironia della sorte proprio di fronte a dove abitano i Vivaldi –, lo colpisce e lo trasporta con la sua Ottoecinquanta fino alla baracca dove lo lega con fil di ferro a una sedia e lo lascia morire: «Un giorno […] il respiro della vittima si affievolì piano piano come un giocattolo che si scarica. […] ‘È morto’, disse subito fra sé. Sentì le ginocchia mancargli, si lasciò cadere seduto sulla brandina dove rimase un bel pezzo prima di reagire. E reagì a forza di singhiozzi: pianse, pianse, dalla testa ai piedi»[77].

Giovanni non ha mai accettato il verdetto del capoufficio che «la legge è uguale per tutti i giovani»[78], suo figlio essendo per lui eccezionale, anzi un «privilegiato» con il diritto di comportarsi in quanto tale. Durante le loro uscite di pesca, il padre aveva insegnato al figlio: «Farai strada, quant’è vero Iddio… Comincerai proprio da dove sono arrivato io, dopo trent’anni di servizio… e tu hai soltanto vent’anni… Un giovane in gamba per davvero pensa al suo avvenire, a nient’altro che a quello e lascia che gli altri s’impicchino»[79].

Nel libro come nel film, con il secondo omicidio si assiste alla morte di un assassino la cui vittima si è fatta carnefice. Il fatto che egli sia giovane sembra essere l’elemento principale a far innescare la vendetta omicida del padre. Nel corso della storia il figlio esemplare viene messo a confronto con altre tipologie di giovani con sembianze degenerate[80], giudicati da Giovanni con un moralismo reazionario non idonei al progresso[81]. La lezione di Pasolini può di nuovo essere riportata all’inferno di Salò, questa volta messo in relazione dallo psicanalista Massimo Recalcati con la «crisi profonda del processo della filiazione simbolica»[82]. Per Recalcati, Salò ha anticipato profeticamente il nostro tempo, dimostrando che «gli ideali si rivelano inconsistenti, salvo quello del godimento (di morte) come fine ultimo della vita»[83]. Il pater familias che si identifica con la legge è soggetto a una mutazione che Recalcati, sulla scia di Lacan, descrive come l’«evaporazione del padre»[84]. Giovanni non disadempie tanto al proprio compito paterno di trasmissione della legge, ma a quello di trasmettere una legge che sia «umanizzata», che offra il suo senso «non come castigo ma come possibilità della libertà, come fondamento del desiderio»[85]. Lasciando in eredità al figlio il diritto «singolare» di godere dei privilegi che gli ha creato, facendo tanti sacrifici – Recalcati parla di «godimento della legge»[86] –, non gli lascia la libertà di creare una nuova ragione di essere. Idealmente, «nell’ereditare è sempre in gioco anche la trasmissione di un dono che può umanizzare la vita»[87]. Se la tesi del libro di Recalcati è che «l’erede è sempre un orfano, è sempre senza eredità, diseredato, sradicato, privo di patrimonio, lasciato cadere, smarrito. L’eredità non si compie mai come un mero travaso di beni o di geni da una generazione all’altra»[88], si potrebbe ipotizzare che in Un borghese piccolo piccolo chi rimane orfano sia invece il padre, che senza la presenza dell’Altro «muore, appassisce, perde il sentimento stesso della vita, si spegne»[89]. Da cui forse la designazione pasoliniana di «neocrepuscolare»[90] per il romanzo di Cerami.

La privazione del figlio prepara un’altra eliminazione violenta dalla scena pubblica: quella della donna, che proprio negli anni in cui si svolge la narrazione acquista una serie di diritti dal citato referendum sul divorzio del 1974 alla legge sull’aborto del 1978. La morte di Mario stroncherà la madre Amalia, che rimarrà vittima di una trombosi: «Da allora restò seduta sulla sedia di vimini senza più ragione né sentimento, in penombra nel corridoio perché la luce le faceva male»[91]. La sua morte in seguito a quella del figlio – «Amalia era morta. Anche lei. Seduta su una sedia. In silenzio. Rimaneva una muta carcassa, appoggiata sul dondolo di vimini da chissà quando»[92] – ha diversi connotati. Da un lato potrebbe essere analizzata come la negazione, all’interno della logica borghese, dell’emancipazione femminile a cui questa madre, la cui unica funzione è quella di nutrire i maschi in famiglia[93] e le sue uniche salvezze il suo scetticismo e la sua fede, non sembra avere nessun accesso. Per tale motivo il suo personaggio rimane anche escluso dal genere della commedia[94], relegato invece allo spazio dell’ufficio sia nel romanzo sia nell’adattamento cinematografico.

In Cinema, Gender, and Everyday Space, Natalie Fullwood analizza in particolare la rappresentazione dell’ufficio nelle commedie all’italiana dal 1958 al 1970, quindi fino all’irrompere sulla scena politica dell’attivismo femminista[95]. Mentre in diverse commedie del periodo le tensioni tra i sessi sul lavoro fanno parte delle trame in cui figura l’impiegato prevalentemente maschio, di classe media e di mezza età[96], in Un borghese piccolo piccolo negli uffici del Ministero le donne sono completamente assenti. La feroce comicità nell’ambiente lavorativo di Giovanni è generata prima di tutto da ciò che Fullwood indica come i tentativi disperatamente comici di «arrivismo» degli impiegati che aspirano a raggiungere l’ideale dell’«uomo di successo» sia in senso economico che in termini di «stile»[97].

La rimozione della donna dallo spazio sociale ha anche connotazioni sadiche collegate al libertinaggio impudico rappresentato in Salò. La reclusione in casa di Amalia, specie dopo la sua infermità, la riduce in condizioni paragonabili a quelle dell’assassino sequestrato dal marito. La cura di Giovanni, che la trascura durante le ore che passa con la sua preda nella baracca, è ambigua, dato che non la fa spostare mai dalla sedia, trattandola come se fosse un corpo oggetto. Il narcisismo sadico del “patriarca” si scaglia anche contro la vittima simbolica della madre, che incarna la riproduzione e forma così un ostacolo al processo di disumanizzazione[98]. L’omelia del prete pronunciata al funerale di Amalia, «Come sono piccoli gli uomini…», in cui il sacerdote sfoga tutta la propria rabbia contro il genere umano tanto da voler invocare «il Diluvio Universale», viene assorbita da Giovanni «come una spugna arida e assetata»: «dai pori spalancati della pelle gli entravano dentro anche i punti e le virgole di quel discorso vibrante e veritiero»[99].

Trionfa dunque quella mentalità piccolo-borghese neofascista che nella visione pasoliniana invoca a sottrarsi, con violenza ripulsiva, alla contaminazione dell’impuro? Una lettura contraria si potrebbe trovare in Recalcati che, citando la massima evangelica «ciò che esce dall’uomo contamina l’uomo» (Marco 7, 20-23), sostiene invece che «non serve dunque sterminare il nemico come se fosse un batterio, […]; il male non viene mai solo da fuori; il male più inestirpabile abita il nostro essere»[100]. È quindi ancora possibile ribaltare la discesa infernale del “borghese piccolo piccolo”?

I due finali, ovvero la trasformazione in una «mostruosa singolarità»

In conclusione, si possono confrontare i due finali, che differiscono per il quarto morto nel film, un giovane ucciso da Giovanni davanti alla casa, colpito con lo stesso strumento usato per stordire l’altro. Si tratta dunque di una ripetizione e di un incrudelimento dell’atto omicida, in quanto gratuito e quindi liberato da ogni moralismo che impedisca il raggiungimento immediato del godimento sadico della legge. Giovanni completa così la propria trasformazione in quella «mostruosa singolarità»[101] che lo assimila alla trasformazione “antropologica” in atto, secondo Pasolini, nella società italiana degli anni Settanta. All’interno dell’opera di Monicelli, invece, questa quarta morte sigilla quel passo verso l’assurdo di cui parla il regista, e anche Calvino, nella sua presentazione del libro di Cerami. Trattandosi poi di nuovo di un giovane, viene confermata l’ipotesi di una crisi generazionale, dovuta sia a una gioventù “orfana” di padri – tema centrale anche nel film precedente di Monicelli, Caro Michele, tratto dal romanzo omonimo di Natalia Ginzburg[102] – sia a una classe di vecchi, essi stessi agenti dell’“ordine cannibale”[103] poiché non lasciano la loro eredità ai giovani. Monicelli in un’intervista ascrive la fine della commedia all’italiana anche al fatto che alla fine degli anni Settanta, con la morte di molti sceneggiatori e attori, veniva a mancare «la linfa per cui i film si fanno»[104].

Invece, il finale del libro narra il susseguirsi di gesti automatici che preparano a un lento spegnersi del pensionato Giovanni: «riempì la tazzina e con le labbra a punta ci soffiò sopra a circolo. Soffiava e pensava che per una quindicina d’anni tutte le mattine sarebbe stato così»[105]. In questa versione “neocrepuscolare”, la mostruosità è quella dell’indistinzione delle categorie, è quell’insostenibilità delle contraddizioni che, invece di tradursi in “scandalo” (come nell’opera di Pasolini), semplicemente si assopisce nella grigia normalità.

  1. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, Milano, Garzanti, 1976.
  2. Un borghese piccolo piccolo, regia di M. Monicelli, Luigi e Aurelio De Laurentiis, 1977.
  3. P. P. Pasolini, I giovani che scrivono (23 dicembre 1973), in Id., Descrizioni di descrizioni, Milano, Garzanti, 1996, p. 318.
  4. Italo Calvino cit. in G. Meacci, «La parola si scolpisce sul silenzio»: Ricordando Vincenzo Cerami, tratto da Improvviso il Novecento. Pasolini professore, Roma, minimum fax, 2015, riprodotto su «minima&moralia», 17 luglio 2013: http://www.minimaetmoralia.it/wp/vincenzo-cerami/ (ultima consultazione: 10/05/2024).
  5. P. P. Pasolini, I giovani che scrivono (23 dicembre 1973), in op. cit., p. 320.
  6. Ibidem.
  7. Ivi, p. 318.
  8. Ivi, p. 320.
  9. Ivi, pp. 319-20.
  10. Ivi, pp. 320-21.
  11. Ivi, p. 322.
  12. I. Calvino, Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 286.
  13. Ivi, p. 287.
  14. Ivi, p. 289.
  15. Ivi, p. 290.
  16. Ivi, p. 293.
  17. Ivi, pp. 292-93.
  18. M. Monicelli, La commedia umana. Conversazioni con Sebastiano Mondadori, Milano, il Saggiatore, 2016, p. 62.
  19. A. Viganò, Il regista che non volle farsi autore, in Lo sguardo eclettico. Il cinema di Mario Monicelli, a cura di L. De Franceschi, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 80-81.
  20. G. Canova, Figure di un ordine cannibale. Monicelli e la morte, in Lo sguardo eclettico, op. cit., p. 185.
  21. Ivi, p. 182.
  22. Ivi, p. 185.
  23. Si tratta della quarta e ultima fase del coinvolgimento di Sordi nella commedia all’italiana, che inizia nel 1971 con il suo primo ruolo apertamente tragico in Detenuto in attesa di giudizio (diretto da Nanni Loy), e finisce con l’impersonificazione altrettanto tragica di Giovanni Vivaldi in Un borghese piccolo piccolo. Sordi ha sempre ribaltato le aspettative del pubblico con personaggi in continua evoluzione, da quello negativo a quello parzialmente positivo a quello apertamente tragico. Cfr. G. Boitani, «Neorealismo with a satirical outlook»: Alberto Sordi (1920-2003) and the stardom of the commedia all’italiana genre, in «Status Quaestionis», 1, 2011, pp. 65-66.
  24. D. Young, Poverty, Misery, War and Other Comic Material: An Interview with Mario Monicelli, in «Cineaste», autunno 2004, p. 39. Vincenzo Buccheri osserva che nelle «recensioni la diagnosi più frequente è che Monicelli ha girato ‘due film in uno’» (La ‘bottega’ di Monicelli, in Storia del cinema italiano, vol. XIII – 1977/1985, a cura di V. Zagarrio, Venezia, Marsilio, 2005, p. 133).
  25. V. Buccheri, La ‘bottega’ di Monicelli, op. cit., p. 130.
  26. R. Fournier Lanzoni, Chronicles of a Hastened Modernisation. The Cynical Eye of the Commedia all’Italiana, in The Italian Cinema book, a cura di P. Bondanella, London, Palgrave Macmillan, 2014, pp. 188-89.
  27. Ivi, p. 191. Si veda anche Monicelli sullo «scatto estremo» del vecchio Vivaldi: «La sfiducia nella legge è solo uno dei moventi, gli altri sono la solitudine e una sorta di inerzia priva di emozioni. La sua metamorfosi grottesca è come se l’avesse escluso dai rapporti umani»: La commedia umana, op. cit., p. 271.
  28. R. Lanzoni, Atto finale della commedia all’italiana: intervista a Mario Monicelli, in «Italian Culture», 2, 2011, p. 135.
  29. M. Monicelli, La commedia umana, op. cit., p. 272.
  30. G. Meacci, «La parola si scolpisce sul silenzio»: ricordando Vincenzo Cerami, op. cit.
  31. V. Cerami, Prefazione, in Id., Fattacci. Il racconto di quattro delitti italiani, Torino, Einaudi, 1997, pp. v-vi.
  32. Ivi, p. vi.
  33. Ivi, p. X.
  34. Ivi, p. viii.
  35. V. Cerami, La trascrizione dello sguardo, in P. P. Pasolini, Per il cinema. Tomo primo, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Arnoldo Mondadori, 2001, p. xxvii e p. xxxi.
  36. G. Meacci, «La parola si scolpisce sul silenzio»: ricordando Vincenzo Cerami, op. cit.
  37. Ibidem.
  38. V. Cerami, La trascrizione dello sguardo, op. cit., p. xlvi.
  39. Ivi, p. xlv.
  40. Scrive Pasolini il 10 giugno 1974 sul «Corriere della Sera» in reazione al 59% degli italiani che al referendum aveva votato “no” all’abrogazione della legge sul divorzio: «Il ‘no’ è stata una vittoria, indubbiamente. Ma la indicazione che esso dà è quella di una ‘mutazione’ della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressivismo socialista». Cit. in G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003, p. 505.
  41. Ivi, p. 553.
  42. D. Guzzo, Un borghese piccolo piccolo: retaggi patriarcali, crisi economica e violenza diffusa all’alba del 1977, in Italia 1977: crocevia di un cambiamento, a cura di E. Taviani, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, p. 71.
  43. Le cifre riportate da Crainz rivelano la relativa debolezza della violenza prima dell’esplosione nel 1977: «considerando il periodo fra il 1968 e il 1982, gli atti terroristici di sinistra si concentrano per il 70% fra il 1977 e 1979, e per il 90% fra 1977 e 1982» (G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, op. cit., p. 565). Nel 1976 si assiste già al «diffondersi dei conflitti sociali” culminanti nell’uccisione del procuratore generale Francesco Coco e degli uomini della sua scorta a Genova il 9 giugno da parte delle Brigate Rosse» (ivi, pp. 537-38).
  44. A. O’Leary, Italian cinema and the “anni di piombo”, in «Journal of European Studies», 40, 3, 2010, p. 247.
  45. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, Milano, Garzanti, 1976, p. 62.
  46. Ivi, p. 63.
  47. V. Cerami, Prefazione, in Id., Fattacci, op. cit.
  48. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., pp. 16-17.
  49. Ivi, p. 19.
  50. Ivi, p. 27.
  51. Ivi, p. 15.
  52. Ivi, p. 14.
  53. V. Cerami, La trascrizione dello sguardo, op. cit., p. xxix.
  54. G. Meacci, «La parola si scolpisce sul silenzio»: ricordando Vincenzo Cerami, op. cit.
  55. G. Canova, Figure di un ordine cannibale, op. cit.
  56. P. P. Pasolini, Teorema, in Id., Per il cinema, Tomo primo, op. cit., p. 1081.
  57. Monicelli definisce «la parte dei ministeri» come quella «più spietata»: «Le trame, gli odi, le false amicizie portano alla luce una realtà in cui tutti sono mostri». M. Monicelli, La commedia umana, op. cit., p. 272.
  58. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 7.
  59. Ivi, p. 9.
  60. Ivi, p. 93.
  61. Ivi, p. 94.
  62. Ibidem.
  63. Ivi, pp. 93-94.
  64. K. Ravetto, The Unmaking of Fascist Aesthetics, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1998, p. 114.
  65. A. Viganò invece critica la scena della cerimonia d’iniziazione alla Massoneria nel film perché «la comicità travalica inesorabilmente […] nel grottesco», in Il regista che non volle farsi autore, op. cit., p. 80.
  66. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 32.
  67. Ivi, p. 32.
  68. K. Ravetto, The Unmaking of Fascist Aesthetics, op. cit. pp. 115-16.
  69. Ivi, p. 119.
  70. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., pp. 68-69.
  71. Ivi, p. 68.
  72. K. Ravetto, The Unmaking of Fascist Aesthetics, op. cit., p. 132.
  73. Ibidem.
  74. Ibidem.
  75. Ivi, p. 130.
  76. Ivi, p. 133.
  77. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 102.
  78. Ivi, p. 20.
  79. Ivi, p. 5.
  80. Dice Pasolini a proposito di Salò: «La nostra memoria è sempre cattiva. Viviamo dunque ciò che succede oggi, la repressione del potere tollerante, che, di tutte le repressioni, è la più atroce. […] I giovani sono o brutti o disperati, cattivi o sconfitti…»: Il sesso come metafora del potere, in P. P. Pasolini, Per il cinema, tomo secondo, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Arnoldo Mondadori, 2001, p. 2064.
  81. Si veda per esempio il «ragazzino multicolore con la radiolina accesa nelle mani» (V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 59) che Giovanni osserva sul tram mentre accompagna il figlio al concorso: «Giovanni pensava e intanto fissava quel ragazzino tutto pitturato e sculettante: quel ragazzino che non sarebbe mai diventato ragioniere, un po’ rognoso e molto incivile» (ivi, p. 60).
  82. M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 38.
  83. Ivi, p. 26.
  84. «Con questa espressione non ho solo commentato la crisi dei padri reali nell’esercitare la loro autorità, ma, più radicalmente, il venire meno della funzione orientativa dell’Ideale nella vita individuale e collettiva» (ivi, p. 20).
  85. Ivi, p. 37.
  86. Ibidem.
  87. Ivi, p. 17.
  88. Ivi, p. 16.
  89. Ivi, p. 33.
  90. P. P. Pasolini, I giovani che scrivono (23 dicembre 1973), art. cit.
  91. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 65.
  92. Ivi, p. 110.
  93. «La signora Amalia, costretta a spostarsi da una stanza all’altra per accudire i suoi due uomini che sembravano aver scoperto all’improvviso di possedere una casa […] brontolando con una voce ventriloqua, faceva su e giù per la casa una volta con un panino, un’altra con il fiasco del vino, poi con le tazzine del caffè…» (ivi, pp. 26-27).
  94. Monicelli per il film sceglie di farla interpretare da Shelley Winters, un’attrice straordinaria in ruoli comici e tragici, e quindi in grado di combinare le due personalità: cfr. D. Young, Poverty, Misery, War, op. cit., p. 39.
  95. Cfr. N. Fullwood, Cinema, Gender and Everyday Space. Comedy Italian Style, New York, Palgrave Macmillan, 2015, p. 11.
  96. Ivi, p. 96 e p. 98. Come ricorda Paul Ginsborg, nel periodo 1950-1970, i colletti bianchi formano il settore più in crescita della forza lavoro italiana (cit. in N. Fullwood, Cinema, Gender and Everyday Space. Comedy Italian Style, op. cit., p. 98).
  97. Ivi, p. 107 e p. 101. Da qui anche la teoria di Giovanni basata sulla sua osservazione che “dentro” l’ufficio «contavano soprattutto due categorie di persone: ‘quelli che avevano una cultura’ e ‘quelli che avevano le conoscenze’, fossero capiufficio o uscieri o semplici impiegati» (V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 17).
  98. Cfr. la discussione in Salò, nel Girone della merda, tra la sig.ra Maggi e Blangis sul matricidio: «Sig.ra Maggi: Non seppi resistere alla tentazione e la uccisi. […] Blangis: È follia supporre che si debba qualcosa alla propria madre. Dovremmo esserle grati perché ha goduto mentre qualcuno la possedeva una volta? Questo dovrebbe bastare, a dire il vero» (in P. P. Pasolini, Per il cinema, op. cit., p. 2047).
  99. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., pp. 117-18.
  100. M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, op. cit., pp. 45-46.
  101. P. Klossowski, citato in K. Ravetto, The Unmaking of Fascist Aesthetics, op. cit., p. 130.
  102. Monicelli in un’intervista dice di aver voluto fotografare, seguendo da vicino il romanzo della Ginzburg, quel momento in Italia del passaggio da una vecchia generazione borghese attaccata a valori morali e sociali arcaici alla rivolta di una nuova generazione che di quei valori si disinteressa completamente: cfr. D. Young, Poverty, Misery, War, op. cit., p. 40.
  103. Cfr. G. Canova, Figure di un ordine cannibale, op. cit.
  104. R. Lanzoni, Atto finale della commedia all’italiana, op. cit., p. 134.
  105. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, op. cit., p. 127.

(fasc. 52, 31 luglio 2024)

Militancy and Revolution in the Art of Gruppo 70’s “Visual Poetry”

Author di Stefano Magni

It is customary to identify the Italian neo-avant-garde with the Gruppo 63. Scholars are familiar with its genesis, history, aesthetic choices, ideological debates, and the ideological fracture it experienced at the end of the 1960s, along with the decisions it made in the face of the student and worker movements. However, this prominent current overshadowed another concomitant neo-avant-garde movement that emerged in Italy along with Gruppo 63: visual poetry, represented at the beginning by GRUPPO 70. The Italian contingent played a significant role among the international verbal-visual avant-gardes and merits closer examination.

Founded in Florence in 1963[1], Gruppo 70 designated its work as “poesia visiva”, a variation on visual poetry distinguished by its prominent use of collage and its political militancy. Unfortunately, the English language does not distinguish between these two types of poetry, and the term “visual poetry” encompasses both.

Despite the potential for confusion arising from the group’s name, Gruppo 70’s artistic exploration began in the early 1960s, coinciding with that of Gruppo 63 and often sharing similar discussions. Visual poetry establishes a poetics that engages in a dynamic dialogue with the avant-garde movements of the early twentieth century, including Dadaism, Surrealism, and most importantly, Futurism. It also interacts with conceptual art, pop art, action painting, advertising graphics, and propaganda posters. Visual poetry integrates images, drawings, photographs, collages, and words, exploiting the graphic potential of letters. For this reason, Lamberto Pignotti frequently refers to visual poetry as “Technological Poetry” or “Large Collage” differentiating it from traditional collage[2].

Despite the fact that they call themselves poets, these authors are artists as well. Disciplinary critics have difficulty with defining them, as they use visual art (painting, photography, video) as well as words[3]. This synthesis of arts gives rise to a conception of poetry that can be summarised with the concept of total poetry expressed by Adriano Spatola[4].

Amidst a plethora of poetic experimentations encompassing modalities such as sound, found, random, concrete, automatic, artificial, elementary, and electronic poetry, the 1970s heralded the global emergence of visual poetry, with the Italian movement emerging as a seminal touchstone for artists spanning geographical boundaries. Visual poetry, as an artistic paradigm, advocates for an active engagement of the audience in the process of artistic creation, thereby fostering a mode of communication that prioritizes dialectical interaction. This conceptual framework of visual poetry serves as a countervailing force against the entrenched power dynamics perpetuated by systems of hierarchical information control, as well as the attendant passivity engendered within the public sphere.

Central to the ethos of visual poetry is its oppositional stance against the hegemony of cultural norms promulgated by the establishment. Notably, proponents of this form of poetic expression conceive of poetry as a form of insurgent resistance against the prevailing cultural paradigms, exemplified by the analytical scrutiny of Roland Barthes in his seminal work of 1967, wherein he dissected the logo-technique pervasive within the realm of fashion. Concurrently, in the same epoch, Pignotti’s Una forma di lotta: contro l’anonimato dei prodotti in serie della civiltà tecnologica[5] propounded congruent themes, thereby corroborating the convergent ideological underpinnings shared by proponents of visual poetry in their confrontation with established cultural mores.

Lamberto Pignotti espouses the notion of art as an inherently democratic conduit, arising from the quotidian fabric of existence. He underscores the endeavors of visual poets in their concerted efforts to engender a broader spectrum of flexibility and emancipation within the realm of communication, thereby contravening the hegemonic semantic and political frameworks of power. These practitioners keenly observe the emergent lexicons of expression, engaging in a dialectical interplay characterized by acts of parody, deconstruction, and challenge. Operating within a democratic ethos, Pignotti extends his analytical gaze towards the realm of advertising messages[6], discerning therein both the contours of cultural dissemination and the mechanisms of ideological imposition. In this manner, the visual poem assumes the guise of an artistic artifact that eludes facile assimilation by the machinations of the culture industry.

Exploring the Socio-Cultural Landscape of the 1960s: Antecedents to Social Revolutions

The 1960s stand as a pivotal epoch in the annals of visual poetry, marked by a confluence of artistic experimentation and socio-political upheaval. Within this milieu, Lamberto Pignotti, often hailed as the progenitor of visual poetry, unveiled his seminal series, Il dissenso[7], wherein the exploration of political themes assumed paramount significance. Notably, within the eighth installment of this series, Adriano Spatola’s incendiary proposition of political poster-manifestos galvanized the artistic landscape, employing a repertoire of provocation, irony, and surprise to subvert entrenched artistic conventions.

In Manifesto per il Congo, Spatola orchestrates a jarring montage, melding figures from the colonial era in a tumultuous stylistic homage to Hieronymus Bosch’s oeuvre. Through a cacophony of images, the author vehemently denounces Western interventionism in the post-colonial milieu, employing a lexicon infused with the acridity of racism. Emblazoned in capital letters, the manifesto exhorts: «È LA TESTA DI NEGRO CHE BISOGNA COLPIRE E IL NEGRO È L’UOMO CHE DEVE MORIRE» (“It is the black head that must be struck and the black man who must die”), encapsulating the visceral intensity of Spatola’s indictment. Moreover, through the evocative imagery of a bloated fish disgorging cadavers and entreaties for liberation, Spatola articulates a scathing critique of colonial exploitation.

Similarly, in Manifesto per il Vietnam[8], Spatola employs collage as a medium of dissent, juxtaposing the imagery of US Marines with grotesque parasitic entities feasting on carnage and excreting radioactive waste. Here, the monstrous amalgamation of insect and helicopter symbolizes the mechanized brutality of warfare, reminiscent of the disconcerting aesthetic of Georges Grosz and the disarticulation of Picasso’s Guernica.

The specter of war loomed large in the artistic consciousness of the 1960s, with Miccini’s La legge del napalm[9] offering a trenchant critique of the Vietnam War. By superimposing the title over an advertisement for a luxury Porsche, Miccini exposes the commodification of violence and the complicity of consumer culture in perpetuating imperialist ventures. The irony is multiplied by the sentence of the advertisement “Un lusso per pochi”.

Likewise, Ketty La Rocca’s Bianco Napalm confronts the paradoxical juxtaposition of innocence and carnage, evoking the chemical annihilation wrought by warfare. In the collage, the author uses also a priest’s picture who makes easier the link with a “bianco Natal”, a comfortable “white Christmas”.

Beyond the realm of warfare, visual poets engaged with broader socio-political themes. Pignotti’s La rivoluzione toglie il dolore navigates the interstices of political discourse and aesthetic contemplation, juxtaposing political lexicon with seductive imagery. This polysemic collage invites the viewer to discern the subversive undercurrents beneath the veneer of beauty, embodying a paradigm of active engagement with the socio-political milieu. The words contrast beauty and also cover the pupil, creating a disturbing effect inspired by Picasso’s style. The title of the work refers to the cultural revolution that would take place in a few years.

The conveyed message exhibits polysemy, thereby necessitating the active engagement of the spectator in deciphering the interplay between the visual satire embedded within the image and the underlying political subtext. Such interpretive agency underscores the viewer’s role as an intellectually discerning participant in the socio-political discourse, thus positioning them not merely as passive recipients of standardized and expedited information, but rather as thoughtful agents of societal transformation. This artistic endeavor exemplifies the prescient consciousness of Gruppo 70, attuned as they were to a profound ideological scrutiny of the prevailing socio-cultural milieu, a trend discernible even amidst the tumultuous landscape of the 1960s.

Moreover, the linguistic-cultural-media evolution emerged as a locus of artistic inquiry, as exemplified by Pignotti’s Divampa la guerriglia nel linguaggio[10]. Here, the juxtaposition of ancient textual fragments with modern typographical repetitions underscores the erosion of linguistic richness in the age of mass media, serving as a poignant commentary on the impoverishment of contemporary discourse.

Even amidst the cultural ferment of 1968, visual poets remained attuned to the zeitgeist, as evidenced by Michele Perfetti’s sardonic composition Contestazione calda[11] (1969). Through the juxtaposition of feminine allure with the iconography of political dissent, Perfetti skewers the commodification of rebellion and the co-optation of radicalism by mainstream media.

Furthermore, the specter of atomic anxiety permeated the artistic consciousness, as evidenced by Miccini’s L’Europa domani and Pignotti’s Un boato enorme. These works encapsulate the existential dread engendered by the omnipresent threat of nuclear annihilation, underscoring the enduring relevance of visual poetry as a medium of socio-political critique.

In sum, the visual poetry of the 1960s represents a confluence of aesthetic innovation and socio-political dissent, bearing witness to the tumultuous currents of an era defined by war, revolution, and cultural upheaval. As artists grappled with the existential angst of the atomic age and the commodification of dissent, visual poetry emerged as a potent medium of resistance, inviting viewers to interrogate the prevailing orthodoxy and envision alternative futures.

The transition at the end of the 1960s lead to a more constant political commitment in the following years, reaching its peak in the early 1970s.

Exploring the Socio-Political Dynamics of the 1970s: A Decade of Revolutionary Movements

The trajectory of visual poetry, originating in the early 1960s, burgeoned into an international phenomenon throughout the subsequent decade, assuming an increasingly socio-political orientation by the 1970s. Concurrent with this evolution, authors coalesced around periodicals bearing titles evincing clear militant intent, such as «Lotta Poetica», «Il Dissenso», and «E/MANA/AZIONE».

In tandem with the proliferation of periodicals, the verbal-visual experience of the 1970s attained a heightened ideological resonance, owing in part to the deployment of novel techniques augmenting the expressive potential of visual poetry, notably through the integration of photography.

a) Wars and Violence in the World

Within this milieu, certain authors exhibited a heightened sensitivity towards the analysis of injustice, violence, and exploitation. Eugenio Miccini’s Viaggio tra le nuvole (1971) exemplifies this ethos, employing a collage of images and text to evoke the horrors of the Vietnam War while characterizing visual poetry as a potent instrument of guerrilla warfare.

Similarly, Sarenco and Paul de Vree utilized photography as a conduit for conveying ideological messages, with textual elements assuming didactic import in dialogue with the visual register. Sarenco’s La famiglia della vittima è stata avvertita[12] (1971) or Intervento (1973) poignantly captures the cold-blooded brutality of guerrilla warfare, while De Vree’s Belf(e)ast[13] (1971), Revolution (1972), and Strike (1974) scrutinize global conflicts through an ironic lens.

Lamberto Pignotti aptly elucidates the transformative potential of visual poetry, positing it as an agent of societal metamorphosis operating at the nexus of linguistic innovation and class struggle[14]. De Vree’s works, characterized by a pronounced ironic tenor, such as Pacem in terris (1973), subvert ecclesiastical iconography to spotlight the inherent dissonance between religious rhetoric and militaristic fervor. The panel refers to the papal encyclical Pacem in terris issued by Pope John XXIII on 11 April 1963 – in which the author represents a military tank placed on the title’s letters. The inscription is repeated dozens of times, blurred, as typewritten, and slightly overlapping the characters. The juxtaposition of the symbol of war, the tank, with the ecclesiastical quotation, creates an ironic dissonance.

Sarenco’s articulation of the artistic and political imperatives underpinning his poetry underscores a pervasive preoccupation with the confluence of politics and aesthetics within the visual poetry milieu. The denunciation of military violence in the world assumes a central thematic locus within the corpus of visual poetry, juxtaposing word and image to incite critical reflection and interrogate prevailing socio-political orthodoxies, as well as a new role for art in the society[15].

Moreover, visual poets extend their critique beyond the realm of armed conflict to encompass the pernicious influence of mass media and systemic discrimination against women. In this endeavor, they draw upon the concept of the “distancing effect”, as expounded by Bertolt Brecht, to imbue their work with a provocative and disorienting resonance aimed at unsettling conventional modes of perception. Pignotti’s invocation of Kieslowski’s cinematic oeuvre underscores the eclectic array of influences informing the visual poetry movement, which, in its multifaceted engagement with socio-political realities, remains a potent vehicle for dissent and societal critique[16].

b) Intersections of Cultural Transformation and Political Unrest: The Dynamics of the Cultural Revolution and Terrorism

Within the kaleidoscopic milieu of the cultural revolution that swept through the 1960s and 1970s, Lamberto Pignotti embarked on a provocative exploration encapsulated in his series of works titled Living Theatre (1970). Named after the avant-garde theatre company of the era, the title of Pignotti’s series also alludes to the notion of life being theatrically staged, a concept popularized by Guy Debord in his critique of the spectacle-dominated society[17].

In these panels, Pignotti interweaves press photographs capturing political trials, the Vietnam War, and scenes of urban guerrilla warfare with the motif of a theater curtain emblazoned with the words “Living Theatre”. This juxtaposition serves to underscore the theatricalization of real-life violence, blurring the boundaries between reality and spectacle.

Similarly, Sarenco and Paul de Vree intensified their ideological endeavors during this period, crafting artworks that starkly underscored the pervasive violence endemic within society[18]. Emblematic of this trend is Sarenco’s Poetical License series, wherein, for example, a segment of public unrest depicting youths wielding sticks against a collapsing policeman is juxtaposed with a minimalistic textual intervention reading “Poetical License” (1972). This juxtaposition serves to inject a note of ironic commentary into the raw intensity of the visual imagery. The same commentary appears in Transfert (1974). In the photograph, a young protester, female, wearing a miniskirt, sandals and a short-sleeved blouse is launching a big stone.

Sarenco further aligned himself with the class struggle and student-worker movements through works such as Avanti Popolo (1973) and the series Identificazioni Politiche, which starkly depict the violence of the “Years of Lead” through mugshot-like portraits.

Eugenio Miccini, another stalwart of the visual poetry movement, directed his ideological fervor towards critiquing symbols of the burgeoning oil economy and evoking scenes of urban warfare. In Fiamme sulla Città (1971), Miccini marks the symbols of oil signs on the map of Florence with fiery rings, allegorically alluding to revolutionary aspirations aimed at dismantling the energy-productive apparatus of the city. As in Bianciardi’s novel, La vita agra (1962), he alludes to a revolutionary plan, consisting of the control of the energy-productive system of the city, dealing with the finality of blowing up the system.

Miccini’s Piano Insurrezionale della Città di Firenze (1971) reimagines the official map of Florence’s master plan, overlaying it with a large red stain reminiscent of blood, inscribed with the phrase “we will have been poets”. This evocative imagery conveys a sense of impending revolutionary upheaval, wherein the memory of poetic resistance transcends the violence of the revolution.

Among Miccini’s oeuvre, Uragano (1973) stands out for its complexity, wherein an intricate narrative unfolds against a backdrop of popular revolt. Through a collage of phrases juxtaposed atop a marching procession, Miccini elucidates his ideological stance, evoking the forceful impact of the hurricane of ideas upon the West. This composition, characterized by its violent stylistic dissonance, serves as a potent allegory for the tumultuous upheaval of the era.

In articulating his stylistic choices, Miccini underscores the inherent violence of transgressing linguistic and artistic traditions, echoing the sentiments of Majakovsky regarding the interplay between style and content in artistic expression. Indeed, the verbal and visual violence woven throughout the works of Miccini and his contemporaries serve to narrate a visceral tale of societal unrest and ideological fervor, wherein artistic expression becomes a potent vehicle for subverting established norms and challenging prevailing power structures[19].

c) The Magazines: «Lotta Poetica»

In 1971, the inception of the magazine «Lotta Poetica»[20] marked a significant milestone in the dissemination of visual poetry on an international scale. Founded in Brescia, Italy, the magazine emerged from a collaborative effort between Sarenco (the pseudonym of Isaia Mabellini) and the Belgian artist Paul de Vree, renowned for his stewardship of the experimental poetry magazine «De Tafelronde» in Antwerp. Italian artists such as Gianni Bertini, Emilio Isgrò, Lucia Marcucci, Eugenio Miccini, Michele Perfetti, Luciano Ori, and Franco Vaccari, alongside international artists including Jean François Bory, Herman Damen, and Alain Arias Misson, contributed to the publication, endowing it with a distinctly cosmopolitan character[21].

