Il romanzo (breve) dell’identità: Milan Kundera e Anna Banti

Author di Sonia Rivetti

Se l’arcangelo adesso,

il pericoloso, da dietro le stelle

si sporgesse all’ingiù verso di noi

solo di un passo, con innalzato battito

ci abbatterebbe il nostro stesso cuore. Chi siete?

(Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, II, 8-12)

«Sott’e bumbardamente ho perso mio marito. S’era perduta pur’a vita mia. Fernuta ’a guerra, fernuta pur’ijo». Principia così La voce umana (2014), il film ispirato a La voix humaine di Jean Cocteau, regia di Edoardo Ponti, interprete Sophia Loren (la tarda e vera Sophia Loren, che attraverso questo ruolo fa i conti con la propria non-identità di figlia abbandonata dal padre). Davanti al mare calmo, nella Napoli degli anni Cinquanta, Angela confessa la frantumazione del proprio io dopo la perdita del marito.

Si riappropria di sé stessa (e degli abiti eleganti con cui incontra la società napoletana) nel momento in cui ha un nuovo amore, che indirizza occhi e voce verso di lei (lo spettatore, infatti, non vede l’uomo in volto né ascolta la sua voce).

Con uno squillo di telefono la cinepresa s’infila nella sua camera da letto di pomeriggio. Come La Maddalena di Caravaggio, Angela, seduta su una seggiola di legno in camicia da notte, con uno scialle rosso sulle spalle, i capelli sfatti e il viso struccato, cerca disperatamente di mettersi in contatto con l’amante che, come ogni martedì, sta per raggiungerla per la cena a base di quella parmigiana di melanzane che lo delizia, meticolosamente preparata dalla cameriera. Seppur lontana, ne indovina alla perfezione costumi e pensieri: «Io ti vedo, lo sai? Che fazzoletto? Quello rosso. E tieni le maniche rimboccate. La sinistra? Regge la cornetta. La destra, la penna stilografica. E stai disegnando dei profili, dei cuori, delle stelle. Ridi? Tengo gli occhi al posto delle orecchie». Diversamente, l’uomo crede ciecamente alla bugia di Angela vestita di rosa col cappello nero e sembra non intercettare quel miscuglio di angoscia e paura in cui l’attesa la imprigiona. Intorno, la gente del palazzo s’illude di controllare questo rapporto irregolare: «Mi è perfettamente indifferente. Possono dire quello che vogliono. Quello che c’è fra di noi non si può spiegare agli altri. Per loro o c’è amore o c’è odio, le rotture sono per sempre. […] Che devono capire, di me, di te, di noi?».

Stretta alla cornetta, lottando con la linea che si interrompe continuamente o che viene occupata da altri personaggi, Angela continua il monologo. Rievoca i momenti felici trascorsi insieme e ascolta l’inappellabile sentenza: l’uomo sta per lasciarla per un’altra donna. «Nun so’cchiù ijo», grida dimenandosi per la stanza come un’invasata. Non esce, non mangia, non dorme, pensa a ingerire tutte le pasticche che tiene sul comodino e a non svegliarsi più. Di nuovo strappata alla persona amata, smarrisce la propria identità; l’uomo mette giù la cornetta, la donna crolla sul letto, vuoto come le sedie in soggiorno per il pasto mai consumato, mentre la città riprende a vivere.

Un albergo in un paesino sul mare di Normandia, che avevano trovato per caso sfogliando una guida. Chantal arrivò il venerdì sera per trascorrervi una notte da sola, senza Jean-Marc, che l’avrebbe raggiunta il sabato verso mezzogiorno. […]. Ordinò una cena fredda, semplicissima: mangiare da sola non le piace affatto, anzi, è una cosa che detesta[1].

Nel 1997 Milan Kundera pubblica L’identité. «Di questo ultimo libro, intiepidito dalla luce rosea della vecchiaia» – scrive Pietro Citati – «posso dire soltanto una parola: è perfetto»[2]. La perfezione non risiede tanto nell’architettura a scaglie quanto nell’ombra che sparge, un’ombra autobiografica. L’esiliato assieme alla moglie Věra a Parigi, che perde la lingua ceca e adotta quella francese, affronta il tema dell’identità scrutando due innamorati, tra sogni, incubi, domande che si moltiplicano e intersezioni temporali.

Qualcuno gira la prima scena. In un albergo sulla costa della Normandia Chantal attende l’arrivo del fidanzato Jean-Marc. Nella notte diventa pedina di un’esperienza onirica attraverso la quale (l’occhio di) Kundera marca «la riabilitazione centrale del ruolo del romanziere»[3] («nella scelta dell’attrice il regista del sogno è stato piuttosto esigente»)[4]: viene sedotta dall’ex marito e dalla sua nuova moglie, che la bacia con veemenza sulla bocca. Questo sogno comincia a minare l’idea che Chantal si è fatta di sé stessa, ma è il mattino seguente che nell’identità che si è costruita si apre una voragine. Esce dall’albergo e va verso il mare. Si imbatte dapprima in un papà intento a gestire i propri bambini, poi in una schiera di uomini presi a far volare aquiloni. Chantal mette alla prova la propria femminilità adescando il pubblico maschile, che resta saldo nella parte mentre il suo corpo subisce un attacco: «Oh no, gli uomini non si volteranno mai più a guardarla!»[5].

Se Chantal è la prima a percorrere la via del dubbio, Jean-Marc la segue. Arrivato in albergo prima del previsto, corre in spiaggia a cercarla e la riconosce in una figura immobile a contemplare le vele, ma, approssimandosi, scopre di essersi sbagliato:

Adesso che la vedeva di profilo, Jean-Marc si rese conto che quello che aveva preso per lo chignon di Chantal era un foulard annodato intorno alla testa; e a mano a mano che le si avvicinava (con un passo che si era fatto di colpo meno affrettato), quella donna che aveva scambiato per Chantal diventava vecchia, brutta – e beffardamente diversa[6].

Jean-Marc fa un sogno: ha paura che sia accaduto qualcosa a Chantal, la cerca, corre per la strada, e alla fine la vede, di spalle, che si allontana. Allora le corre dietro gridando il suo nome, ma, proprio quando sta per raggiungerla, la donna volta la testa e Jean-Marc, inorridito, si trova davanti un altro viso, estraneo e sgradevole. Eppure non è un’altra persona: è proprio Chantal, la sua Chantal, non ci sono dubbi, ma è la sua Chantal con il viso di una sconosciuta – ed è una cosa atroce, intollerabilmente atroce. L’abbraccia, la stringe a sé e le ripete fra i singhiozzi: «Chantal, mia piccola Chantal, mia piccola Chantal!», come se tentasse, ripetendo quel nome, di restituire al viso sconosciuto che ha di fronte le sue antiche fattezze, la sua identità perduta[7].

Ciascuno dei due confessa all’altro la terribile scoperta:

“Che c’è? Che cosa è successo?”.

“Niente, niente” dice lei.

“Come, niente? Sei completamente trasformata”.

“Ho dormito malissimo. Anzi, non ho praticamente chiuso occhio. E ho avuto una brutta mattinata”.

“Una brutta mattinata? Perché?”.

“Ma niente, davvero non è niente”.

“Dimmelo”.

“Davvero non è niente”.

Lui insiste. E lei finisce per dire: “Gli uomini non si voltano più a guardarmi”[8].

[…] “Che cos’hai? Sei di nuovo triste. Da qualche giorno ho notato che sei triste. Che cosa c’è?”.

“Niente. Proprio niente”.

“E invece sì. Dài, che cos’è che ti rende triste in questo momento?”.

“Ho immaginato che tu eri un’altra”.

“In che senso?”.

“Che eri diversa da come ti immagino io. Che mi ero ingannato sulla tua identità”[9].

Kundera solleva la questione del lavoro come metro per definire noi stessi. Chantal è un’insegnante di liceo, che tradisce la propria inclinazione per un’occupazione più redditizia. Si consegna all’ingordo settore della pubblicità (che si spinge fino a dimostrare la pulsione sessuale del feto) pur di smettere di non essere nessuno:

“Non dimenticarti che ho due volti. Il che mi fa anche piacere, lo ammetto, ma ciò non toglie che avere due volti sia tutt’altro che facile. Esige uno sforzo, una disciplina! Devi capire che qualunque cosa io faccia, volente o nolente, la faccio con l’ambizione di farla bene, se non altro per non perdere il posto. Ed è molto difficile lavorare in modo ineccepibile e al tempo stesso disprezzare il lavoro che fai”[10].

Al contrario, Jean-Marc “mendica” un’occupazione (medico, maestro di sci, giornalista, disegnatore, disoccupato), riuscendo poi a conciliarne varie con la predominante presenza dell’amata: «“Tutto è cambiato il giorno in cui ho conosciuto te. Non certo perché i miei vari lavoretti sono diventati più appassionanti, ma perché adesso trasformo tutto quello che mi succede attorno in argomento di conversazione fra noi”»[11].

Il passato disturba il presente per accrescere lo smarrimento dovuto alla rivelazione di un io diverso. Quando la cognata di Chantal fa irruzione a casa sua col séguito dei nipoti e confida a Jean-Marc il nomignolo che la donna aveva dato al marito («“Lo chiamava ‘topolino mio’ – si figuri, come fosse stato un bambino piccolo!”»)[12], Jean-Marc ha difficoltà a sovrapporre quell’immagine leziosa con l’immagine della donna che ha scelto.

Oltre al Kundera amatore di cinema, questo romanzo reca tracce del Kundera appassionato d’arte. Chantal personaggio si trasforma in un ritratto identificato da un colore: il rosso. «Il rossore»[13] appare sul suo volto la prima volta che, durante un cocktail in un albergo di montagna, vede Jean-Marc: è il manifesto del suo amore, amore sigillato da una «collana di pietre rosse»[14] che l’uomo le regala. Estintosi negli anni della convivenza, il rossore ritorna quando, in un vero e proprio duello con Jean-Marc, dichiara che gli uomini non si voltano più a guardarla (in realtà, è Jean-Marc che ha smesso di guardarla): «Lei arrossisce. Arrossisce come da molto tempo non l’ha vista arrossire. E quel rossore sembra tradire desideri inconfessati»[15]. Per riaccendere quello che è il colore della loro identità di coppia, Jean-Marc sotto pseudonimo le scrive lettere in cui si sofferma su ogni parte del suo corpo per valorizzarne il fascino dimenticato. Diventa – come sostiene Starobinski – «un attore perfetto e insieme uno spettatore invisibile»[16]. Infatti, possiamo conoscere l’altro solo con la distanza; la vicinanza ce lo rende falso:

“Sono rimasto tre giorni senza vederti. Quando ti ho rivista, sono stato abbagliato dal tuo incedere così lieve, come se desiderassi librarti verso l’alto. Somigliavi alle fiamme, che per esistere devono innalzarsi e danzare. Più longilinea che mai, avanzavi circondata di fiamme – fiamme gioiose, dionisiache, ebbre, selvagge. Pensando a te, io getto sul tuo corpo nudo un mantello intessuto di fiamme. Sul tuo bianco corpo stendo un mantello rosso cardinale. E avvolta in questo mantello ti vedo in una camera rossa, sopra un letto rosso, mia rossa, stupenda cardinalessa!”[17].

Il rosso non configura soltanto la fantasia erotica. È anche la tonalità della morte, del “volume” ridotto in cenere che annulla lo spavento dell’introspezione:

“E la storia della testa di Haydn, la conosci? L’hanno staccata dal corpo ancora caldo perché uno scienziato un po’ tocco potesse sbucciarne il cervello e determinare il punto esatto in cui risiede il talento musicale. E la storia di Einstein, che aveva lasciato precise disposizioni testamentarie per essere cremato? Gli hanno obbedito, ma prima della cremazione un suo fedele e devoto discepolo, incapace di vivere senza lo sguardo del maestro, ha prelevato gli occhi dal cadavere e li ha messi in una bottiglia piena d’alcol perché potessero fissarlo fino al giorno in cui anche lui fosse morto… Per questo ti ho detto che solo il fuoco della cremazione permetterà al nostro corpo di sfuggire alle loro grinfie”[18].

Perché la chiacchiera da cui tutto è partito, ovvero il disinteresse degli uomini per un corpo femminile che sta invecchiando, è solo l’involucro di un bisogno che comincia a scalpitare: l’anima.

Dopo aver capito che dietro l’anonimo ammiratore si nasconde Jean-Marc, Chantal sparisce. Se «il silenzio, come il dialogo, può influenzare l’identità di qualcuno»[19], Chantal, con un viaggio a Londra, obbliga Jean-Marc a fare un viaggio verso sé stesso, per tornare a essere come è sempre stato. Inizia qui un sogno che racchiude tutti gli altri sogni. Chantal è in una stanza d’albergo, e ha di fronte un uomo sconosciuto che la chiama Anne: «è già nuda, eppure continuano a spogliarla! A spogliarla del suo io! A spogliarla del suo destino»[20]. Il tentativo di dire chi è veramente fallisce: «si accorge che il suo nome è come bloccato nella sua mente: non se lo ricorda più»[21]. Ed ecco che scende in campo Jean-Marc, il quale nel pericolo restituisce l’esatta statura di Chantal: «È pronto a fare qualunque cosa per lei, ma non sa cosa può fare, e questo è davvero insopportabile: non sa come aiutarla, eppure lui solo può aiutarla, lui, lui solo, perché lei non ha nessun altro al mondo, nessun altro in nessuna parte del mondo»[22]. Nominando la donna che ama, sta finalmente nominando sé stesso: «“Chantal! Chantal! Chantal!”»[23].

Nel finale il narratore/regista si denuda lasciandoci, dopo le scene di Jean-Marc che scende la scala che porta alla spiaggia e corre incontro a Chantal, e quella in cui Jean-Marc vaga per le strade londinesi alla ricerca di Chantal, la chiarità dell’ultima scena dell’Atalante (1934) diretto da Jean Vigo:

Vedo le loro due teste, di profilo, illuminate da una piccola lampada da comodino: la testa di Jean-Marc appoggiata sul cuscino, quella di Chantal china su di lui, a pochi centimetri dal suo viso. Lei diceva: “Non staccherò più gli occhi da te. Ti guarderò continuamente”. E, dopo una pausa: “Ho paura, quando le mie palpebre si abbassano. Paura che nell’attimo in cui il mio sguardo si spegne al tuo posto si insinui un serpente, un ratto, o un altro uomo”. Lui cercava di sollevarsi un poco per poterla sfiorare con le labbra. Lei scuoteva la testa: “No, voglio soltanto guardarti”. E poi: “Lascerò la lampada accesa per tutta la notte. Tutte le notti”[24].

C’è una scrittrice, nel nostro Novecento italiano, che ha affrontato, fin dall’esordio (se non prima, quando, con il vero nome di Lucia Lopresti, faceva un altro mestiere, quello della storica dell’arte), il tema dell’identità – Anna Banti –, sublimandolo in Un grido lacerante (1981), l’ultimo romanzo, autobiografico, ma di quell’autobiografismo che scivola di volta in volta in un nuovo personaggio femminile, in questo caso quello di Agnese Lanzi.

Le tinte con cui, più di un decennio prima di Kundera, dipinge questo soggetto sono così affini a quelle dell’Identité che vogliamo rischiare un breve paragone. Il romanzo comincia con un sogno. Un grido lacerante annuncia una nascita, ma si tratta di una nascita grottesca, perché quello che l’incubo spalanca è «un budello infimo», mentre la voce dei parenti assicura che dalla partoriente è uscita «una bellissima bambina»[25], la quale cerca sùbito il sonno, come se fosse la morte.

Agnese potrebbe essere quel neonato a terra, affidato alla cura di tre donne che guardano altrove, che chiude a destra il quadro di Gauguin D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous? Perché venire al mondo significa, per lei, non potersi sottrarre a una domanda: «“Chi sono io?”»[26]. Per dare (e darsi) un’identità la Banti costruisce «un libro fatto di fogli staccati, come di ricordi e frammenti»[27], che dall’infanzia arriva alla vecchiaia di Agnese. La prima riposta che rintracciamo nel testo è «“Sono una bambina, una bambina”»[28]. Questa presa di posizione traballa quando Agnese si accorge di non avere un dialogo con i giocattoli:

Poche cose erano permesse ed erano quelle che meno le piacevano. Per esempio, in dispensa la cassa dei giocattoli, di legno crudo e rasposo, senza coperchio. C’erano dentro, oltre la bambola piccola e stupida, quella grande avvolta nella velina perché non si sciupasse – odiosa! – e poi tanti oggetti inutili, da non sapere cosa farne. Agnese girava largo, le bastava vederli per provare un senso di noia scoraggiata. Quella roba non era per lei, dunque lei non era una vera bambina. Per lei ci voleva… che cosa? Non lo sapeva, anzi aveva paura di saperlo. Aveva dei momenti vuoti, da chiedere l’elemosina di qualcuno che li riempisse: allora si raggomitolava sul suo seggiolino e cantava a denti stretti le sue nenie di lattante[29].

La maturità continua a metterla davanti alla conquista di sé stessa:

Un lampo di lucidezza: Agnese Lanzi si rivede a diciotto anni, scontrosa e solitaria, dopo lo scontato successo della maturità, girovagante fra il Pantheon, la Sapienza, palazzo Carpegna e qualche casuale compagna tediosamente goliardica. L’estate era passata in un soffio di aria bruciante e colla sensazione spiacevole di aver perduto o dimenticato qualcosa molto importante. Neanche la breve rinascita del bagno marino serviva. L’autunno era alle porte ed esigeva riflessioni dubbiose, e il bisogno di riconoscersi in qualcuno o qualche cosa, capace, una buona volta, di fare e toccare cose reali[30].

Si iscrive alla facoltà di Lettere, frequenta le lezioni di Storia dell’arte del professor Delga, si laurea, vince il concorso presso la Soprintendenza e diventa ispettrice di un piccolo museo di una cittadina abruzzese. Non solo: la presenza sovrana della pittura (Artemisia, Velázquez, Zurbarán, Goya, Rubens, Vermeer, Lotto, Watteau, il Greco, Caravaggio, Tiziano, Raffaello, Veronese, Giotto, Duccio, Simone, Pontormo, Bosch, Bruegel, Correggio) in questa narrazione dà testimonianza di un’«autocoscienza formalizzata»[31].

D’un tratto, però, troviamo Agnese divenuta moglie del professor Delga (Roberto Longhi), l’uomo che l’ha riportata in vita dopo che era stata crocifissa come eretica dal prete abruzzese per la sua decisione di trasferire a Roma la statua della Vergine per un consolidamento, strappandola ai fedeli:

Di notte sognava che la Madonnina gotica era lì, ai piedi del suo letto. Di giorno sapeva che oltre a sua madre qualcuno sedeva al suo capezzale, ma lei faceva fatica a voltarsi, una fatica, più che fisica, intensamente mentale. Non aveva dubbi circa un’unica presenza reale, oggettiva, il tocco di una mano lunga e sottile, posata leggermente sulla sua che giaceva sul rovescio del lenzuolo. La facoltà di riconoscere, salutare, accennare un sorriso le tornò a poco a poco ma non esitò quando da una nota voce si sentì richiedere. Rispose sommessa e come soprapensiero un “sì, naturalmente” che le parve di aver pronunziato infinite volte[32].

È un’Annunciazione al rovescio: in cambio dell’amore del Maestro, Agnese rinuncia alle proprie ambizioni di critica d’arte («la cosa più nobile che uno potesse esercitare»)[33] e alla maternità:

Aveva dato le dimissioni dal suo sfortunato esordio e adesso i colleghi delle varie Sovrintendenze si davano daffare per sistemarla con un incarico facile, tranquillo, poco impegnativo. Lei ringraziò ma dopo qualche giorno di prova, rinunziò: moglie di un Maestro famoso, non poteva accettare un lavoro di tipo squalificante. Del resto aveva ben altri compensi. Appoggiata al braccio di colui che così miracolosamente era divenuto suo marito, beveva, per così dire, la sua lezione quotidiana. Ogni giorno un artista nuovo da scoprire, un problema da districare, il piacere di una imprevista lode: come avrebbe osato chiedere di più[34]?

Il cuore di questo autoscavo è, infatti, una storia d’amore, un matrimonio dipinto come un miracolo, che non ha forma né parole per dirsi: quando Delga si ammala, «da quell’arco che era il suo[35] corpo teso fino a spezzarsi poche parole si liberarono in lei con estrema violenza: “Cristo, aiuto, Cristo la mia vita per la sua, prendila”»[36]; e, quando poi muore, «il suo[37] cervello […] grida […] “addio amore mio” ma la sua bocca […] rima[ne] chiusa, sigillata dallo strazio di non trovare un saluto più alto, parole più rare e ardenti di quella frase popolare, misera, che pure esprimeva tutta la sua verità»[38].

Allontanando la propria aspirazione, la mette nelle mani della creatura che ama («il Maestro continuava a lavorare»)[39], salvandola. E si annida in un’altra pelle: «Raccontare… e perché no, dopotutto?»[40]. Ma come rinnegare il colore («Lei arrossì»)[41] quando, nominata Presidente del Consiglio direttivo della Fondazione voluta dal marito per proseguire la sua opera, Agnese torna a parlare di quadri, collezioni, restauri e puliture? Come conciliare questa felicità pittorica con la confessione del suo vero lavoro? «“Non dimenticate che sono una donna di lettere”»[42].

Il romanzo finisce com’era iniziato, con un sogno: «Stava seduta su un monticello di sassi angolosi che le pungevano i fianchi e non le riusciva di accomodarsi meglio. Si guardava intorno e pur non riconoscendo il luogo, capiva di trovarsi a casa. Era scalza, i suoi piedi poggiavano su uno strato di polvere granulosa e tagliente: non avrebbe potuto camminarci»[43]. A dispetto di quanto afferma, la domanda dell’infanzia resta senza risposta. Agnese, che in questo romanzo non grida mai, risolvendo il dolore di un duplice tradimento («critica d’arte o letterata, […] studiosa e innamorata»)[44] nella compostezza degna di una Madonna, capisce che il bisogno di appartenere può quietarsi solo nel momento in cui la vita si spegnerà: «Un giorno – o una notte – sarebbe venuta l’ora. L’ora che non rintoccherà senza che un grido lacerante la trasformi in un minuto»[45].

In conclusione, oltre ai richiami evidenziati, un messaggio lega i due romanzi: l’identità non è nei discorsi con cui ci scusiamo, ci difendiamo, ci assolviamo, ma in ciò che avviciniamo come parola mancante, spostata sempre un po’ più in là.

 

  1. M. Kundera, L’identità, trad. it. di E. Marchi, Milano, Adelphi, 1997, pp. 9 e 11 (ed. or. L’identité, Paris, Gallimard, 1997).

  2. P. Citati, La gioiosa freddezza di Milan Kundera, in «La Repubblica», 28 ottobre 1997.

  3. J. Češca, Le roman comme déploiement symbolique du rêve: la thématique du rêve dans l’œuvre de Milan Kundera, in «Revue des études slaves», LXXXII/3, 2011, p. 458 (la traduzione è mia).

  4. M. Kundera, L’identità, op. cit., p. 13.

  5. Ivi, p. 22.

  6. Ivi, p. 26.

  7. Ivi, pp. 41-42.

  8. Ivi, pp. 29-30.

  9. Ivi, p. 97.

  10. Ivi, p. 35.

  11. Ivi, p. 90.

  12. Ivi, p. 119.

  13. Ivi, p. 102.

  14. Ivi, p. 78.

  15. Ivi, p. 30.

  16. J. Starobinski, L’occhio vivente. Studi su Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud, trad. it. di G. Guglielmi, Torino, Einaudi, 1975, p. 168.

  17. M. Kundera, L’identità, op. cit., p. 80.

  18. Ivi, p. 66.

  19. A. Farahbakhsh, M. Jahanbani, Identity and identity-negation in Milan Kundera’s “Identity”, in «BEST: International Journal of Humanities, Arts, Medicine and Science», 3/12, dicembre 2015, p. 179 (la traduzione è mia).

  20. M. Kundera, L’identità, op. cit., p. 172.

  21. Ibidem

  22. Ivi, p. 170.

  23. Ivi, p. 174.

  24. Ivi, pp. 175-76.

  25. A. Banti, Un grido lacerante, Milano, Rizzoli, 1981, p. 7.

  26. Ivi, p. 9.

  27. A. Andreoli, I miei libri? Una sconfitta, in «Paese Sera», 3 maggio 1981.

  28. A. Banti, Un grido lacerante, op. cit., p. 9.

  29. Ivi, pp. 13-14.

  30. Ivi, p. 19.

  31. A. Beretta Anguissola, Recensione di “Un grido lacerante”, in «Paragone», a. XXXII, n. 378, agosto 1981, p. 81.

  32. A. Banti, Un grido lacerante, op. cit., p. 27.

  33. G. Livi, Tutto si è guastato, in «Corriere della Sera», 15 aprile 1971.

  34. A. Banti, Un grido lacerante, op. cit., p. 28.

  35. Di Agnese.

  36. Ivi, p. 61.

  37. Di Agnese.

  38. Ivi, p. 80.

  39. Ivi, p. 42.

  40. Ivi, p. 33.

  41. Ivi, p. 164.

  42. Ibidem.

  43. Ivi, p. 173.

  44. Ivi, p. 131.

  45. Ivi, p. 175.

(fasc. 48, 11 luglio 2023)

L’America Latina di Milan Kundera

Author di Massimo Rizzante

1

Tutto iniziò nel dicembre del 1968.

Tre mesi dopo che l’esercito sovietico aveva occupato la Cecoslovacchia, tre scrittori latinoamericani — Gabriel García Márquez, Carlos Fuentes e Julio Cortázar — camminavano infreddoliti sotto la neve di Praga per incontrarsi con alcuni loro colleghi. Fra costoro c’era Milan Kundera, che aveva appena pubblicato con successo il suo primo romanzo, Lo scherzo (1967)[1]. In quel momento nessuno dei tre latinoamericani aveva ancora letto il romanzo dell’autore ceco. Kundera, dal canto suo, non aveva letto Cent’anni di solitudine (1967), le cui bozze avrebbe letto in traduzione ceca solo più tardi. Non aveva letto neppure Rayuela (1963), l’unico grande romanzo di Cortázar che Gallimard aveva pubblicato nel 1967. Aveva letto forse La regione più trasparente (1958) e La morte di Artemio Cruz (1962), i due romanzi di Fuentes pubblicati rispettivamente in Francia nel 1962 e nel 1966? A quell’epoca, non credo. Quel che è certo è che durante quella settimana a Praga, tra bevute e bagni rigeneratori nelle acque gelide della Moldava, i quattro diventarono amici. Quel che è certo è che quell’incontro a Praga nel dicembre del 1968 fu un evento tanto imprevedibile quanto cruciale per la storia del romanzo dell’Europa centrale e dell’America Latina, i due epicentri del rinnovamento dell’arte del romanzo della seconda metà del XX secolo.

2

Si dice che la critica sia una forma di autobiografia. Forse ciò è vero soprattutto quando si tratta della critica degli scrittori. Quando uno scrittore, un romanziere, un artista scrive sulle sue letture, scrive sulla sua opera. Ci rivela, cioè, come desidererebbe che la sua opera fosse letta, da quale punto di vista, all’interno di quale tradizione. In modo tanto libero quanto arbitrario ci informa della sua posizione critica, del suo orizzonte storico, della sua concezione letteraria. In altre parole, ci indica chi sono i suoi amici senza badare se hanno vissuto cinque secoli fa o se sono suoi contemporanei in un altro continente.

Se si prende in considerazione quel che Kundera ha scritto nei propri saggi, dal 1986 al 2009, dopo quel primo incontro nel 1968 con i tre scrittori latinoamericani, si constata la presenza di García Márquez e di Carlos Fuentes, autori sui quali Kundera torna varie volte. Nel Sipario fa la sua entrata, discreta e apparentemente tardiva, l’opera di Alejo Carpentier, mentre il nome di Ernesto Sábato appare una sola volta[2]. Il suo amico Octavio Paz aveva trovato posto, sin dall’Arte del romanzo, alla lettera O di “Octavio” nelle Sessantanove parole della sesta parte del saggio. La parola “Borges” non fa parte del vocabolario kunderiano. Che cosa ci dice questa scelta? Che cosa trova Kundera nelle opere di questi scrittori tanto da sentirli così vicini alla sua estetica?

3

Kundera rilegge diverse volte Cent’anni di solitudine. Nelle storie della famiglia Buendía scopre, naturalmente, la radice surrealista. Ma l’immaginazione surrealista si era manifestata soprattutto attraverso la poesia e la pittura. I surrealisti consideravano il romanzo una forma sommamente antipoetica. È stato Kafka — Kundera lo ha scritto a più riprese — che per primo ha legittimato e introdotto l’inverosimiglianza nel romanzo. Gabriel García Márquez aveva appreso la sua lezione? Certo, egli stesso lo ha riconosciuto. Tuttavia il suo romanzo è molto poco kafkiano. Da dove vengono, allora, la sua ricchezza immaginativa, il suo senso del meraviglioso? La chiave sta nel distinguere, come afferma Kundera, la poesia dal lirismo: non sono, infatti, la stessa cosa. La poesia del romanzo di Cent’anni di solitudine è una prova inconfutabile di tale distinzione, dato che l’autore «non si confessa, non apre la sua anima, a inebriarlo è solo il mondo oggettivo, che egli innalza in una sfera in cui tutto è al tempo stesso reale, inverosimile e magico»[3]. D’accordo. Ma la domanda continua a rimanere inevasa: qual è la fonte di questa ricca immaginazione antilirica?

Direi che è il frutto di due ritorni e di due libertà: il ritorno alle origini della storia del romanzo, a Rabelais, a Cervantes e alla loro libertà di raccontare le avventure dei personaggi e dell’ambiente che li circonda senza preoccuparsi della loro verosimiglianza; e un ritorno alle forme orali poetiche ed epiche dell’America Latina, libere, a loro volta, dall’immaginario europeo.

In Cent’anni di solitudine è un narratore alla maniera di Rabelais e Cervantes colui che parla, che agisce, che conduce il lettore in tutti i luoghi della terra, che riscopre l’antico cantastorie orale seppellito nel passato mitico di un continente conquistato dalla civiltà europea, anche se mai realmente scoperto. Tutto accade come se l’autore, nuovo Adamo, sfidasse i conquistatori del suo Eden tropicale: venite, venite a vedere quel che succede a Macondo… Pensate di conoscerci? Pensate di sapere quel che si nasconde nel laboratorio di José Arcadio Buendía, «la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia»[4]? Il celebre “realismo magico” (niente a che vedere con il “real maravilloso” di Alejo Carpentier) a cui si ricorre spesso per classificare l’opera di Gabriel García Márquez non è che una formula europea per definire la nostra attrazione per l’esotico, la nostra povertà di immaginazione, la nostra concezione limitata della realtà, la nostra sovradeterminazione della grisaille. Non si tratta di vedere “la realtà nel romanzo”, ma, al contrario, “il romanzo nella realtà”. Né il tempo né lo spazio né i personaggi né la natura, nell’opera di García Márquez, si possono pienamente comprendere se li guardiamo attraverso la lente bifocale della ragione cartesiana. E ancora meno se li consideriamo attraverso la tradizione del romanzo del XIX secolo.

In Romanzo e procreazione, breve saggio compreso in Un incontro, Kundera, accortosi che in molti grandi romanzi di tutti i tempi «i protagonisti non hanno figli», afferma che «lo spirito dell’arte del romanzo prova ripugnanza nei confronti della procreazione». Kundera situa l’origine di questa riflessione all’inizio dei Tempi Moderni quando, grazie a Cervantes, l’uomo si insedia sulla scena dell’Europa in quanto individuo: «Don Chisciotte muore e il romanzo si conclude; questa conclusione è così perfettamente definitiva perché Don Chisciotte non ha figli; se ne avesse, la sua vita si prolungherebbe, sarebbe imitata o contestata, difesa o tradita»[5].

Conosciamo una dichiarazione più feroce e allo stesso tempo pronunciata in modo più semplice contro la vita? Contro la famiglia? Contro questa benedizione di Dio e della specie che sono i bambini? Ciò significa che, da una parte, c’è la creazione romanzesca e, dall’altra, la missione procreatrice: due modi di concepire l’individuo. La prima considera quest’ultimo un’entità autonoma, indipendente; la seconda lo concepisce come un’entità incompiuta che, rispettando i diktat divini o della natura, è destinata a confondersi con tutte le altre entità. Bene. Ma in Cent’anni di solitudine «il centro dell’attenzione non è più l’individuo — scrive Kundera —, ma uno stuolo di individui; sono tutti originali, inimitabili, eppure ciascuno di loro non è che il lampo fugace di un raggio di sole sull’onda di un fiume»[6].

Il romanzo di Gabriel García Márquez è, infatti, una lunga genealogia in cui i nomi dei membri delle sette generazioni della famiglia Buendía sono gli stessi o molto simili e perciò si possono confondere (ci sono almeno tre José Arcadio e due Aureliano); in cui l’età dei personaggi è molto difficile da calcolare (si invecchia con sorprendente rapidità o si conserva la bellezza fino all’ultimo giorno, come nel caso di Fernanda; o si può vivere fino a centoventidue anni, come Úrsula); in cui la frontiera tra i vivi e i morti è quasi inesistente. Il tempo, a Macondo, non passa come in qualsiasi altro luogo: scorre come un «fiume», certo, ma un fiume che si trova molto lontano dalla Storia, questa invenzione europea che irrompe prendendo quasi sempre le forme della guerra e del progresso tecnico e che, per questo motivo, si trasforma in un’eco distante. Per non parlare della forsennata fertilità di Aureliano, il figlio di José Arcadio e Úrsula che, all’inizio dei capitoli dedicati alle guerre civili, è così descritto dall’autore:

Il colonello Aureliano Buendía promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trantacinque anni[7].

Kundera, alla fine del suo breve saggio, si domanda se il tempo dell’individualismo moderno, nato con il personaggio di Don Chisciotte, è ancora il tempo di José Arcadio, di Aureliano e dei suoi diciassette figli. O se, al contrario, si trova in un passato mitico o in un futuro dove l’individuo tornerà a “ripiombare nella specie”.

Šklovskij diceva che «le muse sono la tradizione letteraria». Tutta la nostra ispirazione, per quanto personale la crediamo, è in debito con ciò che è stato scritto prima di noi. Si scrive in praesentia di tutta la letteratura, che lo sappiamo o no. In questo senso, come affermò un altro grande scrittore latinoamericano, Ricardo Piglia, non facciamo che «correggere le bozze di un lungo manoscritto» la cui singolare versione definitiva non è che una parte di quel mi piace chiamare un “dialogo infinito”. A volte tale dialogo si arricchisce di voci che sorgono da un tempo preletterario, preistorico, in cui il passato e il futuro si incontrano in modo imprevedibile in un presente tanto concreto quanto chimerico: è il tempo di Macondo; è il tempo romanzesco di Macondo. Infatti, c’è da aggiungere, solo nel romanzo possono coesistere tutti i tempi.

4

Questa è la sfida più grande del romanzo moderno. Almeno per Kundera e il suo amico Carlos Fuentes, i due allievi più fedeli al romanzo “polistorico” di Hermann Broch. Alla luce dei Sonnambuli la loro amicizia diventa una vera affinità estetica. In Broch i personaggi della trilogia, Pasenow, Esch e Huguenau, sono concepiti come «ponti gettati al di sopra del tempo», ha scritto Kundera. Ciò significa che il loro aspetto físico, la loro psicologia e il loro passato personale non sono molto importanti per comprenderli. Per comprendere la ribellione di Esch bisogna risalire la storia europea fino all’epoca di Lutero. Non si tratta solo di un modo di superare il romanzo realista e psicologico del XIX secolo: è un modo nuovo di esplorare l’uomo.