«Lotta Poetica» manifested in three distinct series spanning from June 1971 to November 1987, each characterized by an overtly political-poetic ethos suffused with themes of violence and revolution. The cover design, unaltered across the first twelve issues of the inaugural series, featured an arresting image depicting Gianni Bertini clutching the barrel of a rifle aimed directly at the reader ‒ a gesture emblematic of the publication’s confrontational stance. Implicit in its title was an invocation of warfare or “guerrilla warfare”, a recurring motif emblematic of the artists’ symbology and ethos. Through such imagery, the magazine sought to underscore poetry’s role as a catalyst for revolutionary change, transcending the mere depiction of violence to actively foment societal upheaval.

Central to the ethos of «Lotta Poetica» was its steadfast commitment to independence from commercial imperatives, eschewing advertising revenue in favor of financial autonomy. Sarenco articulated the magazine’s resolute autonomy in the editorial, outlining its principled rejection of the official publishing market. In affirming the magazine’s unwavering commitment to autonomy, Sarenco underscored its alignment with the broader struggle against bourgeois cultural hegemony and its solidarity with the vanguard of the working class and student movement[22].

Moreover, «Lotta Poetica» engaged in a polemical critique of the prevailing economic structures within the art world, challenging institutions such as the Venice Biennale and castigating conceptual art for purportedly appropriating elements of visual poetry[23]. Furthermore, the magazine lambasted pop artists for their perceived complicity in perpetuating consumerist ideology, thereby diluting the potential for ideological subversion[24]. Although we could argue that the cover’s image of «Lotta Poetica» is reminiscent of Lichtenstein’s painting Revolver (1964).

Conceptually conceived as an instrument of artistic guerrilla warfare, «Lotta Poetica» emerged as an integral component of the broader social revolution unfolding during the period. Far from being a passive observer of the era’s tumultuous upheavals, the magazine actively participated in the dialectic of protest, positioning art as a potent weapon in the service of revolution. Miccini’s articulation of “guerrilla warfare”[25] encapsulates the ethos underpinning the magazine’s editorial vision ‒ a commitment to harnessing the full spectrum of visual and verbal communication tools to effect transformative societal change.

Indeed, «Lotta Poetica» emerged as a veritable bastion of resistance against the violence of mass-media saturation, the depredations of capitalist-political power, and the systemic oppression of women ‒ issues that reverberated profoundly within the socio-political milieu of the 1970s. Through its verbo-visual guerrilla tactics, the magazine galvanized a generation of artists and intellectuals, propelling them into the vanguard of a burgeoning cultural revolution aimed at dismantling entrenched power structures and ushering in a more equitable and just society.

Charting the Path to Women’s Liberation: A Discourse on Emancipatory Struggles

The artistic and political endeavors of female authors within the context of Italian visual poetry are intricately intertwined with the broader feminist movement of the nation[26]. Beginning as early as the 1960s, Ketty La Rocca emerged as a vocal critic of the prevailing sexual discrimination prevalent within society. Through works such as Sana come il pane quotidiano, La Rocca starkly indicted the systemic exploitation of women, a sentiment vividly conveyed through her juxtaposition of a nude photograph of Brigitte Bardot with an image depicting impoverished children in Vietnam. This juxtaposition served as a trenchant critique of the objectification of women within consumerist culture, exposing the stark dichotomy between the superficial allure of beauty and the grim realities of poverty and exploitation.

La Rocca’s artistic oeuvre, characterized by works such as Vergine, Dicono che lei, Sono felice, Non commettere sorpassi impuri, Signora, lei che ama cucinare bene[27], continued to dissect the societal constraints imposed upon women, cynically scrutinizing their relegation to subordinate roles within the patriarchal and capitalist framework. Through works like Elettro…addomesticati, La Rocca further explored the semantic interplay between “domestic” and “domesticated”, employing visual puns to underscore the subtle mechanisms of subjugation embedded within the fabric of society.

In the 1970s, Mirella Bentivoglio revisited and expanded upon La Rocca’s thematic preoccupations, particularly in her renowned work Il cuore della consumatrice ubbidiente[28] (1976). Here, Bentivoglio dissected the nexus of male and capitalist violence inflicted upon women, symbolized by a heart emblazoned with the word “goose” (oca), bearing a striking resemblance to the iconic Coca-Cola logo. Through this visual conflation of consumerism and commodification, Bentivoglio illuminated the insidious mechanisms of mass-media violence that reduced women to mere objects of consumption, transcending mere sexual objectification to expose the broader social oppression underpinning consumerist culture.

In a manner akin to the disruptive performances of Marina Abramovic, Bentivoglio’s panels served to provoke a sense of disquietude, challenging viewers to confront the pervasive social pressures that consigned women to passive roles within consumerist society. Where Abramovic interrogated the constraints of traditional education, Bentivoglio castigated the insidious indoctrination perpetuated by consumerist ideals, exposing the vacuity of a life defined by materialistic pursuits.

Moreover, the emergence of feminine visual poetry within this milieu represented a concerted effort to address the multifaceted dimensions of social oppression, with Lucia Marcucci’s L’imprevedibile gioco del destino (1965) serving as a poignant illustration of the violence inflicted upon women, particularly in conflict-ridden regions. Similarly, Lamberto Pignotti’s Decomposition series and Michele Perfetti’s provocative juxtaposition of Lenin’s visage with a bikini-clad female body underscored the intersections of gender, politics, and cultural representation, challenging entrenched notions of female vanity and objectification within the “society of spectacle”. The society’s foundation, the family, is attacked in Lucia Marcucci’s Buum![29] (1972) in which a child imagines the explosion of his family group.

In essence, the visual poetry of female authors within the Italian context served as a potent vehicle for articulating the struggles and aspirations of women within a society grappling with entrenched patriarchal norms and consumerist ideologies. Through their incisive critiques and subversive artistic interventions, these women not only laid bare the systemic inequalities pervading society but also galvanized a collective consciousness aimed at fostering greater gender equality and emancipation.

Conclusion: Persevering Ideals in Visual Poetry

Visual poetry emerged as a compelling conduit for the ideological undercurrents of the tumultuous 1970s, evolving into a militant art form that elevated violence to the status of political ideology. Often, its practitioners espoused left-wing political beliefs, reflecting a deeply ingrained commitment to social change and cultural revolution. They were not merely passive chroniclers of the era’s upheavals; rather, they actively participated in and contributed to the ferment of protest and dissent that characterized the period.

The creative impetus of visual poetry surged in tandem with the vigor of the protest movements, attaining its zenith during the early 1970s. However, as the fervor of the protest movements waned, visual poetry likewise began to lose the vitality that had distinguished it. While visual poetry persists as a current art form, its most dynamic phase occurred within the experimental milieu of the 1970s, characterized by a fusion of innovative artistic techniques and impassioned socio-political commitment.

Despite its ambition to transform popular culture and challenge prevailing socio-political norms, visual poetry found itself marginalized due to its staunch ideological stance against commercialization and mass consumption. This paradox encapsulates the plight of engaged intellectuals of the protest era, who sought to awaken mass consciousness while eschewing conformity to mass tastes and commercial interests.

Thus, the depiction of the protest and revolt years by visual poets is characterized by irony, satire, passion, and experimentation. Sensitized to the injustices and violence prevalent in society, groups like Gruppo 70 waged a verbal and political battle for the emancipation of marginalized groups, advocating for equality, justice, and peace. Their vision encompassed an earnest and intellectually stimulating cultural landscape aimed at fostering public awareness and enlightenment.

While the ultimate success of visual poetry in effecting societal change may be subject to debate, its enduring legacy endures as a testament to the enduring power of art as a vehicle for social critique and emancipation. Through their tireless advocacy and creative expression, visual poets have bequeathed a legacy that resonates well into the 21st century, underscoring the enduring relevance of their noble struggle for emancipation through art.

  1. See note n. 7. Two of the group’s leading theorists are Eugenio Miccini and Lamberto Pignotti.
  2. According to Pignotti and Miccini, as explained by Adriano Spatola, the distinction between the two types of collage lies in the emphasis on the vastness and complexity of the linguistic and figurative content employed in Large Collages. The notion of Large Collage is connected to the realm of mass communication. The layering of various informational levels creates a distinct language that conveys additional meaning, necessitating active participation from the reader to decipher the satirical undertones (see A. Spatola, Verso la poesia totale [Toward Total Poetry], Salerno, Rumma, 1969, p. 110).
  3. See Poésure et Peintrie: «d’un art, l’autre», Marseille, Exposition organisée au centre de la Vieille Charité, Musées de Marseille, 1993; Concrete Poetry?, Amsterdam, Stedelijk Museum, ed. Liesbeth Crommelin, 1970; M. E. Solt, Concrete Poetry, Bloomington, Indiana University Press, 1968; R. Kostelanetz, Imaged words & worded images, New York, Outerbridge & Dienstfrey, 1970. 
  4. A. Spatola, Verso la poesia totale, cited, p. 14: «La poesia cerca oggi di farsi medium totale, di sfuggire a ogni limitazione, di inglobare teatro, fotografia, musica, pittura, arte tipografica, tecniche cinematografiche e ogni altro aspetto della cultura, in un’aspirazione utopistica al ritorno alle origini».
  5. L. Pignotti, Una forma di lotta: contro l’anonimato dei prodotti in serie della civiltà tecnologica, Milano, Mondadori, 1967.
  6. See L. Pignotti, Sine aesthetica, sinestetica: poesia visiva e arte plurisensoriale, Roma, Empiria, 1990.
  7. In these books the authors are members of the first Florentine verbal-visual group (Marcucci, Miccini, Ori, Pignotti), poets of the Genoese area (Giorgi, Tola, Ziveri), poets “novissimi” who try new experimentations (Balestrini, Giuliani, Porta), poets of the Neapolitan area (Bonito Oliva, Luca, Martini), and Adriano Spatola.
  8. A. Spatola, G. Landini, Manifesto per il Vietnam, in Poesie visive, sous la direction de Lamberto Pignotti, Bologna, Sampietro, collection «Il dissenso», n. 8, 1965. Adriano Spatola is considered the most important theorist of visual poetry.
  9. For a study of the works of Eugenio Miccini see: E. Miccini, Catalogo generale delle opere di Eugenio Miccini, by Carlo Palli, Colognola ai Colli, Parise Adriano editore stampatore, 2010.
  10. For a study of the works of Lamberto Pignotti see: L. Pignotti, Lamberto Pignotti. Poeta politico. Opere dal 1945 al 1977, Torino, La Bussola, 1977.
  11. For a study of the works of Michele Perfetti see: M. Perfetti, Da ogni punto un altro, Ferrara, Centro Ipermedia, 1984; Id., L’eccezione ineffabile (al di qua della parola al di là dell’immagine), Ferrara, Comune, 1985; Id., La bellezza di perdersi nella bellezza, Ferrara, Cartografica Artigiana, stampa 1990.
  12. For a study of the works of Sarenco see: Sarenco, Sarenco. Opere degli anni ’60 e ’70, [s.l.] [s.d.].
  13. For a study of the works of Paul de Vree see: P. de Vree, Paul de Vree, Roma, Carucci, 1975; Id., Verzamelde gedichten, Nijmegen, Gottmer; Brugge, Orion, 1979.
  14. L. Pignotti, S. Stefanelli, Scrittura verbovisiva e sinestetica, Pasian di Prato, Campanotto editore, 2011, p. 156: «La poesia visiva scende in campo come un mezzo di trasformazione attiva della società, sia a livello del linguaggio e dei mezzi paralinguistici, sia a livello dell’appoggio alla lotta di classe mondiale (sfruttati contro sfruttatori)».
  15. Sarenco, in Poesia Visiva. What to do with poetry, La collezione Bellora al Mart, catalogo mostra a cura di G. Zanchetti, D. Ferrari, Silvana editore, Milano, 2005, p. 54: «Ogni classe, in ogni società divisa in classi, ha i suoi criteri particolari, sia artistici che politici, ma tutte le classi, in tutte le società divise in classi, mettono sempre il criterio politico al primo posto e quello artistico al secondo […] ciò che noi esigiamo è l’unità di politica e arte».
  16. See L. Caramel, Arte in Italia negli anni ’70: opera e comportamento (1970-1974), con testi di Elena Di Raddo, Ada Lombardi, Roma, Kappa, 1999.
  17. G. Debord, La société du spectacle, Paris, Buchet-Chastel, 1967.
  18. See F. Fedi, Collettivi e gruppi artistici a Milano, ideologie e percorsi 1968-1985, Milano, Endas, 1986.
  19. E. Miccini, L. Marcucci, Situazione della nuova poesia in Italia, in «Lotta Poetica», a. II, n. 11, April 1972, p. 5: «Si tratta di violenza ad ogni livello. Ma per quanto ci riguarda da vicino, come poeti, la violenza è la trasgressione delle norme della tradizione linguistica e stilistica; trasgressione della logica spietata della società opulenta e del suo razionalismo cinico e autoritario».
  20. Over the years three series of «Lotta Poetica» are printed. The first series is published for four consecutive years, from 1971 to 1975, and consists of 50 issues; the directors are Sarenco and Paul De Vree. The second series begins in 1982, the year of De Vree’s death. It is directed by Sarenco and was published until 1984. The third series consists of only two issues, published in 1987 and directed by Sarenco and Miccini.
  21. The members of the editorial staff are: Alain Arias-Misson, Gianni Bertini, Julien Blaine, Jean-Francois Bory, Paul De Vree, Jochen Gerz, Sten Hanson, Ewerdt Hilgeman, Bengt Emil Johnson, Peter Mayer, Henry Martin, Eugenio Miccini, Nahl Nucha, Michele Perfetti, Carlo Alberto Sitta, Miroljub Todorovic, Jiri Valoch, Franco Verdi, Nicholas Zurbrugg. See: A. Mangano, Le riviste degli anni Settanta: gruppi, movimenti e conflitti sociali, Pistoia, Centro di Documentazione di Pistoia, 1998.
  22. Sarenco, Editoriale 1, in «Lotta Poetica», n. 1, 1971, p. 3: «[…] impostare una battaglia continua a due livelli: a) a livello linguistico per la distruzione delle strutture culturali della società borghese; b) a livello politico a fianco dell’avanguardia della classe operaia e del movimento degli studenti».
  23. See, for example, the first article Poesia visiva e conceptual art/un plagio ben organizzato, in «Lotta Poetica», n. 1, 1971.
  24. See, among others, the statement by Ketty La Rocca: https://flash—art.it/article/ketty-la-rocca-raffaella-perna/.
  25. Excerpt from a communication by Miccini and Perfetti at the 5th International BITEF in Belgrade on the theme: new aspects of international visual poetry. E. Miccini, Situazione della poesia visiva italiana, Brescia, Firenze, Sarmic, 1972, s.p.: «La Poesia Visiva si scontra con il nemico indirettamente: la Poesia Visiva non si nasconde nei monasteri durante l’infuriare della guerra e neppure passa nelle file del nemico: è un cavallo di Troia […] La Poesia Visiva, dunque, è guerriglia: e, in quanto tale, si serve non solo della parola o dell’immagine, ma anche della luce, del gesto, insomma di tutti gli strumenti “visibili” del comunicare, e deve necessariamente e progressivamente tendere a trasformare i propri mezzi in quelli delle comunicazioni di massa fino ad impadronirsene per trasformare con essi la società stessa».
  26. In those times, women were searching for underrepresented female artists that remained anonymous due to gender inequality. Moreover, female art was promoted by publishing houses, such as Edizioni delle donne founded by Anne-Marie Sauzeau. Together with Carla Lonzi and Lea Vergine, Anne-Marie Sauzeau was one of the activists who brought together the political militantism of the feminist movement of the 1970s and the art world. With her texts, Sauzeau also conveyed the theses of internationally important feminists such as Luce Irigaray and Julia Kristeva in Italy. The authors analysed in this section are linked to this movement. For example, Mirella Bentivoglio published a study aimed at highlighting female Futurist artists (M. Bentivoglio, F. Zoccoli, The Women Artists of Italian Futurism. Almost lost to history, New York, 1997).
  27. For a study of the works of Ketty La Rocca see: Poesia visiva: Gruppo 70: omaggio a Ketty La Rocca, a cura di Valerio Deho, Castelvetro, Comune, 2004; Id., Intermedialità al femminile. L’opera di Ketty La Rocca, a cura di Elena Del Becaro, Milano, Mondadori Electa, 2008.
  28. For a study of the works of Mirella Bentivoglio see: Materializzazione del linguaggio. Magazzini del sale alle Zattere, 20 settembre-15 ottobre, a cura di Mirella Bentivoglio, Venezia, La Biennale, 1978; M. Bentivoglio, E. Maurizi, Effetto donna. Palazzo Oliva, Sassoferrato, 15 luglio-15 agosto 1984, Macerata, Coopedit, 1984.
  29. For a study of the works of Lucia Marcucci see:L. Marcucci, Poesie visive, [s.l.] [s.d.]; Id., Lucia Marcucci. Poesia visiva, Firenze, Studio Inquadrature 33, [s.d.]; Id., Lucia Marcucci. Poesie visive 1963-2003, a cura di Lucilla Saccà, Firenze, Centro d’arte Spaziotempo, 2003.

(fasc. 52, 31 luglio 2024)

Calvino e la pena «per la propria incompletezza». Attualità del “Visconte dimezzato”

Author di Paola Culicelli

Negli anni ’50 Calvino è alla ricerca del romanzo sulla contemporaneità. Nel 1947 ha esordito come romanziere con un’opera neorealista, Il sentiero dei nidi di ragno, che però già nel titolo sembra richiamare un immaginario fantastico e che, raccontando la Resistenza come «una favola di bosco», gli vale la definizione di «scoiattolo della penna»[1] da parte di Pavese.

In quegli stessi anni Giuseppe Berto, precisamente nel dicembre 1946, dà alle stampe Il cielo è rosso con l’editore Longanesi. Entrambi raccontano l’esperienza del conflitto non attraverso gli occhi dell’adulto ma dalla prospettiva dell’adolescente. Si tratta di romanzi sulla guerra picareschi, in cui i ragazzi che si muovono tra le macerie, isolati, orfani, ricordano i bimbi sperduti nell’isola che non c’è raccontati da Barrie nelle Avventure di Peter Pan[2]. Qual è la guerra dei bambini? È quella che nessuno, in genere, racconta. E il Novecento è stato il secolo in cui in maniera più urgente gli scrittori si sono posti questo interrogativo.

Risulta fondamentale lo scenario delle città distrutte, ridotte in macerie, che appaiono emblematiche. La letteratura si origina dalle macerie, il bisogno di scrivere nasce da lì, dalla distruzione, con l’intento di salvare, simile al graffito nella caverna della preistoria. In merito alle macerie, si rivela particolarmente significativo un racconto di Calvino, inserito nella raccolta Un dio sul pero, dal titolo E il settimo si riposò, in cui ritroviamo l’immagine delle rovine e delle case da riedificare[3]. Risulta icastica all’interno della narrazione la ricostruzione di un tetto sormontato dalla bandiera italiana, dove la casa che viene riedificata sembra rappresentare l’Italia che si ricostruisce all’indomani della guerra, quando lo scorrere del tempo non si misura più «a domeniche, ma a case»[4]: «Ora Pin vede già il tetto finito con la bandiera sopra, e loro muratori seduti sulle tegole, vestiti a festa, e altri tetti con altri muratori vestiti a festa, da tutte le parti della città, una festa di tetti fiammeggianti di bandiere»[5]. È significativo che il protagonista sia un ex partigiano divenuto muratore: finita la guerra, è giunto il tempo di riedificare. Le macerie, così come la ricostruzione, riguardano le case, le cose, ma anche le persone.

Nel Visconte dimezzato le macerie riguardano l’individuo, l’uomo nella sua interezza e complessità. In esso Calvino, fuor di metafora, parla dell’impatto che la guerra può avere su una persona, del suo essere stato un partigiano, della guerra civile che ha insanguinato l’Italia, della guerra fredda che poi ha dilaniato l’Europa, tagliandola in due di netto con un muro. Sugli anni del secondo dopoguerra in Europa sotto il segno di un «dilaniamento sordo», citiamo lo stesso Calvino:

Certo risentivo, pur senza rendermene ben conto, dell’atmosfera di quegli anni. Eravamo nel cuore della guerra fredda, nell’aria era una tensione, un dilaniamento sordo, che non si manifestavano in immagini visibili ma dominavano i nostri animi. Ed ecco che scrivendo una storia completamente fantastica, mi trovavo senz’accorgermene a esprimere non solo la sofferenza di quel particolare momento ma anche la spinta a uscirne; cioè non accettavo passivamente la realtà negativa ma riuscivo a riimmettervi il movimento, la spacconeria, la crudezza, l’economia di stile, l’ottimismo spietato che erano stati della letteratura della Resistenza[6].

Dunque, la guerra che effetto ha sull’individuo? Come quel colpo di cannone che dopo poche pagine deflagra nel Visconte dimezzato, letteralmente lo divide in due[7]. È come se Calvino ci volesse dire in forma fiabesca quello che succede con la guerra. La scissione non è all’esterno, manichea, ma è dentro ognuno di noi. A proposito di come si originano le sue opere e prende avvio la sua scrittura, Calvino osserva:

All’origine di ogni storia che ho scritto c’è un’immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. A poco a poco mi viene da sviluppare questa immagine in una storia con un principio e una fine, e nello stesso tempo – ma i due processi sono spesso paralleli e indipendenti – mi convinco che essa racchiude qualche significato. Quando comincio a scrivere però, tutto ciò è nella mia mente ancora in uno stato lacunoso, appena accennato. È solo scrivendo che ogni cosa finisce per andare al suo posto[8].

Riguardo a questa immagine che in qualche modo potrebbe averlo ossessionato nella scrittura del Visconte dimezzato, citiamo questo passo che è tratto da un’intervista a Calvino con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983:

Avevo questa immagine dell’uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato, fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non un’altra[9].

Il tema dell’uomo «tagliato in due» risulta significativo perché assurge a simbolo dell’uomo contemporaneo. L’immagine, oltre a svolgere una funzione narrativa – rappresenta la rottura dell’equilibrio da cui prende avvio la storia –, affonda le radici nella sentenza di Salomone, nel calderone delle fiabe italiane raccolte da Calvino e nella letteratura romantica. Nel Primo libro dei re, si narra della sentenza proverbiale di Salomone che come stratagemma, per capire tra due madri che si contendevano lo stesso bambino a quale realmente appartenesse, stabilì di tagliare in due il neonato con una spada. All’interno di Fiabe italiane, invece, annoveriamo Il dimezzato, una sorta di variante al maschile di Raperonzolo che, conteso tra la vera madre e una strega, viene tagliato in due e, mentre una metà vivrà con la donna, l’altra apparterrà alla megera. Infine, un altro antecedente è rappresentato dai contrasti messi in scena da Stevenson nei suoi romanzi, Dr Jeckyll and Mr Hyde e Master of Ballantrae, citati da Calvino nella Nota 1960, che vedono l’individuo contrapporsi a sé stesso o al proprio fratello.

Ritorniamo alle nostre premesse, a quello che avevamo affermato all’inizio. Calvino è alla ricerca della sua storia, della sua voce di scrittore e del romanzo sulla contemporaneità, sui conflitti della contemporaneità all’indomani della Seconda guerra mondiale. Ecco che, sedimentando in lui queste suggestioni, trova la chiave del fiabesco, una lente per staccarsi dalla brutalità della guerra quasi fosse uno schermo protettivo, un antidoto per non caderne vittima nel maneggiarne i veleni.

Quel colpo di cannone che dilania Medardo all’inizio del romanzo sembra fare eco e rispondere ad altre bombe, ad altri colpi di pistola che risuonano in altre narrazioni dell’autore. Sono le esplosioni, le fucilazioni, le deflagrazioni cui Calvino ha assistito durante la guerra, che lo hanno suggestionato e che si sono depositate sulla pagina. L’immagine della pistola è presente nel Sentiero dei nidi di ragno ma anche altrove, sotto forma di fucile, di cannone, di mina, o di arma tout court, senza specifiche connotazioni. Alla radice di tutto ci sono le scene di guerra cui ha assistito, un evento rimosso la cui memoria è depennata nei racconti, ma che come un sasso, una volta inghiottito da un’acqua profonda, lascia traccia di sé nelle vibrazioni della superficie[10].

L’evento autobiografico cui facciamo riferimento consiste nella prima volta in cui Calvino, alias Santiago, assistette all’uccisione di alcuni fascisti, rimanendone traumatizzato. Una scena di fronte alla quale perse i sensi. Fu quello il momento in cui, pur trovandosi dalla parte giusta della storia, mettendosi nei panni dell’altro, sentì di essere, anche solo per un attimo, dalla parte sbagliata, a perdere la bussola tra nord e sud, giusto e sbagliato, un po’ come fa Natale, il protagonista demente del racconto Come un volo d’anitre: «perché lui fosse di qui, nel giusto, loro di là, nello sbagliato: questo Natale non lo capiva: era il volo d’anitre; questo era, nient’altro»[11]. Un frullare d’ali nella testa, simile a un susseguirsi di spari.

Questo trauma nella sua esperienza resistenziale affiora in alcuni racconti per poi essere rimosso e trasfigurato[12]. Le sequenze in cui compare sono puntualmente depennate e gli stessi racconti vengono espunti dalle raccolte[13]. In Come un volo d’anitre a sentirsi sbagliato, abbiamo visto, è Natale, mentre in Andato al comando come un fiume carsico, epurato dei detriti autobiografici, alla fine l’episodio riemerge, seppure narrato in chiave surreale e a tratti favolosa. In quest’ultimo racconto, i due personaggi rimangono anonimi; designati dal narratore semplicemente come «l’armato» e «il disarmato», sono contraddistinti unicamente dall’essere muniti o no di un’arma. L’azione si svolge in un bosco: l’uomo armato, un partigiano, deve condurre quello disarmato, «grande kamarad», come si definisce in una fantasticheria, al comando, o almeno così dice. Altri prima di lui sono stati portati via e non sono più tornati ‒ il segretario, i fratelli del mulino e la maestra ‒, perciò l’uomo inerme domanda di loro, nel tentativo di intuire quale sarà la sua sorte. Al di là degli schieramenti, della parte sbagliata o della parte giusta della storia, sembra che la guerra dilani e porti distruzione. Anche il bosco appare deturpato, segnato dalle tracce dei combattimenti: «Il bosco era rado, quasi distrutto dagli incendi, grigio nei tronchi bruciati, rossiccio negli aghi secchi dei pini. L’uomo armato e l’uomo senz’armi se ne venivano a zig-zag tra gli alberi, scendendo»[14]. La guerra miete vittime nel bosco, così come nelle città, e anche gli alberi non sono semplicemente bruciati dagli incendi, ma «uccisi», per cui il participio «caduti» assume uno spettro più ampio di significato e si carica di connotazioni: «Erano in una grande radura, con pini e larici magri, uccisi dagli incendi, ingombra di rami caduti»[15]. Alla fine del racconto l’uomo armato sparerà alle spalle all’uomo disarmato, che fino all’ultimo si illuderà di potersi salvare. Lo sparo del racconto, nel folto della vegetazione, fa eco, nel ricordo dello scrittore, alle fucilazioni che in quel periodo avvenivano nella boscaglia o sul limitare dei boschi, cui Calvino assistette, uno sparo cui probabilmente seguiva il frullo degli uccelli messi in fuga, che ritorna – abbiamo visto – nel racconto Come un volo d’anitre.

Un altro racconto in cui si assiste a una fucilazione di tre uomini nudi e inermi, che pure hanno dato fuoco a un paese e ucciso, è Uno dei tre è ancora vivo. Anche lì la differenza è tra chi imbraccia i fucili e chi è disarmato, e tra gli stessi uomini della Resistenza ci sono «angeli buoni con corde e angeli cattivi con bombe e fucili»[16]. Come in Andato al comando, Calvino sul finire del racconto, e in particolare dopo la fucilazione, fa coincidere il punto di vista con chi è dall’altra parte della barricata; se prima si trattava di un fascista, che finiva a terra ricoperto di formiche, ora si tratta di un nazista, che rocambolescamente si sottrae a una pioggia di spari, dopo essersi gettato in una grotta verticale, chiamata Culdistrega. La guerra è un inferno, quale che sia il punto di vista, come arriva a concludere il narratore mettendosi nella pelle del «nudo», in un passo che anticipa quello delle città invisibili: «La vita, pensò il nudo, era un inferno, con richiami d’antichi felici paradisi»[17].

Anche nel Sentiero dei nidi di ragno Lupo rosso racconta della fucilazione di Pelle. Nella memoria familiare di Calvino, è particolarmente rilevante, com’è noto, un episodio dell’ottobre 1944, in cui i tedeschi, dopo aver catturato i genitori, avevano inscenato per tre volte di fucilare il padre, di fronte agli occhi della madre, per estorcere loro informazioni[18].

Nel 1943, quando viene firmato l’armistizio, Calvino ha vent’anni. Il suo nome di battaglia come partigiano garibaldino era Santiago e alcuni documenti ne attestano il prezioso contributo dato alla Resistenza, tuttavia, nei suoi racconti di guerra non c’è spazio per una narrazione agiografica ed edulcorata degli avvenimenti. Prendendo in prestito le parole di Gianluca Cinelli riguardo alla memorialistica di guerra, possiamo dire che l’aver preso parte alla Resistenza ha rappresentato per Calvino un rito di passaggio, iniziatico, e nel racconto che fa di quanto esperito emerge «la coscienza di una frattura, di una crisi, a seguito della quale non ci si orienta più con i criteri precedenti»[19]. Si tratta di un’esperienza traumatica, che accomuna molti autori, come lui, appartenenti alla “generazione degli anni difficili”[20], i quali si fecero portatori nella loro scrittura di un «sentimento della colpa», vero e proprio «archetipo narrativo»[21].

Solo chi si sente in difetto, chi si sente incompleto, chi avverte la propria fragilità e le proprie colpe, può perdonare l’imperfezione negli altri, rivolgendo loro uno sguardo pietoso. La pietas provata dal Medardo buono nei confronti dell’altro, perfino del gramo, si carica di connotazioni evangeliche e rappresenta uno degli aspetti e delle riflessioni presenti nel romanzo che scavano più in profondità nell’animo umano. Il sentimento dell’imperfezione che ci accomuna gli uni agli altri rappresenta il collante dell’esperienza umana[22].

Nel Visconte dimezzato all’inizio, com’è noto, si combatte una guerra. Si tratta di una guerra contro i Turchi. Calvino, dunque, si stacca dalla realtà della Seconda guerra mondiale, operando uno spostamento letterario analogo a uno spostamento onirico. Trova la propria voce di scrittore a metà tra realismo e favola. Per parlare di ciò di cui intende parlare, con urgenza, si allontana, discostandosi sia a livello temporale sia a livello spaziale. Si allontana in altezza perché racconta dalla rarefatta leggerezza aerea della fiaba, così come si allontana lungo la linea del tempo perché fa retrocedere la propria storia collocandola nella cornice di una cavalleresca chanson de geste. C’è un fondale cavalleresco che, ovviamente, come ha già registrato la critica, complici le dichiarazioni dello stesso Calvino, presuppone l’influenza di Ariosto, così come di Tasso[23]. Si ravvisa anche un’atmosfera da teatro dei pupi che attinge sempre le radici nel fantastico ariostesco che suggestiona Calvino. C’è una guerra, dunque, e questa guerra che effetto ha sulle persone, gli animali, le cose? Produce macerie[24]. Quando Medardo attraversa il campo, il deserto prodotto dalla guerra, per raggiungere il campo, lo scenario che si prospetta ai suoi occhi risulta icastico. Rileggendo le prime pagine, viene in mente Guernica di Picasso. Si descrivono cadaveri e carcasse, quindi resti di uomini e di animali. È evidente, anche in questa occasione, l’attenzione al mondo animale e a quello vegetale, che rappresenta una cifra della scrittura di Calvino. Lasciando trasparire una grande sensibilità per la sorte della flora e della fauna, siano esse minacciate dalla guerra, dall’inquinamento o dalla violenza perpetrata dall’uomo, lo scrittore accomuna tutti in questo suo sguardo pietoso ed empatico, che si rivolge alla carcassa del cavallo così come al cadavere dell’uomo. In maniera emblematica si offrono alla vista agglomerati di animali, uccelli e cavalli in particolare, e uomini, confusi tra di loro, per cui risulta labile il confine tra zoomorfia e antropomorfia.

Attraversato questo scenario bellico dalle tinte apocalittiche, appena giunto in prossimità del fronte, Medardo viene investito da una cannonata. E qui c’è tutta la leggerezza di Calvino nel trasfigurare le cannonate della sua guerra. La guerra è come quel colpo di cannone: quando ti travolge ti segna irrimediabilmente, ti divide in due, ti dimezza, e tu non puoi più sentirti completo, non puoi più sentirti intero e perfetto come individuo. I tre romanzi del ciclo dei nostri antenati sono romanzi di formazione sull’imperfezione, o meglio sul percorso e sulla ricerca che ci permettono di capire, di accettare la nostra imperfezione e quella degli altri. In questi romanzi della contemporaneità, l’eroe, sia esso il visconte, il barone o il cavaliere, non è qualcuno che si forma nell’accezione canonica del termine, ma è qualcuno che fa un percorso di consapevolezza, di coscienza, attraverso il quale si capisce di non essere perfetti e si accetta questa imperfezione come qualcosa che è connaturato con l’umano, con l’esistenza, e riguarda tutti, le cose, le case, gli uomini e gli animali: «Dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a sé stesso è l’uomo contemporaneo»[25].

Dopo il secondo conflitto mondiale, dopo la Shoa, si dice che l’idea stessa di Dio sia morta. Quando il visconte viene travolto dal colpo di fuoco, sembra che sopravviva alla guerra solo la metà oscura, malvagia, mentre sembra che abbia dovuto soccombere irrimediabilmente la metà buona. In apparenza, è come se la guerra non potesse lasciare dietro di sé niente se non reduci segnati per sempre, mutilati della propria umanità. A poco a poco, seguendo gli sviluppi della storia, invece, si capisce che è sopravvissuto anche il bene. Si scopre che, in realtà, ci sono due visconti, il buono e il gramo. Ci sono queste due metà, che sono agli antipodi, diversissime, ma in realtà sono la stessa persona, come in fondo torna a ricordarci il titolo. Chi si accorge che sono la stessa persona nel romanzo? Le figure legate alla crescita, alla formazione e all’amore: i personaggi della balia e di Pamela. È l’amore che può ricomporre le nostre parti. Il Medardo buono e il gramo sono stati cresciuti dalla stessa donna e amano la stessa giovane. È significativo che la balia si trovi a rimproverare, in maniera apparentemente assurda, il Medardo buono delle malefatte commesse dal gramo, mentre Pamela ride perché ha capito ciò che «fa andar matti tutti gli altri», «che voi – dice al Visconte – siete un po’ buono e un po’ cattivo»[26].

In quegli anni in cui si ha l’impressione che il mondo sia «fatto a pezzi», nella vita reale, a Calvino sembra che Elsa Morante, sempre una figura femminile, abbia la capacità di ricondurre le cose a unità e di «far tornare sempre i conti», come le scrive in una lettera del 2 marzo 1950:

tu ti leghi per la vita e per la morte, quasi t’identifichi con le cose che fai. Ma vedi, tu appunto hai questo dono di ricondurre ad unità gli elementi più disparati […]. Tu senti che il mondo è fatto a pezzi, che le cose da tener presente sono moltissime e incommensurabili tra loro, però con la tua lucida e affezionata ostinazione riesci a far tornare sempre i conti[27].