Attraverso il filtro brochiano Kundera, nei Testamenti traditi, rilegge la propria stessa opera comparandola con quella di Fuentes. In Terra nostra (1975) trova, ancor più che i romanzi precedenti dell’autore messicano, l’ossessione estetica di far coesistere differenti tempi storici, che egli stesso aveva appena esorcizzato nel suo romanzo La vita è altrove (1973). Tuttavia, le tecniche che i due romanzieri utilizzano per tenere insieme i tempi storici senza che l’opera perda la propria unità non coincidono. In Kundera il presente del poeta Jaromil si intreccia con i passati di Rimbaud, Keats e Lermontov grazie alla ripetizione di motivi e temi. In Fuentes gli stessi personaggi si reincarnano attraverso i secoli e i continenti creando un’“altra Storia” — poetica, onirica — che non ha nulla a che fare con quella cronologica degli storici. Per comprendere Jaromil bisogna esplorare il suo mondo lirico davanti allo schermo di tutta la storia della poesia europea. Per comprendere l’uomo messicano del XX bisogna esporlo all’incontro di numerose epoche, risalendo fino alla scoperta dell’America.

Kundera, nella parte finale del Sipario ritorna sulla propria ossessione e la trova anche nei romanzi di Alejo Carpentier: Il secolo dei lumi (1958), Concerto barocco (1974) e L’arpa e l’ombra (1979). Mi ricordo che, la prima volta che lessi il capitolo in questione, ebbi un sussulto. Alla fine avevo ritrovato in Kundera il grande Carpentier, il mio eroe dei due mondi, il Broch dei Caraibi! Si tratta di un maestro segreto di Kundera. Kundera e Carpentier sono, inoltre, i due soli romanzieri musicologi della seconda meta del XX secolo, gli unici che con cognizione di causa hanno musicalizzato il romanzo, che lo hanno assoggettato alla disciplina formale della musica: sonata, fuga, concerto, sinfonia, variazioni sul tema… L’autore cubano, che visse a Parigi tra la fine degli anni Venti e la fine degli anni Trenta del secolo passato, aveva letto Broch già negli anni Quaranta. Ecco cosa scrive nel 1955, dopo la lettura della Morte di Virgilio, in un suo articolo intitolato Romanzo e musica:

Perché allora il romanzo si sottrae quasi sempre a questo genere di regole? Mi si risponderà̀ che il romanzo – che è prima di tutto una storia – equivale a ciò che in musica si chiama libera composizione. È il tema scelto che detta le leggi e il tempo. Ma si potrebbe ugualmente dire che questa libera composizione conduce frequentemente gli autori a una brillante pratica dell’arte dell’improptu. Tuttavia ci sono casi, come il romanzo di Hermann Broch, in cui la volontà̀ di occuparsi della composizione, della forma e dell’equilibrio tra le singole parti ha dato magnifici risultati[8].

Che cosa posso aggiungere? Forse un passaggio del discorso (1978) che l’autore del Regno di questo mondo (1949) pronunciò al momento della consegna del premio Cervantes. Si tratta di un passaggio che Kundera non può aver letto senza fare un salto sulla sedia:

Tutto è già presente nell’opera di Cervantes […] Don Chisciotte si presenta come una geniale serie di variazioni sulla base di un tema iniziale: un’opera che assomiglia molto alle variazioni musicali inventate dal maestro Antonio de Cabezón, l’organista cieco e ispirato suonatore di vihuela che visse alla corte di Filippo II e che fu l’inventore di questa tecnica fondamentale dell’arte musicale[9].

5

Molto bene. Ma la domanda continua a essere inevasa: perché molti romanzieri di diversi paesi e continenti (Broch, Kundera, Rushdie, Fuentes, Kenzaburo Oe), a volte molto lontani gli uni dagli altri nel tempo e nello spazio (Thomas Mann, Kiš, Sebald, Chamoiseau, Carpentier), prima ancora di venire a conoscenza delle loro reciproche relazioni estetiche (Fuentes legge prima Faulkner e poi Broch e Kundera; Kundera legge prima Broch e poi Fuentes) si sono imposti questa grande sfida? Perché il romanzo del XX secolo ha voluto lottare contro la legge dello sviluppo lineare degli eventi? Tutto il romanzo moderno è una ribellione contro tale condanna. La pluralità delle voci; la costruzione sovraindividuale del personaggio; la rottura della narrazione attraverso punti di vista differenti; gli improvvisi mutamenti di registro; le intrusioni in altri territori come il reportage, la lettera, il saggio; i confronti e la coesistenza con altre arti: la poesia, la musica, il teatro, la pittura, la fotografia, il cinema. Tutto ciò per creare un romanzo polifonico e sinfonico, un luogo dove tutto è presente. Tutto ciò per rivendicare “il presente che è custodito in tutti i passati”. Non è così?[10]

  1. «Ho cominciato a scrivere Lo scherzo verso il 1961, più̀ o meno sicuro che sarebbe stato pubblicato. Durante gli anni Sessanta, molto tempo prima della Primavera di Praga, il realismo socialista e tutta l’ideologia ufficiale erano già morti, avevano ormai solo una funzione di facciata che nessuno prendeva più̀ sul serio. Terminato nel dicembre del 1965, il manoscritto rimase circa un anno negli uffici della censura che, alla fine, non pretese nessun cambiamento. Il romanzo fu pubblicato nella primavera del 1967 ed ebbe in rapida successione tre edizioni che raggiunsero globalmente una tiratura di 117.000 copie. Nella primavera del 1968 il libro ottenne il premio dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi. Dal romanzo ricavai in seguito una sceneggiatura per il mio amico Jaromil Jireš, il quale ne fece un film che non ho mai smesso d’amare. La critica letteraria si occupò poco dell’aspetto politico del libro, mettendo in evidenza invece la sua matrice esistenziale (Un romanzo dell’esistenza è il titolo di una recensione di Zdeněk Kožmín). Come vedi, agli inizi del mio percorso di romanziere mi sono sentito perfettamente compreso in patria. Ma fu un momento di breve durata. Un anno dopo, nel 1968, l’invasione russa instaurò di nuovo uno stalinismo antidiluviano e intellettualmente oppressivo. Fu allora che Lo scherzo sparì dalle librerie e dalle biblioteche»: M. Rizzante, Un dialogo infinito, Milano, Effigie, 2015, p. 195.
  2. M. Kundera, Il sipario, trad. italiana di M. Rizzante, Milano, Adelphi, 2005, pp. 175-77.
  3. M. Kundera, Il sipario, op. cit., p. 94.
  4. G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, trad. italiana di E. Cicogna, Milano, Mondadori, 1982, p. 4.
  5. M. Kundera, Un incontro, trad. italiana di M. Rizzante, Milano, Adelphi, 2009, p. 50.
  6. Ivi, p. 51.
  7. G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, op. cit., p. 103.
  8. Cit. da A. Carpentier, Romanzo e musica [1955], ora in Id., L’età dell’impazienza. Saggi, articoli, interviste (1925-1980), a cura e con un saggio di M. Rizzante, Postfazione di M. Gallego Roca, Milano-Udine, Mimesis, 2022, p. 174.
  9. Cit. da A. Carpentier, Cervantes all’alba di oggi [1977], ora in Id., L’età dell’impazienza, op. cit., pp. 286-87.
  10. Una precedente versione di questo articolo è stata pubblicata in francese su «L’Atelier du roman», n. 100 (Milan Kundera – La Renaissance romanesque), 19 marzo 2020.

(fasc. 48, 11 luglio 2023)

L‘art du roman et l‘art de la lecture. Milan Kundera :  poétique et catharsis

Author di Sylvie Richterová

Si l’on recherche les théories esthétiques s’approchant le plus de la conception que se fait Kundera du roman en tant que jeu ou expérience esthétique libérée, on pourra citer, outre l’esthétique de Mukařovský, que le romancier découvre dès ses années d’études, les notions de jeu esthétique et de liberté esthétique telles qu’elles sont développées par Friedrich Schiller dans ses Lettres sur l’éducation esthétique de l’homme[1]. « L‘homme ne joue que là où, dans la pleine acception du mot, il est homme, et il n’est tout à fait homme que là où il joue »[2].

L’objet de l’instinct de jeu est la forme vivante, la beauté. « L’homme ne doit que jouer avec la beauté et il ne doit jouer qu’avec la beauté »[3]. L’homme entretient avec les choses une relation physique, logique ou morale, mais seule l’éducation esthétique permet de « cultiver la totalité de nos forces sensibles et spirituelles en les organisant le plus harmonieusement possible »[4]. Ces réflexions de Schiller sont remarquablement pertinentes dans le cadre de l’esthétique de Kundera.

Composition polyphonique du roman et la méditation

Dans les romans de Kundera l’action du roman se déroule dans le temps, et la première lecture demande une perception progressive des péripéties, de la première page au point final. La composition polyphonique, les essais insérés dans le récit, le contrepoint, les résonnances des diverses lignes thématiques et plans historiques ne peuvent être correctement perçues par le lecteur que s’il a embrassé l’œuvre tout entière. Elle s’expose à travers plusieurs couches sémantiques faisant sortir l’oeuvre de la dimension temporelle, linéaire, pour devenir aussi spatiale. L‘espace que l‘oeuvre crée cesse d‘être matériel. Il est destiné à provoquer une expérience esthétique à laquelle n’est pas étrangère la notion d’« alchimie »[5].

Par ces composantes esthétiques, métalittéraires, intertextuelles, cet œuvre nous offre (sans nous l’imposer pour autant) la possibilité de sortir de la perception linéaire, progressive de textes, pour adopter des approches de lecture plus « élevées ».

L’un des mots clés des essais de Kundera sur l’art du roman est celui de «méditation». La méditation nécessite de quitter la perception abstraite des tableaux et des récits et de les saisir non seulement par la raison, mais aussi par l’âme. Pour le dire avec les mots du titre de l’un des chapitres du troisième recueil d’essais intitulé Le Rideau, il s’agit d’« aller dans l’âme des choses ». Kundera emploie également le mot de « méditation » dans la quatrième partie de l’Art du roman : « baser un roman sur une méditation perpétuelle signifie aller à l’encontre de l’esprit de l’époque, qui a tout à fait perdu le goût de la réflexion »[6].

La première lecture d’un roman ne saurait être trop méditative, elle doit se dérouler de façon diachronique car entrer dans le plan temporel et suivre le déroulement du récit est une des conditions du jeu. On pourrait dire qu’elle correspond à l’« être-jeté » d’Heidegger. Un récit superficiel traversé de passages réflexifs devient passionnant, et garantit l’attention du lecteur sans pour autant exclure l’incompréhension voire l’irritation. La mémoire fixe en premier lieu ce qui nous frappe, mais reste la question de savoir pourquoi et comment certaines choses s’enracinent et non d’autres. La lecture méditative permet de percevoir l’ensemble de l’œuvre comme un édifice, et de le traverser dans différentes directions. Cet espace architectural peut être à trois dimensions, ou bien ouvert à d’autres plans de signification. (Et si nous devions évoquer ici un exemple de lecture méditative, il nous suffirait d’ouvrir les essais de Kundera et de lire les pages consacrées à Kafka, Tolstoï, Broch, Musil, Cervantès ou encore Janáček, Schönberg et tant d’autres artistes plus ou moins célèbres.)

Les thèmes de l’œuvre

Le jeu, la dimension esthétique de l’œuvre, la lecture méditative et l’interrogation donnent naissance à des accords ou des contrepoints grâce auxquels les personnages, les actions et les passages réflexifs résonnent et s’éclairent mutuellement. Quant à l’exécution individuelle – c’est-à-dire la lecture méditative – elle relie les neuf romans, le recueil de nouvelles, les pièces de théâtre et les quatre recueils d’essais contenus dans « l’œuvre » : les possibilités offertes par les traversées, les raccourcis, les enchevêtrements et les différenciations sont infinies. Les valeurs absolues, mais aussi les thèmes existentiels fondamentaux sont toujours les mêmes – et, du reste, ne peuvent pas changer, qu’il s’agisse de l’Antiquité, de la Bible ou du monde moderne. Et c’est bien ici que réside le cœur de toute la question : on dirait que le monde moderne s’est débarrassé d’elles, car l’homme moderne a perdu son Lebenswelt non seulement au sens de son existence concrète sur Terre, mais aussi et surtout au sens d’un mystère et d’une sacralité de la vie que le matérialisme résout en procédant à des ratures grossières. Car, au royaume des valeurs matérielles, poser publiquement la question des fins premières et dernières de l’homme, chercher en quoi réside l’individualité voire où siège l’âme est intolérable, pire : c’est banal et de mauvais goût. Dans l’œuvre de Kundera, les grandes questions sont omniprésentes, actives, et, pour employer un terme de chimie, non saturées. Elles se mêlent à des événements concrets, ancrés dans un temps historique précis, s’incarnent dans des variations toujours nouvelles, rappellent ingénieusement les zones qui sont restées vides après leur disparition. Elles nous provoquent, et il peut sembler au premier abord que les grands thèmes disparaissent : l’ironie, le paradoxe semblent témoigner de leur absence. Mais le témoignage d’une absence ne signifie pas une indifférence ou une négation, mais bien plutôt une puissante évocation. L’ironie, le rire et le paradoxe viennent remplacer les certitudes du monde ancien et jouent le rôle de vecteurs. Le roman issu de la découverte de la sagesse de l’incertitude propre à Cervantès ne peut conduire l’individu libre qu’à des questions, jamais à des réponses. L’expérience esthétique, qui n’est pas le pendant d’une expérience inesthétique mais une nécessité ontologique pour l’être humain, constitue le véritable noyau de l’œuvre. On peut dire d’elle qu’elle est et n’est pas une réponse en même temps. Et que le lecteur a sur elle les pleins pouvoirs.

Le roman et la musique

En ce sens, le principe même du jeu, qui constitue la forme et le fond est essentiel. Dans la perspective de l’œuvre accomplie, on perçoit une autre dimension : le concept de « jeu » se concrétise non seulement dans le sens de « dimension ludique », mais aussi d’« exécution musicale ». On peut ainsi comparer l’œuvre dans son ensemble à une partition : « Je voudrais que le roman, dans ses passages réflexifs, se transforme de temps en temps en chant », lisons-nous dans L’Art du roman à l’article Litanie. L’auteur y invite à une approche artistique exigeante et suggère à nouveau que la lecture courante ne saurait épuiser le potentiel sémantique, intellectuel, poétique et inspirant de l’œuvre. La possibilité de « jouer » le roman comme un scherzo, une fugue ou une cantate se fonde sur le recours intentionnel aux principes de la composition musicale dans la composition du roman, et ne peut se réaliser que grâce à une certaine forme d’exécution individuelle. La théorie de la littérature appelle généralement cette exécution la « réception », le structuralisme parle quant à lui de percepteur : les deux termes expriment une approche plus passive, dans une certaine mesure, que la notion de lecture ou de questionnement méditatifs.

Le recours à des éléments musicaux invite à analyser la technique de composition et constitue donc une initiation aux mystères de la forme, dont la beauté réside justement dans l’art[7]. Ici, un terme plus adéquat pourrait être celui d’exécution. Sans exécution, sans réalisation individuelle de la composition, la partition est condamnée à rester muette. Grâce à une approche esthétique active, le lecteur met en jeu de nombreuses capacités et qualités intellectuelles (méditatives, philosophiques, artistiques). Tous les lecteurs sont égaux face au livre. Après la lecture, après l’« exécution de l’œuvre », chacun est différent : chacun a « exécuté » l’œuvre de façon unique, lui a conféré une qualité particulière et en a tiré une expérience esthétique différente. Ou, pour mieux dire, chacun a réalisé une valeur esthétique différente. De cette manière, l’enjeu de la réalisation esthétique individuelle se change en poétique intime. Le terme d’architecture musicale employé par Kundera suscite l’idée d’une œuvre en tant que construction spatiale tout en orientant la perception de la composition musicale de son exécution (dans le temps) vers les qualités de sa forme. Pourtant, il ne suffit pas encore à saisir toutes les dimensions du roman, car la parole, le personnage, l’histoire racontée ainsi que l’idée sont des grandeurs bien plus complexes, plus riches, plus concrètes et plus équivoques que les éléments et les instruments avec lesquels travaille la musique. Et, surtout, ils touchent immédiatement la conscience quotidienne.

La question de la catharsis

Je n’ai pris conscience que récemment du fait que, du point de vue de sa composition, La Plaisanterie correspond à ce qu’on désigne en musique comme une « plaisanterie », à savoir le « scherzo ». Dans toutes les langues sauf l’italien la signification de « composition musicale » du mot reste cachée, implicite. Par contre, elle se manifeste dans la composition du roman et elle indique, d’une manière « subliminale » si nous voulons, dans quel état d’esprit la « partition » doit être exécutée. Pourquoi un scherzo ? Si La Plaisanterie n’était pas traversée par de l’ironie, de l’humour et des tonalités dramatiques et élégiaques, si l’on n’y entendait pas de voix diverses, de mélodies différentes et si on n’assistait pas à une succession de presto, d’andante, de lento et d’allegro, elle ne provoquerait qu’un sentiment d’humiliation et d’inutilité existentielle sans rédemption, un des exemples de plaisanteries sombres et cruelles de l’histoire.

En réfléchissant sur la production romanesque de l’époque où l’optimisme était de rigueur et les horreurs savamment dissimulées, on constate que, sans escroqueries intellectuelles et autres compromis, elle ne peut être perçue que comme pitoyable et sans issue. Kundera a beau choisir à dessein une position médiane dans le cadre de la tragédie historique, mettre plus en exergue l’aspect grotesque de l’histoire que sa face douloureuse, il semble que son roman exclue toute catharsis. C’est en tout cas ce dont j’étais persuadée en 1978 lorsque j’écrivais pour la première fois au sujet de La Plaisanterie[8]. Là où il n’y a ni dieux, ni vérité, la catharsis en tant que processus de purification est impossible. Cependant, dans la composition architecturale et musicale perçues du point de vue de l’œuvre entier, une nouvelle possibilité se fait jour : celle de l’exécution esthétique individuelle, qui a justement pour but de remplir une fonction cathartique. Dans La Plaisanterie, Kundera liquide les illusions portées par l’« Histoire divine » et la valeur de progrès, de la vérité et de la justice historiques. Dans tous ses autres romans, il continue d’exprimer son rejet de la civilisation contemporaine tout en soulignant et en exploitant esthétiquement les manifestations de la liberté d’esprit, laquelle tente de bannir du monde cet « esprit de l’époque » déshumanisé : la beauté, la musique, la poésie, le jeu, le rêve, la compassion, l’amitié, l’intimité. Et ainsi de suite. La laideur et la consternation face à l’« esprit de l’époque » trouvent leur pendant lumineux dans une composition raffinée, inspirante et riche. Il me semble que c’est justement l’« exécution » esthétique individuelle de l’œuvre romanesque qui constitue la possibilité – réalisable à titre individuel – de catharsis : elle était potentiellement présente dès le début, et est pleinement réalisée dans l’espace multidimensionnel de l’ensemble vu de manière synchrone.