Rivolgendosi a Pamela, la donna di cui si è innamorato, il Medardo buono afferma: «O Pamela, questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo. Se verrai con me, Pamela, imparerai a soffrire dei mali di ciascuno e a curare i tuoi curando i loro»[28]. Solo chi è dimezzato, chi sa di esserlo, risulta capace di vedere quello che gli altri non vedono, può provare compassione, avere uno sguardo pietoso nei confronti degli altri e insieme curare la propria ferita. Il dimezzato in fondo chi è? Un essere fragile, imperfetto, con una disabilità, ma paradossalmente è quello che con un solo occhio vede più degli altri, è quello che, proprio perché consapevole della propria imperfezione, è in grado di capire e di strappare il velo della presunta perfezione. Viene in mente Svevo, quando afferma che solo chi sperimenta la malattia arriva a sapere qualcosa di sé stesso.

Ritorniamo all’empatia di Calvino nei confronti degli animali, che lo accomuna, come altri aspetti, al Leopardi delle Operette morali, per cui possiamo dire che favoloso è quell’autore che, con l’atteggiamento aurorale del bambino, sa dare parola agli animali. Penso, in particolare, al Dialogo tra due bestie, p. e. un cavallo e un toro, e al Dialogo tra un cavallo e un bue, animali parlanti, che dialogano davanti ai resti di un esemplare umano, domandandosi di che animale si tratti, in un tempo in cui l’uomo è ormai estinto, come se gli uomini si trovassero a parlare di un mammut, effetto che in un’annotazione lo stesso Leopardi si prefigge di raggiungere. C’è lo stesso ribaltamento antropocentrifugo innescato nell’episodio del gorilla albino, all’interno del capitolo Palomar allo zoo[29], in cui lo sguardo pietoso di Calvino si rivolge alla diversità e alla solitudine di Copito de Nieve, «unico esemplare al mondo di una forma non scelta»[30]. Mentre tutti gli altri lo guardano dall’esterno, è come se Palomar assumesse il suo punto di vista e partecipasse della sua imperfezione, del suo essere «considerato un fenomeno vivente»[31].

Anche osservando la corsa delle giraffe, affascinato dalla disarmonia dei loro movimenti, sembra che Palomar si concentri sul loro essere imperfette. Le loro gambe gli appaiono come fossero di legno, simili a «stampelle che arrancano» e sembra non sussista in loro la minima coordinazione. Il corpo della giraffa, pur funzionando perfettamente, sembra essere il risultato di un agglomerato di parti anatomiche di diversa origine, «pezzi provenienti da macchine eterogenee», una sorta di creatura del dottor Frankenstein degli animali. Tuttavia Palomar, forse per il desiderio di cogliere nei movimenti disarmonici del mondo intorno a lui una segreta armonia, un disegno, anche nella corsa sgraziata e scoordinata delle giraffe coglie una grazia complessiva, che si configura come il risultato di molteplici imperfezioni:

Il signor Palomar, continuando a osservare le giraffe in corsa, si rende conto d’una complicata armonia che comanda quel trepestio disarmonico, d’una proporzione interna che lega tra loro le più vistose sproporzioni anatomiche, d’una grazia naturale che vien fuori da quelle movenze sgraziate. L’elemento unificatore è dato dalle macchie del pelo, disposte in figure irregolari ma omogenee, dai contorni netti e angolosi; esse si accordano come un esatto equivalente grafico ai movimenti segmentati dell’animale. Più che di macchie si dovrebbe parlare d’un manto nero la cui uniformità è spezzata da nervature chiare che s’aprono seguendo un disegno a losanghe: una discontinuità di pigmentazione che già annuncia la discontinuità dei movimenti[32].

È il neo, la macchia, l’imperfezione, a conferire paradossalmente armonia al disegno complessivo. Come ha osservato Pierangeli, entrambi gli episodi, quello del gorilla albino e quello della corsa delle giraffe, «esplorano l’armonia aritmica e il disagio di “forme sempre in qualche modo imperfette”»[33].

L’ultima immagine che voglio richiamare alla memoria è quella presente nell’episodio Il marmo e il sangue, che fa parte del capitolo Palomar fa la spesa, dove è presente il bue dimidiato, e c’è l’occhio, la riflessione dell’uomo sulla macellazione dell’animale. E siamo a un nodo cruciale della riflessione di Calvino, quello della catena alimentare di violenza e sopraffazione che è alla base del nostro essere carnivori, dominati da un istinto trofico:

Occorre dire che la simbiosi uomo-bue ha raggiunto nei secoli un suo equilibrio (permettendo alle due specie di continuare a moltiplicarsi) sia pur asimmetrico (è vero che l’uomo provvede a nutrire il bue, ma non è tenuto a darglisi in pasto) e ha garantito il fiorire della civiltà detta umana, che almeno per una sua porzione andrebbe detta umano-bovina (coincidente in parte con quella umano-ovina e ancor più parzialmente con l’umano-suina, secondo le alternative d’una complicata geografia d’interdizioni religiose). Il signor Palomar partecipa a questa simbiosi con lucida coscienza e pieno consenso: pur riconoscendo nella carcassa di bue penzolante la persona del proprio fratello squartato, nel taglio della lombata la ferita che mutila la propria carne, egli sa d’essere carnivoro, condizionato dalla sua tradizione alimentare a cogliere da un negozio di macellaio la promessa della felicità gustativa, a immaginare osservando queste trance rosseggianti le zebrature che la fiamma lascerà sulle bistecche alla griglia e il piacere del dente nel recidere la fibra brunita[34].

Un sentimento non esclude l’altro: lo stato d’animo di Palomar che fa la fila nella macelleria è insieme di gioia trattenuta e di timore, di desiderio e di rispetto. Di preoccupazione egoistica e di compassione universale, lo stato d’animo che forse altri esprimono nella preghiera.

Quel sentimento di pietas che il Medardo buono estendeva a tutti, persino al gramo, la propria metà malvagia, è lo stesso che il signor Palomar prova per la carcassa del bue, ravvisando in lui il «proprio fratello squartato», dimidiato e mutilato al pari del Visconte dimezzato. La guerra è una macelleria e la macelleria in Palomar è come uno scenario di guerra; simboleggia quel teatro della violenza che è la storia in ogni tempo, e il bue è la vittima sacrificale di fronte alla quale il sentimento di Palomar, che pure è in fila per cibarsi delle sue carni, è simile a quello che si può provare nel ritiro della preghiera. Il bue dimidiato si presenta come un’immagine gemella e speculare del Visconte dimezzato, incarna quella grande compassione nei confronti dell’altro, qualsiasi forma di vita esso assuma, e riteniamo che questa sia la grande eredità di Calvino, che ne dimostra la grande attualità, tanto che arriva a mettersi nei panni di una pietra nel breve scritto Essere pietra. Anche la pietra, come il visconte, è una parte di un tutto dal quale si è separata:

Ma il mio essere pietra implica pure l’esser parte d’una pietra più grande da cui mi sono distaccata, montagna o falesia o catena rocciosa o strato basaltico o mantello terrestre, cioè il partecipare della natura di tutto ciò che è pietra, appartenere alla pietra unica che continua a esistere pur nella frantumazione delle singole pietre[35].

L’ultima immedesimazione, l’ultima metamorfosi, l’ultima forma di empatia e di fratellanza vede Calvino regredire allo stato minerale di una pietra.

  1. C. Pavese, Calvino, in «L’Unità», 26 ottobre 1947; ora in Id., Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1973, pp. 245-47.
  2. Per un approfondimento sulla guerra raccontata da una prospettiva infantile e adolescenziale in Berto e in Calvino, si veda C. Nocentini, L’ottica infantile sulla guerra e sulla violenza, in «Cahiers d’études italiennes», vol. 3, 2005, pp. 23-28. Nel racconto La stessa cosa del sangue i due personaggi, due fratelli dietro la cui sagoma si nascondono Italo Calvino e il fratello minore Floriano, dall’esperienza della guerra sono «colpiti nella loro parte bambina» (I. Calvino, La stessa cosa del sangue, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1991, p. 222).
  3. I. Calvino, E il settimo si riposò, in Id., Un dio sul pero. Racconti e apologhi degli anni Quaranta, a cura di B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2023; già in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 3, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, pp. 833-39. Si rimanda anche all’intervento di B. Falcetto, «Il mondo è fatto a pezzi». Lessico e emozioni del costruire in Calvino, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione.
  4. I. Calvino, E il settimo si riposò, in Id., Un dio sul pero. Racconti e apologhi degli anni Quaranta, op. cit., p. 37. Il racconto era uscito sulle colonne dell’«Unità» il 9 giugno 1946.
  5. Ibidem. Pin è il nome con cui poi Calvino – è noto – avrebbe battezzato il protagonista del Sentiero dei nidi di ragno. Secondo l’auspicio di Falcetto, i racconti di Calvino compresi in Un dio sul pero, unitamente al corpus delle precedenti raccolte, permettono di «estendere lo sguardo», di «guardare meglio Calvino “dall’inizio”» (ivi, p. 37).
  6. I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960), in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., p. 1210.
  7. Sulle figure di eroi «appiedati, disarcionati, dimezzati, senza esercito», si veda B. Sica, I paladini di Calvino, Gianini e Luzzati, e Monicelli: memoria del fascismo, storia delle emozioni, parodia, in «Cahiers d études romanes», vol. 40, 2020, pp. 141-56. Sulle deformazioni della figura umana nella letteratura italiana, si rimanda anche a P. Gervasi, Anger as Misshapen Fear: Fascism, Literature, and the Emotional Body, in «Emotions: History, Culture, Society», vol. 2, 2018, pp. 312-36.
  8. I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960) cit., p. 1210.
  9. I. Calvino, Intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983, trascritta e pubblicata in «Il gusto dei contemporanei», Quaderno n. 3, 1987, p. 9.
  10. Riteniamo significativo che Calvino avrebbe voluto raccogliere sotto il titolo Le memorie difficili alcuni racconti di guerra autobiografici, come scrisse a Citati in una lettera (I libri degli altri. Lettere 1947-1981, nuova ed. a cura di G. Tesio, Milano, Mondadori, 2022, p. 258). Se consideriamo che egli stesso in una lettera a Milanini del 1985 avrebbe definito «nevrotico» il suo rapporto con l’autobiografia (I. Calvino, Lettere 1940-1985, nuova ed. a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2023, p. 1008), possiamo dedurre che quell’esperienza privata fatta della guerra e della violenza abbia rappresentato per lo scrittore un magma di difficile elaborazione.
  11. I. Calvino, Prima che tu dica «Pronto», con uno scritto di P. Citati, Milano, Mondadori, 2010, p. 39; ora in Id., Un dio sul pero, op. cit. Il racconto era uscito in rivista nel 1947 («Il settimanale», 3 maggio 1947).
  12. Per una ricostruzione dell’inabissamento e della riemersione di quest’episodio nelle opere di Calvino si rimanda a B. Falcetto, Prove di immaginazione, in Id., Un dio sul pero, op. cit. Per un’attenta rilettura dell’esperienza resistenziale dello scrittore attraverso i racconti degli anni Quaranta, si veda anche E. Barghini, Le memorie difficili del partigiano Santiago: note sui racconti di guerra di Calvino, in «Studium», vol. 4, 2023, pp. 101-44.
  13. I. Calvino, Andato al comando, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., p. 260.
  14. Ivi, p. 261.
  15. Ivi, p. 272.
  16. I. Calvino, Uno dei tre è ancora vivo, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., p. 279.
  17. Cfr. I. Calvino, Autobiografia politica giovanile, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, p. 2746: «Non posso tralasciare qui di ricordare […] il posto che nell’esperienza di quei mesi ebbe mia madre, come esempio di tenacia e di coraggio in una Resistenza intesa come giustizia morale e virtù familiare, […] nel suo comportarsi con dignità e fermezza di fronte alle SS e ai militi, e nella lunga detenzione come ostaggio, e quando la brigata nera per tre volte finse di fucilare mio padre davanti ai suoi occhi». Cfr. anche l’articolo del 1985 Tante storie che abbiamo dimenticato (ivi, p. 2913) e infine l’intervista del 1983 agli studenti di Pesaro (Sono nato in America. Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2012, pp. 540-41).
  18. G. Cinelli, «Viandante, giungessi a Sparta…». Il modo memorialistico nella narrativa contemporanea, Roma, Sapienza, 2016, pp. 37-38.
  19. L’etichetta “generazione degli anni difficili” si deve al titolo di un’inchiesta condotta nel 1960 dalla rivista «Il Paradosso», raccogliendo le testimonianze di intellettuali e politici cresciuti sotto il Fascismo, poi confluite in un volume (Bari, Laterza, 1962).
  20. G. Cinelli, «Viandante, giungessi a Sparta…». Il modo memorialistico nella narrativa contemporanea, op. cit., p. 38.
  21. Sul tema dell’imperfezione si rimanda all’intervista di F. Pierangeli a M. Belpoliti, «L’incompiutezza non ci esime dal desiderare di compierci», in «Studium», vol. 4, 2023, pp. 657-62, ma anche all’intervento di Pierangeli dal titolo Le forme «sempre in qualche modo imperfette». Dallo zoo di Palomar, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione.
  22. In merito ai legami tra Calvino e Ariosto, rimandiamo a R. Maggiore, «Egli si ostina a disegnare una fiaba». L’Ariosto di Italo Calvino e il suo dialogo con Roberto Battaglia, in «Bollettino ’900», nn. 1-2, 2020; L.W. Petersen, Calvino lettore dell’Ariosto, in «Revue Romane», vol. 26, 2, 1991; G. R. Cardona, Fiaba, racconto e romanzo, in Italo Calvino. Atti del convegno internazionale,
    Milano, Garzanti, 1988, pp. 187-201. Per la presenza di Tasso nel Visconte dimezzato rimandiamo a L. Carpanè, Medardo liberato e ricostruito: per una lettura del Visconte dimezzato attraverso Tasso, in «Studi novecenteschi», vol. 36, n. 77, 2009, pp. 119-35.
  23. Si rimanda ancora agli Atti del convegno sopra citato per l’intervento di B. Falcetto, «Il mondo è fatto a pezzi». Lessico e emozioni del costruire in Calvino.
  24. I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960), op. cit., p. 1211. Questi nobili dimidiati, rampanti, inesistenti lo sono in un’accezione ancora più profonda, se pensiamo che Calvino scrive in un tempo in cui in Italia i titoli nobiliari sono decaduti.
  25. I. Calvino, Il visconte dimezzato, op. cit., p. 420.
  26. I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, op. cit., p. 272.
  27. I. Calvino, Il visconte dimezzato, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., pp. 421-22.
  28. Si rimanda ancora a F. Pierangeli, Le forme «sempre in qualche modo imperfette». Dallo zoo di Palomar, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione.
  29. I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, p. 942.
  30. Ivi, p. 943.
  31. Ivi, pp. 940-941.
  32. Il sintagma è estrapolato da Pierangeli da un frammento non entrato nell’edizione definitiva del volume del 1983 dell’Osservatorio di Palomar, Palomar e Michelangelo (F. Pierangeli, Le forme «sempre in qualche modo imperfette». Dallo zoo di Palomar, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione).
  33. I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, op. cit., pp. 938-39.
  34. I. Calvino, Essere pietra, in Id., Romanzi e racconti, vol. 3, op. cit., p. 419.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Calvino e il mito, tra presa di distanza e attualizzazione

Author di Bruno Mellarini

Secondo Northrop Frye i miti, nel loro mutare, divengono essenzialmente delle convenzioni letterarie. Accade così, per esempio, che il mito dell’età dell’oro si riduca a una «convenzione pastorale»[1], e che il sentimento del divario fra la potenza divina e l’orgoglio umano si trasformi in una «convenzione tragica»[2]: si tratta, dunque, di un percorso di degradazione, per cui lo spessore drammatico del mito si attenua e assottiglia, mentre sale in primo piano il suo valore di immagine o di semplice analogia. Di parere diverso, sotto questo riguardo, è d’Arco Silvio Avalle, secondo cui «gli elementi del mito e della tradizione folclorica passati nella letteratura, se, in alcuni casi, si trasformano, come vuole Frye, una volta entrati a far parte della letteratura, molto spesso continuano anche nella letteratura senza modificazioni sostanziali quanto alla loro identità»[3]. Posizione del tutto condivisibile, questa, e peraltro in linea con gli assunti di un Autore come Calvino, da sempre attento a cogliere le continuità che sottendono la tradizione letteraria, le “potenzialità” insite, per così dire, nel materiale narrativo di partenza, che, al pari delle carte dei tarocchi, può essere diversamente disposto e configurato secondo i noti modelli riconducibili alle teorie semiologiche di ascendenza strutturalista.

Ma qui sarà necessario intendersi, preliminarmente, sul concetto di mythos: in effetti, il mito di Frye e di Avalle non è lo stesso mito di cui parlano, solo per citare due esempi molto noti, Jesi o Steiner. E, se per Jesi il mythos è per definizione una dimensione sfuggente e inconoscibile, inattingibile e refrattaria a farsi afferrare in virtù del discorso governato dal logos[4], e per Steiner null’altro che un racconto fondativo dell’umano stesso, cui l’uomo attinge da sempre per conferire senso e valore a un’esistenza altrimenti condannata alla stretta di antinomie e contraddizioni insuperabili[5], è chiaro che esso si pone come qualche cosa di mutevole e inafferrabile nella misura in cui risponde a concezioni ed epistemologie profondamente diverse, su cui non è possibile soffermarsi in questa sede se non in modo cursorio.

Ora, venendo al modo in cui Calvino considerava il mito, non si può non notare, innanzi tutto, una pregiudiziale forma di resistenza, come se il mito venisse di per sé percepito non solo nella sua distanza e inaccessibilità, ma anche nel suo essere fondamentalmente estraneo a un orizzonte di tipo razionalistico-illuministico (e sia pure in riferimento a un illuminismo critico, che fin dalla Giornata d’uno scrutatore è chiamato a confrontarsi con le dimensioni scandalosamente “altre” della natura e del biologico, del mostruoso e dell’inassimilabile). Quel Calvino che, se avesse dovuto scegliere tra la Linea d’ombra e il Cuore di tenebra dell’amato Conrad, avrebbe scelto senza esitare la Linea d’ombra, ovvero il romanzo di formazione che segue il tracciato di una crescita e di un’evoluzione progressiva, di una parabola individuale di maturazione e ritrovamento di sé, di contro al racconto che insiste invece sulla perdita di sé, sullo sprofondamento nel magma torbido e incontrollabile degli istinti.

Si consideri dunque, a questo proposito, la visione ascrivibile a un autore caro a Calvino com’era il mentore Pavese, dalla cui concezione mitica, fondata sul retaggio ancestrale di terra sesso e sangue, l’autore delle Città invisibili prese ben presto le distanze, conscio, forse, del radicarsi in essa d’un oscuro pericolo di smarrimento, di perdita d’orientamento e direzione. Di qui, non a caso, una certa resistenza, un giudizio non del tutto positivo su un’esperienza pavesiana comunque centrale qual è quella della Luna e i falò, testo-chiave che già isola un nucleo mitico nel suo stesso titolo, esibendo un intreccio inestricabile tra ancestrali ritualità contadine e inquietanti influssi naturali, e che a Calvino poteva apparire non privo di tonalità – diciamo così – “decadentistiche”.

E non c’è nulla, in effetti, che sia più lontano dalla visione di Calvino. Che si fa portatore di una concezione mitica fortemente razionalizzata – se non, addirittura, “tecnicizzata”, per tornare alle formulazioni di Furio Jesi –, ossia depurata degli elementi potenzialmente più perturbanti, come accade, e in modo esemplare, nell’apologo La decapitazione dei capi (1969), in cui la periodica, ritualizzata ribellione contro chiunque detenga il potere si riveste di forme asettiche e depurate, quasi si trattasse di compiere un’operazione chirurgica destinata a non lasciare alcun segno[6]. Non sarà un caso, allora, che la “decapitazione” di cui si legge nel titolo lasci il posto a una più accettabile «potatura» o comunque mutilazione dei capi, come avviene nella terza e quarta parte dell’apologo, quelle ambientate nella Russia zarista:

– È solo una cosina leggera, di grande significato ma in sé non grave, ohi ohi ohi, un po’ dolorosa, certamente, ma è perché si possa riconoscervi come i capi davvero, i nostri capi benvoluti, una mutilazione, è solo quello, quando è fatta è fatta, una piccola mutilazione una volta ogni tanto […]. Già i membri del direttivo erano immobilizzati da decine di braccia robuste. Sul tavolo disponevano le garze, le bacinelle col cotone, i coltelli seghettati. L’odore d’etere impregnava l’ambiente. Le ragazze apparecchiavano svelte, diligenti, come se da tempo ognuna si fosse preparata al suo compito[7].

Affiora in tal modo l’idea di un mito razionalizzato, in certo modo funzionalizzato a un discorso che, mentre per un verso sviluppa una riflessione critica in ordine alle degenerazioni del potere in qualsivoglia forma venga promosso ed esercitato, per l’altro prende le distanze da ogni residuo ancestrale, rimuovendo di conseguenza ogni ipoteca psicoanalitica o simbolica riconducibile, anche sulla scorta delle teorie di Frazer, ai temi del sacrificio tribale, dell’uccisione del capo tribù o della “rimozione” del padre.

Nel contempo, sarà bene non farsi condizionare troppo nemmeno dal Calvino cosiddetto “combinatorio” e, contestualmente, dalle letture che sottolineano eccessivamente il peso della fase struttural-semiologica: che indubbiamente c’è stata, ma che non va sopravvalutata nei suoi esiti e nei suoi conseguimenti finali. In proposito, va detto subito che il mito per Calvino è a ogni modo ben più di un semplice dispositivo narratologico, ben più di un “modo” per raccontare la realtà, e sia pure in un’ottica fortemente problematizzata[8], come egli stesso aveva peraltro lasciato intendere, in particolare nel saggio del 1978 I livelli della realtà in letteratura («Io scrivo che Omero racconta che Ulisse dice: io ho ascoltato il canto delle Sirene»)[9], in cui si evidenziava, tra l’altro, l’unicità del personaggio di Ulisse e l’irripetibilità della sua esperienza mitica.

Ma dove ricercare, allora, le più significative emergenze mitiche nell’opera di Calvino? Diremmo di scartare, innanzi tutto, le soluzioni più facili e quindi gli espliciti rimandi alle dramatis personæ che si ritrovano, ad esempio, nella Taverna dei destini incrociati, dove compaiono riferimenti a Tiresia, alle sfingi, alle sibille delfiche, al «marinaio fenicio annegato»[10] di eliotiana memoria etc.; tutte tessere e immagini di un mito ripreso dalla tradizione per la sua immediata riconoscibilità e disponibilità, nelle sue versioni già impostate e definite dalla tradizione, e che vale soprattutto come gioco per cui, borgesianamente, sentieri e destini non possono che incrociarsi. Faremo un’eccezione solo per il personaggio di Edipo, colto nell’incrocio tra la strada che viene da Corinto e quella che va a Tebe, e subito rifunzionalizzato come simbolo della «forza che non sa fermarsi in tempo, bisonte o uomo o condor», la quale forza «fa il deserto intorno e ci lascia le cuoia, e servirà da pascolo alle formiche e alle mosche…»[11].

Più interessante, al di là di queste figurazioni d’immediata disponibilità, è il recupero da parte di Calvino di emblemi più sottilmente inquietanti, a partire da quella figura dell’“intrico” che è stata riconosciuta come antecedente, in quanto di per sé generativa, rispetto a un’altra figura chiave qual è quella del labirinto[12]. Un intrico, per esempio, è la città di Perinzia – che, benché progettata in modo da rispecchiare l’«armonia del firmamento», è popolata solo di esseri imperfetti o deformi, che rimandano all’“antimondo” del Cottolengo, a ciò che non è possibile guardare direttamente: «Nelle vie e piazze di Perinzia oggi incontri storpi, nani, gobbi, obesi, donne con la barba. Ma il peggio non si vede; urli gutturali si levano dalle cantine e dai granai, dove le famiglie nascondono i figli con tre teste o con sei gambe»[13].

Perinzia si presenta dunque come un labirinto, che cela i propri figli deformi così come nel Labirinto cretese si nascondeva il mostruoso Minotauro: è la «città dei mostri» che, anziché rispecchiare le armonie celesti degli dèi, ne esemplifica la volontà perversa, quella volontà che sembra imporre il male, l’incongruente e il deforme come ineluttabile legge di natura. Ma l’intrico-labirinto, si direbbe, è sempre in agguato, è la figura simbolica con cui Calvino non ha mai smesso di fare i conti. Esemplare, recuperando dagli Amori difficili L’avventura di un poeta, la vicenda del protagonista Usnelli, che passa dall’idillio vacanziero con la bellissima Delia H., tra paesaggi incantevoli e tuffi in meravigliosi specchi d’acqua, all’ingresso, appunto, nel labirinto inestricabile delle contraddizioni storico-sociali, ben esemplificato dall’immagine finale del «groviglio» di parole dove «restava solo il nero, il nero più totale, impenetrabile, disperato come un urlo»[14], a significare l’impenetrabilità del reale, l’opaca e respingente inconoscibilità del mondo, il suo sottrarsi a qualsiasi griglia o modello interpretativo che si possano immaginare.

Di qui la difficoltà, di cui Calvino è sempre stato ben consapevole, di ritrovare, grazie alla parola, una direzione certa e un orientamento sicuro nella riconosciuta, ineludibile complessità e contraddittorietà di un mondo che sfugge a tutti i possibili modelli e che non si lascia racchiudere in nessuna definizione esaustiva e, per così dire, ultimativa: come ha scritto Luigi Malerba, «[s]i insegue una definizione delle cose dentro un ordine stabile e si finisce per trovare ogni volta sui propri passi il vuoto e il caos»[15]. D’altra parte l’ordine non esiste, o, per meglio dire, non esiste ordine che non sia apparente o illusorio, passibile di rovesciarsi nel suo opposto: come ci ricorda Daniele Del Giudice, per Calvino «tout ordre est provisoire, constamment grignoté par le Chaos, tels des châteaux de sable sur le rivage de la mer»[16].

Non sorprende, allora, che la nostra condizione sia del tutto assimilabile a quella di Parsifal, l’aspirante cavaliere che «corre il mondo leggero», mentre «splendente di chiara ignoranza attraversa contrade gravate da un’oscura consapevolezza»[17]. «Un’oscura consapevolezza»: è dunque questa, forse, la condizione che contraddistingue lo stesso Calvino a partire dagli anni Settanta, in opere in cui lo scrittore non esita ad affrontare, come ha scritto Paolo Zublena, il «lato oscuro della realtà»[18], e nelle quali sembrano predominare «la negatività, l’impressione di caducità, di stoica disperazione»[19]. E se è vero che le invisibili città calviniane appaiono, non diversamente dai sogni, «costruite di desideri e di paure»[20], ci sembra che siano in particolare le paure ad alimentare l’immaginario di Calvino nello scorcio tra anni Sessanta e Settanta e oltre, quando l’esplodere della crisi sociale ed economica mette in discussione utopie palingenetiche e visioni “progressive” di ogni tipo. È questo il Calvino, come è stato osservato, che si accosta alla blanchotiana “scrittura del disastro”, nella precisa consapevolezza che «il tentativo di catalogare il reale cozza contro la sua impenetrabilità, ne coglie magari la superficie ma non l’essenza. Le parole si giustappongono fino a confondersi tra loro, in quanto sganciate dagli oggetti»[21]. Ci soffermeremo, a tale riguardo, su due testi esemplari, due “cosmicomiche” composte in tempi diversi e diversamente connotate: Lo zio acquatico e L’altra Euridice (testo, quest’ultimo, pubblicato per la prima volta nell’autunno 1980 sulla rivista «Gran Bazaar»).

Nella prima, una fantasia cosmogonica sulla nascita e l’evoluzione di creature ibride formatesi nel passaggio dall’ambiente equoreo a quello terrestre (ma con “lo zio acquatico” che si ostina a preferire la precedente forma di vita, rifiutandosi di uscire dall’acqua…), il tema è l’ininterrotta metamorfosi delle cose e del mondo, quella continua, inesausta trasformazione per cui «sarebbe potuto sopravvivere solo chi era disposto a cambiare talmente le basi della propria esistenza, che le ragioni per cui era bello vivere sarebbero state completamente sconvolte e dimenticate»[22]. Al centro, dunque, le ragioni «per cui era bello vivere», ragioni che mutano nell’adeguamento alle nuove, diverse situazioni ma che di fatto non vengono mai meno. Se questa è una linea tematica d’immediata evidenza, il vero confronto è però quello che avviene tra il protagonista e il personaggio femminile di Lll, una sorta di novella Euridice che, attratta dalla vita sott’acqua, si perde infine nelle profondità marine, scegliendo l’interno della vita sommersa[23] anziché l’esterno della nuova vita che si sta diffondendo sempre più sulla terraferma:

L’avevo perduta? Nel dubbio, mi precipitai a riconquistarla. Presi a compiere prodezze: nella caccia agli insetti volanti, nel salto, nello scavare tane sotterranee, nella lotta coi più forti dei nostri. Ero fiero di me stesso, ma purtroppo ogni volta che facevo qualcosa di valoroso, lei non era lì a vedermi: spariva continuamente, non si sapeva dove andasse a nascondersi[24].

In parte diverso è il discorso per L’altra Euridice, testo straordinario e cosmicomica sui generis, la cui struttura narrativa riprende un pattern che rimanda al mito classico – quello raccontato da Virgilio e da Ovidio –, modificandolo però secondo uno schema incentrato sul ribaltamento dei ruoli: Euridice diviene infatti la sposa di Plutone, mentre Orfeo è il suo rapitore, colui che, attirandola con l’inganno del canto, l’ha allontanata dalle sue origini e condotta nel suo mondo extra-terrestre di superficie. La vicenda si dipana dunque secondo un asse topologico molto chiaro, che istituisce anche in questo caso una tensione dialettica tra dentro e fuori, interno ed esterno. Gli “autentici” terrestri saranno allora i due sposi Plutone ed Euridice, mentre gli altri – i “nemici”, per così dire, gli antagonisti naturali – sono coloro che abitano la superficie della Terra, luogo per antonomasia dell’invivibilità, dell’assenza e della perdita di senso, sul quale si estende

la fascia che delimita la vostra vita di superficie, con le antenne inalberate sui tetti a trasformare in suono le onde che percorrono invisibili e inudibili lo spazio, coi transistor appiccicati agli orecchi per riempirli in ogni istante della colla acustica senza la quale non sapete se siete vivi o morti, coi jukebox che immagazzinano e rovesciano suoni, e l’ininterrotta sirena dell’ambulanza che raccoglie ora per ora i feriti della vostra carneficina ininterrotta[25].

Altrettanto esplicita la conclusione, con la definitiva presa d’atto da parte di Plutone dell’impossibilità di fare della Terra «una sfera vivente»[26], di agire fattivamente in modo tale da riscattarla dal male una volta per tutte. E senza dimenticare che la «carneficina ininterrotta», traslata su uno sfondo storico-mitologico di tutt’altro genere, post classico e centroamericano, è anche quella che lo sconfitto Montezuma, nell’omonimo “dialogo storico” del 1974, rinfacciava al proprio interlocutore, il personaggio che dice “io”, allorché rievocava le stragi compiute dagli spagnoli giunti nel Messico al seguito di Hernán Cortés:

MONTEZUMA – Un senso [quello della storia] che gli vuoi imporre tu, uomo bianco! Altrimenti il mondo si sfascia sotto i tuoi piedi. Anch’io avevo un mondo che mi reggeva, un mondo che non era il tuo. Anch’io volevo che il senso di tutto non si perdesse.

IO – So perché ci tenevi. Perché se il senso del tuo mondo si perdeva, allora anche le montagne di teschi accatastate negli ossari dei templi non avrebbero avuto più senso, e la pietra degli altari sarebbe diventata un banco di macellaio imbrattato di sangue umano innocente!

MONTEZUMA – Così oggi guardi le tue carneficine, uomo bianco[27].

Si può cogliere così, sia nel dialogo di argomento storico del 1974 che nell’Altra Euridice, una tensione dialettica che induce Calvino a interrogarsi, nell’un caso e nell’altro, sulla negatività del presente e sull’insuperabile tragicità della Storia, in cui non si dà linea di progresso che non si possa rovesciare nel suo contrario, con la conseguente demolizione di ogni idea circa la presunta superiorità di una civiltà rispetto all’altra, per cui si scopre che non vi è sostanziale differenza, come si è visto, tra Cortés e Montezuma. Non solo: il mito, nella sua intangibile purezza e gelida fissità, può sussistere solo nell’opera d’arte o, più specificamente, nello sguardo dell’artista metafisico, che lo ritrova intatto nella sua sostanza primigenia, collocato com’è in una dimensione al di fuori del tempo e della Storia[28]; ma diverso, come si è visto, è il discorso per quanto riguarda l’Altra Euridice, le cui figure mitiche rimandano direttamente, in un vero e proprio corto circuito, alla contraddittorietà e drammaticità del presente, alla realtà di un mondo contemporaneo devastato dalle guerre e sconvolto dalle stragi, insanguinato da quella «carneficina ininterrotta» che s’identifica, fin dai tempi di Montezuma e ancora prima, con il procedere della Storia stessa.

Di qui, infine, il senso che il mythos assume per Calvino, il quale non si limita certo a offrire delle riscritture, delle semplici riprese e continuazioni a partire dal materiale trasmessogli dalla tradizione. Il suo, infatti, è sempre un andare oltre, un proporre qualche cosa che travalica, arricchendolo, il senso delle fabulæ antiche: come ha osservato in modo sintetico ma del tutto persuasivo Wladimir Krysinski, «[p]er Calvino, scrivere narrazione come metanarrazione significa riutilizzare modelli letterari o discorsivi preesistenti allo scopo di raggiungere un nuovo senso e trasmettere un nuovo messaggio»[29]. A emergere, insomma, sono le risorse intrinseche al mito che, ripetendosi e realizzandosi ogni volta in forme diverse, lascia affiorare nuove interpretazioni e, quindi, nuove possibilità di senso.

Detto in altri termini, e con particolare riferimento al testo in esame: de nobis fabula narratur, ovvero di un mondo che già allora, quando Calvino scrisse L’altra Euridice, appariva drammaticamente assediato dall’insensatezza universale, mentre si addensavano attorno le nubi minacciose degli anni di piombo, delle stragi e dei disastri ecologici.

Ecco allora che Calvino ci si rivela, forse in modo inatteso, nelle vesti di mitografo, non solo di narratore ma anche di creatore di fiabe e di miti; ed è una mitografia, la sua, in cui il recupero del passato, lungi dall’esaurirsi in un brillante e ludico montaggio dei materiali messi a diposizione dalla tradizione, si ricollega a una particolare idea di immaginazione, corrispondente a una concezione che lo scrittore avrebbe poi esplicitato nella voce “Visibilità” delle Lezioni americane, dove si legge quanto segue:

Ma c’è un’altra definizione in cui mi riconosco pienamente ed è l’immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere. Nella trattazione di Starobinski questo aspetto è presente là dove viene ricordata la concezione di Giordano Bruno. Lo spiritus phantasticus secondo Giordano Bruno è “mundus quidem et sinus inexplebilis formarum et specierum” […]. Ecco, io credo che attingere a questo golfo della molteplicità potenziale sia indispensabile per ogni forma di conoscenza[30].

Ed è proprio l’immaginazione – intesa in questo senso, ovvero come repertorio del possibile ed esplorazione di ciò che non è stato ancora tentato – che permette a Calvino, sul filo di una «fantasia figurale»[31] che è consustanziale al definirsi del mito stesso, di non fermarsi sulla soglia di una concezione negativa, di non arrendersi a una considerazione puramente nichilistica e disperante del mondo, su cui L’altra Euridice sembra peraltro lasciare ben pochi dubbi. Se è vero che il mondo – come suggerisce Kafka nelle sue riflessioni maggiormente influenzate dal pensiero gnostico e cabalistico – «è il nostro stesso smarrimento», uno smarrimento che fa del mondo stesso un’entità «indistruttibile»[32], è altrettanto vero, in virtù della tensione antinomica soggiacente al pensiero di Calvino – autore che non offre mai delle soluzioni chiuse e ultimative –, che permangono intatte le possibilità inerenti al sogno e, con esse, la tensione verso una realtà “altra”, compiuta e pienamente realizzata, in grado di assorbire entro il proprio ordine armonico ogni elemento incongruo e dissonante.

Ciò avviene in particolare, a nostro modo di vedere, all’altezza delle Città invisibili: al riguardo, il caso più emblematico è forse quello di Armilla, città che a sua volta è leggibile come un labirinto, tracciato in questo caso dalle tubature d’acqua attraverso le quali sono penetrate ninfe e naiadi. Ed è, questo, un labirinto che non rimanda allo smarrimento e al caos ma a un’idea di vita possibile, improntata all’armonia e alla bellezza, dal momento che le città sono anche – come ha scritto Guido Almansi – «suggerimenti amorosi»[33]. Ed è appunto in questo senso che si dovranno leggere, nell’ennesima proiezione mitografica di Calvino, le mirabili immagini acquatiche su cui si chiude la descrizione della città, immagini che si possono facilmente ricondurre a quell’àmbito della leggerezza, della realtà svuotata e alleggerita del proprio peso, di cui ha parlato di recente Daniela Privitera[34]:

Abbandonata prima o dopo esser stata abitata, Armilla non può dirsi deserta. A qualsiasi ora, alzando gli occhi tra le tubature, non è raro scorgere una o molte giovani donne, snelle, non alte di statura, che si crogiolano nelle vasche da bagno, che si inarcano sotto le docce sospese sul vuoto, che fanno abluzioni, o che s’asciugano, o che si profumano, o che si pettinano i lunghi capelli allo specchio. Nel sole brillano i fili d’acqua sventagliati dalle docce, i getti dei rubinetti, gli zampilli, gli schizzi, la schiuma delle spugne[35].

E così anche Armilla, città per definizione incompiuta, visibile in virtù delle sole strutture idrauliche assurge – come il Cottolengo di Torino nella sua «ora perfetta» e l’«inferno dei viventi» su cui si chiudono le Città invisibili – a emblema d’una diversa, possibile configurazione dell’umano, in forza della quale il negativo e l’incongruente, il caotico e il frammentario si possono alfine riscattare, rovesciando così la desolata percezione di Kublai, costretto a riconoscere lo «sfacelo senza fine né forma»[36] del proprio impero, ma senza dimenticare, come ci ricorda Privitera, che la “sfida al labirinto” «non presuppone alcuna vittoria ma la convivenza con il dolore, il limite, la sconfitta e la fiducia nell’uomo»[37].

Bibliografia

Opere di Calvino:

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Id., Romanzi e Racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, voll. 3, Milano, Mondadori, 1992 e 1994;

Id., Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, voll. 2, Milano, Mondadori, 1995.

Opere su Calvino:

N. Frye, Littérature et mythe, in «Poétique», 8, 1971, pp. 489-514;

D’A. S. Avalle, Dal mito alla letteratura e ritorno, Milano, Il Saggiatore, 1990;

D. Del Giudice, Un écrivain diurne, in «Magazine littéraire», 274, 1990, pp. 26-29;

F. Kafka, Quaderni in ottavo, a cura di I. A. Chiusano, Milano, SE, 1991;

L. Malerba, Queste perfide cosmitragiche, in Italo Calvino. Enciclopedia: arte, scienza e letteratura, «Riga», 9, 1995, pp. 184-87;

C. Benussi, Mythos e storia, in Italo Calvino: a writer for the next millennium. Atti del Convegno internazionale di studi di Sanremo (1996), a cura di G. Bertone, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998, pp. 323-31;

P. Zublena, L’ultimo Calvino tra precisione e disastro, in Italo Calvino: a writer for the next millennium, op. cit., pp. 333-56;

C. Benussi, Il mito classico nel riuso novecentesco: Marinetti, Savinio, Bontempelli, Gadda, Calvino, in «Humanitas», LIV, 4, 1999, pp. 554-77;

G. Steiner, La nostalgia dell’assoluto, a cura di D. Bidussa, Milano, Bruno Mondadori, 2000;

G. Almansi, Le città illeggibili, in La visione dell’invisibile. Saggi e materiali su “Le città invisibili” di Italo Calvino, a cura di M. Barenghi, G. Canova e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2002, pp. 123-29;

G. Bonsaver, Città senza tempo: cronologia “debole” e tracce benjaminiane nelle «Città invisibili» di Italo Calvino, in «Italianistica», 2-3, maggio-dicembre 2002, pp. 51-62;

W. Krysinski, Il romanzo e la modernità, tr. it. di M. Manganelli, Roma, Armando, 2003;

M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007;

F. Jesi, Mito, a cura di A. Cavalletti, Macerata, Quodlibet, 2023;

D. Privitera, Etica e Leggerezza: la profezia di Calvino sulla letteratura del terzo millennio, in Intrecci, sentieri e labirinti. Calvino a scuola a cento anni dalla nascita. Atti del Convegno IPRASE (2022), a cura di M. Chicco e B. Mellarini, Trento, IPRASE, 2023, pp. 55-65.

  1. N. Frye, Littérature et mythe, in «Poétique», 8, 1971, pp. 489-514, cit. a p. 497.
  2. Ibidem.
  3. D’A. S. Avalle, Dal mito alla letteratura e ritorno, Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 14.
  4. «L’oggetto in sé delle presunte “scienza” e “storia” del “mito”, dunque il mito, sfugge a qualsiasi conoscenza scientifica poiché è una sorta di oggetto fantasma che, non appena accenna a concretarsi in una data ipostasi, rinvia implicitamente la conoscibilità della sua essenza ad un’ipostasi precedente e inaccessibile oggi, perduta»: F. Jesi, Mito, a cura di A. Cavalletti, Macerata, Quodlibet, 2023, p. 46.
  5. Cfr. G. Steiner, La nostalgia dell’assoluto, a cura di D. Bidussa, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 33-34.
  6. In proposito cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 242-43.
  7. I. Calvino, La decapitazione dei capi, in Id., Romanzi e Racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, vol. III, pp. 252-53.
  8. «[…] una frase come “Ulisse ascolta il canto delle sirene” […] non è più possibile, perché ormai il mito non svela più il proprio rapporto con la realtà, ma solo il modo di raccontarla»: C. Benussi, Il mito classico nel riuso novecentesco: Marinetti, Savinio, Bontempelli, Gadda, Calvino, in «Humanitas», LIV, 4, 1999, pp. 554-77, cit. a p. 576.
  9. I. Calvino, Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, pp. 381-98, cit. a p. 387.
  10. I. Calvino, La taverna dei destini incrociati, in Id., Romanzi e Racconti, Milano, Mondadori, 1992, vol. II, p. 558.
  11. Ivi, p. 561.
  12. Cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, op. cit., p. 43.
  13. I. Calvino, Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 480.
  14. I. Calvino, Gli amori difficili, Torino, Einaudi, 1970, p. 95.
  15. L. Malerba, Queste perfide cosmitragiche, in Italo Calvino. Enciclopedia: arte, scienza e letteratura, «Riga», 9, 1995, pp. 184-87, cit. a p. 185.
  16. D. Del Giudice, Un écrivain diurne, in «Magazine littéraire», 274, 1990, pp. 26-29, cit. a p. 27.
  17. I. Calvino, La taverna dei destini incrociati, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 588.
  18. P. Zublena, L’ultimo Calvino tra precisione e disastro, in Italo Calvino: a writer for the next millennium. Atti del Convegno internazionale di studi di Sanremo (1996), a cura di G. Bertone, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998, pp. 333-56, cit. a p. 351, nota 29.
  19. G. Bonsaver, Città senza tempo: cronologia “debole” e tracce benjaminiane nelle «Città invisibili» di Italo Calvino, in «Italianistica», 2-3, maggio-dicembre 2002, pp. 51-62, cit. a p. 56.
  20. I. Calvino, Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, pp. 391-92.
  21. P. Zublena, L’ultimo Calvino tra precisione e disastro, art. cit., p. 335.
  22. I. Calvino, Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 150.
  23. Che si tratti di una scelta nostalgica e regressiva, e da leggersi in opposizione al movimento inarrestabile della Storia che avanza, è stato opportunamente rilevato da Cristina Benussi: cfr. C. Benussi, Mythos e storia, in Italo Calvino: a writer for the next millennium, op. cit., pp. 323-31, cit. a p. 326.
  24. I. Calvino, Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 152.
  25. I. Calvino, L’altra Euridice [1980], in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. III, p. 1185.
  26. Ivi, p. 1177.
  27. I. Calvino, Montezuma, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. III, p. 197. Gli effetti di un’altra carneficina, in questo caso ai danni dell’«armata imperiale», sono descritti anche nella Storia del guerriero sopravvissuto inclusa nella Taverna dei destini incrociati: «Alcuni che La Morte non ha ancora irrigidito annaspano come imparando a nuotare nella fanghiglia nera del loro sangue. Qua e là fiorisce una mano, s’apre e chiude cercando il polso da cui è stata troncata, un piede si prova a muovere passi leggeri senza più un corpo da reggere sopra le caviglie, teste di paggi e di sovrani scrollano le lunghe chiome ricadenti sugli occhi o cercano di raddrizzare la corona sghemba sulla calvizie e non fanno che scavare la polvere col mento e masticare ghiaia»: I. Calvino, La taverna dei destini incrociati, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 568.
  28. «Certo che in queste piazze puoi incontrare i due Dioscuri, nudi, con una lancia, o Edipo, cieco, col bastone. Ma tu sai che i Dioscuri sono e saranno sempre i Dioscuri, che Edipo sarà sempre Edipo; il loro modo d’essere ha l’inevitabilità delle cose sicure sotto il cielo, sulle quali l’attenzione scorre senza incagliarsi»: I. Calvino, Viaggio nelle città di de Chirico [1983], in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. III, pp. 397-406, cit. a p. 401.
  29. W. Krysinski, Il romanzo e la modernità, trad. it. di M. Manganelli, Roma, Armando, 2003, p. 246.
  30. I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p. 91.
  31. Ivi, p. 89.
  32. F. Kafka, Quaderni in ottavo, a cura di I. A. Chiusano, Milano, SE, 1991, p. 67.
  33. G. Almansi, Le città illeggibili, in La visione dell’invisibile. Saggi e materiali su “Le città invisibili” di Italo Calvino, a cura di M. Barenghi, G. Canova e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2002, pp. 123-29, cit. a p. 125.
  34. Cfr. D. Privitera, Etica e Leggerezza: la profezia di Calvino sulla letteratura del terzo millennio, in Intrecci, sentieri e labirinti. Calvino a scuola a cento anni dalla nascita. Atti del Convegno IPRASE (2022), a cura di M. Chicco e B. Mellarini, Trento, IPRASE, 2023, pp. 55-65.
  35. I. Calvino, Le città invisibili, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 396.
  36. Ivi, p. 361.
  37. D. Privitera, Etica e Leggerezza: la profezia di Calvino sulla letteratura del terzo millennio, art. cit., p. 64.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Forme del picaresco, del Bildungsroman, della fiaba nel “Sentiero dei nidi di ragno”

Author di Giovanni Barracco

La questione della forma

La storia della ricezione critica del romanzo mostra come fin dalle prime recensioni, come anche lungo le prime analisi, il discorso sul Sentiero dei nidi di ragno si sia organizzato intorno a un nodo formale, il tema – e quindi il problema – di una sua intima duplicità, di una sua strutturale ambiguità[1]. L’intuizione di Pavese, che tanto avrebbe pesato nel tempo, che rintracciava in Calvino lo scoiattolo e lo scrittore fiabesco[2] e individuava nel romanzo un «sapore ariostesco, sebbene declinato secondo l’Ariosto dei nostri tempi, Stevenson, Nievo, Kipling, Dickens, che si traveste volentieri da ragazzo»[3], più che consentire una quieta lettura favolistica del romanzo, indirizzò la critica proprio all’approfondimento, all’interrogazione di questa endiadi. Endiadi che, esplicandosi nell’apparente oscillazione del racconto tra il piano della realtà e quello della fiaba, rivelava un’ambiguità di fondo dell’opera – formale e ideologica – che si costituiva a un tempo come il cuore del problema del romanzo e il fondo sul quale giaceva la sua consistenza, il suo ineffabile spessore poetico.

All’indomani della Prefazione all’edizione del 1964[4], e dopo l’osservazione di Asor Rosa in merito a quella componente ideologica che si configura come «garante della saldatura tra ideale e reale»[5], che rappresenta l’asse su cui si regge l’opera calviniana, la critica cominciò a mettere a fuoco l’ambiguità del romanzo, riconoscendola nelle forme di (1) elemento strutturale, che operava a diversi livelli testuali, narratologici, tematici e stilistici; di (2) elemento strutturante il romanzo, necessario al suo stesso svolgersi, e di (3) elemento costitutivo dell’opera, che aveva accompagnato Calvino sin dal principio della sua ideazione e stesura, consustanziale al romanzo stesso[6]. Che questa ambiguità fosse presente a Calvino lo si osserva leggendo la Prefazione, in cui la conclusione dello scrittore ‒ che, tracciando un bilancio della narrativa resistenziale, riconosce nella Questione privata di Fenoglio il più autentico romanzo della Resistenza[7] ‒ porta a pensare, rifacendosi a Calligaris, che:

se Calvino vede in Fenoglio la resistenza così com’era, rinnegando così l’immagine idilliaca di un mondo conciliato definitivamente grazie alla resistenza vittoriosa, è segno che l’illusione del ’46 è crollata, che il sacrificio di allora gli appare ormai vanificato, che tra ’46 e ’64 si è insinuata una crisi storica – e dunque per il nostro scrittore anche formale – che noi crediamo di poter situare alla soglia degli anni Cinquanta[8].

Lungo la Prefazione del 1964, Calvino tocca tutti i problemi che, mentre ricostruiscono l’atmosfera storico-culturale all’ombra della quale egli mise mano al romanzo, costeggiano il nucleo formale contraddittorio del Sentiero: il problema del punto di vista e la scelta della terza persona, il tema del coinvolgimento autobiografico, l’opzione del punto di vista infantile, il rapporto tra narratore orale e scrittore, la rappresentazione dei personaggi, la questione ideologica e storica della Resistenza – la speranza che essa potesse costituire un momento di vera rottura, che portasse a una realtà differente – e il problema concettuale e politico del Neorealismo; infine, più in profondità, la concezione che avrebbe dovuto sorreggere il romanzo, che fosse possibile cioè una conciliazione tra individuo e storia, io e mondo, una conciliazione che, sebbene nelle forme trasfigurate del fiabesco, avrebbe potuto compiersi.

In sostanza, se dopo il Sentiero «la delusione del soggetto storico non si limita a mutilare la fiaba della sua principale scelta formale (la prospettiva infantile) […] [ma] diventa anche crisi cosciente della fiaba [perché] il soggetto ormai ha perso il controllo della storia»[9], e le sue conseguenze sono l’approdo a un modulo fiabesco depurato della sua problematicità intima, formale e storico-politica, come sarà con il Visconte del ’52[10], il Sentiero rappresenta invece un momento complesso nella parabola dello scrittore, in cui il tentativo di operare una saldatura tra il piano ideologico e quello letterario, attraverso una forma romanzo e un personaggio volutamente, insistentemente infantile, regressivo, escluso, reietto, dà luogo a un testo in cui l’elemento contraddittorio, l’ambiguità di fondo che si registra su più piani, a cominciare da quello formale, per proseguire su quello del contenuto, è costitutivo del romanzo, necessario al suo svolgersi, e testimonia non solo il tentativo di conciliare l’io e il mondo, l’individuo e la storia, ma anche il fatto che è nello scacco, nell’inconciliabilità tra questi piani, ultimo esito del romanzo, nella struggente consapevolezza di una disarmonia ormai intervenuta tra l’io e il mondo – e di una non più possibile saldatura sul piano ideologico del rapporto tra l’io e la realtà –, che risiedono il suo nucleo oscuro e pulsante, la sua forza e il suo valore – oltre anche le pretese del suo autore.

Contraddittorietà storiche, ideologiche, formali, nella stesura del romanzo

Lo scopo di questo contributo è duplice: da un lato sottolineare come le strutture del fiabesco, del picaresco e del Bildungsroman interagiscano nel romanzo e concorrano a produrre questa contraddittorietà, questa ambiguità che rende illusorio lo scioglimento positivo e finisce, invero, per evidenziare la concreta drammaticità di un percorso di iniziazione mancata che conduce non alla maturazione bensì alla cognizione del dolore dell’essere “gettati”, nel mondo, all’agnizione della disarmonia tra il sé e il tutto[11]. Dall’altro, si vuole far luce su come questa ambiguità strutturale sia un esito inevitabile – il solo possibile – del problema romanzesco, allorquando Calvino elegge, come protagonista della vicenda, un fanciullo, un ragazzetto (persino l’età del personaggio, il suo statuto socio-ontologico, di non-più-fanciullo e di non-ancora-adolescente, è ambiguo), intorno al quale si organizzerà di conseguenza una materia che non può che restituire, nel racconto di Pin, la storia della ormai impossibile riconciliazione con il mondo e con la storia. L’intersecarsi delle forme del fiabesco, del picaresco e del Bildungsroman, se concorre a produrre un oggetto contraddittorio nella forma, per le istanze da cui muove e le tensioni cui aspira, al tempo stesso dà vita a un’opera che proprio attraverso questa intima, ostinata contraddittorietà invera la sostanza ustoria della formazione negativa novecentesca, compiendo il senso del romanzo. In sostanza, anche Pin – come prima di lui per il Pietro tozziano, il Sergio di Conservatorio di Santa Teresa, Agostino e non solo[12] – è un personaggio attraverso il quale si procede a tematizzare la negatività, a sottolineare, del processo iniziatico, il viluppo di incomprensioni e traumi, la somma delle esperienze che non conducono a nessuna conoscenza razionale di sé e del mondo, le sconfitte del tentativo di decifrare e chiarificare alla coscienza la realtà, ancor più se inserito in un universo in cui la grande storia – la Resistenza, la guerra, la chiamata all’impegno – pulsa e sembra poter offrire a chi ambisca raccontarla, dopo averla vissuta, una piena significazione di sé, sembra dare la possibilità di una conciliazione di nuovo possibile tra il sé e il mondo, di poter plasmare la realtà, dare una direzione al mondo.

Si tratta cioè, anche per il romanzo calviniano, di un’operazione strutturalmente complessa, che si inserisce nella tradizione, ancora da studiare con sistematicità, di quella particolare forma di romanzo di formazione che è il “romanzo di formazione della crisi”[13], nella sua specificità italiana; il romanzo in cui, per l’appunto, i piani del picaresco e del fiabesco, lungo i cui moduli corre un insistito autobiografismo, si intersecano in una forma di romanzo di iniziazione mancata, dove l’accento è posto non sullo scioglimento positivo, bensì sulla crisi del soggetto – una crisi che coinvolge il sé e il circostante, qui acuita dalla problematica storico-ideologica sul cui asse ruota il progetto calviniano.

È ormai acquisito che all’origine del Sentiero vi era il tentativo di trovare una via, all’interno del panorama di una letteratura resistenziale, della e sulla Resistenza, alternativa all’annullamento del soggettivismo vittoriniano di Uomini e no e all’autobiografia che rinuncia alla Resistenza di Pavese[14]. Calvino sottolinea che, quando cominciò «a scriver storie in cui non entravo io»[15], vide che tutto «prese a funzionare»[16], tanto che «più lo facevo oggettivo»[17] e più il racconto gli «dava soddisfazione»[18]. La via dunque sembrò essere quella della terza persona, ma di una terza persona dietro cui si intravvedeva l’autore[19]; una terza persona particolare, un «ragazzo, un monello»[20], un mezzano, un servo, un buffone[21], il cui sguardo rimandava al rapporto complesso, contraddittorio, che si era instaurato tra Calvino e la Resistenza, a sua volta riflesso del complesso rapporto che, mediante la Resistenza – e le speranze che questa aveva acceso – si sperava si potesse ristabilire tra l’uomo e la storia. Un rapporto difficile, tanto da fargli scrivere che quello «tra Pin e la guerra partigiana corrispondeva simbolicamente al rapporto che con la guerra partigiana m’ero trovato ad avere io. L’inferiorità di Pin di fronte all’incomprensibile mondo dei grandi corrisponde a quella che nella stessa situazione provavo io, come borghese»[22]. Come anche la spregiudicatezza di Pin, in fondo, gli corrispondeva, come intellettuale.

Si diceva dell’ambiguità: se Cecchi aveva visto nel romanzo «l’acquisizione piena della favola e il suo maturo innestarsi sul reale»[23], anni dopo questa problematica, nel rapporto tra fiaba e realtà, avrebbe interessato critici quali Falaschi, Grimaldi e Piras, che avrebbero insistito molto sulla confusione, sulla contraddittorietà e sulla problematicità come cifre proprie del romanzo: l’idea di un finale di romanzo, con Pin e Cugino che camminano insieme lungo un sentiero che vorrebbe essere luogo della riconciliazione, che rappresentasse un tentativo, andato a buon fine, di conciliazione allegorica tra uomo e mondo, io e storia, così come era stata proposta da Calligaris, sarebbe stata messa in dubbio sia dal fatto che il sentiero subisce la violazione, nel racconto, da parte di Pelle[24], che lo penetra, giungendo a rubare la pistola, sia dall’attento studio del tessuto romanzesco in cui, secondo Piras, «il senso è sia una istituzione prestabilita, che occorre far apparire, sia un senso in formazione, risultante di collegamenti sotterranei»[25].

Ma anche, soprattutto, sono le scelte di Calvino, che rompono le convenzioni del fiabesco e il suo impianto[26], che smentiscono le considerazioni e le aspettative a proposito di una formazione conciliante. In tal senso, a Grimaldi che insisteva sulla problematicità di Pin, «personaggio sospeso tra storia individuale e epos collettivo»[27], vale la pena accostare, guardando a Milanini, l’idea che la sostanza profonda del romanzo risieda proprio in una problematica ambiguità del personaggio – le cui contraddizioni storico-esistenziali (fin troppo scoperto rinvio al problema ideologico con cui Calvino dové fare i conti durante la stesura del testo) e le cui peripezie configurano come sola iniziazione possibile quella alla cognizione della linea d’ombra, alla coscienza oscura della disarmonia tra il sé e il tutto[28] ‒ e del suo “procedere”[29].

L’irruzione di Pelle nel luogo incantato di Pin e il furto della pistola-talismano, oggetto sul cui valore pure la critica si è divisa, sono premonizioni della minaccia sia allo scioglimento positivo della storia sia alla possibilità della saldatura positiva, nello scioglimento, del rapporto tra soggetto e storia, del dominio del primo sulla seconda. La fragilità del segreto dei nidi di ragno si fa metafora della fragilità della fiaba come soluzione formale, quasi Calvino prevedesse che l’illusoria conciliazione tra soggetto e storia si sarebbe spezzata e che la fiaba si sarebbe rivelata impotente a rappresentare un rapporto non più classicamente armonico, ma anzi affatto alienato. L’incrinatura, dopo il ’46 e la fine del governo di unità nazionale[30], della fiducia politica nella possibilità storica nata dalla Resistenza si riflette nell’incrinatura della forma fiabesca del romanzo, di cui rimane un’atmosfera e di cui resta, al fondo, una tensione illusoria – la tensione all’unità, alla conciliazione. Ciononostante l’opera ‒ che porta la traccia di questa incrinatura ‒, attraverso i moduli del picaresco, le peripezie del protagonista, e per mezzo del suo punto di vista, prende le forme di un romanzo di agnizione negativa, di iniziazione mancata, di un romanzo di formazione che ha il suo centro proprio nella tematizzazione della negatività.

Sembra allora riconosciuto il fatto di trovarsi di fronte a un romanzo segnato dalla duplicità, che potrebbe essere confermata attraverso una sequenza di episodi: se la pistola è l’oggetto magico che «stabilisce un rapporto diverso tra chi la possiede e la realtà che la circonda, ed è in grado di trasformare l’eroe e il suo mondo»[31], questa non produce tale effetto se non in senso apparente, perché ciò che Pin ricava dal furto è una delusione – sebbene sia proprio a quell’altezza che la vicenda si innesca, e inizia l’avventura, la peripezia. Quando Pin evade dal carcere, invece di riconoscere in Lupo Rosso il suo eroe, viene quasi scacciato, e ne ricava anche qui una delusione – sebbene sia proprio in quel frangente che conoscerà Cugino. Il gioco della guerra e quello dell’eros ‒ la trasfigurazione fiabesca dei quali è resa attraverso quel dispositivo dello sguardo, già presente nel primissimo Calvino, costituito dal distanziamento, dall’allontanamento, per adattare alla propria prospettiva ciò che si vede, nella speranza di poter comprendere, capire, «possedere»[32] ‒ si risolvono entrambi in uno scacco, una sconfitta della comprensione, dietro cui non è difficile rintracciare, a una lettura psicanalitica, i segni di un’intima complicatezza che trascende il dato di una mera anagrafica acerbità[33].

Ora, mentre il movente dell’opera è rintracciabile nel tentativo di trovare «il senso della storia»[34] e nella possibilità che un senso della storia possa essere offerto, attraverso il romanzo, alla letteratura e all’uomo stesso (come la figura di Kim e l’intero capitolo IX del romanzo, con il dialogo serrato e convinto con Ferriera sembrano dimostrare[35]), la struttura del romanzo rivela un’intelaiatura sorretta da tre moduli ‒ il fiabesco, il picaresco e il formativo-iniziatico ‒ che, oltre a essere forme filogeneticamente consequenziali[36], costituiscono i tre assi lungo i quali si interseca la vicenda di Pin, attraverso i quali è possibile comprendere appieno e cogliere la struttura del romanzo e la compiutezza delle sue conclusioni – e dunque comprendere appieno l’inquietudine, l’oscuro sentimento dello scacco che accompagna il protagonista nella vicenda e che si rivela nel finale.

Fiabesco e picaresco nel Sentiero dei nidi di ragno

Sulle strutture del fiabesco, subito riconosciute, la critica si è spesa a lungo, arrivando, nel caso di Irman Ehrenzeller, a inserire il romanzo nelle fin troppo stringenti maglie della dinamica d’intreccio della fiaba magica proppiana, rintracciando nello svolgersi della fabula la struttura fiabesca della serie di prove necessarie per entrare nel mondo degli adulti, dove le prove sono altrettante peripezie «che fanno parte di un vero e proprio rito di iniziazione»[37]. Insieme a ciò, va considerato il dispositivo fiabesco come rispondente al tentativo di allontanare la realtà in modo da «poterne osservare la complessità senza scivolare nell’autobiografismo patetico o nel documento»[38].

Alla fiaba appartengono oggetti-talismano, come la pistola, di cui si è detto, e al favoloso appartiene la trasfigurazione del paesaggio da parte dell’occhio di Pin, in una scansione degli spazi in cui il bosco è ora luogo cupo e periglioso ora luogo amico e d’avventura, dove il sentiero dei nidi di ragni si contrappone alla realtà della casa della Nera, e dove l’innesto della favola nella realtà consente al lettore di quest’opera aperta di comprendere più a fondo la difficoltà del protagonista di pervenire a una chiarificazione dei fatti al di fuori di sé, come potente e plastica rappresentazione di una difficoltà di chiarificazione dei moventi della guerra, della Resistenza, degli uomini e, infine, della storia.

Come per le strutture del fiabesco, così si possono rintracciare i moduli del picaresco andando oltre la semplice constatazione di un’atmosfera picaresca e di un personaggio venato di una natura picaresca. Luperini parlava di un «fresco fascino e di una levità picaresca»[39] tipica del filone fantastico e avventuroso, ma a testimoniare la presenza dei moduli del picaresco nella struttura romanzesca è lo stesso Calvino, nella Prefazione, quando ricorre al termine di “picaro” per rinviare al personaggio di Pin e alla sua vicenda, sottolineando la natura avventurosa della sua idea di Resistenza e dunque di romanzo[40], ma anche lo statuto ambiguo del personaggio – per l’appunto, il picaro[41]. In principio, lo scrittore ripercorre il rapporto tra il paesaggio e la storia, affermando come «lo scenario quotidiano era diventato interamente straordinario e romanzesco; una storia sola si sdipanava: era l’inseguirsi e il nascondersi d’uomini armati»[42]; in un secondo momento, presenta la scelta del personaggio Pin come la conseguenza di una necessità letteraria – per fare una letteratura che non tendesse alla retorica: «per non lasciarmi mettere in soggezione dal tema […] decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio: tutto doveva essere visto dagli occhi di un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi […] in margine alla guerra partigiana, ma che […] ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo…»[43].

Poi, lo scrittore introduce la possibilità del picaresco quando ripercorre il problema del «salto dal racconto picaresco all’epopea collettiva»[44], che avrebbe rischiato di «mandare tutto all’aria»[45] e che lo spinse a inventare il distaccamento – picaresco più del personaggio stesso di Pin – del Dritto, per «continuare a tenere la storia tutta sul medesimo gradino»[46], dopo che si era reso conto, notazione non secondaria, che «era il racconto che imponeva soluzioni quasi obbligatorie»[47].

In conclusione, riportando la figura di Pin – e la galassia dei personaggi della brigata[48] – e la sua istanza narrativa al proprio problema autobiografico-intellettuale – la questione della Resistenza come momento storico che potesse inaugurare una nuova saldatura tra ideale e realtà, e che dunque costituisse il momento di un nuovo dominio del soggetto sulla storia, e dunque una nuova possibilità della letteratura di porsi come dispositivo anche ideologico-pedagogico[49] –, Calvino concludeva ricordando come il romanzo fosse nato da un «senso di nullatenenza assoluta»[50], sorto dal fatto di non essere riuscito «a essere quello che avevo sognato prima dell’ora della prova; ero stato l’ultimo dei partigiani»[51] e «carico di volontà e tensione giovanili, m’era negata la spontanea grazia della giovinezza»[52], sicché aveva scelto come protagonista Pin, «un’immagine di regressione, un bambino»[53].

La ricchezza di riferimenti all’universo del picaresco, dal gruppo dei compagni di Pin alla natura avventurosa e lieve del racconto, fino al tentativo di trovare nella storia del protagonista una mise en abyme della propria vicenda biografica – e della sua generazione – sembra autorizzare una lettura in chiave proprio picaresca del romanzo, di un picaresco da intendere sia come atmosfera romanzesca (le mangiate nel bosco tra la brigata, le chiacchiere sfacciate degli adulti, il turpiloquio del protagonista, la vicenda avventurosa di Pin lungo una topografia fitta di ostacoli e opportunità, i capricci per ottenere il moschetto, gli scherzi crudeli subìti…) sia come elemento strutturante il romanzo, soprattutto se si pensa alla scelta del punto di vista, che è quello di un fanciullo, non ancora adolescente, che deforma e trasfigura l’intera realtà e gli eventi cui pure vorrebbe partecipare – e cui pure prende parte, se non fosse che lo fa senza davvero capire quello che accade.

Da un lato, abbiamo come tipico esempio di elemento picaresco, per rifarci a Francisco Rico, una genealogia degradata, la scelta di un personaggio orfano o quasi[54]. Dall’altro, sappiamo che le peripezie che accadono al protagonista acquistano rilevanza nell’intelaiatura del romanzo in quanto riferite al «caso»[55] finale, e cioè alla conquista dell’amicizia di Cugino (prima acquisizione, positiva, che afferisce all’asse del picaresco), e all’agnizione della cupa verità del dolore che incombe su di lui e che è il solo esito dell’approdo all’adultità – la consapevolezza della disarmonia, la fine del senso – e che oscuramente Pin presagisce (seconda acquisizione, negativa, che pertiene alla dimensione della Bildung).

A conferire una connotazione picaresca, sebbene problematica, che costituisce, dopo lo strato fiabesco, il secondo asse lungo il quale il romanzo si svolge, vi sono poi le scelte lessicali e, come detto, la questione del punto di vista. Per quanto concerne i campi semantici, lo spoglio lessicale avviato da Mario Alinei nel 1984 di un romanzo così particolare[56] mostrava «la ricchezza insolita del campo semantico dell’infanzia»[57], dell’allegria, nonché la caratterizzazione animalesca dei personaggi: queste scelte rivelano come Calvino «abbia concepito la guerra partigiana in chiave picaresca, quasi caricaturale, senza però che l’allegro prevalga sul serio»[58].

Per quanto riguarda il punto di vista, se è vero che Calvino rinunciò alla prima persona perché essa è sempre una «persona della crisi, della presenza, carica di spessore esistenziale, e si addice male alla rappresentazione di un mondo conciliato»[59], la scelta della terza persona non ha impedito alla critica di ravvisare come «l’avventura di Pin e dei ragazzi sia detta e vissuta al tempo stesso, così che il narratore colga il susseguirsi contraddittorio dei personaggi e vi si confonda»[60], né ha però per questo consentito una conciliazione finale. In sostanza, il punto di vista dal basso, di un fanciullo «escluso dai […] coetanei, deriso dalle donne […], strumentalizzato dagli uomini»[61], il personaggio, insomma, di Pin «assolve una funzione romanzesca fondamentale a livello di organizzazione del racconto e dei suoi contenuti»[62]: è il protagonista ma anche e soprattutto «“l’occhio” attraverso cui il lettore segue lo svolgersi degli avvenimenti, e la sua soggettiva prospettiva si affianca a quella del narratore sia nel riferire ciò che accade sia nello stabilire, al di fuori della diegesi […], dello sviluppo dei fatti, la gerarchia dei valori e dei significati dell’opera»[63].

Il terzo asse del romanzo: una Bildung negativa

È attraverso la questione del punto di vista che si giunge al terzo asse del romanzo, quello formativo-iniziatico, che a nostro giudizio implica i due precedenti, li assimila, inserendoli in una struttura più complessa, dove il magico-favoloso del mondo virato in fiabesco dagli occhi di un personaggio che rimane sempre al di qua della cognizione delle cose, e il picaresco come atmosfera e come natura del personaggio, presenza di un punto di vista abbassato e di peripezie necessarie alla costruzione di un esito finale – la conquista di Cugino, la cognizione oscura della disarmonia con il reale –, si organizzano in un’intelaiatura iniziatica negativa che rimanda al romanzo di formazione novecentesco, e specificamente alla sua forma italiana: quello in cui l’attenzione è posta non sullo scioglimento positivo della vicenda, bensì sulla tematizzazione della negatività. La vicenda di Pin assume i connotati individuali e universali della crisi dell’individuo, della crisi del soggetto di fronte alla realtà, della crisi dell’esperienza e della sua possibilità conoscitiva, infine del problema della conoscibilità e dominabilità del reale.

L’intera vicenda di Pin non porta mai a una maturazione, a ottenere una chiarezza, una verità sulle cose, sugli uomini. Pin è contrassegnato dall’isolamento e dall’estraneità, la lingua degli adulti gli è oscura (“gap, gap” le «parole nuove e colorate»[64], non scioglieranno il loro mistero ai suoi orecchi, come ai suoi occhi – al suo sguardo che osserva tutto di scorcio, e di nascosto[65] sembra sfuggire la decifrazione di quel che accade, la chiave per comprendere ciò che pure avviene, e che il lettore invece riconosce nitidamente[66]); ed è alla ricerca di quell’amico che lo possa condurre finalmente alla maturazione – all’approdo a un mondo, ideale fine ultimo per Pin, che di ogni mondo è l’escluso, quello dei fanciulli e quello degli uomini –, di un intermediario come Cugino che renda possibile a Pin acquisire consapevolezza di sé e quindi speranza nella possibilità di dominare la realtà fuori di sé.

Ma, come nei romanzi di formazione della crisi, come appunto nel Pietro di Con gli occhi chiusi e negli altri personaggi e simili e successivi, la vista di Pin spesso si ottunde ed egli è incapace di vedere a fondo. Avviene nell’episodio del morto riverso nel bosco, che spaventa Pin ma gli fa subito dire che a spaventarsi è stato un rospo: «Pin lo guarda incantato: c’è una mano nera che sale dalla terra su quel corpo, scivola sulla carne, si aggrappa come la mano d’un annegato. Non è una mano: è un rospo; uno di quei rospi che gira la notte e ora sale sulla pancia del morto; Pin con i capelli ritti e il cuore in gola corre lontano per i prati»[67].

Oppure accade quando non capisce fino in fondo il tradimento della sorella («è mia sorella, quella scimmia. Ha sempre fatto la spia fin da bambina. C’era da aspettarselo»[68]). Ma avviene anche in prigione, quando la realtà è trasfigurata nel meraviglioso («è una cosa bellissima stare seduti insieme con Lupo Rosso dentro il serbatoio: sembra di giocare a nascondersi. Solo che non c’è differenza tra il gioco e la vita, e si è obbligati a giocare sul serio, come piace a Pin»[69]). Il fatto è che:

La nuova condizione cui il personaggio perviene alla fine del romanzo non coincide con un sentimento di possesso e controllo sul mondo, ma con la dolorosa scoperta della necessità della propria solitudine e della propria estraneità: invece di conseguire un rapporto pacificato con l’esterno, egli acquisisce un “ostinato compiacimento nel rinserrarsi in una interiorizzazione forzata”, che tra i due poli opposti, il vicolo e il distaccamento, la storia e la natura, offre non certo un tramite di dialettica conciliabilità, ma piuttosto un mezzo per sfuggire ad entrambi, rifiutando ogni apertura verso qualunque altro da sé che non sia il riflesso speculare della propria nevrosi[70].