La catharsis est le fruit de l’anagnorisis, c’est-à-dire le passage de l’ignorance à la connaissance. C’est vers elle que tend la lecture méditative, si tant est qu’elle puisse révéler tout le sens potentiel, informulé, latent des choses. Dans son Entretien sur l’art de la composition, Kundera emploie le terme de « pensée hypothétique » (par opposition à la pensée dogmatique)[9]. Les plans sémantiques latents font partie de cette pensée hypothétique et suscitée par le roman. Considérons à nouveau ici l’exemple de La Plaisanterie : à quoi le titre de l’œuvre renvoie-t-il ? Au début du roman, une carte postale parodiant une citation de Marx et qui déclenche toute une série d’événement catastrophiques dans la vie de Ludvík, le personnage principal, est désignée comme une « plaisanterie ». En réalité, cette carte postale n’est qu’une cause substitutive à sa tragédie : la cause véritable, c’est la logique perverse de la société, la période historique. Mais que désigne un terme aussi générique ? Une résignation non seulement au sens de l’histoire, mais aussi à celui de sa propre vie ? Ce serait là un nihilisme pur et simple, contre lequel se dresse la valeur esthétique même de l’œuvre. À la fin du roman, Ludvík se rend compte que c’est l’Histoire elle-même (et par cette majuscule, l’auteur distingue la conception marxiste et plus généralement moderne de l’histoire en tant que grandeurs indépendantes et capables de procès définitifs) qui plaisante. Il semble clair, à la première lecture, que Ludvík en est la victime, et que sa vie est irrémédiablement déterminée par l’Histoire. Toutefois, si le lecteur envisage et « réécoute » tout le roman dans un état d’esprit correspondant au sous-titre Scherzo, cette perspective conventionnelle et évidente se trouve inversée : au bout du compte, Ludvík n’est-il pas le mieux loti de tous les personnages ? N’est-il pas, du fait de sa tragédie personnelle, le seul parmi eux à ne pas avoir pris part à la tragédie historique ? Paradoxalement, c’est à sa malchance qu’il doit sa chance. Il a été protégé du mal. Il a perdu le train de la grande Histoire, il a gardé sa conscience.

Il est vrai que son innocence n’est pas le fruit d’une décision consciente : elle semble procéder d’un simple malentendu. Où non ? Plaisanter, être blagueur voire spirituel était sa qualité dès le début. Etant donné qu’il est a été créé par un romancier qui accorde à l’humour une importance suprême, prendre cet aspect de son caractère comme déterminant est certainement conseillé. Par sa tentative a posteriori de se venger, Ludvik ne fait que rendre tangible le fait que ses pas ont été portés par un malencontreux « esprit de l’époque ». Contrairement aux autres personnages, cependant, il réfléchit à propos de l’Histoire. Zemánek, son antagoniste, est un Narcisse dépourvu de mémoire, qui franchit sans aucune conscience morale les écueils de l’Histoire, allant de succès en succès. Kostka est un homme à la foi solide et aux compromis ingénieux, Jaroslav paiera son amour de la tradition, Helena soigne sa sentimentalité myope ; ses cliché et ses phrases toutes faites par une tentative de suicide péniblement ratée. A la fin de la partie d’échecs avec l’histoire, la rédemption possible apparaît comme le regret, la connaissance amère mais vraie des choses, l’amour de la musique et des amis. C’est une tragédie personnelle qui transforme l’ignorance en connaissance : par le biais de l’expérience individuelle, grâce à l’ébranlement et à la compassion de la catharsis comprise au sens d’Artistote s’ouvrent les portes de la connaissance. En ce sens, sa défaite est plus humaine que sa victoire. Plus forte que Ludvík, l’Histoire en a fait son jouet, son captif mais, par contre, elle a perdu son charisme divin. Elle a perdu son H majuscule et avec elle son statut de divinité athée[10]. Le nouveau regard de Ludvik et sa prise de conscience ont changé le signe de son vécu de négatif en positif. De la plaisanterie au scherzo. Un rire silencieux et libérateur nait de cette métamorphose et attend le lecteur, lequel, d’une manière ou d’une autre, finira par «y arriver». La catharsis atteint une profondeur et une plénitude tout aristotéliciennes, elle est traversée par un sourire et par un plaisir esthétique, comme il le faut.

  1. F. Schiller, Lettres sur l’éducation esthétique de l’homme, trad. Robert Leroux, Paris, Aubier, 1970.
  2. Ivi, Quinzième lettre.
  3. Ibidem.
  4. Ivi, Vingtième lettre.
  5. Voir M. Kundera, Entretien sur l’art de la composition, IV Partie de L’Art du roman, dans M. Kundera, Œuvre II, F. Ricard (dirigé par), Paris, Gallimard, 2011, pp. 683-700.
  6. M. Kundera, L’Art du roman, op. cit., p. 727.
  7. Voir F. Schiller, Lettres à Körner, in Lettres sur l’éducation esthétique de l’homme, op. cit.
  8. S. Richterová, Tři romány Milana Kundery, in Slova a ticho (1978), aujourd’hui dans Eseje z české literatury, Prague, Pulchra, 2015. En français : Les romans de Kundera, dans «L’Infini», n. 5, 1984, pp. 32-55 (version abrégée).
  9. M. Kundera, Entretien sur l’art de la composition, IV Partie de L’Art du roman, op. cit., pp. 683-700.
  10. « le monstre vient de l’extérieur et on l’appelle Histoire » : in M. Kundera, L’Héritage décrié de Cervantes, I Partie de L’Art du roman : ivi, p. 645.

(fasc. 48, 11 luglio 2023)

Kundera al cinema: l’incontro con Alain Resnais

Author di Simona Carretta

L’educazione artistica di un romanziere

Per la creazione di personaggi memorabili, per lo svelamento di alcuni grandi temi della modernità, per la sintesi di generi e registri diversi con cui ha innovato la forma del romanzo, certo; ma, se Milan Kundera occupa un posto unico tra i romanzieri, è innanzitutto per la lucidità con cui ha difeso la sua arte. Prima di lui Émile Zola, Henry James, Virginia Woolf, André Malraux, Nathalie Sarraute e molti altri hanno accompagnato la pratica del romanzo alla riflessione teorica. Kundera, però, è stato il primo ad assegnargli un preciso obiettivo conoscitivo sulla base di un fondamento estetico. Avverte nell’Arte del romanzo (1986) – il primo dei suoi quattro libri saggistici e quello in cui delinea per la prima volta la maggior parte delle sue intuizioni estetiche – che non bisogna farsi ingannare, quando si tratta della «conoscenza» del romanzo, dall’«aura metallica» di questa parola[1]. La possibilità di conoscenza che giustifica la ragion d’essere del romanzo non si riduce a una trasposizione narrativa di teorie già ideate sul piano filosofico o altrimenti scientifico. È, per così dire, una conoscenza di prima mano, che dipende dai suoi mezzi propri.

Per Kundera la missione di ogni artista è inventare delle forme che consentano di cogliere, in maniera ogni volta diversa, i suoi temi. Nel romanziere non vede semplicemente un narratore, ma in primo luogo un artista: egli non si limita a ideare delle storie, ma inventa personaggi e situazioni come materiali di una forma tramite cui scopre degli aspetti dell’esistenza non ancora sistematizzati dalle scienze[2].

Květoslav Chvatík ha ricordato che Kundera deve a Mukařovský e allo Strutturalismo praghese l’intuizione che «La funzione noetica del romanzo si realizza attraverso la sua funzione estetica»[3]. Lo stesso romanziere conferma la sua iniziale vicinanza a questo orientamento della critica «che agli inizi si era mostrato molto più concreto, meno gergale, più vicino all’arte e agli artisti di quanto non lo fu più tardi quando conquistò il mondo intero»[4]. Ma è anche a diretto contatto con gli stessi artisti che Kundera forgia le sue prime intuizioni di romanziere, maturate negli anni dell’effervescenza culturale che culmina con la Primavera di Praga.

Come molti sanno, Kundera ha spesso alternato diverse pratiche artistiche (sue sono, ad esempio, le illustrazioni di alcune copertine dei suoi romanzi)[5], ma sono due in particolare le arti inscritte nel suo DNA di romanziere. La prima è la musica. Kundera la incontra da bambino: figlio di un pianista allievo di Janáček, è avviato molto presto allo studio del pianoforte. Più tardi, struttura i suoi stessi romanzi secondo i procedimenti formali di quest’arte, che apprende studiando composizione con Pavel Haas e Václav Kaprál; in particolare la variazione su tema, che mutua da Beethoven[6], e il “contrappunto romanzesco”[7], che gli permette di alternare diversi registri del racconto, come quello realistico, onirico e filosofico. Sono questi i due modelli che ricorrono in quasi tutti i romanzi di Kundera e che, a seconda dei casi, egli declina in architetture più complesse, come la fuga o la sonata.

Modellare un romanzo secondo le strutture musicali per Kundera significa innanzitutto sostituire al principio classico dell’unità d’azione un’unità tematica, che gli permette di liberare la narrazione da ciò che percepisce come vecchie convenzioni (l’imperativo della verosimiglianza o le lunghe descrizioni) e, in generale, da tutto ciò che non è direttamente utile allo svelamento del tema. Nell’abbracciare la terminologia della musica Kundera sembra porre le basi di un nuovo Formalismo: è la musica a fargli capire che nell’arte la forma è sempre qualcosa di più di una forma. Nel romanzo trova, allora, il modo di praticare una musica intesa come «piacere della forma»[8], che così gli appare sgravata da quel lirismo che per Kundera come per Hegel imbriglia l’arte sonora.

La seconda arte che incide sulla formazione di Kundera è il cinema. La presa di distanza del romanziere non solo dalle convenzioni narrative più tradizionali ma anche dalle scuole novecentesche come quella “dello sguardo” (Alain Robbe-Grillet, Michel Butor, Claude Simon ecc.), tutta fondata sulla «passione per la descrizione», può aver scoraggiato i critici a ricercare i rapporti tra Kundera e il cinema. Bisogna, però, ricordare che da giovane Kundera completa i suoi studi alla FAMU (l’Accademia di Cinema e Televisione di Praga), dove dal 1964 al 1970 lavora come docente, prima di Teoria del romanzo, poi di Sceneggiatura. Tra i suoi allievi, vi sono cineasti come Milos Forman, Věra Chytilová, Jiří Menzel e altri protagonisti della nouvelle vague del cinema ceco, i quali hanno spesso riconosciuto il loro debito con le lezioni di Kundera. Lo stesso romanziere beneficia dell’atmosfera creativa che si respira alla FAMU e non è un caso sia questo il periodo in cui redige le novelle di Amori ridicoli (1968), alcune delle quali vengono adattate per lo schermo[9]. Lo stesso Kundera scrive la sceneggiatura di Io, un povero diavolo (1969, regia di Antonín Kachlík) – tratto da una novella di Amori ridicoli che in seguito sarà eliminata dalla raccolta – e dello Scherzo, il film che Jiří Jireš trae dal suo romanzo del 1967[10]. Come la musica, l’arte cinematografica esercita però un’influenza anche sull’immaginazione del romanziere: Chvatík ha, ad esempio, messo in luce la «suggestività visiva»[11] della prosa kunderiana, in grado di concretizzare la descrizione di una scena attraverso pochi dettagli essenziali. A parte alcuni cenni è, però, mancata finora nella critica una considerazione dei rapporti tra Kundera e il cinema condotta da un punto di vista estetico, finalizzata cioè a comprendere cosa esattamente Kundera abbia tratto dal cinema di essenziale per lo sviluppo della sua arte del romanzo.

Nel segno della polifonia: l’incontro con Resnais

Per capirlo compiamo un salto fino all’autunno del 1983. Kundera vive ormai da qualche anno con sua moglie in Francia – prima a Rennes, dopo a Parigi – e ha da poco terminato il romanzo che lo renderà celebre in tutto il mondo, L’insostenibile leggerezza dell’essere (tradotto da François Kérel, uscirà in Francia nel gennaio del 1984). In un’intervista rilasciata a Christian Salmon dichiara:

La polifonia nel romanzo è poesia più che tecnica. Non riesco a trovare esempi di questa poesia polifonica nella letteratura, ma mi hanno molto colpito gli ultimi film di Alain Resnais. Il suo uso dell’arte del contrappunto è ammirevole[12].

Il riferimento a Resnais sarà espunto quando l’intervista confluirà nell’Arte del romanzo con il titolo Dialogo intorno all’arte della composizione[13], ma la sua presenza nel testo originario resta come una traccia della sintonia che Kundera avverte tra il suo universo estetico e quello del regista francese in anni che si riveleranno decisivi per lo sviluppo della sua poetica.

Gli «ultimi film» di Resnais a cui si riferisce non possono essere altri che Mio zio d’America[14] (1980) e La vita è un romanzo[15], questo uscito nell’aprile del 1983. In entrambi i casi la presenza del modello polifonico è evidente. Nel primo risulta dallo sviluppo alternato di tre storie, rispettivamente incentrate su tre personaggi in qualche modo relazionati tra loro ma molto diversi per estrazione sociale – il deputato Jean Le Gall, l’attrice di teatro Janine Garnier e l’impiegato René Raguneau –, le cui vite vengono mostrate dall’infanzia alla maturità come altrettanti casi di studio riferiti alle teorie di Henri Laborit. Ma è soprattutto La vita è un romanzo il film la cui costruzione polifonica raggiunge effetti analoghi a quelli dei romanzi kunderiani. Ciò è stato osservato anche da Wolfram Schütte che, scrivendo di Kundera nel 1984, osserva: «i film di Alain Resnais (La vita è un romanzo) sono quanto c’è di più vicino al suo lavoro di composizione»[16]. Come il precedente, il lungometraggio del 1983 alterna lo sviluppo di tre storie, che però in questo caso sono associate dalla sola circostanza che ruotano tutte intorno a uno stesso castello di campagna e dal fatto che, per una sottile rete di corrispondenze ironiche, sembrano l’una il rovescio dell’altra.

La prima prende avvio alla vigilia della Prima guerra mondiale: il ricco aristocratico Forbeck raduna un gruppo di amici per svelare loro il plastico di un sontuoso castello in via di costruzione che intende regalare a Livia (Fanny Ardant), la donna di cui è innamorato. Dopo la guerra la ritrova, però, sposata con Raoul, un ufficiale dell’esercito, e architetta un tranello per sbarazzarsi del rivale. La seconda vicenda ha luogo circa sessant’anni dopo. Il castello è diventato la sede del collegio di Madame Holberg: terminato l’anno scolastico, gli studenti tornano a casa e il collegio ospita per qualche giorno un convegno di psicopedagogia per l’infanzia dal titolo L’educazione dell’immaginazione. Vi partecipano studiosi di ogni genere: tra questi l’architetto playboy Walter Guarini (Vittorio Gassman), la timida e seria insegnante Élisabeth Rousseau (Sabine Azéma), un istitutore in grado di scorgere l’aspetto ridicolo di ogni teoria (Pierre Arditi) e una simpatica antropologa americana (Géraldine Chaplin) che intende verificare le sue ciniche tesi sull’amore tentando di far scoccare la scintilla tra i personaggi più impensabili. Presto, però, gli eventi assumono una piega inaspettata. Livia si rifiuta di bere la pozione “della felicità” che Forbeck offre a tutti gli amici, invitati nel castello, e scopre cosa si nasconde dietro il suo progetto in apparenza filantropico. Ma anche il convegno di pedagogia degenera in una baraonda e, come Forbeck, l’antropologa vede gli amici sfuggire al suo piano: Élisabeth Rousseau lascia il collegio non con l’uomo che le era stato predestinato ma con Walter Guarini, di cui l’antropologa è segretamente innamorata.

La sola vicenda che volge in un indiscusso lieto fine è la terza. Questa prende forma da una fiaba dal sapore medievale che i pochi bambini rimasti nel collegio si raccontano per passare il tempo: il figlio di un re viene salvato da un attacco dei nemici e, una volta cresciuto, riesce a riconquistare il regno. È forse il libero corso dei giochi infantili l’unica forma possibile di “educazione dell’immaginazione”? Il confronto tra le storie fa emergere diversi sensi possibili del tema a cui il film è intitolato. Per l’alternanza dei registri (melodrammatico, comico e fiabesco) e degli universi temporali in cui si inscrivono le tre vicende, La vita è un romanzo sembra anticipare alcune delle soluzioni formali più mature di Kundera, che proprio a partire dai romanzi successivi (come L’immortalità, 1990) accentuerà, ad esempio, lo sfondo «sovrapersonale» in cui sono collocati i suoi personaggi, per il quale attorno a essi si sviluppano variazioni di carattere mitico o storico. Non sembra, però, avere tanto senso parlare di un’influenza vera e propria di Resnais su Kundera quanto di un’affinità estetica tra i due autori, che emerge in alcuni casi concreti.

Bisogna ricordare che Resnais riconosce a sua volta in Kundera un modello di riferimento valido per la sua intera filmografia[17]. A unire i due autori è probabilmente la convinzione che, nell’arte, la strada per la conoscenza procede dall’invenzione compositiva; e al riguardo non sembra un caso che, oltre a Kundera, il principale ispiratore di Resnais sia un compositore, Stephen Sondheim. A coloro che lo rimproverano di non fare film “impegnati” risponde ribadendo di essere un «formalista», ossia di partire sempre da un’invenzione formale nel progettare un film. Questo perché:

quando non si vuole partire che dal contenuto, nel mio caso – non voglio generalizzare – in generale è sterile. Ho avuto sicuramente dei progetti che chiamo progetti “verteux”, con delle grandi idee nobili, e dopo quaranta, cinquanta pagine, sono arrivato a delle cose di costernante banalità e che non facevano nascere dei personaggi […] è quando cominciano a dire delle cose che ci dispiace che cominciano a esistere[18].

Nel recente volume Kundera e Fellini: l’arte di non incontrarsi (2020), Stefano Godano ha descritto come un incontro mancato il rapporto tra i due grandi artisti che, pur essendosi espressi più volte reciproca ammirazione, non entrarono mai in diretto contatto. Interrogato dal giornalista, Kundera ne attribuisce il motivo al medesimo sentimento di riverenza già nutrito verso i due grandi maestri a cui in un articolo aveva paragonato Fellini[19]: «Se Kafka venisse per tre giorni sulla terra non avrei la forza d’incontrarlo e così sarebbe con Heidegger»[20]. Dietro queste parole si avverte, però, anche la riluttanza a forzare un rapporto che aveva già dato i suoi frutti sul piano immaginativo.

Si tratta della poesia degli incontri mancati, che riguarda, però, l’esperienza di ogni incontro, se lo intendiamo nel suo senso più vero. Questo è rivelato da Kundera come un esempio ulteriore delle parole-tema che il romanziere pone al centro di tutti i suoi libri, spesso ispirandovi anche i titoli. Ricordando l’incontro a Haiti tra André Breton e gli scrittori Jacques Stephen Alexis e René Depestre, che fu «insieme fugace e indimenticabile», nel saggio Un incontro (2008) lo precisa: «ho detto incontro; non frequentazione; non amicizia; e neppure alleanza; incontro, cioè: scintilla; lampo; caso»[21].

L’occasione di un incontro di Kundera con Resnais si concretizza intorno al lavoro per un film, di cui il romanziere avrebbe dovuto curare la sceneggiatura. Annunciandola come «una farsa metafisica», è lo stesso Kundera a scherzare sulla segretezza del titolo, ancora provvisorio, in un’intervista del 1985 con Olga Carlisle: «Dovrebbe essere ‘Tre mariti e due amanti’ o ‘Due mariti e tre amanti’ ?»[22]. Ma a partire da questa data il romanziere smette di concedere interviste e, quindi, è solo grazie ad alcune dichiarazioni rilasciate in seguito da Resnais che possiamo seguire le tracce di questo film perduto.

L’idea di lavorare a un progetto comune comincia a prendere vita nel 1981, ma è solo nel febbraio del 1985 che Kundera invia a Resnais le prime pagine di una sceneggiatura[23]. Nell’incipit, Kundera la presenta come una «polifonia a due voci» che intreccia due storie «divertenti, nella tradizione boccaccesca» ma non prive di «una certa malinconia e dello scetticismo tipici del nostro secolo». Una è ambientata nel Settecento; l’altra corrisponde alla trama di Il dottor Havel dieci anni dopo (una novella pubblicata nella raccolta originaria di Amori ridicoli, prima che Kundera ne modificasse il contesto temporale trasformandola in Il dottor Havel venti anni dopo). La sceneggiatura, però, non procede oltre le prime trenta pagine e così è Resnais a sintetizzarne gli aspetti salienti nel 1993, quando il progetto del film è ormai tramontato:

Questo riguardava l’idea dell’immagine, l’importanza che si attribuisce all’immagine di ciò che si crede di essere nella vita. Non siamo molto lontani dai personaggi di Pirandello. L’intenzione era sapere: cos’è meglio, aver trascorso una bella notte d’amore con una donna che si ama, a patto che nessuno al mondo ne venga a conoscenza, o non aver avuto nessun rapporto con questa donna ma riscuotere l’invidia e i rallegramenti di tutta la città, poiché le voci di corridoio affermano il contrario? Alternavamo due epoche, il periodo contemporaneo e il XVIII secolo. Ne approfittavamo per abbandonare la trama, disperderci in altre direzioni, e poi tornare. Avevamo un interesse in comune per i romanzi come Jacques le Fataliste, Tom Jones o Tristram Shandy, in cui si lasciano da parte i personaggi per ritornarci su. Si trattava di vedere se questa drammaturgia della digressione potesse essere applicata al cinema[24].

Perché Kundera abbandona il progetto? Resnais ne attribuisce la causa alle diverse priorità del romanziere, il cui grande impegno profuso per ciascuna delle sue opere («so che gli costa molto scrivere»)[25] lo costringe a dedicarsi solo ai suoi saggi e ai romanzi. Verosimilmente però entrano in gioco anche altre ragioni. Nel 1988 esce il film dell’Insostenibile leggerezza dell’essere nella regia di Philip Kaufman, con Daniel Day-Lewis e Juliette Binoche (nel cast l’unica, come sarà notato, a incarnare l’atmosfera del romanzo)[26]. Un adattamento che riduce tutta la complessità del romanzo, il suo intreccio di storie, motivi e registri, alla sola esposizione del triangolo amoroso tra Tomáš, Tereza e Sabina, importante ma non fondamentale al fine dell’esplorazione dei temi.

Kundera ne prende le distanze, ravvisandovi una sconfessione delle idee sugli adattamenti che aveva espresso solo qualche anno prima in un testo che accompagnava la pubblicazione di Jacques e il suo padrone (1981), la sua commedia tratta da Diderot. Per essere “fedele” a un romanzo – scrive in Introduzione a una variazione[27] – un autore che intenda tradurlo in un’altra arte non deve essere fedele al plot ma a ciò che ne rappresenta la principale cifra artistica; non “adattarlo” quindi, ma “variarlo”, esibirne la diversità rendendo omaggio a ciò che lo rende un’opera di valore. Per questo, a partire da quel momento Kundera fa accompagnare l’uscita di tutti i suoi libri da una nota, riportata sul frontespizio delle edizioni in francese, che ne vieta ogni possibile adattamento e si assegna un nuovo programma estetico: scrivere solo romanzi che sia impossibile adattare. Difficile, però, che sia dovuta alla percezione del potere ambivalente del cinema la perdita di interesse per il progetto con Resnais, autore di film che «non si possono raccontare». È più probabile che su questa abbia pesato la grande attenzione di Kundera verso l’autonomia del suo lavoro di romanziere, che una collaborazione con un regista noto come Resnais avrebbe maggiormente esposto a indagini di carattere extra-estetico.

Oppure quello con Resnais è un “incontro”. Quindi non una collaborazione, non un’amicizia, non una fratellanza artistica, ma un evento incidentale e precario come tutti gli incontri: detonatore di promesse che restano nell’aria, ma il cui raggio continua a illuminare i singoli percorsi. Il lavoro di Kundera per il film con Resnais non sembra del tutto vano: il soggetto della sceneggiatura incompleta presenta diverse analogie con l’intreccio di un successivo romanzo di Kundera, La lentezza (1995), il primo che l’autore scrive direttamente in francese. Anche in quest’opera viene intrecciata a una vicenda che si svolge nei primi anni Novanta una seconda ambientata nel XVIII secolo.

Il narratore (alter ego dell’autore), in vacanza con sua moglie in un château-relais fuori Parigi, mentre riflette su un romanzo da scrivere, segue le avventure di alcuni studiosi in quei giorni lì riuniti per un convegno di entomologia: dal giovane Vincent, che seduce Julie per poterlo raccontare al suo ritorno, allo scienziato ceco dal nome che nessuno riesce a ricordare; dall’intellettuale Berck, «ballerino della società», alla giornalista di nome Immacolata. Al racconto delle gag cui i loro incontri danno vita il narratore alterna, sulla scia di un’evocazione nostalgica, quello dell’amore libertino al centro di Senza domani (il romanzo breve di Vivant Denon, apparso nel 1777), la cui conquista, frutto di un’abile arte del corteggiamento, viene presentata come un edonistico contraltare alla fretta performativa che oggi rischia di ridurre a un puro automatismo anche la ricerca del piacere[28].

Svariate sono, poi, le analogie con La vita è un romanzo. La lentezza fa ruotare delle storie ambientate in diversi universi temporali attorno a un castello di campagna: che il castello di Denon e quello in cui hanno luogo le peripezie degli entomologi possa essere lo stesso, come nel film di Resnais, è più volte suggerito dall’immaginazione del narratore. Inoltre, allo stesso modo che nel film, le diverse linee narrative che si intrecciano nel romanzo risultano circoscritte a tre filoni principali: sono tre infatti i personaggi – il narratore, Vincent e il Cavaliere di Denon – che nella fantasia accarezzata dal narratore abbandonano furtivamente il castello, all’alba dell’ultimo giorno, favorendo l’occasione di un confronto a viso aperto tra Settecento e Novecento, che ha luogo attraverso l’incontro inverosimile tra Vincent e il Cavaliere.

Kundera ha dichiarato di aver tratto la prima ispirazione del romanzo dal vecchio progetto di un saggio su Laclos e Denon[29]. Ma la somiglianza con La vita è un romanzo è indirettamente avvalorata anche da Guy Scarpetta che rintraccia dei paralleli tra La lentezza e il celebre film di Jean Renoir, La regola del gioco (1939): un film che Kundera dichiarerà di non aver visto[30], ma che è ben presente a Resnais come modello della Vita è un romanzo[31].

Vi è anche un altro elemento: La lentezza è il romanzo più ludico di quelli scritti fino a quel momento da Milan Kundera (sarà superato in questo solo dalla Festa dell’insignificanza, del 2013). Ciò non è solo dovuto al tono umoristico degli episodi che vi sono raccontati, ma anche ai numerosi contrasti ironici che consentono di riconoscere le associazioni tra i diversi piani narrativi. Massimo Rizzante ha osservato che la leggerezza formale esibita da Kundera nella Lentezza è il frutto del suo impiego di un nuovo modello compositivo, che a partire da questo ricorre in tutti i romanzi scritti in francese: la «fuga romanzesca». Si tratta ancora di un modello derivato dalla musica, che comporta «un’architettura altamente calibrata, dove la premeditazione della struttura non distrugge il carattere giocoso del romanzo, la libertà nasce dal rigore, la semplicità dalla complessità, l’improvvisazione dalla composizione»[32]. Lo stesso Kundera ammette di aver introdotto questa innovazione di carattere formale, che accompagna il passaggio dal ciclo dei romanzi scritti in ceco a quelli scritti direttamente in francese, alla ricerca di una struttura formale più agile: abbandona il modello della sonata, in cui aveva scritto la maggior parte dei primi romanzi, per quello della fuga, dove tutto è «creato da un solo nocciolo»[33].

Se La vita è un romanzo fosse davvero un romanzo di Kundera, sarebbe allora un romanzo di sintesi: nel film di Resnais, da un lato, le tre storie si avvicendano secondo un ritmo che ricorda quello dei movimenti delle sonate; dall’altro, queste sono tenute insieme da una fitta rete di motivi che assicura la godibilità dell’insieme. Vi è, dunque, un principio alla base, che bilancia questa complessa architettura. Sergio Arecco lo identifica nella presenza di un montaggio «polifonico», che renderebbe La vita è un romanzo il film più musicale di Resnais. Questa musicalità non dipende, infatti, dall’introduzione nel film degli inserti musicali, ma:

La polifonia, l’orchestrazione, la partitura e quant’altro stanno tutte nel continuum di per sé “musicale” delle immagini, armonizzate le une alle altre da un’ars combinatoria che ne sottolinea a ogni fluttuazione la dinamica frequenziale, la millimetrica prosodia, l’andamento frastico[34].

Questa polifonia realizzata come «sintassi» di «materiali eterogenei» ricorda quella di alcuni romanzi di Hermann Broch, ad esempio I sonnambuli. Kundera dichiara di aver tratto da Broch il suo principio del «contrappunto romanzesco», e su questa base lo accosta a Resnais nell’intervista con Christian Salmon. È allora possibile individuare a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta un periodo, di transizione per Kundera tra il ciclo dei romanzi scritti in ceco (i romanzi-sonata) e quello dei romanzi in francese (i romanzi-fuga), in cui il romanziere riflette in particolare sulle possibilità della polifonia, prima di esplorarle nella sua nuova forma romanzesca che sarà quella della fuga.

Il proposito di sondare una certa «drammaturgia della digressione», alla base del progetto con Resnais, viene a suo modo proseguito da Kundera, che, dopo il film dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, era deciso a scrivere solo romanzi irriducibili a uno storytelling, quindi “inadattabili” per un certo tipo di cinema. I film di Resnais lo stimolano a riflettere sulle diverse applicazioni possibili della polifonia[35] e, come già accaduto con la musica (il primo gene artistico del suo DNA di romanziere), lo stesso accade ora nel caso del cinema. Kundera è libero di allontanarsi dal cinema, una volta tratto da questo ciò che più gli interessa per proseguire il suo cammino di romanziere. Allo stesso modo in cui al suo esordio come romanziere aveva trovato nel romanzo il modo di praticare una sorta di arte musicale libera dalla sua componente lirica, una musica intesa quindi solo come «piacere della forma», in prossimità della sua svolta estetica trova il modo di realizzare attraverso il romanzo ciò che cercava nel cinema (il secondo gene artistico del suo DNA): un’arte del «montaggio polifonico», libera dalla riduzione a storytelling. Lirismo (inteso come la proiezione soggettiva della realtà) e storytelling (inteso come schema) sono, infatti, i due principali ostacoli per il romanziere che si dà il compito di far emergere attraverso i personaggi risvolti sempre concreti e diversi dell’esistenza.

Postilla. La vita è un romanzo

Nell’Insostenibile leggerezza dell’essere la metafora della vita come composizione è introdotta attraverso una digressione saggistica riferita al personaggio di Tereza. Ha appena conosciuto Tomáš. Il senso della bellezza indotto dall’amore nascente l’ha indotta a scorgere le numerose coincidenze che le sembra abbiano costellato le circostanze del loro incontro; a cogliere, così, la vita sotto la lente di una forma. Ciò consente al narratore di introdurre il paragone tra vita, musica e romanzo. Se i romanzi sono costruiti come delle composizioni è perché anche le esistenze sono così:

Sono costruite come una composizione musicale. L’uomo, spinto dal senso della bellezza, trasforma un avvenimento casuale (la musica di Beethoven, una morte alla stazione) in un motivo che va poi a iscriversi nella composizione della sua vita. Ad esso ritorna, lo ripete, lo varia, lo sviluppa, lo traspone, come fa il compositore con i temi della sua sonata[36].

Una simile associazione tra vita e composizione, musicale e romanzesca, si osserva nella Vita è un romanzo. Nell’ultima scena del suo film, felice di aver scoperto una sintonia con una donna così diversa da lui, Walter Guarini annuncia a Élisabeth Rousseau: «La vita è un romanzo!». A pochi metri di distanza però, un’amica che li vede andare via insieme biasima l’antropologa per il gioco finito male, smentendo l’affermazione di Guarini: «La vita non è un romanzo». Chi ha ragione? A quale genere di vita pensiamo, paragonandola a un romanzo? In seguito, Resnais chiarirà la natura squisitamente ludica del titolo scelto per il film, una risposta scherzosa a un modo di dire con cui suo padre lo ammoniva da bambino[37].

Ma se, prese singolarmente, nessuna delle vite mostrate nel film risulta pregna di quel significato esistenziale che si ricerca di solito in un romanzo, a meno di non intenderlo semplicemente come un happy end, è forse possibile scorgere un altro piano in cui questo viene raggiunto. A indicarcelo è la musicalità dei film di Resnais che – bisogna ricordare – agisce a un duplice livello. Il filosofo Bernard Stiegler si è soffermato sulla consuetudine dei personaggi resnaisiani di alternare parola e canto. Ciò capita anche ai personaggi della Vita è un romanzo, i cui improvvisi slanci canori sembrano far perdere loro consistenza realistica e respingerli in una dimensione emotiva e inconscia; si pensi a Élisabeth, che canta immaginando l’uomo dei suoi sogni, o ai cori di ammirazione sollevati durante l’esposizione degli interventi al convegno.

Secondo Stiegler, La vita è un romanzo anticipa in questo un altro film di Resnais in cui l’introduzione del canto assume una funzione più sinistra. Si tratta di Parole, parole, parole… (On connaît la chanson), uscito nel 1997. La caratteristica di questo lungometraggio rispetto ai precedenti è che a cantare non sono i personaggi stessi, mostrati alle prese con problemi ordinari, come l’acquisto di una casa, la discussione di una tesi di dottorato o dei litigi di coppia. Al loro eloquio si sovrappongono come dall’esterno brani di canzoni registrate, le più pop degli anni Ottanta in Francia (da Résiste di France Gall a Je suis venu te dire que je m’en vais di Serge Gainsbourg, a Paroles, paroles di Dalida e Alain Delon e molte altre), che i personaggi sembrano mimare come dei ventriloqui. Come se essi non controllassero il loro canto:

Vogliono parlare e qualcosa canta. Questi momenti di canto intervengono sempre negli snodi drammatici della sceneggiatura, e, in questo modo, i personaggi del film fanno propri i personaggi delle canzoni che cantano […] ne adottano in qualche modo lo stato d’animo[38].

Quello descritto è il medesimo spossessamento della coscienza in cui tutti precipitiamo quando siamo alle prese con i dispositivi estetici di carattere industriale che – spiega Stiegler – hanno la caratteristica di «coincidere, nel tempo del loro fluire, con il fluire del tempo delle vostre coscienze»[39]. Tramite questo espediente canoro Parole, parole, parole… rappresenta, quindi, l’appiattimento della coscienza sul tempo della canzone pop che, in quanto genere industriale riproducibile dalla macchina, orienta l’essere verso una logica preordinata e automatica.

Stiegler però mette in luce come proprio il cinema, che è insieme arte e «oggetto temporale industriale», sia il mezzo che più di altri ha la possibilità, smascherandolo, di liberare l’essere da questo assoggettamento automatico. Nella Vita è un romanzo gli inserti canori, spesso introdotti nella forma di cori o coretti, sembrano dare voce a una sorta di inconscio collettivo che esprime per lo più reazioni stereotipate e prevedibili. Il senso di questo sostrato musicale si chiarisce, però, solo se lo si considera nel contesto della costruzione generale, di carattere polifonico, che regge il film. Spiega Sergio Arecco:

Non sono certo i coretti l’equivalente concreto della logica polifonica. La logica polifonica sta nell’interconnessione delle tre vicende simmetriche assemblate dal film che il montaggio parallelo si sforza di fare combaciare infrangendo con una tale disinvoltura le barriere spazio-temporali […] da suggerire allo spettatore l’esistenza di un tempo altro rispetto ai tre tempi o periodi storici fatti interagire nel film[40].