Da ciò non si può che pervenire a un decisivo rovesciamento del significato del luogo magico del sentiero: «l’incontro col proprio simile è concesso solo nell’ambito del sentiero, proprio perché tale spazio, «ben lungi dall’essere […] la “trasposizione fantastica” di una “visione conciliata del mondo”, […] si qualifica piuttosto come spazio del dissidio totale, metafora di una chiusura interiore, universo chiuso e privato in cui si coltivano le proprie frustrazione»[71]. Accanto all’inquieto simbolismo di una natura minacciosa (che pure verso gli altri, i partigiani, intrattiene un rapporto più sereno[72]) il senso della vista – la difficoltà di guardare, di vedere, e la posizione di Pin che osserva sempre di scorcio le cose, le azioni degli uomini – nelle forme di un continuo ottundimento, di una difficoltà di visuale, di una tensione a guardare che sfocia sempre in una tensione a capire sempre frustrata, rende plastico questo dissidio intimo, questa disarmonia.

L’ultimo asse della narrazione, quello dell’iniziazione-formazione, si inscrive così perfettamente con la rappresentazione di un personaggio la cui unica modificazione è interiore, ed è rappresentata da un’acquisizione di valore negativo – l’agnizione della disarmonia – a séguito delle esperienze vissute e narrate; si forma attraverso la graduale presa di coscienza dell’impossibilità di comprendere, padroneggiare, possedere per intero il mondo, e dunque nella consapevolezza dell’irrimediabile dissonanza tra io e mondo e, dal punto di vista storico-gnoseologico, si configura come lo scacco della pretesa del soggetto di dominare la storia (o, meglio, dell’intellettuale di compiere sul piano ideologico la saldatura tra il soggetto e la realtà).

Il finale del romanzo apre all’interrogativo sul dolore dell’iniziazione («E continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano»[73]) ed è l’ultimo di una serie di momenti dominati dall’ambiguità e segnati dalla duplicità che, invece di modificare la condizione del personaggio, ne ribadiscono lungo la vicenda la «dolorosa consapevolezza della propria condizione di escluso, di non integrato, di inadeguato»[74]: la formazione di Pin è dunque la «storia di un’integrazione impossibile, e ciò che si modifica nel personaggio non è tanto nel suo effettivo rapporto con il mondo, quanto nella consapevolezza della difficoltà di qualsiasi integrazione»[75]. Questa duplicità e questa opacità della vista investono tutti i rapporti di Pin, segnati dall’impossibilità dell’incontro o dall’ambiguità: sospinto e scacciato verso Pelle o Cugino, Lupo Rosso, Baleno o il Dritto, il romanzo sembra condurre alla consapevolezza di un «sentimento della solitudine che costituisce un punto d’approdo, per una verità accertata e accettata dalla quale si deve ripartire per intrattenere rapporti non equivoci col prossimo e col mondo»[76].

Come nel finale di Agostino, anche qui la soglia dell’adolescenza si presenta carica di inquietudini, e la sola comprensione cui il personaggio può giungere è che «non era un uomo, e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse»[77]. Si può dunque dire che «l’ambiguità oscura, che esplode nel lieto fine negato ha ancora oggi una forza innegabile e vitale e fa del Sentiero un testo importante»[78], testimonianza di un’opera aperta, attuale, sul tema della crisi e dell’irriducibile frattura ormai inveratasi tra individuo e storia, uomo e natura, la speranza di una maturazione e la cognizione che la sola maturazione possibile è quella al dolore, alla consapevolezza della solitudine.

Il romanzo di un’iniziazione mancata è in realtà il romanzo di un’agnizione avvenuta, storia di un’iniziazione (in negativo) che, innervata in una trama picaresca e attraversata dallo spirito del fiabesco che trasfigura la realtà nella misura in cui questa ci viene raccontata – descritta – dal punto di vista di Pin, si compie in una tensione alla Bildung che può realizzarsi solo nelle forme di una Bildung negativa, di una presa di coscienza che l’armonia tra io e mondo – che sul piano ideologico si sarebbe potuta tradurre nel nuovo dominio del soggetto sulla storia, e nell’avvento di un momento nuovo nella vita degli uomini, vera posta in gioco dell’avventura resistenziale, e prima scaturigine da cui discende il Sentiero come opera pensata da Calvino – è perduta per sempre, e che l’adultità – se ha ancora un senso considerarla come un approdo – è solo cognizione del dissidio, dell’impossibilità di dominare la storia, della disarmonia che regola i rapporti tra le cose e l’io – e che destina il singolo a un’irriducibile solitudine, una distanza, per rifarsi a Cases, che pure non impedisce l’afflato, la tensione struggente alla ricomposizione. E che legittima, nelle forme della letteratura, la scelta, ancora, dell’impegno – sebbene forte di questa nuova consapevolezza.

Se Cases riprendeva per il primo Calvino le categorie di “romanzo di educazione” e “romanzo di sviluppo”[79], lo faceva proprio alla luce di quella tensione originaria racchiusa nel Sentiero, che ne fa un romanzo di formazione anche secondo l’antico compito che questo genere si prefiggeva, quello cioè di essere un’opera aperta che doveva essere completata dal lettore – conclusa la formazione del romanzo, nella vita. Milanini scrive di un’opera aperta, la cui posta in gioco, che è il suo stesso senso, è lasciata nelle mani del lettore[80]; la vicenda di Pin, nata da una tensione ideologica, progettata superando la problematica del coinvolgimento autobiografico, della retorica resistenziale, concepita in un momento di fiducia nella storia e scritta quando questa fiducia è già stata delusa, implica in sé l’incrinatura di questa fiducia, e ne esplica il fallimento in una forma complessa, in cui all’intelaiatura romanzesca contribuiscono il fiabesco e il picaresco, e che si risolve non sul piano di un’armonia in sede ideologica, ma su quello di un’agnizione della disarmonia tra soggetto, storia, realtà e natura che è l’esito più terso che un “romanzo di formazione della crisi” – erede della crisi modernista[81], del problema della Bildung, dell’impossibilità della comprensione dell’esperienza – possa avere, di certo, in quegli anni in Italia, davanti a una simile materia romanzesca che implicava a un tempo ideologia e vita, storia e natura, io e collettività – quale è stato il caso della vicenda resistenziale e del tentativo di raccontarla.

  1. Elencare qui i contributi sul Sentiero è impossibile, per cui si rimanda alla Bibliografia sul romanzo in A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino [1991], Milano, Mursia, 2022. La duplicità, la contraddittorietà formale, a sua volta esplicazione di una duplicità di contenuto, è ravvisata, tra gli altri, come si vedrà, da Falaschi, Pampaloni, Guglielmi, Piras, Grimaldi, oltre che ovviamente, e successivamente, da Calligaris, Cases e Milanini. Sul rapporto tra i primi critici e i nodi (le problematicità formali e politiche) della narrativa resistenziale cfr. G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976 e le riflessioni sul Sentiero di C. Milanini, Neorealismo. Poetiche e polemiche, Milano, Il Saggiatore, 1980, pp. 90-98.
  2. Così nella recensione al romanzo pubblicata su «l’Unità», 26 ottobre 1947, confluita in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi [1951], Torino, Einaudi, 1990, pp. 244-47.
  3. C. Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno, in Id., La letteratura americana e altri saggi, op. cit., p. 246.
  4. Di qui in avanti si farà riferimento a I. Calvino, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno [1964], Milano, Mondadori, 2002.
  5. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 123. A. Asor Rosa tornerà più volte sul primo Calvino e sul problema della petizione ideologica e del rischio del populismo. Cfr. A. Asor Rosa, Calvino dal sogno alla realtà, in «Mondo operaio», aprile 1958, come le pagine in A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Scrittori e massa [1965], Torino, Einaudi, 2015.
  6. L’intersecarsi di questi tre elementi è all’origine delle riflessioni più acute sulle dicotomie che attraversano il Sentiero, le contraddittorietà, le ambiguità, di cui per primo mise in luce la crucialità C. Cases, Calvino e il «pathos» della distanza [1958], in Id., Patrie lettere, Torino, Einaudi, 1974. Ma sull’elemento strutturale di simile dicotomia cfr. anche la lettura del romanzo di un esponente della neoavanguardia come A. Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo, Milano, Feltrinelli, 1964.
  7. I. Calvino, Prefazione cit., p. XXIII: «fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio […] il libro che la nostra generazione voleva fare».
  8. C. Calligaris, Italo Calvino, Milano, Mursia, 1973, p. 19. Calligaris coglie l’ambiguità formale del romanzo – anche in una prospettiva esistenziale, e non solo storico-letteraria –, pur optando infine per una lettura positiva del finale.
  9. C. Calligaris, Italo Calvino, op. cit., p. 22.
  10. Si noti che, nella ricostruzione del romanzo di formazione novecentesco italiano, Clelia Martignoni preferisce guardare al Barone rampante, lasciando da parte il caso, ben più problematico e meno ideologicamente nitido del conte philosophique del ’57, già privo dell’inquietudine del Sentiero sulla questione del rapporto tra romanzo, vita, storia, soggetto e natura. Cfr. C. Martignoni, Per il romanzo di formazione nel Novecento italiano: linee, orientamenti, sviluppi, in Il romanzo di formazione nell’Ottocento e nel Novecento, a cura di M. C. Papini, D. Fioretti, T. Spignoli, Pisa, ETS, 2007, pp. 57-93.
  11. È su questa linea che si sviluppa il dibattito sul Sentiero: semplificando, tra un’interpretazione positiva e una negativa del romanzo, della scena finale, delle peripezie e del significato – compreso o incomprensibile – che queste acquistano nel romanzo e agli occhi del lettore. Alla posizione di Calligaris – la più matura nel proporre una concezione costruttiva (positiva) della formazione di Pin, accanto alle letture più semplici dell’opera – si preferisce quella proposta da Milanini su «Belfagor», forte di un’interpretazione esistenzialistica della vicenda del personaggio, ora in C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990, pp. 13-37.
  12. I personaggi giovani del romanzo italiano del Novecento – qui si è citato Con gli occhi chiusi, Bilenchi, Moravia, ma ad essi si potrebbero accostare i personaggi dei romanzi di Quarantotti Gambini, Bassani, Morante ecc. ‒ sono segnati dal problema della conoscenza, dal trauma dell’esperienza, dal dramma della perdita di unità tra il sé e il tutto. Mi permetto di rimandare in tal senso ad alcune considerazioni sul rapporto tra Erlebnis e Erfahrung in G. Barracco, Modernismo europeo e cultura italiana in Conservatorio di Santa Teresa di Romano Bilenchi, in «Naslede», n. 54, 2023, pp. 133-47.
  13. La definizione è la sola che possa spiegare e rimandare alla specificità del romanzo di formazione nel tempo del modernismo in Europa, da un lato, e alla specificità del romanzo di formazione italiano, prettamente novecentesco e tematizzante la negatività, romanzo, cioè, sempre di crisi. Mi permetto di rimandare ad alcune considerazioni sul tema in G. Barracco, Vocazioni irresistibili, vuoti vertiginosi. Il romanzo di formazione italiano negli anni Ottanta del Novecento, Roma, Studium, 2019.
  14. Calvino fa riferimento nella Prefazione a questa divaricazione di soluzioni – peraltro osservata anche dai critici della narrativa resistenziale, in primis Falaschi.
  15. I. Calvino, Prefazione cit., p. XX. Storie in cui, cioè, “non entrava l’io”.
  16. Ibidem.
  17. Ibidem.
  18. Ibidem.
  19. Sulle interferenze, la relazione e la presenza dell’autore-Calvino dietro lo sguardo di Pin cfr. le dense osservazioni di E. Grimaldi, Storia di Pin. Virtualità e azione nel Sentiero dei nidi di ragno, in «Misure critiche», gen.-mar. 1976, pp. 33-59.
  20. Così F. Fortini, Due storie di ragazzi, in «L’Avanti!», 13 novembre 1947.
  21. Ibidem.
  22. I. Calvino, Prefazione cit., p. XX.
  23. E. Cecchi, Il visconte dimezzato, in Id., Di giorno in giorno. Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954) [1954], Milano, Garzanti, 1977, pp. 314-17.
  24. Come Calligaris stesso, comunque, riconosce.
  25. F. Piras, Arbitrarietà e motivazioni nel Sentiero dei nidi di ragno, in Dalla novella rusticale al racconto neorealista, con pref. di S. Maxia e G. Pirodda, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 155-69.
  26. La lettura proppiana del Sentiero, pure suggestiva (cfr. C. Irmann-Ehrenzeller, La struttura fiabesca nelle prime opere di Italo Calvino, in «Cenobio», ott.-dic. 1987, pp. 339-56) non pare del tutto adeguata a comprenderne le implicazioni, poiché gli elementi – personaggi, oggetti, atmosfere, peripezie – non riescono a risolversi tutti all’interno degli schemi del fiabesco, anzi sovente vi sfuggono.
  27. E. Grimaldi, Storia di Pin. Virtualità e azione nel Sentiero dei nidi di ragno, art. cit.
  28. Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, art. cit. Si ricordi che Calvino si laureò a Torino con una tesi su Conrad.
  29. Milanini descrive proprio il “lieto procedere” del romanzo – e di Pin – pur davanti alla cupa realtà del racconto di un’iniziazione negata.
  30. È uno dei cardini del discorso di Calligaris, quello di una genesi sofferta del romanzo come irrisolto tentativo, per intervenuti mutamenti storico-politici (la fine del governo di unità nazionale), di scrivere un’opera testimone di una nuova concordia, di una, appunto, nuova fase della storia – e dell’uomo. Senza confidare troppo nelle equazioni esatte tra storia e letteratura, non si può non rimarcare come l’elemento storico-politico incida nella poetica e nelle scelte letterarie di Calvino.
  31. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 94. Ponti non è persuasa di questa interpretazione, troppo stringente, come anche E. Grimaldi in Storia di Pin. Virtualità e azione nel Sentiero dei nidi di ragno, art. cit.
  32. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 98.
  33. Così C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, art. cit., pp. 32-33.
  34. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 45.
  35. Il capitolo IX, problematico e inespungibile – anche a detta dello stesso Calvino nella Prefazione – e la figura di Kim sono stati oggetto anch’essi di innumerevoli letture, molte di esse attente alla formazione di Kim e alle formazioni speculari di Kim e Ferriera. Sulla specularità tra Kim e Pin cfr. V. Spinazzola, L’io diviso di Italo Calvino, in Id., L’offerta letteraria. Narratori italiani del secondo Novecento, Napoli, Morano, 1990 (pubblicato nel settembre 1987 su «Belfagor»), pp. 43-74.
  36. Nella storia dei generi – e delle forme originarie – letterari, fiabesco, picaresco e formativo-iniziatico intrattengono un complesso rapporto filogenetico e ontogenetico. Tra i tanti studi sul picaresco cfr. F. Rico, Il romanzo picaresco e il punto di vista, Milano, Bruno Mondadori, 2001. Per il romanzo di formazione, oltre alla troppo limitante analisi di Moretti (F. Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 2001), tra i tantissimi contributi cfr. per le fonti cavalleresche E. Köhler, Il sistema sociologico del romanzo francese medievale in «Medioevo romanzo», III, 1976, pp. 321-44, e Id., L’avventura cavalleresca. Ideale e realtà nei poemi della tavola rotonda, Bologna, il Mulino, 1985 e, per l’Otto-Novecento, L’avventura della conoscenza. Momenti del Bildungsroman dal Parzival a Thomas Mann, a cura di R. Ascarelli, U. Bavaj, R. Venuti, Napoli, Guida, 1992.
  37. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 93.
  38. Ivi, p. 98.
  39. R. Luperini, Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Loescher, 1981, Tomo secondo, p. 764.
  40. Sui riferimenti letterari calviniani, già rintracciati da Pavese, si guardi all’autore stesso e ai suoi interventi su «l’Unità»: la sua riflessione letteraria muoveva da una predilezione per Verga, Omero e Sherwood Anderson, per «raggiungere una letteratura della verità nella quale lo scrittore non rimanesse schiacciato dal peso della mera oggettività né si ponesse nei termini borghesi e intellettualistici con cui generalmente la “cultura” racconta “il popolo”» (A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 41). Nella Prefazione, Calvino stesso esibisce tra i suoi riferimenti Hemingway, Stevenson, Nievo.
  41. Sulla proteiformità del picaro e sulla sua natura sfuggente, a doppio filo legata al genere del picaresco, cfr. gli studi contenuti in Le maschere del picaro. Storia di un personaggio e di un genere romanzesco, a cura di A. Gargano, Pisa, Pacini, 2020.
  42. I. Calvino, Prefazione cit., p. IX.
  43. Ivi, p. XII.
  44. Ivi, p. XIV.
  45. Ibidem.
  46. Ibidem.
  47. Ibidem.
  48. La cui rappresentazione, esente da manicheismi, costituisce, come grumo di vitalità, un punto di forza del romanzo.
  49. La questione pedagogica è sottesa al discorso di Calvino, e innerva le sue riflessioni coeve alla stesura del romanzo, in linea con la questione di un’arte come pare di un sistema culturale posto al centro di un processo necessario di risveglio politico.
  50. I. Calvino, Prefazione cit., p. XXII.
  51. Ivi, p. XXI.
  52. Ibidem.
  53. Ivi, p. XXII.
  54. Cfr. F. Rico, Il romanzo picaresco e il punto di vista, op. cit.; ma anche la sintesi che della teoresi richiana fa A. Gargano, Il romanzo picaresco tra realismo e rappresentazione della realtà, in F. Rico, Il romanzo picaresco e il punto di vista, op. cit., pp. 159-74.
  55. Ci riferiamo a F. Rico, Il romanzo picaresco e il punto di vista, op. cit., sul Lazarillo de Tormes, quando sottolinea la funzione strutturante del “caso” narrato, cornice e contenuto del romanzo; p. 13: «il nucleo del Lazarillo, in tal modo, si trova nella sua conclusione».
  56. Cfr. M. Alinei, Spogli elettronici dell’Italiano letterario contemporaneo: I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Bologna, Il Mulino, 1973. Calvino già nella Prefazione sottolinea l’importanza della questione della lingua per la narrativa resistenziale, e del rapporto con la temperie dell’espressionismo.
  57. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 47.
  58. M. Alinei, Lessico come romanzo, romanzo come lessico, in «Lingua e stile», marzo 1984, pp. 148-62: 153.
  59. Così, rifacendosi a Barthes, C. Calligaris, Italo Calvino, op. cit., p. 12.
  60. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 85.
  61. Ivi, p. 50.
  62. Ivi, p. 49.
  63. Ibidem.
  64. Così il narratore, nel descrivere l’esperienza della lingua degli adulti da parte di Pin, pp. 12-13.
  65. Cfr. le riflessioni sul “voyeurismo” di Pin in C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, art. cit.
  66. A riprova della natura di opera aperta del romanzo, che «è concepita e costruita dall’autore in modo da stabilire con lui [il lettore] un rapporto di collaborazione attiva» (A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 46).
  67. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, op. cit., pp. 84-85.
  68. Ivi, p. 139.
  69. Ivi, p. 48.
  70. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 129, che cita all’interno il lavoro di E. Grimaldi, Storia di Pin. Virtualità e azione nel Sentiero dei nidi di ragno, art. cit.
  71. E. Grimaldi, citato in A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., pp. 129-30.
  72. Cfr. F. Migliaccio, Il paesaggio nella narrativa di Italo Calvino. L’immagine della natura, l’esperienza della camminata, in Convocare esperienze, immagini, narrazioni. Dare senso al paesaggio, vol. 2, a cura di S. Aru, M. Tanca, Udine, Mimesis, 2015, pp. 99-110.
  73. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, op. cit., p. 159.
  74. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 98.
  75. Ivi, p. 95.
  76. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, art. cit., p. 34.
  77. Così conclude il narratore in A. Moravia, Agostino [1943], Milano, Bompiani, 2014, p. 169.
  78. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 116.
  79. In C. Cases, Calvino e il «pathos» della distanza, op. cit., il germanista si rifà alle categorie di Entwicklungsroman e di Erziehungsroman, “romanzo di educazione” e “romanzo di sviluppo”, articolazioni problematiche nel panorama degli studi di germanistica sul genere Bildungsroman. Cfr. su tutti L. Köhn, Entwicklungs-und Bildungsroman. Ein Forschungsbericht, Stuttgart, J. B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, 1969.
  80. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, art. cit., p. 36.
  81. Sul rapporto tra romanzo di formazione e modernismo, tra gli altri, cfr. la panoramica dell’ultimo capitolo della ultima ed. di F. Moretti, Il romanzo di formazione, op. cit., Un’inutile nostalgia di me stesso.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Ideology and mythopoesis in Giorgio Vasta’s “Il tempo materiale”

Author di David Ward

In his 2008 novel Il tempo materiale, Giorgio Vasta takes his readers on a journey through time and space. Set in 1978, the novel’s opening chapter is dated January, its final one in December. Each of the novel’s thirteen chapters is accurately dated by month and year, and sometimes days[1]. As readers, we encounter many of the historical events of that year ‒ the Acca Larentia killings of neo-fascist militants in January, the kidnap and murder of Aldo Moro between March and May, the football World Cup in June. The novel is full of topical references to television shows, publicity and personalities of the time ‒ Raffaella Carrà, Raimondo Vianello, Sandra Mondaini. As to space, save a short excursion to Rome, the novel is set entirely in a Palermo that Vasta meticulously walks us through. Street map of Palermo at hand, we can follow the movements of the novel’s three preadolescent protagonists as they wend their way through the outskirts and centre of the city. Vasta even gives us the address of Nimbo, his central character and narrator: via Sciuti, 130, a real street and a real number.

Yet, as critics have not failed to note, Vasta’s novel is very far indeed from being a «resa cronachistica» or belonging to a «regime di verosimiglianza»[2].

Starting with the novel’s central characters, three eleven year-old «preadolescenti anomali», who all have a gift for language and sophistication of ideological analysis well beyond their years, Vasta goes out of his way to denaturalize the reading experience through his use of hyperbolic, intense and extreme language. As Stefano Tofani has noted, Vasta offers his readers «parole, suoni, immagini e forme incantando il lettore, straniandolo, avvolgendolo in una lingua che raramente si legge»[3]. This is language as “other.” As Matteo Fontanone has pointed out, borrowing from the «stilemi del surrealismo, del noir e di una certa letteratura espressionista», Vasta’s prose engages in «una ricerca ossessiva dell’esattezza […] microscopica nel digerire la realtà attraverso il filtro deformante dello scrittore»[4]. Any realistic claims the novel may have are further undercut by changes in points of view and by the introduction of implausible elements such as talking animals ‒ a cat («lo storpio naturale»), a mosquito, a pigeon («il piccione preistorico») ‒ an intervention by the prophet Ezekiel, and by a short section of the novel set on Venus.

Vasta is playing contemporaneously on two tables: a mimetic one of recognizable time and space coordinates; and an anti-mimetic one of implausibility. These twin prongs act as a clue to what is perhaps most at stake in the complicated tapestry of Il tempo materiale: that is to say, the perception of temporal and spatial reality by way of cultural representation. As Raffaele Donnarumma has perceptively put it: «Vasta non ha la pretesa di raccontare la Storia: racconta come l’immaginario patisce la Storia»[5].

Vasta, then, pits the distorted time and space of the novel’s non-mimetic elements against the recognizable and mimetic elements of Italy in 1978, although as Vasta points out in an author’s note, some of the chronology is changed to meet the novel’s narrative demands[6]. Indeed, the distortion effected by language as it engages with the extra-textual reality of events like the Moro kidnap and murder by the Red Brigades, two of the text’s specific points of reference, is perhaps the overriding concern of the entire novel. Language is the protagonist of Il tempo materiale as much as its three eleven year-old linguistically dexterous central characters. One of them, above all: Nimbo, described by his school-teacher as «mitopoetico» ‒ a maker of words. This pleases him no end. It is around his mythopoetic status that Nimbo creates his sense of self. Language sets all three boys apart not only from their peers, but also from their elders and from the Palermo and Italy they live in. They despise the social and cultural reality they observe on the streets and on television; they subject it to a withering critique.

Yet, despite their linguistic ability, the boys’ analysis of the world they see before them is heavy-handed and Manichean, based on a series of antagonistic terms, coded either positively or negatively: ideology against irony; language against dialect; Rome against Palermo. The rush to irony is, for Scarmaglia, the leader of the group, one of the flaws of the Italian national character. Irony acts as a self-defense mechanism, a palliative that diverts Italians away from acknowledging the tragedy and horror of their everyday lives, a kind of comic relief that offers reassuring and easily digestible images of the nation and the lives of its citizens. Scarmaglia calls this the «italianizzazione del creato»[7], by which he means the creation of a protective buffer that isolates ordinary people from the potentially disturbing impact of brute reality. He references an adults only film ‒ Ultimo mondo cannibale ‒ he had once sneaked into a cinema to see. This is a real film, which came out in 1977 and was directed by Ruggiero Deodato. It falls under the category of cannibal exploitation film (in the UK, films such as this are known as video nasties). In fact, in the UK, the film was seized and confiscated. The film is genuinely nasty. It shows scenes of the decapitation and skinning of animals, human arms bitten off by crocodiles etc. Insofar as they cause degrees of dislocation and distress, for Scarmaglia such shocks to the viewing public’s system are to be welcomed, but he finds defects in the film. Certain scenes, he says, such as the one in which a westerner captured by cannibals plays a game of “I’ve got your nose” with the children of his captors deep in the jungle, lessen the film’s potential to disturb. Such reassuring scenes are, he says, but one more example of «l’impulso nazionale a tradurre ogni cosa in forme famigliari costringendo tutto a diventare provinciale […] Trasforma una foresta amazzonica nel tinello di casa»[8]. Acting as a distraction, irony makes the horror of life bearable.

Earlier in the novel, Vasta had already offered another illustration of the «italianizzazione del creato», this time with reference to Intervallo, the interlude that once existed between tv programs on Italian state television featuring picture postcard photographs of towns and villages: «il ponte a schiena d’asino d’Apecchio, la valle di Visso sparsa di case chiare»[9]. This, Nimbo says, is: «L’eterna Italia rurale e pastorale […] Il pittoresco, il locale, il premoderno, il genuino. La bella Italia semianalfabeta che per decenza ignora la grammatica»[10]; or the similar photographs of Italian landscapes that used to be on display in the second-class compartments of trains: «altre cartoline, altre mistificazioni nazionali»[11]. This Italy, the one the boys despise, is tepid, «del tutto incapace di assumersi la responsabilità del tragico»[12]; it has been beguiled by television programs into a state of supine, unthinking conformity. Ideology, on the other hand, is serious. It gets to grips with reality; it seeks no solace in irony. It is a no holds barred analysis of social reality, contemporary society and its ills, it forges order and meaning out of apparent chaos. In one of the chapters, set in June during the football World Cup, the boys watch the Italy vs France game. Italy’s equalizing goal is the result of a fortuitous series of rebounds and miskicks, a chaotic goal. The boys set out to tame the chaos of the goal by reproducing the actions that produced it in their local park: a cross from the left, a ball hitting the crossbar, a miskick and finally the goal itself. The boys’ goal, however, is not to celebrate either the goal or the victory. Rather, as Scarmiglia puts it: by repeating «all’infinito un’azione […] stiamo sottraendo un fenomeno al caso. Decidiamo che il caso non esiste, che tutto può essere compreso e dominato»[13]. This is the work to which they put ideology.

Ideology and language go together. A marker of the intelligence needed to carry out ideological analysis, language ability is the preserve of a gifted intellectual elite; dialect that of the amorphous masses unable to go beyond the diet of variety shows that deflect Italians away from serious thought and reflection. Palermo is the city of dialect and irony; Rome, the city of language and ideology. Rome is the city where serious things happen; death, for example. Nimbo watches television news reports from Rome of terrorist attacks. As he learns of the Acca Larentia killings of three neo-fascist militants, Nimbo imagines gathering the dead bodies and placing them in the pastoral locations on display in Intervallo ‒ «li metto nell’Italia che non c’è […] Restituisco i morti al resto d’Italia»[14] ‒ as a gesture to bring the unacknowledged tragedy of life ‒ death ‒ home to those places were tragedy has been replaced by a reassuring and comforting irony.

Rome and the Red Brigades

Rome is an entirely mythopoetic projection, the fruit of Nimbo’s fertile imagination. He knows Rome only through the images of the city he sees on television. These are enough to convince him that in Rome life is lived with greater intensity than it is in Palermo. So besotted is he, that on a short trip to the city with his parents, he imagines quite implausibly that a couple who joins the train he is travelling on with his family are members of a terrorist cell. Rome, for Nimbo, is not only the city of death, it is also the city of the Red Brigades. Like Rome, the Red Brigades are also a mythopoetic projection of Nimbo’s imagination. He admits he knows nothing of them, only «Quello che leggo. Qualcosa. Niente»[15]. They are, then, ripe to be invented. Nevertheless, or perhaps on account of this, the Red Brigades exert an enormous power of attraction on all three boys. On the face of it, the Red Brigades seem to offer an answer to the boys’ demand to be agents of change in society. They are attracted to the language of the Red Brigades’ communiques; they study them in great detail. They think Red Brigade language is performative, turning words into deeds. The boys too crave to leave a mark on the Italy they despise and be elements of disturbance that infect the social order. The boys’ politics is one of infection and contamination, one of the guiding metaphors of Vasta’s entire novel. He makes the metaphor do a lot of work. The boys see themselves as propagators of infection, contaminating the Italy of the late 1970s and disturbing the quiet of the social order: «Ben venga allora il contagio, penso, l’epidemia, un altro dio delle infezioni che imponga forma alle cose, anzi no, che le deformi, le cose, che le deformi e le mescoli tra loro. Se non è il tetano vanno bene i pidocchi e dopo i pidocchi, attraverso questi, verrà la lotta»[16]. Nimbo longs to be infected and early in the novel pricks his finger on a piece of barbed wire he finds in a field hoping that tetanus ‒ «il dio delle infezioni»[17] ‒ will consume his body. For the boys, the fever that infection brings is an excess that allows them to rise above the crowd to a level of enhanced perception and feelings. Wimbow, the girl Nimbo falls hopelessly in love with, is his «infezione più dolce»[18]; in her presence he lives life more intensely. Language too, for the boys, is an excess. It is also an infection, a «colpa»[19], a fever, a «febbre della gola»[20]. Nimbo likens himself to the prophets Ezekiel and Jonas (both referenced in the text). Like them, he has been chosen as a recipient of the gift of language, he too is «colmo della parola»[21]; he has been elected ‒ «il linguaggio che mi elegge»[22]; his mission in life is to spread the word, all the more if it is infectious.

All through the novel, Nimbo leaves literal marks using the barbed wire. He not only scratches and cuts himself, but also objects: his desk at school and, more ambitiously, the Barcaccia in Piazza di Spagna on his trip to Rome. Another mark is left when the boys shave their heads and parade their disturbing new physical appearance at the Fiera del Mediterraneo and on the beaches of Palermo.

The boys’ entry into political militancy comes via the Red Brigades. Scarmiglia is particularly taken by them. Their code becomes the code by which he lives his life. Red Brigade language speaks him. It is, then, a small step before Scarmiglia proposes that the boys create their own local terrorist group, in imitation of everything the boys learn about the Red Brigades: they form a «cellula», they give themselves «nomi di battaglia», they have a «direzione strategic», they carry out «pedinamenti» and a series of preliminary attacks on private property and their school, they decide to «alzare il livello dello scontro» and «colpire il cuore dello Stato», they write communiques, they kidnap a hapless misfit, named Morana ‒ a version of Moro ‒ and hold him prisoner; they take a polaroid photo of him holding a newspaper; and they kill him after horribly mistreating him for several days.

Of the boys, Scarmiglia is the ideologue; the third member of the group Bocca is the follower, while Nimbo, by far the most intellectually curious of the group, is the explorer, the investigator of the potentiality of language. As the novel progresses, differently from Scarmiglia, Nimbo becomes ever more disenchanted with the Red Brigades (although this does not prevent him from remaining part of the terrorist group and participating in the kidnap and murder of Morana). His initial hesitation comes when he examines the language used by the Red Brigades in their communiques. This is the first of two diametrically opposed encounters that convince Nimbo of the failings of language and set him off on a series of investigations into alternative linguistic systems. Reading the communiques, Nimbo finds them heavy and overly simplistic. As a boy with the gift of mythopoesis, he attempts to rewrite them, but ‒ try as he might ‒ he fails. He is trapped in the language of the Red Brigades: «Mio malgrado sono rimasto imprigionato nella fraseologia che intendevo riformare»[23]. Nimbo likens the Red Brigades’ language to death. It is like in the swimming pool when he is told to «fare il morto»: «Le frasi delle BR fanno il morto. Le frasi delle BR sono il morto. Le frasi delle BR fabbricano il mondo a forma di morte facendo finta di immaginare il futuro, la vita che verrà»[24]. In capturing and creating order, the grasp language exerts on reality is mortal. In the analysis the three boys carry out of Paolo Rossi’s goal, what is left is no longer a goal. It is, rather, a dissected corpse of a goal. Nimbo discovers that there is no place for mythopoesis in terrorist discourse.

Wimbow

The second encounter is with Wimbow. Nimbo is smitten with her. When he sees her at a birthday party, she occasions a «precipizio del linguaggio, armonia e barbarie, chiarità e mistero, e ombra e intrico, e fusione, magma, nutrimento, cenere»[25]. Nimbo is here lost for words, a rare occurrence. All he can do is express himself with an act of self-laceration ‒ he cuts his mouth on a glass ‒ symbolically severing his tongue, perhaps. Wimbow defies language; she drains words of any meaning they have: «quando la vedo passare […] sento le parole bella, bellissima percorrere una traiettoria curvilinea, trafiggerle dolcemente la carne e scompare nel suo buio, e so che quelle parole non potrò mai più dirle a nessuno […] dirle a un’altra persona sarebbe una bugia»[26]. Wimbow goes beyond what even the intellect can say about her: «Non conosco il suo nome, non so quanti anni abbia. I miei, credo, a occhio, anche se con lei l’occhio sbaglia, è insufficiente, e anche l’orecchio»[27]. In these two encounters, Nimbo finds that language is too heavy-handed, not light-fingered enough.

Nimbo seeks out alternative language forms in a number of ways. First, he writes letters on the shells of snails before setting them free in the path of Wimbow, in the hope that she will read and understand their message of love; second, he and the other boys invent the alfamuto, a non-verbal language of visual signs they draw on, appropriating visual images from mass culture as an alternative system. New meanings are assigned to each sign: Adriano Celentano’s Yuppi Du pose is repurposed to mean «pericolo incombente»[28], John Travolta’s iconic Saturday Night Fever pose means «imprevisto»[29]; Aldo Moro’s position in the back of the Renault where the Red Brigades left his dead body is death[30]. But neither of these entirely private systems works. Wimbow has no idea what the snails’ message is supposed to be; and when the boys take their terrorist activity to another level by burning their school headmaster’s car, Nimbo attempts to tell a group of passing schoolkids to stay away from the vicinity using the alfamuto. The result is that one of the kids is badly burned as the car explodes and goes up in flames. And in the novel’s final pages, Nimbo’s attempts to establish a channel of communication with Wimbow through the alfamuto also fail miserably.