Nella Vita è un romanzo abbiamo, dunque, una polifonia che si realizza sia sul piano cinematografico, come effetto di montaggio, che su quello prettamente musicale, come incontro di diverse “voci”. È solo nell’incontro generato dagli effetti di eco e corrispondenze che esse esprimono il loro senso. Seguire la traccia musicale permette, quindi, di cogliere il significato “romanzesco” del film, che non risiede in nessuna delle singole storie ma si può scorgere solo nel loro confronto a distanza di secoli; ci ricorda la possibilità di cogliere la vita come una composizione, o come romanzo. Ecco il senso ultimo dell’incontro tra Resnais e Kundera: entrambi assumono come tema stesso delle loro opere la possibilità dell’arte di farsi portatrice di un senso esistenziale.

  1. Cfr. la voce Bellezza (e conoscenza) in Sessantacinque parole, VI Parte del saggio di M. Kundera L’arte del romanzo [1986], trad. it. di E. Marchi/A. Ravano, Milano, Adelphi, 1988, p. 173.
  2. Dalla voce Romanziere (e scrittore): «Il romanziere non dà grande importanza alle proprie idee. È uno scopritore che, a tentoni, si sforza di svelare un aspetto sconosciuto dell’esistenza» (ivi, p. 203).
  3. K. Chvatik, Il mondo romanzesco di Milan Kundera [1994], trad. it. di S. Zangrando, Postfazione di M. Rizzante, In appendice quattro dialoghi di Milan Kundera, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento, 2004, p. 171.
  4. Cfr. l’intero estratto dell’intervista concessa da Kundera a André-Alain Morello, p. 222: «Non mi interesso molto alla teoria e non utilizzo mai la sua terminologia, che del resto mi è spesso incomprensibile. I libri teorici che hanno avuto per me una certa importanza? La Teoria del romanzo di Lukács (un libro che ho scoperto prima di scrivere il primo romanzo) mi ha certamente incoraggiato a considerare il romanzo non come un genere letterario tra gli altri, ma come un’arte autonoma, un’arte con la propria ontologia, con le proprie problematiche, con la propria logica storica. Dopo la guerra, adolescente, ho ammirato Jan Mukařovský. Fu con Jakobson il fondatore del Circolo linguistico di Praga e dello Strutturalismo, che agli inizi si era mostrato molto più concreto, meno gergale, più vicino all’arte e agli artisti di quanto non lo fu più tardi quando conquistò il mondo intero. Negli anni Trenta Mukařovský scrisse degli ottimi studi critici sulla prosa e la poesia ceche (contemporanee e antiche, avanguardiste e non avanguardiste). Egli, estremamente attento alla pratica letteraria della propria epoca, veniva letto con la stessa attenzione dagli scrittori; li aiutò a diventare più consapevoli della forma di un’opera d’arte; più consapevoli della ‘struttura’, nella quale ogni elemento è legato a tutti gli altri e nessuno ha senso se preso autonomamente. Quell’epoca fu uno di quei rari momenti in cui la pratica e la teoria s’ispiravano reciprocamente e avevano molte cose da dirsi».
  5. Si veda al riguardo l’articolo di Vincenzo Trione pittore segreto, in «il verri», n. 71, 2019, pp. 21-33.
  6. Per una ricognizione riguardante gli impieghi della variazione su tema nell’opera di Kundera mi permetto di rinviare al mio libro Il romanzo a variazioni, Milano-Udine, Mimesis, 2019.
  7. Lo stesso Kundera ne offre una definizione nel Dialogo sull’arte della composizione, IV parte dell’Arte del romanzo, op. cit., p. 105.
  8. Cit. dalla Nota dell’autore per l’edizione ceca di L’immortalità (1993), trad. it. di M. Rizzante, in Milan Kundera, «Riga» n. 20, a cura di M. Rizzante, Milano, Marcos y Marcos, 2002, p. 252.
  9. Kundera ricorderà con piacere solo il film del 1969 tratto da Io, un povero diavolo (regia di Antonin Kachlik, sceneggiatura dello stesso Kundera), in seguito al quale deciderà di eliminare la novella originaria dalla raccolta, preferendole la versione cinematografica.
  10. Per queste e altre notizie si rimanda all’apparato biografico curato da François Ricard per M. Kundera, Oeuvre, 2 voll., Préface et Biographie de l’oeuvre a cura di F. Ricard, Paris, Bibliothèque de la Pléiade, 2017.
  11. Cfr. K. Chatik, Il mondo romanzesco di Milan Kundera, op. cit., p. 151.
  12. Cit. da Intervista con Milan Kundera [1983], trad.it. di I. Duranti, Introduzione di E. Trevi, Roma, Minimum Fax, 1999, p. 47.
  13. IV Parte di M. Kundera, L’arte del romanzo, op. cit., pp. 103-39.
  14. Titolo originario Mon oncle d’Amérique (1980), regia di Alain Resnais, sceneggiatura di Jean Gruault. Con Roger Pierre, Nicole Garcia, Gérard Depardieu, Henri Laborit, Pierre Arditi.
  15. Titolo originario La vie est un roman (1983), regia di Alain Resnais, sceneggiatura di Jean Gruault. Con Ruggero Raimondi, Sabine Azéma, Vittorio Gassman, Geraldin Chaplin, Robert Manuel, Pierre Arditi.
  16. W. Schütte, Saluto a un autore europeo [1984], in Milan Kundera, «Riga» n. 20, op. cit., p. 212.
  17. Cfr. F. Thomas, L’atelier d’Alain Resnais, Paris, Flammarion, 1989, p. 288.
  18. Cit. da A. Resnais, intervista pubblicata su «Cahiers du Cinèma», 1983, ora in Id., Il tempo della memoria, a cura di C. Paltrinieri, Reggio Emilia, Cinema «Italia» d’Essai, 1984.
  19. Si tratta dell’articolo Kafka, Fellini, Heidegger, in Heidegger, Fellini, l’Europe problématique, in «Le Messager européen», n. 1, 1987, pp. 134-36.
  20. S. Godano, Kundera e Fellini. L’arte di non incontrarsi, Prefaz. di V. Mollica, Milano, Rizzoli, 2022, pp. 22-23.
  21. M. Kundera, Un incontro [2008], trad. it. di M. Rizzante, Milano, Adelphi, 2009, p. 96.
  22. Uscita sul «New York Times» nel maggio del 1984 con il titolo A talk with Milan Kundera, l’intervista è stata pubblicata anche in italiano dalla rivista on-line «Sovrapposizioni» nella traduzione di S. Raviola e A. Hank Toska: https://www.sovrapposizioni.com/ziqqurat/una-chiacchierata-con-milan-kundera (ultima consultazione: 15 maggio 2023).
  23. Ora conservata presso gli archivi Alain Resnais dell’IMEC (Institut Mémoires de l’édition contemporaine), l’inizio di questa sceneggiatura parziale è stato reso noto da Clémentine Deroudille, amica di Resnais, sul blog dell’IMEC: https://www.imec-archives.com/matieres-premieres/papiers/alain-resnais/les-lecons-de-vie-d-alain-resnais (ultima consultazione: 15 maggio 2023).
  24. « Cela portait sur l’idée de la représentation, de l’importance qu’on attache à la représentation de ce qu’on paraît être dans la vie. Nous ne sommes pas très loin des personnages de Pirandello. Là, le jeu était de savoir : vaut-il mieux avoir passé une très belle nuit d’amour avec une femme qu’on aime, à condition que personne au monde n’en ait connaissance, ou bien vaut-il mieux n’avoir eu aucune relation avec cette femme mais que toute la ville vous envie et vous félicite parce que la rumeur dit le contraire ? Nous alternions deux époques, la période contemporaine et le XVIIIe siècle. Nous en profitions pour quitter l’intrigue, aller nous balader dans d’autres directions, puis y revenir. Nous avions un goût commun pour les romans genre Jacques le Fataliste, Tom Jones ou Tristram Shandy, où l’on quitte les personnages pour y revenir. Il s’agissait de voir si cette dramaturgie de la digression pouvait être appliquée au cinéma » (trad. it. mia). Dichiarazioni di Alain Resnais raccolte da François Thomas per « Positif » n. 394, 1993; ora in F. Thomas, Le point de vue de la muette. Entretien avec Alain Resnais, Positif, revue de cinéma. Alain Resnais, a cura di S. Goudet, Paris, Gallimard, 2002, pp. 417-18.
  25. Cfr. Resnais: « Milan a accepté de faire un film avec moi, mais, bien qu’il soit professeur de cinéma, je crois qu’il pensait vaguement qu’un scénario peut s’écrire en trois mois et qu’il pourrait passer à autre chose. Et puis il s’est aperçu que ça demanderait un an de sa vie, que c’est très long et très difficile à écrire. Il a malgré tout livré trente pages d’un synopsis — que j’aimais bien d’ailleurs —, mais il s’est senti coincé et a été un peu affolé, puisqu’il avait à surveiller la traduction de ses romans, avait un autre roman puis un essai à terminer. De plus, je sais que ça lui coûte beaucoup d’écrire, il a beaucoup de mal — il y a des gens pour qui c’est facile, d’autres non — et il a préféré consacrer son énergie à autre chose. Avoir insisté, ça aurait de toute façon mené à une impasse trois mois plus tard ». Cit. da M.-C. Loiselle, Entretien avec Alain Resnais, in «24 images», n. 72, 1994, p. 16.
  26. Cfr. F. Ricard, Biographie de l’oeuvre, op. cit., vol. 1, p. 1472.
  27. M. Kundera, Introduzione a una variazione [1981], trad. it. di E. Marchi, in Id., Jacques e il suo padrone. Omaggio a Denis Diderot in tre atti, trad. it. di A. Mura, Milano, Adelphi, pp. 9-26.
  28. Da notare, poi, che la trama di Senza domani affronta il medesimo dilemma immagine/realtà al centro della sceneggiatura di Kundera per Resnais: nel tornare a casa dopo la notte d’amore con Madame de T., il giovane Cavaliere sa che non potrà raccontarla a nessuno e che per questo le sembrerà forse meno vera, ma al tempo stesso è felice per ciò che ha vissuto.
  29. Cfr. F. Ricard, Biographie de l’œuvre, op. cit., vol. 2, p. 1202.
  30. Vd. il saggio di G. Scarpetta dedicato a La lentezza, Divertimento à la française, ora in «Riga» n. 20 cit., pp. 283-95.
  31. Cfr. A. Resnais che, a proposito della Vita è un romanzo, afferma: «Il mio film preferito del cinema di tutti i tempi è La regola del gioco, che figura dappertutto come uno dei dieci film migliori della storia del cinema, e che è un film che il pubblico ha sempre rifiutato, perché diceva: ‘Ciascuno ha le sue ragioni’. Non mi paragono a Renoir, beninteso, ma a ciascun problema le persone vogliono una risposta […] Tanto più che non si sa se Forbek ha torto oppure no». Dichiarazione riportata in Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, a cura di M. Regosa, Venezia, Marsilio, 2002, p. 282.
  32. Cit. da M. Rizzante, Una nuova forma. Note su La lentezza, L’identità e L’ignoranza, in Id., Un dialogo infinito. Note in margine a un massacro, Pavia, Effigie, 2015, p. 177.
  33. Questa citazione di Arnold Schönberg è riportata da Kundera nel lungo dialogo con Massimo Rizzante, svolto a tappe dal 1o aprile 2001 al 1o aprile 2013: ivi, pp. 195-200.
  34. Cit. da S. Arecco, La polifonia o le petites phrases partagées, in Alain Resnais. L’avventura dei linguaggi, a cura di R. Zemignan, Milano, Il Castoro, 2008, p. 64.
  35. Ricordo che da Kundera la “polifonia romanzesca”, o contrappunto, è intesa in maniera diversa rispetto a Michael Bachtin, come un principio di derivazione musicale e che, tradotto nel romanzo, permette la compresenza in un romanzo non solo di diverse «voci», ma di una pluralità di storie, generi e registri.
  36. Cit. da M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere [1984], trad. it. di G. Dierna [A. Barbato], Milano, Adelphi, 1985, p. 59.
  37. « La vie est un roman est ‘ma manière de tuer le père’, dit Alain Resnais : ‘Lorsque j’étais enfant, il ne cessait de me dire à table que je devis profiter de mon enfance car c’était la meilleure partie de la vie. Il ajoutait : ‘Tu verras, après tu mangeras de la vache enragée, et tu te rendras compte que la vie n’est pas un roman’. En fait, j’ai découvert que l’enfance n’est pas le meilleur âge de la vie, que la vache enragée peut être meilleure que ce que l’on mangeait à la maison, et donc que la vie est un roman !». Cit. da Alain Resnais, a cura di Jean-Luc Douin, Paris, Éditions de la Martiniére, 2013, p. 141.
  38. Cit. da Come se ci mancassimo o di come trovare delle armi a partire da Parole, parole, parole…(On connaît la chanson) di Alain Resnais, II Cap. di B. Stiegler, La miseria simbolica. L’epoca iperindustriale [2004], trad. it. di R. Corda, Milano, Meltemi, 2021, p. 60.
  39. Ivi, p. 48.
  40. Cit. da S. Arecco, La polifonia o le petites phrases partagées, op. cit., p. 66.

(fasc. 48, 11 luglio 2023)

Benedetto Croce e Carl Schmitt: la «crisi della coscienza europea»

Author di Leoluca Inverso

Tra progresso, politica e morale

Risultano diversi i motivi per i quali una comparazione tra l’opera di Benedetto Croce e quella del giurista tedesco Carl Schmitt appare un’operazione complessa. Innanzitutto, fatta eccezione per un saggio schmittiano del 1929, in cui il giurista di Plettenberg condivide la definizione crociana di storia come «storia contemporanea» apparsa sulle pagine di Teoria e storia della storiografia (1915, la prima edizione tedesca), non risultano emergere altri riferimenti testuali espliciti tra i due autori. Infatti, la vastissima produzione crociana non reca tracce di giudizi espressi dal filosofo sulla produzione del pensatore di Plettenberg. Quando, il 25 agosto 1933, il filologo e italianista Karl Vossler aveva scritto a Croce «Il Heidegger, e accanto a lui quel Carl Schmitt, autore di libri di diritto pubblico e politico, discepolo, fino a un certo punto, di Georges Sorel, si van rivelando come i due disastri intellettuali della nuova Germania. Lo Schmitt mi pare anche più pericoloso»[1], la risposta di Croce non aveva tardato; tuttavia, evitando di rispondere su Schmitt, il filosofo aveva polemizzato esclusivamente su Martin Heidegger. Anche nel carteggio dei giorni successivi il nome di Schmitt non compariva: l’oggetto delle critiche crociane restava Heidegger e la prolusione da lui pronunciata, in aprile, nelle vesti di rettore dell’Università di Friburgo[2]. Al discorso heideggeriano Croce avrebbe dedicato una recensione durissima, uscita sulle pagine della «Critica» nel 1934[3], sulla quale a breve si ritornerà.

L’assimilazione Schmitt-Heidegger, richiamata da Vossler, si originava probabilmente dalla comune adesione al nazionalsocialismo, che in quel 1933 muoveva i primi e decisivi passi, e da una certa aderenza ideologica e culturale che il 22 agosto 1933 portava Heidegger a scrivere a Schmitt, in occasione della ricezione della terza edizione di Der Begriff des Politischen. Nella missiva, il rettore dell’Università di Friburgo invitava il pensatore di Plettenberg a «collaborare attivamente alla nazificazione della Facoltà di Giurisprudenza»[4]. Purtroppo non si possiede il contenuto della risposta di Schmitt, semmai vi fu. Tuttavia, questo è un elemento che porta a considerare una seconda difficoltà ermeneutica nel tentativo di ricostruire il rapporto tra Croce e Schmitt: una lontananza intellettuale e morale che, non essendo corroborata da fonti dirette, rende incerto il percorso lungo il quale si procederà. Tuttavia, è opportuno segnalare che un tentativo di avvicinamento tra Croce e Schmitt è stato già compiuto: studiosi come Andrea Orsucci, Carlo Galli, Biagio De Giovanni – alle analisi dei quali questo contributo deve molto – hanno riflettuto sulla produzione crociana e schmittiana in chiave comparata, favorendo l’ampliarsi di un terreno di confronto tra questi due importanti pensatori del Novecento.

Prima di procedere mettendo in evidenza il tema centrale di questo contributo, ovvero i rispettivi pensieri sulla «crisi europea» del Novecento, occorre partire dall’unico e, per questo motivo, prezioso richiamo esplicito che Schmitt fa a Croce. Come si vedrà, è un punto non estraneo al discorso che verrà sviluppato nelle prossime pagine. In un saggio del 1929, intitolato L’epoca delle neutralizzazioni e spoliticizzazioni, Schmitt scrive

Non è possibile dir nulla di significativo su cultura e storia senza essere consapevoli della propria situazione culturale e storica. Da Hegel in poi, molti, e nel modo migliore Benedetto Croce, ci hanno insegnato che ogni conoscenza storica è conoscenza del presente e serve, nel suo significato più profondo, solo al presente, poiché ogni spirito è spirito del presente[5].

Il testo in cui la citazione si colloca è di grande interesse. L’obiettivo di Schmitt è quello di ricostruire «le fasi attraverso cui si è sviluppato lo spirito europeo negli ultimi quattro secoli e le diverse sfere spirituali nelle quali esso trovò il centro della propria espressione umana»[6]. Ripercorrendone le fasi di sviluppo – dal teologico al metafisico, di qui al morale-umanitario e infine all’economico –, Schmitt cerca di rintracciare la parabola discendente dello Stato moderno. A ciascuna di queste fasi, infatti, il giurista fa corrispondere una definizione di Stato che ne colga l’essenza[7]. È un punto significativo perché ricorrente anche nelle pagine sull’Europa, dal momento che al ridimensionamento dello Stato, prodotto dell’Europa nell’età moderna e vettore della sua vocazione civilizzatrice, Schmitt fa corrispondere la crisi dell’eurocentrismo.