On other occasions, Nimbo tries out direct contact with the reality around him as if he was attempting to skirt around the mediation of language: he smells, tastes, licks, touches and presses down hard on the surface of the objects he comes across; he punctures his own skin, as well as that of stray cats and hard surfaces both to leave a tangible trace and to access the unknown and deeper mysteries that lay below the surface of things. In the tepid Italy of the late 1970s, where the masses’ perception of reality has been dulled and anaesthetized, by mobilizing all his senses Nimbo seeks out a richer ontological engagement with reality, an enhanced perception of the world around him: «intorno a noi sento la fotosintesi accadere»[31], he tells us. As Walter Benjamin argued in his On Some Motifs in Baudelaire, in order to deal with the sensory bombardment of life in the modern age humanity has created for itself a «screen against stimuli», a dulling or anaesthetization of the senses that is necessary for survival, but which leads to sensory deprivation[32]. But this is not for the mythopoetic Nimbo. Against the anaesthetized mass of the «dialettali», he is the aesthetic hero living life at an intensity unknown to them. If for Benjamin, sensory alienation was a defense mechanism that allowed the modern self to protect itself from the turbulence of twentieth century reality that had been occasioned, Benjamin argued (and Freud before him), by the shell shock of World War 1 and the constant bombardment of perception in the modern era of mass communication; for Vasta, that same deadening of the senses has come from RAI 1, and its sister channels. Nimbo brings all the senses to bear on his investigation of reality. He would agree with Susan Buck-Morss when she writes in an essay on Benjamin that «The original field of aesthetics is not art but reality ‒ corporeal, material nature […] It is a form of cognition, achieved through taste, touch, hearing, smell ‒ the whole corporeal sensorium»[33]. In its original guise, aesthetics was a relationship with reality, a mode of cognition, a way of getting to know the world, a cognitive mapping. It is this original function that Nimbo’s touching, tasting, bringing pressure to bear, smelling of objects and persons seeks to recuperate: «Avvicino la bocca alle nocche e mi sembra, la luce, di berla»[34]; and at the very end of the novel, Nimbo’s encounters with Wimbow culminate in a feast of the senses: «[R]aggiungendo dopo tanto tempo qualcosa che è sorgente e foce, per la prima volta sento il suo odore. Bruno, terrestre, saldo e perenne. La visione che non scompare. In un respiro annuso la sua vita»[35].

In an interview with Marco di Marco for Magazine, Vasta remarks that behind the writing of Il tempo materiale was his desire to explore what he calls «una filigrana, uno strato subliminale […] il rimosso»[36]. Nimbo is Vasta’s agent in this research. Monica Jansen has used the term «realismo sintomatico» to indicate Vasta’s excavations into the «reale che si sottrae alla realtà»[37]. After the experiments with alternative language systems fail, the novel ends in a silent embrace between Nimbo and Wimbow, as if the closeness that the sound of their names suggest, is at last achieved without the mediation of language. Vasta himself indicates as much in an interview with Ilaria Giannini when he says: «Forse alla fine del romanzo Nimbo riesce a trovare un varco, un’alternativa non totale ma parziale al linguaggio, si permette il lusso di qualcosa che non è il linguaggio»[38]. The final pages of the novel suggest that Nimbo has achieved a degree of redemption that has allowed him to leave behind the lure of the Red Brigades and the cycle of everyday violence in which he and the rest of Italy are trapped. Before this though, Nimbo had engaged in several acts of cruelty. He mistreats animals and participates in the torture of Morana. Scenes of violence are everywhere in the novel. In the course of the novel, Nimbo discovers his and the other boys’ «capacità di compiere il male»[39]. Only in the absence of words can Nimbo envisage an alternative existence, a relationship of love and empathy (the alfamuto has no sign for love, for example): «Ed è solo adesso, quando nella fabbricazione della nostra notte le stelle esplodono nel nero, che alla fine delle parole comincia il pianto»[40].

It would be going too far, I think, to see this final scene of rapprochement as illustrating the death of language. Vasta writes, after all, «alla fine delle parole», not “alla fine del linguaggio”; and the night is still fabricated. Rather, what we see in the final pages of the novel is the inkling of a new language, the language of silence, the language of respect, the language of non-intrusion, a language that makes no claim to possess completely the reality with which it engages. Even though he is writing in reference to another book, this view of language is not too far from what Vasta praised in his review of Luca Rastello’s Piove all’insù, which like Il Tempo Materiale is a novel that investigates why so many young Italian men and women were attracted to terrorism. Of Rastello’s novel, Vasta remarks on the way it approaches the «imprendibilità del tempo, di ogni tempo», and how «si confronta con qualcosa di imprendibile, sapendo che rimarrà imprendibile»[41]. Note the use of the verb: “confrontarsi”. Engage with that which is ungraspable. This is not the death of language. Rather, it is a call to arms, a call to mobilize language, to develop new forms so that language can rise to the challenge of narration.

Wimbow is that challenge. Vasta does not seem overly concerned about using a young, dark-skinned and mute immigrant girl as his materialization of an otherness that beggars language; nor that he is hardly original in drawing on an age-old trope of woman as that which escapes the control of the male gaze and language. For the narrative exigencies of the story he is telling, Vasta needs a figure of radical mythopoesis like Wimbow, a young girl whose muteness enables Nimbo to treat her as if she were a blank page, so he can play her off against the aridity of Scarmiglia and the Red Brigades’ ideological claim to know it all. Nimbo’s mythopoetic relationship with Wimbow is contingent on the fact that he knows little about her, a state he seeks to preserve as long as possible. Nimbo does all he can to maintain the separation between Wimbow the girl he sees and meets in everyday life and Wimbow his creature: «Della bambina creola ignoro tutto. Ne sono consapevole, lo faccio apposta»[42]. And even when he does receive more information about her, he transforms the signifiers and the referents to which they point into sound images: «La parola Wimbow che non sembra una parola. Sembra un suono preso da fuori, dai fenomeni»[43].

Scarmiglia, however, goes out of his way to burst Nimbo’s mythopoetic bubble. It is he who quite deliberately feeds Nimbo real world information about Wimbow ‒ that she is from the Antilles, that her name is Wimbow, that she is mute, that she has been adopted, for example ‒ so that his margins for mythopoesis are reduced. Or as Nimbo puts it: «le parole di Scarmiglia […] fanno esistere la bambina creola […] la trasformano in realtà dandole un nome e un’origine. La biografia che fa pressione sulla creatura»[44]. This is what Nimbo doesn’t want. He needs Wimbow to remain «solo un fenomeno. Una creatura. Senza che niente la sporchi, senza l’oltraggio di una storia»[45]. Scarmiglia is deliberate in his attempts to limit Nimbo’s mythopoetic activity. He knows that mythopoesis and terrorism are antithetical and that Nimbo is more mythopoetic than he is a terrorist. Scarmiglia proposes that Wimbow be the group’s second victim. When Bocca asks why, Scarmiglia says he wants to «studiarla […] capire chi è?»[46]. Nimbo wants the opposite: «volevo soltanto godere del puro fenomeno senza sporcarmi con la sua storia»[47]. Scarmiglia «invece cerca la comprensione. La conoscenza. Vuole intrappolarla nell’ambra della nostra celletta. Immobilizzarla. Farne un fossile»[48].

Scarmiglia knows that mythopoesis represents openness, uncertainty; and that terrorism represents closure and certainty. He knows too that the ties Wimbow establishes with others are a danger to Nimbo’s continued commitment to the terrorist cause. It is when Scarmiglia proposes Wimbow as the next designated victim that Nimbo rebels against his former comrades and becomes that most despised of terrorist figures, the “delatore”, a police informer or turncoat.

Nimbo’s terrorism had always been different from Scarmiglia’s. What Nimbo desires in his terrorist activity is the same kind of lightness of touch that he aspires to in his interactions with Wimbow and that he identifies and admires in Rastello’s writing. As Scarmiglia’s leadership of the terrorist project evolves as a carbon copy of the Red Brigade model, the reasons that brought Nimbo to the project fade into the background. At one point in the novel, after the boys’ initial terrorist attacks against school property and the headmaster’s car, the police investigations begin to focus on the school itself and its students. Nimbo is pleased that the police are now investigating an infection that has its origin and point of propagation at a local level: «si accetta che il male possa generarsi dal basso. Da noi. Una progressiva messa a fuoco che invece di preoccuparmi mi fa piacere. Sento la gioia della legittimazione»[49]. Nimbo likes the undefined space between invisibility and visibility that he and other boys inhabit. They are, he says: «percepiti attraverso l’invisibilità. La nostra ambizione originaria»[50]. That original plan has now been betrayed by the heavy-handed leadership of Scarmiglia. Nimbo regrets that the mythopoetic has been supplanted by the ideological and turns his back on the terrorist project.

Vasta’s Il Tempo Materiale is far from being an easy read. At times, his dense, high octane prose approaches a state of delirium, verging on the impenetrable; and the pages that describe acts of violence and cruelty that are spread throughout the text, whether on animals or humans like the poor Morana, make for a harrowing reading experience. As one of the perpetrators of the torture inflicted on Morana, which leads to his death, Nimbo is fully invested in political violence. Yet, as the novel reaches its final pages, we find reason to glimpse a boy taking his first steps on a journey of emancipation, even redemption, that frees Nimbo from what he had called a few pages earlier «l’infezione delle parole»[51]. All through the novel, Nimbo had been associated with a halo, a sign of his mythopoetic exceptionality, and the source of the nickname he has chosen for himself. The moment of release comes when Wimbow removes the halo from Nimbo’s head freeing him from the words that have up to then kept him prisoner:

Wimbow si alza, fa un passo verso di me, mi tocca il collo, le guance, gli zigomi, mi mette le dita a raggiera. Sento il calore dei polpastrelli, sento che mi placa. Poi Wimbow solleva le mani verso l’alto (e il mio nimbo scompare e al mio nimbo, mentre scompare, Non sono io?, domando, Non sei tu, risponde), mi guarda e nel suo sguardo c’è il tempo calmo, poi mi lascia e torna indietro, nella penumbra dietro la sedia a dondolo[52].

It is when Wimbow removes the halo that Nimbo is transformed and released from both the self that he was and the words that had kept him prisoner. He now approaches that state of «il tempo morbido, liquido, il tempo materiale» he had desired for so long and that now replaces «le parole, migliaia di frasi, questa ordinata strage di insetti […] Perché ancora balena il linguaggio quando vorrei solo entrare nel silenzio, nel tuo silenzio, e piangere, smettere di sentirne solo il bisogno e piangere?»[53].

Wimbow, then, is the respite to the violence that has permeated the novel, the violence of language and the violence of ideology. This is the didactic streak that runs through Vasta’s novel, a lesson to be learned. Nimbo comes to realize that blind allegiance to ideology leads to violence and death, what is worse, it leads to the justification of violence and death in the service of a political project. As the text makes clear, 1978 in Italy was what Vasta in an interview with Claudio Martino for the Radiotre program Fahrenheit called a «tempo critico e farriginoso». It was a time ripe for violence, when a generation of Italians was seduced by the myth of Red Brigade violence. This, of course, is Scarmiglia, who buys uncritically into the myth; initially, it is also Nimbo. Scarmiglia remains on the Red Brigade trajectory throughout the novel, even as he is arrested; Nimbo deviates from it; Scarmiglia is unrepentant; Nimbo is «pentito». Upon his arrest, Scarmiglia utters the phrase that he, loyal brigatista, has long yearned to utter, the Red Brigade slogan par excellence, «Mi dichiaro prigioniero politico», «la sua frase magica e maiuscola»[54]; a couple of pages earlier, Nimbo had confessed that while Scarmiglia «lavorava per diventare prigioniero politico, io ho lavorato per potermi dichiarare, adesso, prigioniero mitopoetico. Solo questo. Il piacere di stare nelle frasi»[55]. To be sure, both Scarmaglia and Nimbo remain prisoners of myth. There is no alternative to myth, but not all myths are created equal, one is political, Scarmiglia’s, which leads to rigidity, violence and death; another is mythopoetic, Nimbo’s, which is based on openness, creativity and even redemption. Vasta’s Il tempo materiale is a highly ambitious novel: positing mythopoesis against ideology, he plays two philosophies of language off against each other ‒ one embraced by the communiques of the Red Brigades that claim to possess the truth of reality; the other, that of Nimbo, who comes to realize that reality cannot be grasped by language; but more than that, in seeking to offer insights as to why so many Italian young men and women succumbed, along the lines of Scarmaglia, to the call of the Red Brigades in the 1970s, the novel also goes further by suggesting that a mythopoetic attitude to life, along the lines of Nimbo, acts as an antidote to the seductive charms of terrorist ideology and the robust certainties its language appears to offer[56].

 

  1. As Alice Flemrová (A. Flemrová, Il tempo materiale e lo spazio sensoriale. La Palermo di Giorgio Vasta, in Viaggi minimi e luoghi qualsiasi. In cammino tra cinema, letteratura e arti visive nell’Italia contemporanea, edited by Monica Jansen, Inge Lanslots and Marina Spunta, Firenze, Franco Cesati Editore, 2020, pp. 79-90: 81) notes, «i singoli capitoli seguono l’ordine cronologico dei singoli mesi, ma in totale non sono dodici, bensì tredici, perché il 1978 è stato l’anno delle tredici lune [nuove], ovvero l’anno dello squilibrio e delle crisi emotive».

  2. C. Ghidotti, Giace sul fondo del mio piatto. Deformazioni e riuso di Aldo Moro ne Il tempo materiale di Giorgio Vasta, in Il caso Moro. Memorie e Narrazioni, edited by Ugo Perolino, Leonardo Casalino & Andrea Cedola, Massa, Transeuropa, 2016, p. 83; see: https://www.academia.edu/21871972/_Giace_sul_fondo_del_mio_piatto_Deformazioni_e_riuso_di_Aldo_Moro_ne_Il_tempo_materiale_di_Giorgio_Vasta (last accessed March 27, 2024). See also M. Comitangelo, «un romanzo che sacrifica alla fiction ogni pretesa documentaristica». See: https://www.academia.edu/10030468/_Rendere_concreto_linvisibile_Sul_Tempo_materiale_di_Giorgio_Vasta.

  3. S. Tofani, Giorgio Vasta-Il tempo materiale, in frailibri, September 7, 2009, p. 1; see: https://frailibri.wordpress.com/2009/09/07/giorgio-vasta-il-tempo-materiale/ (last accessed March 27, 2024).

  4. M. Fontanone, Tra nuovi realismi e traumi mancanti: le costellazioni del romanzo italiano contemporaneo, BA Thesis, Università degli studi di Torino, Dipartimento di studi umanistici, p. 133; see: https://www.academia.edu/38229399/Tra_nuovi_realismi_e_traumi_mancanti._Le_costellazioni_del_romanzo_italiano_contemporaneo (last accessed March 27, 2024).

  5. R. Donnarumma, Giorgio Vasta, Il tempo materiale, in «Allegoria», 60, July/December 2009, p. 218; see:

    https://www.allegoriaonline.it/300-giorgio-vasta-qil-tempo-materialeq (last accessed March 27, 2024).

  6. See G. Vasta, Il tempo materiale, Rome, Minimum Fax, 2012, p. 275 (all quotations are from this edition); English translation by Jonathan Hunt, Time on my Hands, London, Faber & Faber, 2013.

  7. Ivi, p. 121.

  8. Ibidem.

  9. Ivi, p. 12.

  10. Ibidem.

  11. Ivi, p. 35.

  12. Ivi, p. 75.

  13. Ivi, p. 90.

  14. Ivi, p. 12.

  15. Ivi, p. 45.

  16. Ivi, p. 75.

  17. Ivi, p. 19.

  18. Ivi, p. 47.

  19. Ivi, p. 56.

  20. Ivi, p. 15.

  21. Ibidem.

  22. Ivi, p. 57.

  23. Ivi, pp. 180-81.

  24. Ivi, p. 73.

  25. Ivi, p. 29.

  26. Ivi, p. 48.

  27. Ivi, p. 47.

  28. Ivi, p. 112.

  29. Ivi, p. 115.

  30. Ivi, p. 122.

  31. Ivi, p. 85.

  32. See W. Benjamin, On some Motifs in Baudelaire, in The Writer of Modern Life: Essays on Charles Baudelaire, ed. Michael W. Jennings, Trans Howard Eiland, Edmund Jephcott (Cambridge, The Belknap Press of Harvard University Press, 2006), pp. 175-77. Using Benjamin’s terminology, we could say that Nimbo turns away from Erlebnis, the anesthetized encounter with experience and toward Erfahrung, unmediated experience.

  33. S. Buck-Morss, Aesthetics and Anaesthetics: Walter Benjamin’s Artwork Essay Reconsidered, in «October», 62 (Autumn), 1992, pp. 3-41: 6; see: https://www.jstor.org/stable/778700?seq=1 (last accessed March 27, 2024).

  34. G. Vasta, Il tempo materiale, cited, p. 36.

  35. Ivi, p. 273.

  36. M. Di Marco, Intervista a Giorgio Vasta, in «Magazine», 45 (2008).

  37. M. Jansen, Il ’78 di Verga e di Vasta: Il tempo materiale a prova di ideologia, in Verga innovatore/Innovative Verga – L’opera caleidoscopica di Giovanni Verga in chiave iconica, sinergica e transculturale, edited by Dagmar Reichardt & Lia Fava Guzzetta, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2016, pp. 297-310: 310.

  38. I. Giannini, Intervista a Giorgio Vasta; see: http://www.mangialibri.com/interviste/intervista-giorgio-vasta.

  39. G. Vasta, Il tempo materiale, cited, p. 221.

  40. Ivi, p. 274.

  41. Interview with Giorgio Vasta conducted by Cecilia Ghidotti, July 28, 2014, quoted in C. Ghidotti, “Gli anni settanta non sono il fine”. Tra rimosso e iper-esposizione: scrittori italiani contemporanei e racconto degli anni settanta, in «Studi culturali», 7, 2 (2015), pp. 228-29.

  42. G. Vasta, Il tempo materiale, cited, p. 47.

  43. Ivi, p. 133.

  44. Ibidem.

  45. Ivi, p. 48.

  46. Ivi, p. 238.

  47. Ibidem.

  48. Ibidem.

  49. Ivi, p. 235.

  50. Ibidem.

  51. Ivi, p. 265.

  52. Ivi, p. 272.

  53. Ivi, p. 270.

  54. Ivi, p. 267.

  55. Ivi, p. 265.

  56. My thanks to the anonymous reader for suggestions as to how to improve this essay. They were much appreciated.

(fasc. 52, 31 luglio 2024)

The 1970s beyond the years of lead: mediating generational identity in “Città sommersa”

Author di Maria Bonaria Urban

Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che si infila nella stessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lì sul molo. Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole[1].

Salivano dal sud, dalle estese sacche della disoccupazione meridionale – il 37% dalle Puglie, il 23% dalla Sicilia, il 13% dalla Calabria, il 10% dalla Campania – consumando, nel lungo viaggio, una lacerazione delle radici contadine maturata da tempo. Tutti in una sola direzione: dalle campagne alla città. Tutti in qualche modo impegnati in un faticoso percorso geografico, ma anche sociale e politico: dalla periferia al centro, dalla marginalità al protagonismo, dalla subalternità al potere. […] [Q]uell’esercito di pionieri senza frontiera cercava appunto, disordinatamente, questo: non solo un salario, un lavoro, una sistemazione, ma “un centro”. Un punto cardinale su cui innestare l’elaborazione di una nuova cittadinanza[2].

Introduction

Every place has a history, but for its memory to survive it must be told. Italo Calvino reminds us of this in his Città invisibili (Invisible Cities), when the character of Marco Polo, speaking about Zaira, says that the essence of a city is given by the «relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato» («relationships between the measurements of its space and the events of its past»[3]). The city is, then, configured as a landscape of individual and collective memories, where places are not only «“inside” us» but «we are entirely outside ourselves, in the spaces and the places we inhabit»[4].

These reflections offer a possible interpretation of Marta Barone’s Città sommersa[5]. Echoing Calvino’s work, the author reconstructs the biography of her father Leonardo and rewrites the history of her hometown Turin, offering a different memory of the 1970s from the now widespread «plurimedial constellation»[6] of memories of the so-called “anni di piombo” (“years of lead”)[7]. It all began with the discovery of a legal defence concerning the author’s father, who had been imprisoned – although later acquitted – for belonging to the terrorist organization Prima Linea[8]. Her investigation soon expands, as Marta, the novel’s protagonist and Marta Barone’s alter ego, finds herself exploring an entire period of social struggle that is represented in the collective imagery as an «open wound»[9] and identified with its most radical outcome: terrorism. In the novel, however, Leonardo’s story – mediated by his daughter’s participatory and critical gaze – resists the imagery of the years of lead, even though the narrative accurately reconstructs the escalation of political violence that sowed terror in Turin[10].

Following the biography of the Apulian Leonardo, the novel rewrites the history of emigration from the South to Turin, the immigrants’ activism inside and outside the factories, and the complex interrelations between urban development, industrial policy and protest movements. The novel thus seems to convey what Ann Rigney calls the «memory of the outrage»[11], as it recalls the anger and indignation at the injustices that led many to participate in collective struggles. Leonardo Barone – L.B. in the novel, «il Barone»[12] of the court papers and the nameless boy to whom the text is dedicated – leaves the South, seen as a place with no future, in search of a possible redemption that will take him first to Rome and then to the city of FIAT, the factory par excellence in the novel. Literary space is thus configured as a «“palimpsest” in which different traces are superimposed and “spatialise history”»[13]. After all, as David Harvey reminds us, «time is always memorialized not as flow, but as memories of experienced places and spaces»[14]. Following the literary suggestions with which this essay opened, one could argue that the urban imagery of Città sommersa, like Calvino’s Zaira, «non dice il suo passato, [ma] lo contiene come le linee d’una mano» («does not tell its past, but contains it like the lines of a hand»)[15].

Drawing on theories of the nexus between cultural memory and activism[16] and the concepts of «postmemory» and «generationality»[17], this essay aims to show that Città sommersa – through Leonardo’s biography – mediates an alternative memory of the 1970s, rejecting the total identification of protest movements with political dogmatism and armed struggle that still dominates cultural production about the decade. This novel can therefore be considered as a powerful «carrier of memory»[18], since it is Barone’s writing that makes non-violent commitment memorable and restores it to the collective memory.

Furthermore, since Leonardo’s story is told by his daughter, the essay examines the extent to which the generational dimension affects the memory mediated by the novel. In this regard, it is argued that the text reactivates the memory of Leonardo’s indignation and activism in the 1970s, «giving them a prospective meaning by continuing the struggle for rights»[19]. The narrative of anti-dogmatic and non-violent impegno would thus represent a «memory of hope»[20] for the next generation, which is refractory to ideologies or collective utopias but nevertheless in search of the meaning of life. In this sense, the essay ultimately asks whether the Turin of the protest movements embodied by Leonardo’s generation can be described – in Calvino’s words – as one of those cities that «continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri» or as one of those «in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati» («through the years and the changes continue to give their form to desires, […] in which desires either erase the city or are erased by it»)[21].

Leonardo Barone, a life on the front line (but never as part of Prima Linea)

The city in Marta Barone’s novel is polysemic, like an image in a hall of mirrors. The underwater city to which the title refers, in a key page that seems to be taken from Invisible Cities, is the «favolosa»[22] («fabled») Kitež that sank into Lake Svetlojar to prevent the Tatars from conquering it. However, it is also the metaphor with which Barone identifies the mysterious figure of the protagonist’s father and, by proxy, the city of Turin itself, which will appear differently to the narrator’s gaze as soon as she begins her investigation[23]. The identification is evoked right from the cover, which superimposes an image of the porticos of Via Roma on a photo of Leonardo as a child[24], and which takes shape in the story through the protagonist’s experience of urban space.

In fact, the chance discovery of a legal defence among her father’s papers provokes an «impercettibile ma decisivo» («imperceptible but decisive») change in Marta that makes the places of her hometown seem different to her, as in the case of Piazza Vittorio, «la piazza chiara, dura e geometrica» («the clear, hard and geometric square»), which suddenly appears «lunare e remota, come il segno di un mistero» («lunar and remote, like the sign of a mystery»)[25]. This feeling stems from the «idea of a disturbing proximity» («idea di una prossimità sconvolgente»)[26], both spatial and temporal, between Marta’s life and the Turin of the Red Brigades[27]. The protagonist will feel this sensation every time she makes new discoveries about Leonardo’s life. Her investigation evolves into a rewriting of the collective history of Turin, and the novel’s horizon soon expands to include the geography of the whole country; the story of the adult Leonardo begins, as for so many of his generation, with the journey of hope to the North[28].

After moving to Rome to study medicine[29], Leonardo completed his first degree – later to be followed by those in law and psychology – with some delay because he became involved in social movements. In fact, as early as 1964, he joined a Christian organisation that provided after-school care for children in the Roman suburbs («borgate»)[30]. He was also among the wounded in the “battle of Villa Giulia”[31], and in the early 1970s, he was in Turin on behalf of the Pcim-l, the Marxist-Leninist party Servire il Popolo. He then settled down with his first wife, Agata, in a «freddo e inospitale appartamento di Villar Perosa» (a «cold and inhospitable flat in Villar Perosa»), on the outskirts of the city[32].

The novel gives a vivid account of those years, restoring the distance between the dogmatism of Servire il Popolo and Leonardo’s pragmatism, as clearly emerges from the description of the activists leafleting at the gates of FIAT; on those occasions, Leonardo and his party companion Druina rewrote the leaflets because the official ones were «imbarazzanti compitini di propaganda slegati dalla realtà» («embarrassing propaganda tasks unrelated to reality»)[33]. Leonardo continued to be involved in politics, becoming a well-known face in far left and autonomous groups inside and outside the factories[34], but he never joined organizations that «practised violence»[35], preferring forms of activism that focused on people’s everyday needs[36]. This attitude will make him the object of widespread ostracism, frowned upon by both the state institutions and the movements for being so undisciplined as to be «perennemente su un libro nero mai scritto» («eternally in a black book that has never been written»)[37].

Against the background of FIAT’s economic policy, the novel effectively interweaves the memories of “new” Turin citizens, such as Leonardo, the protest movements and urban development. As is well known, migratory flows were indispensable to meet the labour demand in industry, and it was indeed FIAT that stimulated and controlled urban development to its own advantage, acting – as Marco Revelli recalls – as a «stato nello stato» (a «state within a state»)[38], in a way «assai simile a quello che si potrebbe definire un “potere sovrano» («very similar to what one might call a “sovereign power”»)[39]. It was the exploited southerners who launched the strikes of the “Hot Autumn” protests, which later spread to issues such as housing and living conditions. It is no coincidence that the novel, which reconstructs the main stages of the protests, begins with the demonstration organised in Battipaglia on 9 April 1969, when the police fired on the demonstrators, injuring dozens and killing two. After these events, strikes broke out in Turin and then the unrest continued in Reggio Calabria with a protest of 50.000 people, in the sign of a «Nord e Sud uniti nella lotta» («North and South united in struggle»)[40].

Perhaps the tension behind the novel can be described with a pun: Leonardo never belonged to Prima Linea but lived his whole life on the front line, fighting against injustice and remaining true to his values. His vocation, even as a child, was to be a «paladino degli oppressi» («champion of the oppressed»)[41], out of a «perentorio, irrevocabile senso dell’ingiustizia» («compelling, irrevocable sense of injustice»)[42], as when – like the Good Samaritan – he gave his sweater to a person dressed in rags[43]. Through the vicissitudes of her father, Marta Barone seems to shift the focus of the narrative from the dogmatic and violent face of the protests to the outrage and activism of her protagonist and, by extension, of the many southerners who, like Leonardo, resisted injustice but whose commitment has been obscured by the narrative of the years of lead.

Shaping the city of the “Factory”

Studies have shown that FIAT played a crucial role in Turin’s economic and demographic growth, so much so that it has been called the «Italian Detroit»[44]. According to Revelli, FIAT also had control over the cultural sector and the formation of public opinion[45] and managed to achieve – in Alberto Vanolo’s words – «a “total embedding” where the spatial, institutional and cultural developments of the city and the firm were highly interconnected»[46].

Michel Foucault’s concept of «heterotopia»[47] helps to explain the oppressive nature of the «così inverosimilmente immensa» («so unrealistically immense»)[48] factory. The novel evokes the obsession with discipline in industrial plants, depicting this biopolitical universe as a prison, where assembly-line timekeepers appear «spettrali» («spectral»)[49] and alienating work corrodes the bodies of workers who suffer from nervous tics caused by the endless repetition of the same gestures[50], while «un’efficientissima e gigantesca rete di spionaggio interna» (a «highly efficient and gigantic network of internal espionage»)[51] aims to have total control over the workforce.

Città sommersa thus reconstructs the strategies of control over the working-class masses to implement FIAT’s industrial policy inside and outside the factories[52], but also the forms of resistance of the largely immigrant population; the narrative spatialises the historical events, projects the power dynamics onto the urban map of Turin and, above all, brings to the surface the physical needs – such as housing – that drove so many to participate in the protest movements. Indeed, Turin is described as «grande, sprezzante, cattiva» («big, contemptuous, bad»)[53] towards the newcomers as the only places in which the southerners could find a home were derelict, overcrowded buildings in the city centre or in the suburbs, where blocks of flats were hastily built[54].

The text explores the vicissitudes of settlements created ex novo to absorb migratory flows, as in the case of the Strada delle Cacce complex, «un luogo di rara bruttezza» («a place of rare ugliness»)[55] left to its own devices, with no services and no functioning sewers, where even doctors refused to go for check-ups. Yet, the future inhabitants had occupied the houses before they were even finished to protest against the drawing of lots for flats and to demand the right to housing for all[56]. Turin’s city centre, with its elegant buildings and its nineteenth-century streets, seems to be the antithesis of that

nuova città fantasma di abitanti non-abitanti, che l’altra città, quella superficiale, quella reale, la metropoli delle fabbriche, aveva incamerato per decenni come una bocca insaziabile senza mai chiedersi, se non troppo tardi, dove avrebbe potuto metterli, dove avrebbero potuto condurre un’esistenza che non fosse già una sepoltura in vita. Una casa vera, una casa per essere umani. Anche se fuori restavano l’acquitrino, la solitudine e la distanza inestinguibile dagli “altri”[57].

Barone thus gives visibility to the spontaneous attempts to organise dissent and the price paid by individuals such as Tonino Miccichè, a Sicilian Lotta Continua militant dismissed from FIAT for political reasons and active in the Falchera housing committee[58], who was killed by a security guard while trying to settle a dispute over the use of a car park[59]. The book recalls grassroots activism born of necessity, with workers – often immigrants – and their families as protagonists, such as the Barabba Circle, the workers’ coordination of Via Plava in Mirafiori Sud, which was also attended by Leonardo[60].

Among the many sites of protest and resistance against institutionalised violence that are evoked in the novel, the most striking example is probably Villa Azzurra, described as the asylum where children were interned and «la città dei reietti, la città nascosta, imbarazzante e ferita che non suscitava nessun clamore e nessuna geometrica potenza» («the city of outcasts, the hidden, embarrassing and wounded city that did not raise a cry and had no geometric power»)[61]. The terrorist attack in December 1977 on the former head doctor Giorgio Coda, responsible for the cruel methods used on his patients, was a vindictive gesture of spectacular violence. However, the decision to turn this site into a home for disadvantaged young people, by a cooperative in which Leonardo himself had worked for the last fifteen years, had a completely different effect[62].

Città sommersa thus urges the reader to compare different forms of protest and promotes the continuity of social commitment, as opposed to the idea of retreating into the private sphere and individualism as a reaction to the traumatic experience of terrorism in the early 1980s[63]. Leonardo’s biography exemplifies this process, culminating in his experience as a psychologist at Villa Azzurra: an activity carried out between the 1990s and the first decade of the 2000s, which, as we shall see, is the last stage of a life of activism.

Città sommersa: an underwater city, a buried memory

In its polysemy, the city of the novel’s title is also a metaphor for a memory of peaceful impegno that has been silenced, obscured by the violence of the years of lead. This removal is evoked in elliptical form from the very first pages of the novel, when Marta – at the funeral of her father, who died of cancer in 2011 – describes herself as incapable of seeing and understanding[64].

According to Pierpaolo Antonello and Alan O’Leary, the reasons for the persistence of a violent memory of the 1970s must be sought in the need to process a national trauma[65]. However, this memory was mostly mediated by the perpetrators of the violence themselves, and it is only since 2007 that a new strand of narratives has emerged, defined as «postmemorial»[66], which gives a voice to the families of the victims of terrorism. In these texts, their trauma is at the core of the narrative, and even if the perspective changes, the identification with the radical and dogmatic face of the decade is thus confirmed.

A similar limit can also be found in historiography. In 2005, Barbara Armani pointed out that in studies covering the period 1968-82, the focus was on mass movements and radical groups, while there was a «lack, or even absence» of the socio-cultural, subjective and generational context and dynamics[67]. In this regard, the scholar spoke of a «failed history of the seventies» because the protagonists of the armed struggle had appropriated the narrative of those years, and this «possessive» use of memory resulted in a re-elaboration of the facts that was, at the same time, a «self-representation»[68].

The distance that separates Città sommersa from the narratives that centre on political violence is first and foremost literary. This is the result not only of the poetic language but also of the structure, which emphasises the narrator’s inner journey through different temporal spaces with respect to the chronological progression, and thus succeeds in expressing the idea – to borrow an image from Calvino – of the wave-like motion of memories[69]. Equally important is the integration into the writing of the voices of witnesses who have been erased from history/historiography; the text thus restores to the reader the plurality of ideas and visions that characterized that period of collective struggle.

The criticism of the way the 1970s are remembered emerges both from the events narrated and from the metatextual reflection on the mechanisms for constructing the past that unfolds in the novel. A clear example is the legal defense that Leonardo’s lawyer presented to the Court of Cassation before the start of the third trial, which proves how the trial has distorted the facts instead of bringing the truth to the surface[70]. Moreover, from the very beginning of the investigation, it is the mother who warns Marta of the risks of manipulating the past when she reminds her that «[i] fatti. Non saranno mai i fatti, lo sai, vero?» («[t]he facts. They will never be the facts, you know that, don’t you?»)[71]. The words of Agata, Leonardo’s first wife, are also illuminating. She questions the memories of the period because, in her opinion, only the violent ones are remembered, while the idealism and profound commitment experienced by many are lost: a period in which, in her opinion, it was possible to be happy[72]. It is no coincidence that it is precisely the memory of the happiness of those years, even if lived amidst many material difficulties, that lives on in the testimonies collected by Marta[73].

Although the father’s biography elicits the possibility of an alternative narrative of those years, it remains to be clarified why such memory was removed from the collective imagination. Reflecting on the nexus between memory and activism, Rigney speaks of «differential memorability» to explain the different memorial potential of events and points out the difficulty for peaceful protests to achieve the same resonance as violent ones[74]. Drawing on Aleida Assmann’s discussion of the concepts of «canon» and «archive» to explain the dynamics between «working memory»[75] and passive remembering, Rigney argues that while non-violent forms of protest tend to be archived, they have the potential to enter the active canon of cultural memory when violence comes into play, as violent death represents a powerful memorial device[76]. However, the scholar maintains that by placing the emphasis on the concept of «outrage»[77] and thus on the active role of those claiming rights, and not on the trauma of helpless victims, it is possible to frame the memory of violence against activism within a dynamic of action and reaction, or anger and hope[78]. In this way, the memory of peaceful protests can have a performative potential and «becomes itself a renewed act of resistance»[79].

Città sommersa exemplifies Rigney’s theory by memorializing the biography of a peaceful activist whose life, despite being marked by violence, is mainly a story of non-violent resistance to social injustice. From the very first page, in fact, Leonardo is presented as someone who escaped death but was persecuted, or at least ostracised, by both the Italian justice system and his fellow activists, first because he did not follow the iron line of Servire il Popolo, then because he was considered a traitor when he was released from prison and “therefore” – according to some of his former comrades – «must have betrayed» them in order to regain his freedom[80]. Nevertheless, the memory of his non-violent activism resonates in the novel and, thanks to the narrative, retains its urgency. Following Rigney’s terminology, the memory of Leonardo’s activism mediated by Città sommersa («memory of activism») might be considered a «memory in activism», that is, as a memory of earlier protests that is capable of shaping new movements in the present[81]. Barone’s literary mediation of Leonardo’s impegno would, then, stand as an example of a cultural memory with performative potential; for this to happen, however, the legacy of this experience – like a relay race – must be taken up by those who come after[82].

The 1970s through the lens of postmemory and generational identity

In Città sommersa, the narrative of the 1970s is told by Marta Barone, that is, from the perspective of the children of those who were the protagonists of the protest movements. The concept of generation, as Astrid Erll points out, is a cultural construct that defines the identity of a group («generational identity/generationality»), but it always implies a diachronic reference to genealogy[83]. In fact, the exploration of the past is not limited to bringing Leonardo’s experience to the surface; it accompanies Marta’s inner search in the confrontation with her father. The story reveals the difficulty of establishing a stable and peaceful relationship with a man who lived his social engagement in an all-encompassing way, «always doubling the bet after losing the previous shot», as the definition of the martingale system in the novel’s epigraph suggests[84]. By recounting Leonardo’s involvement in the protest movements of the 1970s, which has never been told before, Barone also shows how her father’s choices and his unjust conviction for terrorism have affected her life. In so doing, she seems to be positioning herself in what Marianne Hirsch has defined as the «generation of postmemory»[85].