Per il giurista di Plettenberg, critico del positivismo giuridico e del liberalismo politico, ogni ordine riposa sulla decisione e non sulla norma universale, così come il concetto di “politico” si definisce sulla base della contrapposizione amico/nemico e non su vane condizioni di neutralità. Queste sono le condizioni che avevano reso possibile l’affermarsi del nomos eurocentrico dello jus publicum europaeum e che la modernità, agli occhi di Schmitt, appare smentire. Ed è seguendo questa linea interpretativa che si colgono con maggior chiarezza i riferimenti critici alla modernità, nella quale il conflitto si neutralizza attraverso l’uso della tecnica, e l’avversione nei confronti dello Stato liberale europeo del XIX secolo, da lui definito «Stato neutrale e agnostico», al cui interno emerge «una tendenza generale ad un neutralismo spirituale che è caratteristica della storia europea degli ultimi»[8].

Sebbene la condivisione della teoria crociana trovi riscontro nel comune distacco da ogni filosofia della storia, nel rifiuto di un a priori astratto al di là del quale la realtà storica rivela la propria contingenza e, quindi, in una simile concezione antiretorica del progresso, l’analisi di Schmitt non sembra assimilabile ai presupposti del sistema crociano. Nella Storia come pensiero e come azione, opera del 1938, Croce operava «una significativa distinzione tra l’idea di progresso come legge spirituale della vita e della storia e la fede cieca nel cammino lineare e indefinito del processo storico»[9]. Questo porta a comprendere, come ha sostenuto Carlo Altini, che, sebbene in Croce «non è dato rintracciare […] una concezione lineare, o ‘stadiale’, del progresso», al tempo stesso «la storia del mondo consiste […] nel progresso nella coscienza della libertà»[10], la quale si definisce sul nesso volizione (singola azione adempiuta dal singolo) e accadimento (l’opera del Tutto). Questa prospettiva risulta essere assente in Schmitt, per il quale la storia è, sì, «fratta e discontinua», ma «dominata dalla concretezza e dall’unicità del caso di eccezione […] che a loro volta non garantiscono alcun progresso ma sanciscono la fine dell’ordine tradizionale»[11].

Si può leggere in controluce il motivo di questa distanza, tornando brevemente sul contenuto della recensione di Croce a Heidegger del 1934. Le accuse al filosofo tedesco di “falso storicismo”, concezione della vita rozza e materialistica, intrisa di etnicismi e razzismi e priva di umanità – suo unico e vero attore secondo Croce – sono elementi che si potrebbero provare ad applicare anche a Schmitt. Sebbene, come ha sottolineato Caterina Resta, interpretando la prossimità fra il concetto schmittiano di “grande spazio” e il concetto hausoferiano di Lebensraum, in Schmitt non sia dato scorgere concezioni razziali in senso biologistico[12], il suo concetto di umanità, inteso esclusivamente su presupposti politici, non riflette la profondità umanistica propria dell’analisi crociana.

Per Schmitt, infatti, il mondo politico è «un pluriverso non un universo» e «non può esistere uno “Stato” mondiale che comprenda tutta la terra e tutta l’umanità»[13]. E questo è motivo di lontananza, non perché in Croce sia dato rilevare l’assenza di una specificità dello Stato o una concezione della storia appiattita su visioni unicamente ottimistiche o pessimistiche; ma perché, per il filosofo, «l’attività spirituale presiede indubbiamente a un “progresso cosmico”»[14], mentre in Schmitt questa dimensione è preclusa dal dominio della politica e dall’assenza della mediazione. È, secondo la nostra ricostruzione, una costante della distanza intellettuale e morale fra i due, la quale si riflette su un altro terreno di confronto non secondario: il rapporto fra politica e morale.

Andrea Orsucci, interpretando gli scritti crociani negli anni della Prima guerra mondiale, ha notato che «lo svolgimento delle ragioni di una coerente antiretorica trova il suo punto focale nel principio dell’autonomia della politica, della sua piena estraneità a considerazioni di ordine etico»[15]. Ed è chiaro il filosofo, quando scrive: «[…] la politica (ecco il vero) è politica, e nient’altro che politica; e […] la sua moralità consiste tutta e solamente nell’essere eccellente politica, come la moralità della poesia (checché dicano gli incompetenti) consiste unicamente nell’essere eccellente poesia»[16]. Qui sembra emergere un’assonanza con Schmitt, che, nel Concetto di «Politico», chiarisce l’autonomia della sfera politica dalle sfere della morale, dell’economia e dell’estetica, sulla base della distinzione amico/nemico.

Per Schmitt, infatti, il nemico non dovrà essere giudicato su presupposti morali – «il nemico è l’hostis [pubblico], non l’inimicus [privato] in senso ampio» – né si può condurre una guerra «per motivi ‘puramente’ religiosi, ‘puramente’ morali o ‘puramente’ giuridici»[17]. In entrambi sembra emergere la vocazione a un’antiretorica e il richiamo a un realismo politico che, tuttavia, in Croce è da collocare nell’ambito della sua dialettica dei distinti, la quale insegna a capire che la sfera politica è un territorio entro il quale non è consentito ricorrere alla denigrazione morale, alla demonizzazione dell’avversario. Nelle pagine di Etica e politica, infatti, il filosofo riconosce a Niccolò Machiavelli il merito di aver scoperto la necessità e l’autonomia della politica, e a Giambattista Vico quello di aver pensato adeguatamente il nesso di politica e morale nella prospettiva di civiltà, risolvendo la scissione machiavelliana fra la considerazione della politica come una triste necessità e la morale tradizionale, in lui ancora viva[18]: questo è un passaggio chiave per cogliere la differenza con l’analisi schmittiana, al di là delle già citate consonanze. Per Schmitt l’autonomia del “politico” risulta essere «un’intensità polemica, senza che la ‘serietà’ del ‘politico’, a cui egli si rifà, possa essere interpretata come un passaggio dalla politica alla morale»[19]. Al realismo di Croce, invece

[…] si accompagna […] quello che in Schmitt non c’è, ovvero la convinzione dell’unità circolare, nell’umanità di ogni uomo, fra politica e morale, la fiducia, cioè, che il transito fra le distinte attività dello Spirito non possa essere interrotto, che il logos non conosca l’abisso, o che, comunque sia, lo possa superare; Schmitt, invece, pensa la politica proprio come la catastrofica interruzione della mediazione, come ‘politico’[20].

Ed è questo passaggio illuminante anche per compendiare ciò che si diceva sulla diversa interpretazione del progresso nei due autori. Se, infatti, in Croce il Moderno «sta sotto il segno dell’autocoscienza e della – pur precaria – realizzazione pratica della libertà», per Schmitt «la modernità appare […] originariamente segnata da un’assenza radicale di senso»[21].

La civiltà europea e la sua crisi

Gli elementi messi in evidenza consentono di accedere al pensiero di Croce e Schmitt negli anni della «crisi della coscienza europea». Biagio De Giovanni li ha definiti pensatori filosoficamente eurocentrici, perché, seppur su due registri differenti, hanno riflettuto sulla crisi dell’eurocentrismo e sono partiti dall’identificare la civiltà con la civiltà europea. In entrambi, infatti, è viva la consapevolezza di una centralità dell’Europa che appare messa in discussione, e di una frattura che si origina e si delinea nelle viscere stesse del Vecchio Continente.

È esplicito Croce quando, in un testo del 1946, emblematicamente intitolato La fine della civiltà, scrive: «Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale si è fatta viva dappertutto la stringente inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei prossimi mesi attuarsi, della civiltà o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea»[22]. Ma quali sono i caratteri della civiltà europea per Croce? Essa presentava una concezione della cultura dal valore universale, rappresentata da quella Libertà, che è «motore interno al formarsi storico delle nazioni, delle istituzioni e dei processi politici»[23]. Quella che Croce va a definire non è una concezione liberale transeunte, schiacciata su un processo storico determinato, bensì una concezione metapolitica che «coincide con una concezione totale del mondo e della realtà» e che si colloca «in una sfera diversa e superiore»[24].

In un discorso tenuto a Oxford il 3 settembre 1930, egli aveva sostenuto:

È evidente che il sentimento storico coincide con il sentimento europeo in quanto nell’Europa si concentra la più ricca e nobile storia umana, l’Europa ha prodotto l’ideale liberale e ha tolto su di sé la missione della civiltà nel mondo tutto, e non v’ha in Europa storia di singoli popoli e stati che possa intendersi separatamente, fuori dalla vita generale dell’organismo di cui sono membra. La guerra stessa, invece di accentuare le differenze, ha fatto spiccare questa comune umanità europea, con comuni virtù e comuni difetti, con comuni problemi. Sradicarsi dall’Europa dopo essersi sradicati dalla storia è, di certo proposito affatto coerente; ma di quella coerenza che si ammira anche nei pazzi che ragionano[25].

Dunque, uno sguardo d’insieme su un’Europa connotata da virtù e difetti, che, raccogliendo le sue singole componenti – cioè gli Stati –, poteva virare verso un progetto comune. Il tentativo, come avrebbe ribadito nell’epilogo alla Storia d’Europa, era anche quello di affermare il carattere di un’Europa-potenza, che, uscita dalla guerra, mirasse alla restaurazione dell’ideale liberale opposto alle competizioni dei nazionalismi. Tuttavia, come ha evidenziato Biagio De Giovanni, nella Storia d’Europa Croce «lasciava intravedere una visione aspra delle cose e della crisi»[26] nel tentativo di scorgere la radice genetica del male che si era contrapposto alla «religione della libertà» e individuandolo nel romanticismo pratico, sentimentale e morale, che egli definiva come «morbo del secolo»[27]. Contrariamente a chi, come Federico Chabod, ha scorto nell’opera una Civitas Dei della libertà, Gennaro Sasso ha superato la concezione della Storia d’Europa quale «teologia della libertà», evidenziandone il carattere di «libro di battaglia», nel quale la lotta tra fedi religiose opposte, con la religione della libertà posta al centro, faceva emergere il carattere tortuoso, incerto e dinamico dell’ideale liberale nella storia[28]. Una visione aspra della crisi, che negli anni Quaranta si sarebbe fatta più drammatica. Come messo in rilievo da Ilario Bartoletti, «[…] il corso degli eventi storici tra la fine degli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta – con il chiasmo di barbarie totalitaria e guerra mondiale – dispiegava un volto che smentiva la definizione della storia come “eterno progresso spirituale”»[29]. E la crisi investiva l’Europa dall’interno, perché, «al di là delle contingenze politiche», in Croce si avvertiva «il contrasto più radicale […] fra il bene e il male, lo spirito e lo spettro dell’antispirito, di un antispirito che però è nella spiritualità stessa, è esso forma e momento dello spirito: anticristo che è in noi»[30]. Biagio De Giovanni ha particolarmente insistito sulla drammatica rottura del nesso libertà e storicità, azione del singolo e accadimento del Tutto, sostenendo che

in gioco era […] la continuità della civiltà europea che fino ad allora era stata garantita dalla razionalità dell’accadimento, non nel senso della filosofia della storia, ma in quello dello scorrere profondo e relativamente tranquillo della Libertà negli eventi […] e nella crescita di una civiltà mondiale che costruiva, sull’Europa, un modello di civilizzazione[31].

Benché da una prospettiva diversa, anche per Schmitt la civiltà si identifica con la civiltà europea: lo afferma in Terra e Mare, testo del 1942, quando fa riferimento alla «superiorità razionale dell’europeo»[32] e in altri significativi passaggi delle sue opere, come nel Nomos della Terra, quando esplicito è il richiamo alla sinonimia tra civiltà e civiltà europea. Tuttavia, in Croce la civiltà europea era foriera di civilizzazione perché in essa agiva e si era realizzato l’ideale liberale, che non conosceva, per la sua vocazione universale, confini geografici; in Schmitt, invece, la civiltà europea, costruita su presupposti giuridici, ma soprattutto politici[33], è frutto dell’“appropriazione”, di una chiara delimitazione dei confini, che vede nei processi di planetarizzazione e universalizzazione la propria dissoluzione.

Per quale motivo? Schmitt riflette sulla centralità dell’Europa partendo dalla definizione di nomos. Questo si definisce come unità di ordinamento e localizzazione [Ordnung e Ortung]. Non è concetto astratto del vocabolario schmittiano: piuttosto, appare come il concreto tentativo di fissare l’organizzazione dello spazio su una concreta e reale spartizione della terra e su regole precise[34].

Il nomos non è statico e neutrale, ma suscettibile di variare a seconda del modo in cui allo spazio ci si rapporta “politicamente”. Carlo Galli ha evidenziato che, per Schmitt, «lo spazio non è un vincolo naturale, né un’intrinseca Misura, ma una possibilità che attende di essere attivata da una decisione politica» e che le sue rappresentazioni sono politiche, in quanto generate «dal potere e dal conflitto»[35]. Ed è sulla base della contrapposizione tra forze di terra e forze di mare – «logiche di confine e logiche dello sconfinamento»[36], citando Marcello Boemio – che Schmitt ripercorre nel Nomos della terra, opera del 1950, lo svolgimento della storia d’Europa. Infatti, laddove il diritto internazionale pre-globale e il Medioevo cristiano avevano privilegiato il rapporto con la terra, non essendovi stata la navigazione e la conoscenza degli oceani, è nell’età moderna, con la rivoluzione dello spazio cominciata nel XVI secolo, che si afferma l’equilibrio tra terra (Stati continentali) e mare (Inghilterra) e cominciano a essere poste le basi per un nuovo nomos della terra eurocentrico (lo jus publicum europaeum). Questo dipendeva soprattutto, e non è elemento secondario, dalle nuove grandi conquiste, spartizioni e sfruttamenti di mare nel Nuovo Mondo da parte delle potenze europee.

Il nuovo nomos della terra era costruito su base statale e la nuova situazione di conquista ed espansione europea aveva reso necessaria, già sul finire del XV secolo, una ridefinizione dei rapporti internazionali tra le grandi potenze statali del Vecchio Continente, inclusa l’Inghilterra. Per Schmitt, una delle novità principali di questo ordinamento giuridico eurocentrico era data dalla circoscrizione e dalla limitazione della guerra sul suolo europeo[37]. Si passava, infatti, dalla teoria del bellum iustum di matrice medievale – vista come causa delle guerre di annientamento – a una guerre in forme tra Stati europei chiaramente delimitati sul piano territoriale. Questa civiltà europea – tra Nomos e Polemos, mutuando una formula di Riccardo Cavallo[38] – era tale, dunque, perché in grado di impossessarsi del nuovo mondo, di spartirlo e di confinare là – nello spazio del non-Stato – l’inimicizia assoluta. Alla base di questa logica dentro/fuori, Stato/non Stato, civiltà/barbarie, giaceva infatti il principio della disuguaglianza.

Per Schmitt, dunque, «il nomos eurocentrico […] riposava su una concezione diseguale e non omogenea dello spazio, per la quale ciò che era permesso alle potenze europee non era permesso agli altri popoli»[39]. Questo spiega perché alla Finis Europae – da intendersi come la dissoluzione dell’ordinamento eurocentrico dello jus publicum europaeum – Schmitt associ una riflessione sulla fine dello Stato.

Si comprende, dunque, quanto siano distanti Croce e Schmitt nel tracciare rispettivamente i caratteri della civiltà europea, pur riconoscendone la centralità: questa, per il giurista di Plettenberg, era condizione dettata dalla decisione politica che gli Stati europei avevano esercitato sui territori d’oltreoceano; per Croce, invece, declinata in chiave culturale e spirituale. E, se per il filosofo L’Anticristo che è in noi era frutto di un percorso che, partendo dall’irrazionalismo, giungeva al definirsi della «vitalità-potenza»[40], interna agli scotimenti spirituali che interessano l’Europa dal di dentro, minacciando il magistero della Libertà; in Schmitt era la natura stessa del liberalismo politico, spoliticizzato e neutrale, tendente all’universalismo, che corrodeva i confini del nomos eurocentrico, “politicamente” conflittuale, statuale e chiaramente delimitato.

È significativo, per entrambi, il ruolo giocato dalla Prima guerra mondiale per la crisi dell’eurocentrismo. Tuttavia, la rispettiva periodizzazione della crisi appare sensibilmente spostata. Per Croce, la guerra mondiale rappresenta, è vero, la «fine d’un epoca», non solo dal punto di vista biografico-esistenziale, ma anche sul versante della produzione filosofica[41]. Tuttavia, è terminus ad quem il percorso di ricerca continua, passando dal periodo della storiografia etico-politica degli anni ’20 e dei primi anni ’30 al «ripensamento teoretico» dei secondi ’30 e degli anni ’40 (il tema della vitalità e la teoria speculativa della libertà[42] ne sono la principale espressione), e scavando in quel cono d’ombra nella quale era entrata la vita spirituale europea dopo il conflitto.

A questo proposito, è significativo rilevare che, nel chiudere le pagine del Contributo alla critica di me stesso, nel 1915, Croce scriveva facendo riferimento alla guerra: «l’animo resta sospeso; e l’immagine di sé medesimo, balena sconvolta come quella riflessa nello specchio d’acqua in tempesta»[43]. Ritornando su queste pagine nel 1934, il filosofo rievocava questa immagine della tempesta – «siamo dentro a questa e non c’è barlume di speranza che ne prometta l’uscita» –, sottolineando però il tenace proseguimento del suo lavoro scientifico, manifesto in opere come La storia d’Italia e La storia d’Europa che, dal suo punto di vista, avevano assunto «particolare utilità morale e civile»[44]. Evidente, dunque, lo «sforzo di reagire», che rappresenta un elemento ricorrente nello stile crociano: al costante senso di precarietà e di inquietudine esistenziale il filosofo aveva sempre contrapposto una rigorosa etica del lavoro intellettuale. La stessa operosità che, come egli stesso sottolineava nelle pagine del Contributo, aveva contribuito a rendere domestica e mite l’angoscia “acuta”, e nella quale Giuseppe Cacciatore ha scorto una «non risolta conciliazione tra problematicità del reale vissuto e sistematicità dialettica del reale pensato»[45].