However, Marta is warned by a former member of Servire il Popolo not to judge her father too harshly[86], while another witness points out the danger of interpreting Leonardo’s biography as the «storia di una caduta» (the «story of a fall»)[87], that is, a failure because – despite everything – her father was consistent to the end in his struggle for justice.

The turning point was the discovery of some unsigned typewritten pages whose style reminded Marta of her father’s «political mind»[88]. According to her, this text, probably written before Leonardo’s arrest at the beginning of the 1980s, is a kind of “testament” in which we can see traces of her father’s self-criticism of his militancy in Servire il Popolo and his decision to distance himself from the «“Grande Progetto, di un’unica chiave di decifrazione della realtà per cercare invece chiavi diverse, progetti diversi, una trasmissione di linguaggi e di conoscenze molteplici” con cui mettere in atto un impegno “più stimolante e più vivo”» («“Great Project, from a single key to decipher reality, in order to look instead for other keys, other projects, a transmission of different languages and knowledge” with which to pursue a “more stimulating and lively” commitment»)[89]. In fact, Leonardo continued his social engagement until he started working as a psychologist at Villa Azzurra. His activism thus evolved, revealing a man who had learned his lesson from his experience in Servire il Popolo and confirmed his rejection of armed struggle in the pursuit of social justice. His choice is in line with Barbara Armani’s intuition that

una parte della militanza formata dai giovanissimi dei tardi anni settanta abbia cercato nuove forme di impegno politico e sociale che sono in parte rintracciabili nella crescita esponenziale delle associazioni culturali e di volontariato nel decennio successivo, nelle associazioni ambientaliste, nella proliferazione dei centri sociali come fabbriche creative, nella rinascita di culture antagoniste legate ai movimenti altermondialisti degli anni novanta[90].

It is this discovery that offers Marta a chance to re-establish a genealogical link with her father, to recognise his legacy, while being aware of the differences between the two generations. In fact, she has to accept – as a colleague tells her – that the model of commitment of the 1970s «no longer works»[91] because the present, in Marta’s words, «[e]ra, ed è ancora un’epoca povera, in cui qualsiasi slancio emotivo e intellettuale poteva avvenire soltanto con un’altra monade, al tavolino di un bar o al telefono» («was, and still is, a poor era, in which any emotional and intellectual outburst could only take place with another monad, at a bar table or on the phone»)[92]. This is the conclusion that she reaches after fantasizing about being part of a community, not «gruppi chiusi uniti da un’ideologia artistica, dei quali non [si] interessava affatto, ma quelle composite, fluttuanti riunioni fra soggetti diversi che mantenevano fermamente la propria individualità eppure leggevano agli altri le loro poesie o i passi dei loro romanzi man mano che procedevano» («closed groups united by an artistic ideology, in which they [were] not interested at all, but those composite, fluctuating gatherings of different subjects who firmly maintained their individuality and yet read their poems or passages from their novels to others as they went along»)[93].

Conclusion

In an evocative style that does not spare the reader from the horrors of terrorism, Città sommersa conveys a memory of the 1970s that goes beyond the imagery of political violence. In fact, it focuses on the story of southerners like Leonardo to remember their indignation and non-violent activism as a positive legacy of the protest movements. The micro-stories told thus show us that these were also “happy years” because great ideals were lived out through daily personal commitment: a moral attitude that coincides with what Marco Polo says at the end of Invisible Cities, and which seems to be shared by the novel’s author:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qua, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti; accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui; cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio[94].

As the events of the 1970s are not narrated by those who directly experienced them, but by the next generation that has to deal with that past, Città sommersa could also be considered a form of postmemory. Marta Barone critically engages with Leonardo’s legacy; at the end of her search, she finally accepts her father’s choices and, despite their differences and aware of the need to continue opposing injustice, seems to see in his activism a fuel for new practices of resistance.

In this sense, beyond the reconstruction of the protest movements, Barone’s novel can be read as a metatextual reflection on writing as a powerful «carrier of memory». In the end, it is the narration itself that shapes the remembrance of the 1970s, turning it into a «memory of the outrage» and, in so doing, transforming Leonardo’s indignation and lifelong activism into a mobilizing force for the present. A hybrid work that is actually many books in one, Città sommersa assigns literature the task of rescuing from oblivion the past struggle against injustice, but also of imagining new horizons on which to project the desire for a fairer world[95].

 

  1. I. Calvino, Le città invisibili [1972], Milano, Mondadori, 1993, pp. 10-11. For the English version of Calvino’s work, see Invisible cities [1974], translated by William Weaver, London, Martin Secker & Warburg Limited, 1996. The quotation is on pp. 7-8: «In vain, great-hearted Kublai, shall I attempt to describe Zaira, city of high bastions. I could tell you how many steps make up the streets rising like stairways, and the degree of the arcades’ curves, and what kind of zinc scales cover the roofs; but I already know this would be the same as telling you nothing. The city does not consist of this, but of relationships between the measurements of its space and the events of its past: the height of a lamppost and the distance from the ground of a hanged usurper’s swaying feet; the line strung from the lamppost to the railing opposite and the festoons that decorate the course of the queen’s nuptial procession; the height of that railing and the leap of the adulterer who climbed over it at dawn; the tilt of a guttering and a cat’s progress along it as he slips into the same window; the firing range of a gunboat which has suddenly appeared beyond the cape and the bomb that destroys the guttering; the rips in the fish net and the three old men seated on the dock mending nets and telling each other for the hundredth time the story of the gunboat of the usurper, who some way was the queen’s illegitimate son, abandoned in his swaddling clothes there on the dock. […] As this wave from memories flows in, the city soaks it up like a sponge and expands. A description of Zaira as it is today should contain all Zaira’s past. The city, however, does not tell its past, but contains it like the lines of a hand, written in the corners of the streets, the gratings of the windows, the banisters of the steps, the antennae of the lightning rods, the poles of the flags, every segment marked in turn with scratches, indentations, scrolls».

  2. M. Revelli, Lavorare in Fiat da Valletta ad Agnelli e Romiti. Operai Sindacati Robot, Milano, Garzanti, 1989, p. 29: «They came from the south, from the vast areas of unemployment in the south – 37% from Apulia, 23% from Sicily, 13% from Calabria, 10% from Campania – and, during their long journey, they consumed a long-standing laceration of peasant roots. All in one direction: from the countryside to the city. All somehow involved in an arduous geographical but also social and political journey: from the periphery to the centre, from marginality to prominence, from subalternity to power. […] [T]his army of boundless pioneers sought, in a disorderly way, just this: not only a salary, a job, a place to live, but “a centre”. A cardinal point on which to graft the elaboration of a new citizenship».

  3. I. Calvino, Le città invisibili, cited, the quotation is on p. 10: «Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata». Id., Invisible cities, cited, p. 7: «As this wave from memories flows in, the city soaks it up like a sponge and expands».

  4. A. Cancellieri, Non so(no) dove sono. Spazi in-formazione e mappe performative, in «Lo Squaderno. Exploration in Space and Society», March 2010, 15, pp. 27-30, the quotation is on p. 27: «Come ha sottolineato la fenomenologia e, in modo particolarmente efficace Merleau-Ponty, il mondo, gli spazi e i luoghi, sono incorporati ‘dentro’ di noi e, allo stesso tempo, noi siamo interamente fuori da noi stessi, negli spazi e luoghi nei quali abitiamo».

  5. M. Barone, Città sommersa, Milano, Bompiani, 2020.

  6. On the concept of “plurimedial constellation” see Plurimediale Konstellationen: Film und kulturelle Erinnerung, edited by A. Erll, S. Wodianka, Berlin, de Gruyter, 2008.

  7. On the cultural memories of terrorism see: Imagining Terrorism: The Rhetoric and Representation of Political Violence in Italy 1969-2009, edited by P. Antonello, A. O’Leary, Oxford, Legenda, 2009; Terrorism, Italian Style: Representations of Political Violence in Contemporary Italian Cinema, edited by R. Glynn, G. Lombardi, A. O’Leary, London, IGRS Books, 2012.

  8. This is the defence in law that Leonardo Barone’s lawyer submitted to the Court of Cassation before the third trial: M. Barone, Città sommersa, cited, p. 36. The charge was participation in an armed gang for providing medical assistance to a Prima Linea terrorist: ivi, p. 38. On this terrorist organisation, see: A. Tanturli, Prima Linea. L’altra lotta armata (1974-1981), Roma, Deriveapprodi, 2018. On leftist terrorism, see: M. Galfrè, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987, Roma-Bari, Laterza, 2014 and Ead., Left-wing armed struggle and political violence in 1970s Italy, in «Twentieth Century Communism», 2010, 2, pp. 114-40.

  9. L. Cecchini, Ethics of Conviction vs Ethics of Responsibility in Cinematic Representations of Italian Left-Wing Terrorism of the 1970s, in Terrorism, Italian Style… cited, pp. 195-213, the quotation is on p. 195.

  10. On the expression “Years of lead” see P. Antonello, A. O’Leary, Introduction, in Imagining Terrorism…, cited, pp. 1-15: 11, n. 1.

  11. A. Rigney, Mediations of Outrage: How Violence Against Protestors is Remembered, in «Social Research: An International Quarterly», LXXXVII, 2020, 3, pp. 707-33, the quotation is on p. 725.

  12. M. Barone, Città sommersa, cited, p. 38 (italics in the original).

  13. F. Tomasi, Spazio (urbano) e narrativa: qualche considerazione, in La geografia del racconto. Sguardi interdisciplinari sul paesaggio urbano nella narrativa italiana contemporanea, edited by D. Papotti, F. Tomasi, Bruxelles, Peter Lang, 2014, pp. 13-24, the quotation is on p. 20: «“palinsesto” nel quale tracce diverse si sovrappongono “spazializzando la storia”».

  14. D. Harvey, The Condition of Postmodernity. An Enquiry into the Origins of Cultural Change, Oxford, Blackwell Publishers, 1990, p. 218.

  15. I. Calvino, Le città invisibili, cited, p. 10. Id., Invisible cities, cited, p. 7.

  16. A. Rigney, Mediations of Outrage…, art. cited, pp. 707-33; Ead., Afterword: The Multiple Entanglements of Memory and Activism, in Remembering Social Movements: Memory and Activism, edited by S. Berger, S. Scalmer, C. Wicke, London, Routledge, 2021, pp. 299-304.

  17. See M. Hirsch, The Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture after the Holocaust, New York, Columbia University Press, 2012, and A. Erll, Generation in Literary History: Three Constellations of Generationality, Genealogy, and Memory, in «New Literary History», XLV, 2014, 3, pp. 385-409. Following Erll, “generationality” is here intended as «generational identity»: ivi, p. 285.

  18. A. Rigney, Remaking the memory and the agency of the aesthetic, in «Memory Studies», XIV, 2021, 1, pp. 10-23.

  19. A. Rigney, Mediations of Outrage…, cited, p. 725. (italics in the original).

  20. A. Rigney, Remembering Hope: Transnational activism beyond the traumatic, in «Memory Studies», XI, 2018, 3, pp. 368-80.

  21. I. Calvino, Le città invisibili, cited, pp. 34-35. Id., Invisible cities, cited, p. 30.

  22. M. Barone, Città sommersa, cited, p. 104.

  23. Ivi, p. 104, p. 56; cfr. M. Barone, Città sommersa, cited, p. 77.

  24. The same photo is described on p. 176: «era la foto per un documento di un bambino molto bello e molto serio, i capelli ondulati pettinati con la riga da una parte, vestito per l’occasione con una giacca elegante» («It was the photo for a document of a very handsome and very serious child, with wavy hair combed and parted on one side, dressed for the occasion in a smart jacket»).

  25. Ivi, p. 47.

  26. Ibidem.

  27. Cfr. A. Chetta, Lo stradario della Torino di piombo: sangue e rivolta politica negli anni 70 (17-02-2020), in «Corriere della Sera», https://torino.corriere.it/cultura/20_febbraio_17/stradario-torino-piombo-sangue-rivolta-politica-anni-70-aa21f9e4-516d-11ea-b3f1-eafceba2b87d.shtml (last accessed: 30/03/2024).

  28. On Leonardo’s arrival in Turin, see: M. Barone, Città sommersa, cited, p. 127.

  29. Ivi, p. 24.

  30. Ivi, p. 71.

  31. Ivi, p. 82.

  32. Ivi, p. 184 and p. 75.

  33. Ivi, p. 142.

  34. Ivi, p. 45 and pp. 80-81.

  35. Ivi, p. 45.

  36. Ivi, p. 142.

  37. Ivi, p. 141.

  38. M. Revelli, Il ’68 a Torino. Gli esordi: la comunità studentesca di Palazzo Campana, in «Rivista di Storia Contemporanea», April 1, 1989; 18, 2, pp. 139-88, the quotation is on p. 5.

  39. Ibidem.

  40. M. Barone, Città sommersa, cited, pp. 121-23 and p. 151.

  41. Ivi, p. 212.

  42. Ivi, p. 214.

  43. Ivi, p. 212.

  44. A. Vanolo, The Fordist city and the creative city: Evolution and resilience in Turin, Italy, in «City, Culture and Society», 2015, 6, pp. 69-74, cited on p. 70. On the symbiotic relation between the city and FIAT, see: N. Pizzolato, Challenging global capitalism. Labor migration, radical struggle, and urban change in Detroit and Turin, New York, Palgrave Macmillan, 2008, pp. 59-117.

  45. M. Revelli, Il ’68 a Torino. Gli esordi…, cited, p. 6.

  46. A. Vanolo, The Fordist…, cited, p. 70.

  47. M. Foucault, Of Other Spaces, in «Diacritics», XVI, 1986, 1, pp. 22-27, cited on p. 24: heterotopias are «something like counter-sites, a kind of effectively enacted utopia in which the real sites, all the other real sites that can be found within the culture, are simultaneously represented, contested, and inverted».

  48. M. Barone, Città sommersa, cited, p. 139.

  49. Ivi, p. 122.

  50. Ivi, pp. 122-23.

  51. Ivi, p. 125.

  52. See M. Revelli, Lavorare in Fiat, cited.

  53. M. Barone, Città sommersa, cited, p. 123.

  54. The comic strip starring Gasparazzo, invented by Roberto Zamarin and published in 1972 in «Lotta Continua», recounts the vicissitudes and struggles of immigrants: N. Pizzolato, Revolution in a Comic Strip: Gasparazzo and the Identity of Southern Migrants in Turin, 1969-1975, in «International Review of Social History», LII, 2007, pp. 59-75.

  55. M. Barone, Città sommersa, cited, p. 186.

  56. Ivi, p. 190.

  57. Ivi, p. 187 («new ghost town of non-inhabitants, which the other town, the superficial one, the real one, the metropolis of factories, had been hoarding for decades like an insatiable mouth without ever asking itself, until it was too late, where it could put them, where they could lead an existence that was not already a living burial ground. A real home, a home for human beings. Even if outside, the bog, the loneliness and the unsurmountable distance from “others” remained»).

  58. Ivi, p. 194.

  59. Ivi, pp. 194-95.

  60. Ivi, pp. 228-29.

  61. Ivi, p. 240 and p. 245.

  62. Ivi, p. 25 and p. 243. On the trial of Giorgio Coda see Alberto Papuzzi, Piera Patti, Portami su quello che canta. Processo a uno psichiatra, Torino, Einaudi, 1977 and, more recently, also the homonymous film (2018) by Marino Bronzino and Claudio Zucchellini (BroZuc Production).

  63. Cfr. P. Ginsborg, A History of Contemporary Italy 1943-1980, London, Penguin Books, 1990, p. 383.

  64. M. Barone, Città sommersa, cited, p. 23.

  65. P. Antonello, A. O’Leary, Introduction, in Imagining Terrorism…, cited, p. 1.

  66. This concept is discussed in Era Mio Padre: Italian Terrorism of the Anni Di Piombo in the Postmemorials of Victims Relatives, edited by S. Gastaldi, D. Ward, Oxford, Peter Lang Ltd, International Academic Publishers, 2018.

  67. B. Armani, Italia anni Settanta. Movimenti, violenza politica e lotta armata tra memoria e rappresentazione storiografica, in «Storica», XI, 2005, 32, pp. 41-82.

  68. Ivi, p. 42 and p. 43.

  69. I. Calvino, Le città invisibili, cited, p. 10. Id., Invisible cities, cited, p. 7.

  70. M. Barone, Città sommersa, cited, pp. 35-46.

  71. Ivi, p. 49 (italics in the original).

  72. Ivi, p. 50: «Non sai, non sai che tempi erano quelli. Ci hanno cancellati. Sono rimasti solo gli assassini. Tu non sai come si poteva essere felici. E noi eravamo felici» («You don’t know, you don’t know what those times were like. They erased us. Only the murderers are left. You have no idea how one could be happy. And we were happy»).

  73. Ivi, pp. 140-41 and p. 156.

  74. A. Rigney, Mediations of Outrage…, cited, p. 716.

  75. A. Assmann, Erinnerungsraume: Formen und Wandlungen des kulturellen Gedachtnisses, München, C. H. Beck, 1999, pp. 130-45, quoted in A. Rigney, Mediations of Outrage…, cited, p. 709.

  76. A. Rigney, Mediations of Outrage…, cited, p. 709. On the definition of «canon» and «archive» see: A. Assmann, The Religious Roots of Cultural Memory, in «Norsk Teologisk Tidsskrift», CIX, 2008, 4, pp. 270-92, in particular p. 276: «Like forgetting, remembering also has an active and a passive side. These two modes of cultural memory may be illustrated by different rooms of a museum which presents its prestigious objects to the viewers in carefully staged shows but stows away other paintings and objects in inaccessible cellars or attics. In the following, I will refer to the show rooms of cultural memory as the canon and the attics or cellars as the archive».

  77. A. Rigney, Mediations of Outrage…, cited, pp. 712-13: «The word “outrage” evokes the egregious violation of a norm or law combined with a moral judgement on the part of an aggrieved party».

  78. Ivi, p. 713.

  79. Ivi, p. 725.

  80. M. Barone, Città sommersa, cited, pp. 282-83.

  81. A. Rigney, Mediations of Outrage…, cited, p. 708.

  82. Ibidem.

  83. A. Erll, Generation in Literary History…, cited, p. 387.

  84. M. Barone, Città sommersa, cited, p. 9: «Martingala (s.f.): jouer à la -, giocare raddoppiando sempre la posta perduta nel colpo precedente».

  85. M. Hirsch, The Generation of Postmemory, cited.

  86. M. Barone, Città sommersa, cited, p. 116: «Tu sei di un altro mondo. […] Abbi pietà di queste persone. Credevano in quello che facevano e la maggior parte di loro non ha mai fatto del male a nessuno, se non a sé stessi. Sono stati divorati dalla Storia. Non deriderli troppo; non fare troppo sarcasmo» («They are from another world. […] Have mercy on these people. They believed in what they were doing and most of them never harmed anyone but themselves. They have been swallowed up by History. Don’t mock them too much; don’t be too sarcastic»).

  87. Ivi, p. 244.

  88. Ivi, p. 232. See also p. 274 and p. 278.

  89. Ivi, p. 231.

  90. B. Armani, Italia anni Settanta…, cited, p. 298: «part of the militancy formed by the very young in the late 1970s sought new forms of political and social engagement, some of which left traces in the exponential growth of cultural and voluntary associations in the following decade, in environmentalist associations, in the proliferation of social centres as creative factories, [and] in the rebirth of antagonist cultures linked to the anti-world movements of the 1990s».

  91. M. Barone, Città sommersa, cited, p. 180.

  92. Ivi, p. 181.

  93. Ivi, p. 180.

  94. I. Calvino, Le città invisibili, cited, p. 164. Id., Invisible cities, cited, p. 151: «The inferno of the living is not something that will be; if there is one, it is what is already here, the inferno where we live every day, that we form by being together. There are two ways to escape suffering it. The first is easy for many: accept the inferno and become such a part of it that you can no longer see it. The second is risky and demands constant vigilance and apprehension: seek and learn to recognize who and what, in the midst of the inferno, are not inferno, then make them endure, give them space».

  95. This article is an expanded version of «Noi eravamo felici!»: gli anni Settanta fra memoria dell’attivismo e identità generazionale in Città sommersa, which has been published in Anni Settanta: la grande narrazione, edited by Silvia Contarini, Claudio Milanesi, Firenze, Franco Cesati, 2024, pp. 29-39. All quotations from primary sources in the textwith the exception of those from Invisible Cities by Italo Calvinohave been translated from Italian by the author.

(fasc. 52, 31 luglio 2024)

“Dentro il carcere”. Interviews with Mary Gibson, Patrizio Gonnella, Amir Issaa, Dacia Maraini and Maria Giustina Laurenzi on Imprisonment

Author di Elena Bellina e Matteo Brera

Introduction

Imprisonment is a contested topic and, in the Italian context, new interest in captivity has recently emerged in response to the need of questioning the impact of a variety of forms of imprisonment on the national memory and identity in the twentieth and twenty-first centuries. The Italian case is an extremely fruitful testbed to evaluate to what extent the transformations occurred to culturally relevant forms of imprisonment through the last century have shaped the public discourse and have been represented in different contexts, thus contributing to actual social and cultural changes, especially during the recent COVID-19 and migrant crises.

The derelict state of Italian penal institutions and dated penal system came under scrutiny and became a matter of public discussion especially during the Seventies, when a decrepit system still profoundly rooted in fascist regulations and laws was faced with unprecedented challenges and was exposed by activists, artists, filmmakers and intellectuals as in dire need of urgent reform.

Violence within and outside the walls of the penitentiary were the backdrop against which the legislator attempted to change a system heavily informed by punishment and lacking any basic element of restorative justice, while common practices ensured the conditions and treatment of inmates – and women in particular – were often appalling and unsuitable to a modern democratic state.

In this contribution we navigate the changes and the long-standing flaws of the Italian carceral system ‘from the inside’ through four interviews[1] with five people who, at various levels, have worked on and in some cases experienced directly the prison and its impact on human beings.

Mary Gibson (Professor Emerita of History and Italian Criminal Justice at John Jay College and the Graduate Center of the City University of New York), Patrizio Gonnella (President of the NGO Antigone, Professor of Sociology and Philosophy of Law at Roma Tre University, Rome, Italy, and practitioner in criminal justice environments), Amir Issaa (first generation Italian-Arabic artist, writer, and educator actively engaged with the Italian prison setting), Dacia Maraini (Italian writer, activist, and once internee in a World War II Japanese POW Camp) and Maria Giustina Laurenzi (Italian director, actress, writer, and screenwriter) discuss their own experience of captivity and work within the Italian prison system from five different yet intertwining perspectives based on their personal views of captivity, incarceration, restorative justice, and safeguarding of the inmates’ human rights.

Their remarks ideally frame the key issues investigated by the research essays included in this issue. Their interviews give life to an engaging dialogue on the multifaceted nature of captivity among scholars, practitioners, artists and writers that better contextualises the present debate on Italian incarceration, offering remarks on its present and future challenges as well as on possible ways to induce a productive exchange between people “inside” and “outside” the carceral world.

Mary Gibson discusses the history of the Italian criminal justice system from the Italian Unification up to the present day. She offers insights on what historians can do to broaden the field of study focusing on the role played by the Italian penitentiary in the shaping of modern and contemporary Italian culture and society, underlying the need for new research on the topic.

Patrizio Gonnella addresses the current state of Italian prisons from the privileged viewpoint of his role as President Antigone, an NGO whose yearly reports monitor and put in the spotlight the conditions of inmates serving their time in Italian prisons, especially in the aftermath of the COVID-19 pandemic. Gonnella also focuses on the challenges posed today by chronic overcrowding of obsolete facilities amid waves of unregulated immigration.

Amir Issaa discusses his first-hand experience of the Italian prison system and the role that music and writing played in his upbringing as a first-generation Italian-Egyptian rapper in a family whose internal dynamics were heavily affected by the incarceration of his father. He also describes his recent projects and collaborations as an educator with juvenile correction facilities as well as in cultural spaces, associations, and higher education institutions in Italy and in the US.

Finally, Dacia Maraini tackles the question of captivity starting from her own experience in a WWII Japanese concentration camp as a child and her pioneering on-field surveys on women’s detention and exploitation carried out in the 1970s and 1980s and published both in the form of journalistic reportages and works of fiction, such as «Paese Sera»[2]. Her work has been pivotal to bring into the public discourse the subterranean world of female incarceration, which her long-time friend Maria Giustina Laurenzi vividly portrayed several years later in her documentary Donne di un altro mondo (2005). Laurenzi rounds off this series of interviews with a fond recollection of her work in the Fuorni correctional facility in Salerno, which she observed through the eyes, the words, and the bodies of the protagonists of these human tragedies – but also the vivid hopes and dreams – of the women serving their sentence in a small penitentiary in Southern Italy.

Interview with Mary Gibson, John Jay College of Criminal Justice

and Graduate Centre at the City University of New York

EB, MB: Could you, please, introduce yourself and explain what your relationship with captivity and the carceral system is?

MG: I am a Professor Emerita of History at the City University of New York (CUNY), where I taught undergraduate students at John Jay College of Criminal Justice and doctoral students at the City University of New York Graduate Centre. Much of my teaching involved the history of crime, particularly at John Jay College, which offers special majors – such as criminology, legal studies, forensic psychology, and forensic science – that attracted students aspiring to careers as lawyers, police officers, or administrators in the criminal justice system.

I was a good match for John Jay College because my scholarship had, from the time of my dissertation research in the 1970s, focused on what was then referred to as the “social control” of “marginal groups”. I was particularly interested in the variables of gender and sexuality in relation to the labelling of certain behaviours as deviant and their management, usually in a repressive manner, by the legal apparatus of the state. This scholarly inquiry has led to a series of books that lie at the intersection of the history of crime, in a broad sense, and the history of women and gender: Prostitution and the State in Italy, 1860-1915 (1986)[3]; Cesare Lombroso and the Origins of Biological Criminology (2002)[4]; and translations, with Nicole Hahn Rafter, of Lombroso’s classic works: Criminal Woman, the Prostitute, and the Normal Woman (2004)[5], Criminal Man (2006)[6]. My most recent book, entitled Italian Prisons in the Age of Positivism, 1861-1914 (2019)[7], examines prison reforms and changing modes of punishment in the wake of the Italian Unification and until World War I.

However, my interest in prisons, internment, and enclosure is not new, and I have always been committed to prison reform as a political and humanitarian issue. I have visited several prisons: the women’s reformatory in Iowa (the state in which I had my first teaching job); the women’s jail at Rikers Island in New York City (where I took my Masters’ students); and the women’s prison at Rebibbia in Rome (where I interviewed a young and intelligent female assistant warden). I have also given several “prison tours” to scholars at the American Academy in Rome to educate them about the many carceral spaces that constituted an important and visible aspect of Rome during the last five centuries and which played an important role in everyday life. During the 1990s, I was a member of the Advisory Council of the Women in Prison Project of the Correctional Association of New York. Thus, although my research has always been strictly academic, I am engaged in the issue of prisons as a political issue and hope that my writings have provided a useful historical context for socially engaged activists today.

EB, MB: What are the milestones that shaped the evolution of the Italian prison system, especially from Italian Unification to WWII?

MG: In terms of legal history, the main milestones in Italian history were marked by the national prison laws of 1860-1862, 1891, 1931, and 1975. However, while each of these large pieces of legislation reshuffled the administrative categories of the complicated network of Italian institutions of confinement, only the regulation of 1891 brought significant – although still limited – improvements to the lives of inmates. The laws of 1860-1862, approved during and immediately after the Unification, significantly brought together all the disparate prisons of the peninsula into one network under the control of the Prison Division of the Ministry of the Interior. Emblematic of this project to integrate the differing carceral systems of the former old regime states was the creation of a new secular corps of male prison guards, who were dispersed across the new nation. However, because the early laws were simply inherited from the Kingdom of Piedmont and imposed on a vast array of buildings that were often in physical degradation, they embodied no new vision of prison reform.

The law of 1891 ushered in a period of progressive change to the now unified, but still uneven and mostly unreformed, national network of prisons. The new Zanardelli Penal Code of 1889, which eliminated the death penalty, also abolished hard labour in the bagni, one of Italy’s most shameful institutions.[8] Male convicts, most of whom had laboured in chains in shipyards, construction, and land reclamation, were now assigned to indoor confinement where, through a regiment of education and professional training, they would ideally graduate to low-security institutions and finally parole. However, women’s prisons remained unreformed and administered by nuns, who emphasised religious conversion and moral purification rather than the more secular goals of education and professional training typical of male institutions. A similar gendered pattern was repeated in the case of children: teachers replaced prison guards in boys’ reformatories, but nuns retained control over interned girls. Clearly, the state considered only men to be citizens (and boys future citizens) of the new Italy.

On paper, the fascist prison law of 1931 appears surprisingly similar to that of 1891 but as of yet few historians have investigated the actual conditions inside Italy’s prisons during the interwar period. Most research has focused on confino, a system of internal exile imposed on “dangerous persons” who were mostly political opponents of the regime but also homosexuals, Jews, and Slavs. Often without trial, both men and women were sent to confinement in island camps or small towns in the southern provinces. Mussolini also reinstated the death penalty for “crimes against the state” and, in 1938, approved a series of Racial Laws to restrict the rights of Jews and Blacks and prevent race mixing. It is likely that the “regular” prison system (for non-political offences) was also infected by fascist politicisation, as was the case in Nazi Germany, but more research is needed.

What is clear from the state’s own statistics, however, is that the number of people, including children, institutionalised in prisons, internment camps, criminal and civil insane asylums, and youth reformatories increased notably during fascist rule and deserves more attention as one of the many violent methods employed by the regime to discipline the civilian population.

The period after World War II, as after the wars of unification and the First World War, saw little immediate change to prison legislation or everyday prison life. For example, female religious orders remained in charge of women’s prisons until the 1970s. The national prison law of 1975 and the Legge Gozzini of 1986 promised modest reforms to Italy’s prison system.

EB, MB: As an American woman, how did you first start studying the Italian prisons and why did you decide to work on the history of Italian women’s prisons? How has the treatment of incarcerated women historically differed from the treatment reserved to men in Italy? Has the Italian carceral system developed any special paths in relation to gender treatment compared to other carceral systems you are familiar with?

MG: My specialisation in Italian history came late in my doctoral studies. I had entered graduate school with an interest in European, and particularly French, social theory but gradually abandoned intellectual history for the new historiographical trend in the 1970s, namely “history from the bottom up”. Because social history was understudied for modern Italian history, I decided to pursue my dissertation research – on nineteenth-century Italian prostitution – in Rome rather than Paris.

For me, prostitution offered a way to explore the lives of a group of poor women, who were subjected to a state policy of legalisation and police regulation that differed markedly from the criminalization typical of the United States. Only after I began to read legal sources did I develop an interest in what American historians call criminal justice history, or the complex system of law, courts, police, and prisons that have been used to manage and discipline “marginal” groups. As I tried to master this field, I kept my focus on women in terms of the gendered nature of the criminal justice system and of the response of early feminist organisations to the plight of prostitutes subjected to the national regulation system. I also read Cesare Lombroso’s Criminal Woman, the Prostitute, and the Normal Woman (1893)[9], which led to my subsequent monograph (2002)[10] on the gendered nature of his extremely influential theory of the “born criminal”, which labels prostitutes as atavistic, and prostitution as the most prevalent and dangerous form of female crime.

This combined specialisation in the history of women and of law/crime led logically to my more recent research on prisons for several reasons. First, when searching for readings for my courses, I realised that almost all studies of prisons had focused on the experience of men, with a few exceptions such as the books of Nicole Hahn Rafter (2004)[11] and Estelle Freedman (1981)[12] for the United States and Lucia Zedner (1991, 1992, 2004, 2009)[13] for Britain. Second, my dissertation research on prostitution had coincided with the publication of Michel Foucault’s Discipline and Punish: The Birth of the Prison (1975)[14], and his argument that modern prisons employed enclosure, discipline, examination, and surveillance to disempower inmates proved useful in my analysis of two other “closed” institutions in nineteenth-century Italy: the licensed brothel and the sifilicomio, or the lock hospital, for the forcible treatment of prostitutes with venereal diseases. Third, when researching an article on anti-communist women between the two world wars, I had been shocked (perhaps naively) by discovering that, once arrested by fascist police, communists like Camilla Ravera[15] were interned in prisons managed by nuns. Finally, I had a longstanding commitment to prison reform as a political issue, particularly in respect to the paucity of resources (education, libraries, types of professional training) devoted to women’s institutions in the United States. At this point, I formulated a project to break the silence about female prisons that had characterised both the reform movement after Italian unification and current historiography.

EB, MB: As a historian of an Italian prison system which is by now – at least on paper – distant in time, what do you think are the relics of the past that you see as surviving in Italian prisons? Do you think that Italy has been able to move past the Lombrosian approach that characterised its origins?

MG: While I have not studied current Italian policy in any depth, I would note both improvements in the Italian prison system as well as fundamental problems that persist from the early years after Italian unification. In terms of gender, the Antigone NGO has recently released a comprehensive and excellent report (2023)[16] based on visits to all women’s penal institutions as well as government statistics. This report is especially important because it breaks the general silence about and disinterest in female prisons that has endured for over 150 years. A comparison of this report with my own research offers a mixed picture. One striking continuity is the low rate of female incarceration, with women making up only about 4 per cent of all inmates during both the late nineteenth century and the early twenty-first century.

In both periods, most women were primarily arrested and detained for minor property crimes rather than for prostitution or other types of “sexual” offences stereotypically associated with them. Once in prison, women in both periods have been assigned primarily to domestic tasks or “female” occupations such as garment making, both of which are repetitive and lowly paid. Education has been generally unavailable above the primary level. However, the report has several bright spots: not only were religious orders replaced by professional and secular female personnel in the 1970s, but the physical structures have been replaced or modernised. Rather than large dormitories, women now live in the same types of cells as men (usually with 4 persons) and enjoy a higher ratio of teachers and doctors per inmate than their male counterparts. In short, gender disparities have been attenuated.

Other problems have persisted or even gotten worse since the founding of the Italian prisons system. For example, the European Union has reprimanded Italy for the overcrowding of its penal institutions, which typified many penal institutions in the nineteenth century. Despite an easing of this problem over the last few years, on 30 April 2023 the number of inmates exceeded official capacity by about 10 per cent. An additional problem, which has plagued the Italian prison system since 1861, is the high rate of individuals being held in pretrial detention. Averaging over 40 per cent in 2000, the number has recently declined but the backlog remains. Because many incarcerated suspects will be subsequently absolved at trial, the inefficiency of the courts causes enormous injustice to them and to their families.

EB, MB: Where is the research work on the history of the Italian carceral system situated today? As a scholar who has devoted most of her life to the topic, what are the research areas that should be improved today in relation to persistent historical problems and future challenges that affect the Italian prisons?

MG: Research in modern Italian prison history is currently experiencing a renaissance. The publication of Foucault’s Discipline and Punish (1977)[17] sparked an outpouring of similar research globally but curiously little in Italy. Despite important contributions from scholars such as Michele di Sivo (2002)[18] and Luigi Cajani (1997)[19] on the early modern period, the topic has remained mostly unexplored for the nineteenth and twentieth centuries. However, a new generation of scholars – including Christian de Vito (2016)[20], Chiara Lucrezio Monticelli (2012)[21], Francesca di Pasquale (2018, 2019)[22], Elena Bacchin (2020, 2022, 2023)[23], Ilaria Poerio (2018)[24], and, in the U.S., Steven Soper (2020)[25] – are currently bringing attention to the centrality of penal institutions to modern Italian history not only through their own publications but also by organising conferences and special journal issues devoted to the topic.

Yet, much remains to be done. For the liberal period, many topics that I introduced in my book require further research, such as the variation in prison conditions across Italy (particularly between the north and the south) and among the many types of penal institutions (jails, long-term penitentiaries, youth reformatories, camps of internal exile, and asylums for the criminally insane). Even more important is the need to explore internment during the fascist period. Aside from some excellent research on confino as a punishment for political prisoners[26], little is known about whether the policies of the “regular” prison system became more repressive under Mussolini’s regime. Finally, the postwar period, except for the excellent book by Christian de Vito[27] and studies by feminist criminologists, is gravely understudied. It is to be hoped that more scholars in all fields will focus their research on the plight of women and men in Italy’s institutions of confinement.

Interview with Patrizio Gonnella, President, Antigone ONLUS;

Professor of Sociology and Philosophy of Law, University of Rome

EB, MB: Could you, please, introduce yourself and explain what your relationship with captivity and the carceral system is?

PG: My name is Patrizio Gonnella. I am the President of Associazione Antigone, which works with criminal justice and prisons. It monitors the conditions of imprisonment, but it is also in charge of conducting social research on the controversial subject of rights for people deprived of their liberty. Furthermore, I teach Philosophy and Sociology of Law at Roma Tre University’s Department of Law, and, alongside Susana Marietti, I host the radio show Jailhouse Rock on Radio Popolare, where we tell the stories of musicians who wound up in jail[28].

My relationship with imprisonment and incarceration dates back to 1993, when I began my career as Assistant Director of correctional institutes. I later also served as Director, and after that I committed my time and efforts in this field to Associazione Antigone instead. I have had many international assignments related to this field[29].

EB, MB: Based on your work leading Antigone and the annual reports that the Association prepares, what are the greatest challenges that the Italian prison system must face?

PG: The Italian prison system is a complex one that must first take on the great challenge that is rejecting the belief that prison is the only possible form of punishment.

The numbers, however, tell us that it currently is the primary form of punishment, and the one that is favoured most often. The numbers, to mention only the Italian case, are brutal: almost 57,000 people are held in prisons with an overcrowding rate of almost 120 per cent, placing us at the top of the list of European countries with the most crowded prisons. The main challenges we face are residualising prisons, diversifying the system of sanctions, and decriminalisation. Instead, we are living through a historical moment during which it seems like imprisonment is the answer to everything. We talk about raves in Italy and the answer is prison; we talk about heterological surrogate motherhood and the answer is prison. A broader cultural understanding of young people’s lifestyles is always lacking, starting with drug use, which affects the Italian social and penitentiary systems – one in three prisoners are there because of drug-related offences. This is the sign of a penal and penitentiary system that has, essentially, become the last frontier of welfare – this is where we find the poor, the marginalised, the immigrants (although the numbers have decreased compared to what they were in the past, they make up 31.5 per cent of the prison population), and many people with psychiatric problems. From this perspective, the amount of psychotropic medications distributed in prisons is extremely significant, and it requires us to consider the discomfort that prison operators have to face. It is not easy.

EB, MB: With the 2017 Orlando Reform, there was once again an attempt to overcome age-old criticisms of the Italian penitentiary system, such as the institution of preventive detention. In this sense, how do you judge the legislator’s recent and projected efforts?

PG: The legislator hasn’t proposed anything new since 2018. The impending elections made it so that when the reform passed, it had already been pared down. Few regulations were approved; regulations that were essentially theoretical, nothing that had an actual effect on the conditions of inmates. Nothing that would, for example, modify the internal arrangements for appointments or phone calls, free up access to the internet, give prisoners the possibility of having more relationships with the outside world without excessive pressure, increase the prospects of social recovery through real investments in areas like work or school, introduce specific rules regarding women or foreigners – essentially, the changes were very minimal and very insignificant. It is true, however, that the number of people in pre-trial detention is lower compared to 20-30 years ago: today, the amount is more or less 26-27 per cent, though the numbers are still higher than the European average. Discussing a reform of the prison system is not productive in terms of electoral consensus. On the contrary, the belief is that it kills anyone who dares to touch it – anyone who speaks of prisons will lose votes, lose consensus. It is an unpopular subject. And in this historical phase, political parties have given up on taking on a pedagogical role. Prisons essentially become a tool for trying to get votes rather than a way to educate on constitutional legality.

EB, MB: The condition of prisoners and life in prison often go by unnoticed by public opinion. The pandemic has contributed to dramatically resurfacing the debate on prison overcrowding and the fragile balance of interactions between inmates and prison staff. With this in mind, what are the main challenges that the COVID crisis is leaving behind?

PG: In a way, I think that COVID-19 has been a missed opportunity. During the pandemic, we dealt with prisons by trying to prevent them from becoming places of contagion. Prisons are the perfect place for epidemics to spread, as we saw in the United States for example. We had a debate about this in Italy, which in part led to a reduction in numbers largely due to the work of prison operators and the judiciary when it came to both awareness and surveillance. This led to an increase in measures such as home arrests and home detentions. With the pandemic, video calls and technology finally made their way into prisons. At the time, they were absolutely fundamental in order to ensure that prisoners were not completely isolated from their relationships with their loved ones. I remember that we had several riots and 13 deaths within Italian prisons, because at one point, everything shut down without any proper explanation about what was happening. But unfortunately, the battle seems to have been ultimately lost. There is fear surrounding technological innovations, and today it has once again become very difficult for inmates to obtain permission to have contact with the outside world. There is no way to access the internet in prisons, not even for those who are studying or for foreigners who want access to information in their own languages. Video calls have arrived, yes, but they do not work as they should, in the sense that unfortunately inmates in many prisons are granted the possibility of making a call only once a week for ten minutes, which is an insignificant amount of time. This, of course, given the fact that many inmates commit suicide (85 in 2022), is a sign that should push us towards finding another solution – suicide is a form of isolation, of loneliness, and an additional phone call in a moment of desperation could save lives.

EB, MB: When it comes to the issue of overcrowding, the penitentiary system has to face the repeated, and at this point constant, “crises” of immigration that put the entire system under pressure. Based on Antigone’s experience, what is your position on the matter, and what are the possible solutions that you feel you can suggest?

PG: Migration. Well, prisons are precisely the place where any visitor can realise that there are so many migrants who have very difficult lives behind them, and so many who are facing paths of induced illegality. This is probably a challenge that we should all undertake, so that we can, on the one hand, tackle the overcrowding issues; on the other, we can try to find a different way to do things. If we were able to find a way for foreigners to have individual paths to legalisation – removing them from the darkness, from the condition of invisibility, from black market labour – we would also likely be removing them from criminality. And this is the solution that I would like to propose: pragmatism when it comes to dealing with the migrant issue, as opposed to dogmatism.

Interview with Amir Issaa, Artist, Writer, Activist, and Educator

EB, MB: Could you, please, introduce yourself and explain what your relationship with captivity and the carceral system is?

AI: My name is Amir Issaa, and I was born in Rome in 1978. My father was an Egyptian immigrant, and my mother was an Italian woman. My first “encounter” with the Italian criminal justice system and imprisonment was when I was very young and the police raided my home, taking my father. This is one of the first memories I have of life, one of the ones that has marked me the most and that I still carry with me today. From that moment on, my father was in and out of prison, and to me he was always a figure with a blurred outline, almost like a ghost. Unfortunately, it’s true that my father had participated in criminal activities. However, the fact that he was an immigrant resulted in significant difficulties when it came to seeking justice for him and my family. As a kid, I shut myself off – I didn’t talk to anybody about these things, partly because my mother had taught me that we shouldn’t talk about prison at school, with friends, and with acquaintances because the experience of incarceration was, in a way, rejected by society. I felt embarrassed to be the son of a prisoner, and, furthermore, there was also the question of ethnicity and identity. At that time in Italy, while we were still in the early stages of a cultural shift that is now fully underway, I not only couldn’t say that my dad worked in a bank, at a company, or at a bar like everyone else at school, but I found myself with a different name as well. You know, my mom actually changed my name from Amir to Massimo – this is the story I wrote about in my first book, Vivo per questo (2017)[30] – in order to facilitate the process of my integration; almost to make me feel like the other kids.

EB, MB: Your life as a teenager in Rome was marked by your father’s imprisonment. How did this experience also come to influence your life from a professional point of view?

AI: Throughout all of this, I would go visit my father, who was first in Rebibbia, then in Regina Coeli [the two main prisons in Rome] and later was also transferred to other Italian prisons. I experienced the life of the family member of a prisoner, which is truly draining, because prisoners are often transferred from one day to another… My mother would ask for time off from work to go see my father, and we couldn’t even spend the night in the city where he was being detained, so we would have to go back home to Rome. When you are related to a prisoner, in a way you also become part of and a victim of the system.

Even things that can seem commonplace, like delivering a package to your loved one, become a source of frustration. The ‘package’ was, in fact, just a brown bag – I’ve mentioned it in a few songs – not unlike the paper bag that held the bread you bought at the tobacco shops by Rebibbia or Regina Coeli. You had to put anything you were bringing in there, like clothes or food. Often, due to bureaucratic reasons, some days they wouldn’t accept this type of food or that shirt because buttons were placed in a certain way… I would watch my mother spend hours preparing a dish for my father only to have to take it back home: one of the toughest memories of my life. Another traumatic memory – which I talk about in a chapter of my book Vivo per questo[31], which was published in translation in the United States as This is what I Live For (2023)[32], and that isn’t only the story of a rapper, but also the story of a kid, a boy who has lived through this familiar journey – is due to the urbanistic location of prisons in Rome. While Rebibbia is in the suburbs, Regina Coeli is in the heart of the city, right across the river from the Virgilio High School. A prison in front of a school is something diabolic: sometimes, I would go see my father right as the students were leaving school. I had friends there, and the hip hop scene was all in Trastevere, too… Once, I remember hiding to avoid being seen because my friends didn’t know anything… The prisoners, too, know that right there, a few metres from their cell, city life is bustling… Emotionally, it’s a terrible thing.

EB, MB: As an artist and activist, how do you see the role of those who, like you, do work inside prisons from the outside? Do you think that this is an important way of building a bridge between “the inside” and “the outside”?

AI: Certainly. At this point, I have been going to prisons as an activist and educator for years, and I have realised that there is so much activity within prisons. Many “outside” people, driven by organisations like Caritas, invigorate a world that is still too subterranean, often untold but very present – the world of the people who use their own knowledge to build this “bridge”. And here, pedagogy is essential. In 2021, I wrote Educazione Rap[33], in which I talk about both my personal activities and the possibilities of rap on a didactic level in schools and penitentiaries. The Turin International Book Fair involved me in a project last year that took me to the city’s juvenile detention centre – the Ferrante Aporti correctional institution – to write verses with the young inmates. When I entered, I found myself faced with 80 per cent North African kids, minors who for the most part had arrived in Italy all alone on the infamous “barconi” by themselves. They had found themselves committing crimes driven by hunger, not by an attraction to the criminal world. The great problem I encountered was a lack of communication: if you have a prison filled with so many kids who can only speak Arabic and don’t know Italian, why can’t you bring them educators who speak their language to help them? This creates only barriers, not bridges! Then ghettos are created within the prison as well because those who speak Arabic stay only with those who speak Arabic, those who speak Albanian stay only with each other, and so on… Our presence as educators in the prisons serves to raise awareness of these problems, these barriers. And to try to fight them together.

EB, MB: Thinking about the re-education goal of these punishments that is clearly foreseen by the Constitution of Italy (Article 27), what do you think your impact on the carceral experience of prisoners could be? How have prisoners and the carceral world impacted you and your artistic production?

AI: Generally, there isn’t much concern for what happens during and after sentencing. In my opinion, there really isn’t a true re-education system. After prison, the prisoners go on with their lives, and society continues to marginalise them at a physical and mental level. Former prisoners are often stigmatised by everyone, and every time, even in the attempt to provide re-education opportunities inside prisons, I have to face a personal trauma once again, too. All of these activities I organise are accompanied by great emotional baggage, because each time I go back into a prison I relive this trauma. When I was contacted by the Comunità di Sant’Egidio to present Vivo per questo[34] inside Regina Coeli and donate it to the prison library, so many people on the outside would ask me, «But what are books doing in prisons?». Society does not think that a prisoner could explore literature, study, or do so many positive things inside a prison. But all of these opportunities always come from someone who gets their hands dirty and attempts to undermine the mechanisms of a system that is, essentially, very conservative. In any case, there is a beautiful library inside the Regina Coeli prison where prisoners can take books, read them, and… now my own book is there, too! As someone who would go to that prison as a child to visit his father, it is a beautiful feeling. From the day of the presentation onward, I began to hold meetings and writing labs with the prisoners. All of this went on for a couple of months, and for the first time I found myself spending a lot of time writing and trying to make something with people who were older than me, and people who sometimes didn’t speak Italian, only Arabic. Trying to coax out an expression, or even only a line, that for someone in there might be incredibly important, and might be their only opportunity to express what they are thinking. And all of this was happening with incredibly limited resources because you can’t bring almost anything into a prison. Sometimes, I found myself spending two hours with the inmates, but without speakers or a microphone. In my small way, I think, I bring something different, something new, into the prisons where I work; something that also comes at the cost of great exhaustion and the traumatic aspects that these activities entail.

EB, MB: In your recent collaboration with the Fondazione Treccani Cultura, your work focused on the juvenile prison population. What principles drove you to approach this particular group of detainees?

AI: At a certain point, I understood that, just like my father, there were people in prison who were fundamentally good people who had gotten “lost” in society. The Comunità di Sant’Egidio contacted me and proposed the first activity, the first writing lab – writing rap – in the juvenile prison of Casal del Marmo in Rome. I carried out this project for two months in Casal del Marmo, which is a very complex environment, for two months. Most of the minors I met there were of Roma origin, and that should already make us all reflect. Roma youth perhaps face the most discrimination, and among them there is a significant percentage of children who go in and out of prison, because when they are let out there isn’t a re-education system to support them in any way. If they are let out of prison and return to a Roma camp, unfortunately they find themselves immediately returning to the lives that brought them in the day after. I began to organise activities with them, making them write verses, listen to songs. Upon noticing that they had a limited – to say the least – language proficiency I had to develop new techniques as needed. For example, I asked those who didn’t know how to write in Italian to write in Romani; I would ask those who couldn’t write at all to draw, maybe some graffiti. Essentially, I tried to develop the kids’ creativity. I myself rap, but in some cases, if you don’t know how to write – if you can’t read or can’t use language – writing rap becomes incredibly difficult. The idea was to involve everyone, and we even managed to put together a final performance with all of the kids that was covered by «Repubblica»’s magazine «XL». It was a beautiful experience, but it also helped me understand the difficulties that exist when bringing a “recreational” activity, so to speak, into a place like a prison, because even minors are seen as delinquents by society and the prison management. All activities done in prison, including the most recent one with Treccani, are exhausting, because instead of being facilitated by the system they are hindered by it. You are challenging the status quo, their fragile equilibrium, the rules they believe are necessary in order to keep kids and adults shut inside as much as possible, letting them out only for some air. Even bringing them somewhere else, maybe to a room where we could create a pleasant moment with the music, with cinema, was sometimes a true undertaking… But I don’t want to be misunderstood and generalise too much: I have encountered managers and prison guards who have a great deal of humanity in them and are aiming for change. Sometimes, though, there is still a lot of hostility: you want to bring in something that is outside of the norm, even creative and playful, and this is not always well received.

With Treccani Cultura, we have started a beautiful project named Ti Leggo, aimed at introducing minors to literature. Treccani gifts them a dictionary and books and contributes to the renovation of some prisons’ libraries. They brought me in for an activity in two juvenile prisons: one in Airola, which is in the Campania region, and the other in Calabria, in Catanzaro. I began meeting with the kids so we could write together, and there I met other people who lead these kinds of activities, like Lucariello, a Neapolitan rapper who is also a social worker. While I work on our projects, some other people can help the prisoners record themselves in a studio instead. This, of course, has a great impact on these young inmates, because they have the possibility of sending something out into the world from the inside. As long as they are still in prison, simply completing the project is, of course, a great source of pride for them. But when you explain to them that they will be able to have their words and thoughts reach the outside world, well, this holds an incredible emotional weight.

At the Gozzini prison in Florence, there is even a recording studio – it is an amazing project. Then there is Sbarre Mic Check, a project that wants to be the voice of inclusion through rap. It began in the early 2000s and has produced several compilations, and even has a YouTube channel. It is a shame that these things are only very rarely spoken about.

EB, MB: Based on your experience, how do you think that the relationship between educators and the carceral world is evolving and can evolve from the perspective of a more effective re-education process?

AI: One idea would be to no longer see prison as something that is detached from society. Prisons are a part of our society, so the life of a prisoner doesn’t disappear and end the moment he is imprisoned; it is simply one moment. He could return to live in society, so it is not only necessary to deal with what is happening at the punitive level, but rather with what a man’s life outside of prison could be. Otherwise, the discomfort and marginalisation will simply develop into more anger, more outbursts against society, and it will cause people to feel ostracised and likely commit other crimes that take them back inside. We need to avoid creating a “second-class” citizenship: if you were in prison, you can’t work; if you have been in prison, then you have to work harder to be able to find a job.

There also isn’t a system where the community welcomes young people who get out of prison and helps them re-enter society, especially in the case of foreign inmates. For example, a Moroccan fruit vendor, a call centre worker, someone who has his own business, someone who works legally, could perhaps help these kids to regain their place in society once they get out. But right now, all of this is simply utopic.

Talking about these things is necessary. We talk about them every now and then when a case explodes in the media – we have talked about the abuses that have taken place in Italy recently, regarding the overcrowding of prisons during the pandemic. But it is still a very uncomfortable topic to talk about. In the common imagery, the bad people are “in there”, we have put them in there and are now at peace with ourselves. We put them in there and the good people are outside, when we know full well that this is not the case. Talking about all this, it’s already being part of the change.

Interview with Dacia Maraini, writer, intellectual, activist,

and once interned in a World War II Concentration Camp in Japan,

and Maria Giustina Laurenzi, filmmaker, actress, author and screenwriter for RAI

EB, MB: Could you, please, introduce yourself? What is your relationship with captivity and the carceral system?

DM: My name is Dacia Maraini, and I am a writer. My interest in prisons began with my experience in a Japanese concentration camp where I was detained for two years as a child, from 1943 to 1945. Then, once I was back in Italy, I conducted an investigation on female prisons around the entire country, and this taught me many things about imprisonment in times of peace. I have always asked myself whether prison is necessary for societal stability. Is it not a form of revenge that should be abolished? On the other hand, shouldn’t punishment be inflicted on people who commit crimes against society? I do think that social justice in a democracy requires some form of punishment for committing crimes; however, it should not be based on the principle of retaliation, but rather on re-education through schooling, (paid) work, and reintegration into society.

MGL: My name is Maria Giustina Laurenzi. I began doing theatre in my small provincial city, Salerno, when I was 14, and from then on, I have not stopped working in the entertainment world. I created a woman-only group (TEATRA), and I met Dacia Maraini at a feminist theatre conference. She asked me to direct a play of hers in Rome. From 1979 to now, we have continued to work together on theatre, on some short films, at RAI, and on several cultural documentaries. I teach theories and techniques of cinematographic language and have a video-theatre lab at Salerno’s mental health unit of the National Health System (ASL) for young people with early psychosis.

EB, MB: How did your experience in the Japanese concentration camp in the 1940s mark your interest in the condition of imprisonment in its various iterations?

DM: I have mentioned the camp often, but it wasn’t until my most recent autobiographical novel titled Vita mia (2023)[35] that I talked about daily life in the concentration camp. The days in the camp were extremely difficult because of the unbearable hunger – they didn’t give us anything to eat beyond what was needed for mere survival – because of the incessant bombings, because of the earthquakes, because of the sadism of the guards who enjoyed triggering our fears and humiliating us. I remember, for example, that they would eat in front of us as we starved, and in the end, they would toss a fish bone or a slice of rotten tangerine and laugh when they saw us run to collect their scraps. I also remember the pointless harassment, like how they prohibited us from leaning our backs against the wall when we sat on the benches when the wall was the only source of relief for the weakness that overcame us. Or, also, how the letters that arrived from Italy were exposed behind the glass at the reception but never delivered to us. As I grew up, I wondered why sadism explodes when people acquire absolute power over others. Is it possible that power perverts the soul of those who wield it? In the end, my response to this question has been that this is exactly what happens. Power corrupts ‒ as a wise man once said ‒ but absolute power leads to absolute corruption[36].

EB, MB: In the 1970s, your feminist activism and your artistic and journalistic production intertwined. How were the stories of women in prison that populate your production throughout those years born?

DM: They were born out of my visits to Italian prisons and the people I met. One in particular, whose life inspired me to write the novel Memorie di una ladra (1972)[37]. Teresa, the protagonist of the book, was illiterate but incredibly intelligent and full of life. I learned so much about the life of thieves driven by starvation in the postwar period. I have always divided the proceeds from the book with her and I gave her half of the proceeds from the film adaptation Teresa la ladra (1973)[38] that I wrote alongside Monica Vitti, who acted as Teresa.

EB, MB: During your 1970s investigation for «Paese Sera», which is incredibly current and yet has in a way been “suspended”, you have been anticipating a debate on female incarceration for many years that has yet to be addressed. How did this project come about, and with what objectives? What impact did it have on public opinion today, and on institutions (for example, the legislative or political class)?

DM: I think that female prisons have changed a lot since then. Today, those who are imprisoned are almost all foreigners linked to drug trafficking. At the time, they were Italian girls and women who were thieves or murderers. However, the female carceral population was very small compared to the male one. Years later, in the 1970s, I went to many meetings in prisons, both male and female institutions, alongside judge Silvano Anania (1936-2018). Together, we created the Rebibbia prison’s library. We held many meetings with incarcerated members of the Red Brigades. They had many interests but didn’t want to talk about themselves. Today, I am on the jury of a prize named Goliarda Sapienza for writings by prisoners.

The condition of prisons has always interested me, because of the connection with my incarceration as a child. During my long life, I have often dealt with both prisons and convents, which served as lifelong prisons for girls throughout many centuries. I discovered this while writing La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990)[39] and researching the life of women in the eighteenth century – even in wealthy families, all possessions went to the oldest son. The other male children were sent to the army to become soldiers or ended up as priests. Of the daughters, the two or three most beautiful ones were married off and the rest were locked away in a convent. It’s important to know that every mother had five, six, even ten children. So, there were many girls who ended up imprisoned in convents.

EB, MB: Do you think that someone should start this conversation again today? How would it be possible half a century later?

DM: I think so. But first, it would be necessary to visit prisons throughout the entire country, as I have done in my time, and properly understand what things have changed and what the current situation is.

EB, MB: Giustina Laurenzi has continued your work in a way, documenting the lives of these women “inside” the prison in Donne di un altro mondo (2005)[40]. Giustina, can you describe your experience as a documentary maker focusing on female imprisonment?

MGL: I walked into the Fuorni prison during a warm day in July. My crew and I were swiftly taken to a sunny courtyard where about ten prisoners chosen specifically for us by the prison director himself sat on the ground in an orderly fashion. «But we wanted to film them in their cells; that was the agreement», I said, clearly angry. «No, not the cells!», they replied dryly.

And so, with the sun beating down on us, by the sea in that place that looked nothing like a prison, it felt like we had gone on vacation with a group of inmates. But we got to work right away, because we only had two days. The idea was to have the women create a documentary about life in the prison, and before anything else we tried to find a title all together.

A voice from the back yelled, «Donne di un altro mondo!» [Women from Another World] and another added: «Subtitle: Not Allowed, because nothing is allowed in here». A thunderous laugh broke the somewhat embarrassed tension that had built up, and they all began to tell stories directly, without censure or false modesty. Their language was so different from that of the prison guards, who we were also asked to interview. The stories of these women both young and not so young had violence, poverty, and abuses of all kinds as a common denominator. One of them had given birth to her first child at 14; another, who chose to be the videographer, was named an accomplice to murder because her current boyfriend had killed her ex. Yet another was a prostitute who served as her own pimp, and another told us that for the girls in her neighbourhood, going to prison was a badge of honour. In short, while certainly not excused from the things they had done, they were all victims of a reality where women were used and mistreated much more than men.

Some of them had spent almost their entire lives in prison. One of them told us, «This is my home. If I leave for a while, I come back… It’s as if I went out on vacation and then came back».

Sad stories, heart-breaking ones, but in reality, we spent those two days having fun and becoming friends, so much so that when the moment came to say goodbye it was truly devastating.

My problem, however, was still with the setting. How could we make it clear that this was really a prison? I remembered a 1959 film titled Nella città l’inferno[41] by Renato Castellani, shot in the female section of a Roman prison with Anna Magnani and Giulietta Masina as protagonists. Perfect! While editing, I extrapolated the scenes that seemed like they were closer to the reality I had lived through with my group of prisoners, and so the documentary included three languages that confronted each other: the film’s, the prison guards’, and the prisoners’. Because it was in black and white, the film managed to give a poetic framework to a story that seemed true. The prison guards stumbled through boring and bureaucratic language. And the prisoners dazzled the screen with the raw, sincere truth of their life stories.

At the national launch, we had the extraordinary endorsement of Lina Wertmuller, who immediately “fell in love” with them. And I will never forget, amidst the thunderous and sincere applause of a large audience, how their eyes shined with a joy they had never known before.

References:

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Ead., A Rebibbia si sperimenta il metodo dell’autodisciplina, in «Paese Sera», 1969, 22 November;

Ead., A Trani non detenute ma cavie, in «Paese Sera», 1969, 27 November;

Ead., Parlano le donne, in «Paese Sera», 1969, 1 December;

Ead., Diciotto domande a una omicida, una prostituta e una tossicomane, in «Paese Sera», 1969, 4 December;

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Websites:

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Filmography:

R. Castellani, Director, Nella città l’inferno, performances by Anna Magnani and Giulietta Masina, Riama Film, 1959;

C. Di Prima, Director, Teresa la ladra, performance by Monica Vitti, screenplay by Dacia Maraini, Agenore Incrocci, and Furio Scarpelli, Euro International Film, 1973;

M. G. Laurenzi, Director, Donne di un altro mondo, Consiglio di Parità, Regione Campania, Ministero della Giustizia, 2005.

  1. The five interviewees were contacted via e-mail and on Zoom between June and October 2023. The interviews with Patrizio Gonnella, Amir Issaa, Dacia Maraini, and Maria Giustina Laurenzi were originally held in Italian, and then translated into English by Isabella Corletto. The texts were revised and approved by the interviewees.
  2. Throughout her career, Maraini has been at the forefront of many causes in defence of civil rights, especially regarding female imprisonment, which she actively investigated in an Inchiesta sulle carceri femminili, published in instalments in the Italian afternoon newspaper «Paese Sera»: see D. Maraini, Ricamano (e odiano) le detenute del carcere di Venezia, in «Paese Sera», 1969, 15 November; Ead., Se si rifiutano di obbedire vengono spedite al manicomio, in «Paese Sera», 1969, 17 November; Ead., A Rebibbia si sperimenta il metodo dell’autodisciplina, in «Paese Sera», 1969, 22 November; Ead., A Trani non detenute ma cavie, in «Paese Sera», 1969, 27 November; Ead., Parlano le donne, in «Paese Sera», 1969, 1 December; Ead., Diciotto domande a una omicida, una prostituta e una tossicomane, in «Paese Sera», 1969, 4 December; Ead., Autoritarismo e paternalismo: ecco la norma, in «Paese Sera», 1969, 7 December. Some of these contributions have been collected in D. Maraini, Vita Mia. Giappone 1943. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia, Milan, Rizzoli, 2023; Ead., In nome di Ipazia. Riflessioni sul destino femminile, Milano, Solferino, 2023. Maraini’s positions on female imprisonment have been published regularly in the daily «Corriere della Sera» (D. Maraini, Giusta la pena, non la tortura. È ora di cambiare le nostre carceri, in «Corriere della sera», 23 July 2012, https://www.corriere.it/opinioni/12_luglio_23/maraini-giusta-pena-non-tortura_81762aa4-d49a-11e1-9251-6da620bfc4cf.shtml), and in its magazine «Io Donna» (see at least D. Maraini, Ascoltiamo le voci di dolore che si levano dalle nostre carceri, in «Io Donna», 6 (2), 2001, 13 January, p. 9; Ead., Il carcere è una pena dura, ma non rieduca i delinquenti, in «Io Donna», 5, (29), 2000, 15 July, p. 7; Ead., In carcere: le umiliazioni e il tempo che non passa, in «Io Donna», 3 (45), 1998, 7 November, p. 5.).
  3. See M. Gibson, Prostitution and the State in Italy, 18601915, New Brunswick, NJ, Rutgers University Press, 1986.
  4. See M. Gibson, Born to Crime: Cesare Lombroso and the Origins of Biological Criminology, Westport, CT, Praeger, 2002.
  5. See C. Lombroso, Criminal Woman, the Prostitute, and the Normal Woman, translated and with a New Introduction by Mary Gibson and N. H. Rafter, Durham, NC, Duke University Press, 2004.
  6. See C. Lombroso, Criminal Man, translated and with a New Introduction by Mary Gibson and N. H. Rafter, Durham, NC, Duke University Press, 2006.
  7. See M. Gibson, Italian Prisons in the Age of Positivism, 18611914, London, Bloomsbury, 2019.
  8.  In the history of Italian carceral institutions, the bagni penali, literally, ‘penal baths’ were a type of penal colonies where convicts were subject to a forced labour regime and cruel corporal punishments. The bagni, widespread especially in the Tuscan isles, were outlawed with the promulgation of the Zanardelli reform of criminal law and penal institutions of 1891. See F. Carfora, Lavori forzati, in «Digesto Italiano», Torino, Unione tipografico editrice, vol. 14, 1902-1905; A. Bernabò Silorata, Case penali, in «Digesto Italiano», Torino, Unione tipografico editrice, vol. 6, parte II, 1891.
  9. See C. Lombroso, Criminal Woman, the Prostitute, and the Normal Woman, translated and with a New Introduction by Mary Gibson and N. H. Rafter, cited.
  10. See M. Gibson, Born to Crime: Cesare Lombroso and the Origins of Biological Criminology, cited.
  11. See C. Lombroso, Criminal Woman, the Prostitute, and the Normal Woman, translated and with a New Introduction by Mary Gibson and N. H. Rafter, cited.
  12. See E. Freedman, Their Sisters’ Keepers. Women’s Prison Reform in America, 1830-1930, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1981.
  13. See L. Zedner, Women, Crime, and Custody in Victorian England, London, Oxford University Press, Oxford Historical Monographs, 1991; L. Zedner and J. Morgan, Child Victims. Crime, Impact, and Criminal Justice, London, Oxford University Press, 1992; L. Zedner, Criminal Justice, London, Oxford University Press Clarendon Law Series, 2004; Ead., Security, London, Routledge Key Ideas in Criminology Series, 2009.
  14. M. Foucault, Discipline and Punish. The Birth of the Prison, New York, Pantheon Books, 1977 [First edition in French, Surveiller et Punir: Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975].
  15. Camilla Ravera (1889-1988) was a prominent Italian politician and leading figure in the Italian Communist Party. She joined the Italian Socialist Party in 1918, worked with Antonio Gramsci, and collaborated with the newspaper «L’Ordine Nuovo». She played a key role in the founding of the Italian Communist Party (PCI) in 1921 and organised clandestine activities against the Fascist government when Gramsci was incarcerated. In 1930, she was arrested and sentenced to 15 years in jail. She spent the first five years in jail in Perugia and, starting in 1943, she was exiled and sent to ‘confino’ to Montalbano Jonico, San Giorgio Lucano, Ponza, and Ventotene. She was expelled from the Communist Party in 1939 and readmitted in 1945, becoming a crucial figure in the history of the PCI until her death.
  16. See Antigone, È vietata la tortura. XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, 2023; https://www.rapportoantigone.it/diciannovesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/.
  17. See M. Foucault, Discipline and Punish. The Birth of the Prison, cited.
  18. See M. Di Sivo, Per via di giustizia. Sul processo penale a Roma tra XVI e XIX secolo, in Giustizia e criminalità nello Stato pontificio: ne delicta remaneant impunita, edited by M. Calzolari, M. Di Sivo and E. Grantaliano, Rome, Rivista Storica del Lazio, Archivio di Stato di Roma, 2002, pp. 13-35.
  19. See L. Cajani, Surveillance and Redemption. The Casa di Correzione of San Michele a Ripa in Rome, in Institutions of Confinement. Hospitals, Asylums, and Prisons in Western Europe and North America, 1500-1950, edited by N. Finzsch and R. Jütte, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 301-24.
  20. C. De Vito, R. Futselaar and H. Grevers eds, Incarceration and Regime Change. European Prisons During and After the Second World War, Oxford-New York, Berghahn, 2016.
  21. See L. Monticelli, La polizia del papa. Istituzioni di controllo sociale a Roma nella prima metà dell’Ottocento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.
  22. See F. Di Pasquale, The “Other” at Home: Deportation and Transportation of Libyans to Italy During the Colonial Era (1911-1943), in «International Review of Social History», 63 (S26), 2018, pp. 211-31; Ead., On the Edge of Penal Colonies. Castiadas (Sardinia) and the “Redemption” of the Land, in «International Review of Social History», 64 (3), 2019, pp. 427-44.
  23. See E. Bacchin, Political Prisoners of the Italian Mezzogiorno. A Transnational Question of the Nineteenth Century, in «European History Quarterly», 50 (4), 2020, pp. 625-49; Ead., Venezia 1831-32: Prigionieri politici e diritto di ribellione. Un affaire internazionale, in «Passato e Presente», 115, 2022, pp. 124-41; Ead., “Our Botany Bay”. The Political Prisoners of the Risorgimento and the Sentence of Deportation, in «The Journal of Modern History», 95 (2), 2023, pp. 349-84; Ead., La Siberia piemontese. La deportazione degli esuli indesiderati negli anni Cinquanta dell’Ottocento, in «Studi Storici», 64 (2), 2023, pp. 315-44.
  24. See I. Poerio, A scuola di dissenso. Storie di resistenza al confino di polizia (19261943), Roma, Carocci, 2016.
  25. See S. C. Soper, Southern Italian prisoners on the stage of international politics, in « Journal of Modern Italian Studies», 25 (2), 2020, pp. 95-117.
  26. See C. Poesio, Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime, Bari, Laterza, 2011; I. Poerio, A scuola di dissenso. Storie di resistenza al confino di polizia (19261943), cited.; A. Foa, Andare per i luoghi di confino, Bologna, il Mulino, 2018; P. Garofalo, E. Leake and D. Renga, Internal Exile in Fascist Italy. History and Representation of Confino, Manchester, Manchester University Press, 2019.
  27. See C. De Vito, R. Futselaar and H. Grevers eds, Incarceration and Regime Change. European Prisons During and After the Second World War, cited.
  28. See P. Gonnella and S. Marietti, Jailhouse Rock. 100 musicisti dietro le sbarre, Roma, Arcana, 2012.
  29. Gonnella also boasts a remarkable scientific and educational production. See at least P. Gonnella, La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica, Bologna, DeriveApprodi, 2013; Id. (ed.), La riforma dell’ordinamento penitenziario, Torino, Giappichelli, 2019; Id., Carceri. I confini della dignità, Milano, Jaca Book, 2020; S. Anastasia and P. Gonnella, Inchiesta sulle carceri italiane, Roma, Carocci, 2002; Eid., Patrie galere. Viaggio nell’Italia dietro le sbarre, Roma, Carocci, 2005.
  30. See A. Issaa, Vivo per questo, Milano, Chiarelettere, 2017.
  31. See A. Issaa, Vivo per questo, cited.
  32. See A. Issaa and C. Clò, This is What I Live For. An Afro-Italian Hip-Hop Memoir, San Diego, San Diego State University Press, 2023. In June 2024, the book was awarded the prestigious Premio Internazionale Flaiano d’Italianistica Luca Attanasio.
  33. See A. Issaa, Educazione Rap, Torino, ADD Editore, 2021.
  34. See A. Issaa, Vivo per questo, cited.
  35. See D. Maraini, Vita Mia. Giappone 1943. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia, Milano, Rizzoli, 2023.
  36. Maraini refers to Lord Acton’s 1877 letter to Bishop Mandell Creighton about how historians’ judgement should regard abuses of power by past rulers, especially by the popes. Acton’s actual words were ‘Power tends to corrupt and absolute power corrupts absolutely’. The letter is published in J.E.E. Dalberg-Acton, Historical Essays and Studies, edited by J. N. Figgis and R. V. Laurence, London, Macmillan, 1907.
  37. See D. Maraini, Memorie di una ladra, Milano, Bompiani, 1972.
  38. See C. Di Prima Director, Teresa la ladra, performance by Monica Vitti, screenplay by Dacia Maraini, Agenore Incrocci, and Furio Scarpelli, Euro International Film, 1973.
  39. See D. Maraini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Milano, Rizzoli, 1990.
  40. See M. G. Laurenzi Director, Donne di un altro mondo, Consiglio di Parità, Regione Campania, Ministero della Giustizia, 2005.
  41. See R. Castellani Director, Nella città l’inferno, performances by Anna Magnani and Giulietta Masina, Riama Film, 1959.

(fasc. 52, 31 luglio 2024)