Diversamente connotata cronologicamente, e anche più accessibile per il modo in cui viene presentata, è la segnalazione di Schmitt sulle cause e gli sviluppi della crisi del nomos eurocentrico. È chiaro Schmitt quando, nel comprendere le fasi dissolutive dello jus publicum europaeum, traccia un arco cronologico che va dal 1890 al 1918. La guerra, da questo punto di vista, rappresenta l’acme del processo di erosione del nomos[46], cominciato con il riconoscimento della bandiera del Congo da parte degli Stati Uniti nel 1885, dove si assisteva a una prima sintomatica «dissoluzione nel generale-universale» dell’elemento concreto, e all’incipiente «distruzione dell’ordinamento globale della terra fino a quel momento esistente»[47].

Il primo conflitto mondiale, che Schmitt giudica negativamente soprattutto per l’emergere della potenza talassocratica statunitense, in cui il giurista leggeva il prevalere delle potenze marittime sulle potenze terranee[48] e la rottura dell’equilibrio tra terra e mare, avrebbe sancito il ripristino di una condizione antecedente all’affermarsi dello jus publicum europaeum. Se questo era stata espressione del primato acquisito dagli Stati europei e la capacità di limitare la guerra sul suolo europeo, gli eventi della prima metà del Novecento indicavano, a giudizio di Schmitt, l’inizio di una nuova epoca, ossia di una «guerra civile planetaria, in cui si riaffaccia[va] la contrapposizione manichea propria delle antiche guerre teleologiche, […] che [poneva] fine all’epoca dello jus publicum europaeum»[49].

Conclusioni

In queste pagine conclusive si vuole evidenziare un ultimo dato. Quando De Giovanni scrive che «la disperazione di Schmitt non è l’angoscia di Croce», pone in evidenza un tema fondamentale. Abbiamo ripercorso le considerazioni crociane e schmittiane sul progresso, le differenze sul rapporto fra politica e morale, e le rispettive diagnosi sulla crisi dell’eurocentrismo. Da queste considerazioni è emerso il ritratto di un’Europa-potenza profondamente diversa tra i due autori. E dunque, dopo aver accennato all’angoscia crociana, mitigata da quella rigorosa etica del lavoro che Croce non abbandonò mai fino agli ultimi giorni della sua esistenza, perché è opportuno parlare di disperazione per Schmitt?

A nostro avviso, sarebbe utile volgere lo sguardo al quadro geopolitico mondiale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. A seguito del primo conflitto, il rammarico di Schmitt era dipeso, come già si è detto, dalla consapevolezza di un ridimensionamento dello Stato europeo e dalla conseguente dissoluzione dello jus publicum europaeum. Il contesto al quale Schmitt guardava con maggiore attenzione, però, era quello tedesco, segnato dopo la fine del conflitto da profonde instabilità interne e da una significativa crisi sul piano della politica estera. La Germania usciva sconfitta, segnata dalle sanzioni delle potenze vincitrici. Per utilizzare un linguaggio propriamente schmittiano, era stata trattata da inimicus e non da hostis. Schmitt, nel 1933, aveva aderito al nazionalsocialismo e, nel 1941, in piena Seconda guerra mondiale aveva teorizzato la sua già citata «dottrina dei Grandi Spazi». L’assimilazione, in questa teoria, tra Grandi Spazi e Impero del Reich, se letta alla luce dell’adesione al nazismo, portava il pensatore tedesco a «parlare della Germania pretendendo di parlare a nome dell’Europa», lasciando intendere come, dal suo punto di vista, «il cuore europeo sarebbe stato tedesco»[50]. È evidente, da questo punto di vista, come lo sguardo di Schmitt, a differenza di quello crociano, «sempre attento a distinguere tra un legittimo patriottismo politico e l’individuazione dell’opera comune della civiltà europea»[51], appaia orientato a consolidare un nesso Europa-Germania che restituisce alla nostra analisi un ulteriore elemento di differenziazione.

Il secondo dopoguerra, caratterizzato per Schmitt anche dall’esperienza del carcere, avrebbe fatto emergere una realtà politica sempre più post-statuale, giocata sul bipolarismo Est-Ovest, alla quale, secondo l’interpretazione di alcuni studiosi, il giurista di Plettenberg non avrebbe saputo rispondere efficacemente nella pars costruens del suo pensiero[52], restando comunque ancorato a quella dimensione statuale eurocentrica che lo rendeva, per sua stessa ammissione, l’ultimo rappresentante di uno jus publicum europaeum ormai concluso.

  1. B. Croce-K. Vossler, Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, a cura di E. Cutinelli Rèndina, Napoli, Bibliopolis, 1991, p. 359.
  2. «Ho letto per intero la prolusione dello Heidegger, che è una cosa stupida e al tempo stesso servile. Non mi meraviglio del successo che avrà per qualche tempo il suo filosofare: il vuoto e generico ha sempre successo. Ma non genera nulla. Credo anch’io che in politica egli non possa avere alcuna efficacia: ma disonora la filosofia, e questo è un male anche per la politica, almeno futura»: ivi, pp. 361-62.
  3. «Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a un Proust cattedratico, egli che nei suoi libri non ha mai dato segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia, dell’etica, della politica, della poesia, dell’arte, della concreta vita spirituale nelle sue varie forme […] oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità. […] E così si appresta a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia, senza con ciò recare nessun sussidio alla soda politica […]»: B. Croce, recensione a M. Heidegger, Die Selbstbehauptung der deutschen Universität, in «La Critica», 32, 1934, p. 69.
  4. E. Sferrazza Papa, Linguaggio originario e pensiero dello spazio in Carl Schmitt, in «Rivista di filosofia», 2 (2018), pp. 245-64: 246.
  5. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Id., Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 2021, p. 167.
  6. Ivi, p. 168, corsivo mio.
  7. Cfr. C. Schmitt, Legalità e legittimità, in Id., Le categorie del ‘politico’, op. cit., pp. 211-44. Qui Schmitt esprime la propria preferenza per lo Stato governativo, in cui si fissa chiaramente la differenza tra il concetto dinamico di decisione e quello statico di norma. Può essere interpretata come una preliminare definizione di nomos.
  8. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Le categorie del ‘politico’, op. cit., p. 175.
  9. R. Viti cavaliere, Progresso, in Lessico crociano, a cura di R. Peluso, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2013, pp. 5-16: 6.
  10. C. Altini, Croce e il concetto di progresso, in Croce e Gentile, URL: https://www.treccani.it/enciclopedia/croce-e-il-concetto-di-progresso_%28Croce-e-Gentile%29/ (ultimo accesso: 23 gennaio 2023).
  11. C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 29.
  12. Cfr. C. Resta, Stato mondiale e nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Reggio Emilia, Diabasis, 2009.
  13. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, in Id., Le categorie del ‘politico’, op. cit., p. 138.
  14. R. Viti Cavaliere, Progresso, op. cit., p. 9.
  15. A. Orsucci, Politica e ‘alta politica’: Croce e la Germania, in Croce e Gentile, URL: https://www.treccani.it/enciclopedia/politica-e-alta-politica-croce-e-la-germania_%28Croce-e-Gentile%29/ (ultimo accesso: 23 gennaio 2023).
  16. B. Croce, Pagine sulla guerra, in Id., Pagine sparse. Volume 2, Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1919, p. 253. Dal 2019 anche nell’Edizione Nazionale Bibliopolis: L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, a cura di C. Nitsch.
  17. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’ cit., pp. 111-19.
  18. Cfr. B. Croce, Per la storia della filosofia della politica. Noterelle, in Id., Etica e politica, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1994.
  19. C. Galli, Elementi di politica, in Croce e Gentile, URL: https://www.treccani.it/enciclopedia/elementi-di-politica_%28Croce-e-Gentile%29/ (ultimo accesso: 23 gennaio 2023).
  20. C. Galli, Genealogia della politica…, op. cit., pp. 82-83.
  21. Ibidem.
  22. B. Croce, La fine della civiltà, in La fine della civiltà. L’Anticristo che è in noi, a cura di I. Bartoletti, Brescia, Morcelliana, 2022, p. 13.
  23. R. Viti cavaliere, Progresso, op. cit., p. 12.
  24. B. Croce, La concezione liberale come concezione della vita, in Id., Etica e politica, op. cit., p. 332.
  25. La citazione è tratta da T. Visone, Europa, in Lessico crociano, op. cit., pp. 5-15: 10.
  26. B. De Giovanni, Libertà e vitalità. Benedetto Croce e la crisi della coscienza europea, Napoli, Il Mulino, 2018, p. 18.
  27. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1991, pp. 57-77.
  28. Cfr. G. Sasso, Ripensando la storia d’Europa, in Croce e Gentile, URL: https://www.treccani.it/enciclopedia/ripensando-la-storia-d-europa_%28Croce-e-Gentile%29/ (ultimo accesso: 23 gennaio 2023).
  29. I. Bartoletti, Benedetto Croce e il liberalismo religioso, postfazione a B. Croce, La fine della civiltà…, op. cit., p. 73.
  30. G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 395.
  31. B. De Giovanni, Libertà e vitalità…, op. cit., p. 111.
  32. C. Schmitt, Terra e Mare, a cura di A. Bolaffi, Milano, Giuffrè Editore, 1986, p. 63.
  33. Cfr. R. Cavallo, Diritto e politica nel pensiero di Carl Schmitt. Un’ipotesi interpretativa, in «Annuario de Facultate de Dereito de Universidade da Coruna (Revista jùridica interdisciplinar internacional)», 12 (2008), pp. 185-97.
  34. «Nomos significa prima di tutto l’appropriazione. […] In seconda istanza, l’azione e il processo del dividere e del distribuire, un giudizio e il suo risultato. […] Nemein significa in terzo luogo coltivare/produrre. È questo il lavoro produttivo che normalmente è fondato sulla base della proprietà». C. Schmitt, Appropriazione/divisione/produzione, in Id., Le categorie del ‘politico’, op. cit., pp. 297-98.
  35. C. Galli, La politica, lo spazio, la guerra, in «Gnosis»; URL: https://gnosis.aisi.gov.it/gnosis/Rivista68.nsf/ServNavig/68-23.pdf/$File/68-23.pdf?OpenElement (ultimo accesso: 23 gennaio 2023).
  36. M. Boemio, L’Europa in Carl Schmitt come spazio della misura, in Aporie dell’integrazione europea: tra universalismo umanitario e sovranismo, a cura di A. P. Ruoppo e I. Viparelli, Napoli, FedOA – Federico II University Press, 2021, pp. 115-28: 122.
  37. «[…] fare in modo la guerra diventasse in tutto rigore una guerra tra Stati sovrani europei, che essa fosse statalmente autorizzata e statalmente organizzata, tutto ciò fu un’impresa europea»: C. Schmitt, Il Nomos della Terra nel diritto internazionale del jus publicum europaeum, Milano, Adelphi, 1959, p. 164.
  38. Cfr. R. Cavallo, L’Europa tra nomos e polemos, Torino, Utet, 2020.
  39. M. Boemio, L’Europa in Carl Schmitt come spazio della misura, op. cit., p. 125.
  40. «Per Croce […] il modello universalistico e civilizzatore, intrinseco alla storia europea, si era scontrato con l’imbarbarimento di quella vitalità-potenza da cui tutto nasceva, e da cui sgorgava la stessa libertà, e la lotta sarebbe stata decisa nello scontro tra le ‘potenze del fare’ che si chiamano vitalità e moralità»: ivi, p. 126. Sul tema della vitalità, cfr. G. Desiderio, Vitalità, in Lessico crociano, op. cit., pp. 5-12, e G. Sasso, La riflessione sulla civiltà europea dell’ultimo Croce, in Atti del Convegno del Senato della Repubblica (20 novembre 2002), Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2003, pp. 37-56.
  41. Cfr. M. Visentin, Croce e la categoria della vitalità, in Croce e Gentile; URL: https://www.treccani.it/enciclopedia/croce-la-categoria-della-vitalita_%28Croce-e-Gentile%29/ (ultimo accesso: 23 gennaio 2023).
  42. «Ora nella difesa che si è dovuto ripigliare, della non più riverita e indiscussa libertà, era necessario agli sforzi pratici e alle asserzioni passionali unire per sostegno e fondamento la vigorosa affermazione e dimostrazione logica, la teoria speculativa della libertà; e a questo io ho inteso in modo precipuo nei miei ultimi due libri filosofici: La Storia come pensiero e come azione e Il carattere della filosofia moderna». La citazione è tratta da B. De Giovanni, Libertà e vitalità…, op. cit., p. 14.
  43. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1989, p. 70.
  44. Ivi, p. 73.
  45. G. Cacciatore, Vita, in Lessico crociano, op. cit., pp. 5-22: 5.
  46. «La prima lunga ombra dello jus publicum europaeum era venuta da Occidente. Con la crescita del potere degli Stati Uniti venne pure in luce il loro caratteristico oscillare, cioè il loro non sapere decidersi tra il chiaro isolamento, dietro una linea di separazione tracciata rispetto all’Europa [riferimento alla Dottrina Monroe del 1823] e l’intervento universalistico-umanitario in tutto il globo»: C. Schmitt, Il Nomos della Terra, op. cit., p. 288.
  47. Ivi, p. 287.
  48. Carlo Galli ha sintetizzato i fattori della dissoluzione dello jus publicum europaeum nell’affermazione dell’universalismo mediante alcuni concetti chiave «[…] razionalismo, individualismo, potenza tecnica, moralismo e normativismo, [che] hanno in comune l’indeterminatezza, ossia il fatto che per la loro azione ogni differenza ordinativa si perde in uno spazio liscio e potenzialmente unificabile»: C. Galli, Lo sguardo di Giano, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 141.
  49. M. Darchini, Carl Schmitt a Norimberga – Darchini legge Schmitt, in «Storica: rivista quadrimestrale», IX, 25-26, 2003, pp. 329-37: 331.
  50. M. Boemio, L’Europa in Carl Schmitt come spazio della misura, op. cit., p. 127.
  51. T. Visone, Europa, op. cit., p. 6.
  52. Cfr. V. Antoniol, Al crepuscolo della statualità: Carl Schmitt e lo spettro di Benito Cereno, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1 (2018), pp. 53-62.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

Genre Paintings, Ceiling Frescoes

Author di Thomas Pavel

At Simona Carretta’s kind invitation, I reread Milan Kundera’s The Art of the Novel[1] looking for affinities between Kundera’s own writing and the art of painting. These affinities are not as explicitly emphasized as the musical ones[2], perhaps because painting and sculpture rely on spatial perception, while literary narratives develop in time. One can still look for them starting from Kundera’s idea that «[a]ll novels, of every age, are concerned with the enigma of the self», as he formulates it in his dialogue with Christian Salmon included in The Art of the Novel (p. 23).

By acting, Kundera argues, a human being intends to show who he / she is and, in Kundera’s terms, to distinguish himself / herself from others and become an individual. In novels, characters do not always recognize themselves in their actions, since most often these lead to unexpected consequences, as happens to Don Quixote in Cervantes’s visionary novel of adventures and, later, to the protagonist of Denis Diderot’s Jacques le Fataliste, whose initial amorous escapade leads him to join the army where he gets wounded in the knee and, consequently, would limp for the rest of his life. Similarly, I would add, when the main character in Madame de Lafayette’s Princess of Clèves confesses to her husband her infatuation with another man, she intends to affirm her marital loyalty, but unfortunately a sequence of mishaps that follow her confession ends in her husband’s death. Do paintings convey a similar message? Not necessarily. Whereas the sequence of actions a novel narrates may not fully clarify the nature of the protagonist’s self, the portraits painted by Italian Renaissance artists like Leonardo, Titian, Tintoretto, as well as those of the Northern painters Roger van de Weyden, Holbein, Quinten Massys, distinctly convey the personality and state of mind of their models.

But if in literary narratives the self «is not to be grasped through action, then where and how are we to grasp it?» Kundera wonders, his answer being that at some point novel writers were «forced to turn away from the visible world of action and examine instead the invisible interior life» (p. 24). In Samuel Richardson’s epistolary novels Pamela and Clarissa, the characters patiently describe their feelings in the smallest detail. Like Madame de Lafayette and Diderot, Richardson portrays the power of love, be it chivalrous or less honorable, but he gives precedence to the protagonists’ self-description, as would later do Goethe, Choderlos de Laclos, Benjamin Constant and Stendhal. Similarly, some painters captured the undisclosed vibrations of their models’ souls, as did Vermeer and Rembrandt, for instance, and numerous nineteenth-century European and North American artists.

In Marcel Proust and James Joyce’s works, Kundera continues, the interest in the characters’ inner life reaches its highest point when Proust evokes the resonances of “lost time” and Joyce’s «great microscope manages to stop, to seize, [the] fleeting instant and makes us to see it» (p. 25). Unfortunately, by insisting on each and every detail, the close look practiced by these two writers ends up missing the specificity, the uniqueness of the individuals it depicts. Moreover, in Joyce’s case love, still present, is barely visible. Consequently, Kundera states, «[t]he quest for the self has always ended, and will always end, in a paradoxical dissatisfaction» (p. 25). In the same way, twentieth-century painters became so interested in formal games that the people and scenes they painted often became indecipherable.

It is in Franz Kafka’s The Trail and The Castle that Kundera finds an alternative approach, for which it might be difficult to find a correspondent in visual arts. Kafka, he observes, never mentions more than the initial K. of the main character’s name, never describes his physical appearance, his past life, and his interests. K. is always «absorbed by the situation he finds himself trapped in and nothing that might refer beyond that situation […] is revealed to us» (p. 26)[3]. Rather than follow the older examples of Richardson, Constant, Stendhal or Proust, Kundera’s own novels, not unlike those of Kafka, emphasize the “trap” in which human life is caught, especially in the stormy Central and Eastern Europe between and after the two World Wars, when human beings were “more and more determined by external conditions, by situations that no one can escape and that more and more makes [them] resemble each other” (p. 27).

Under such conditions, how can a writer patiently gaze inside his characters and grasp the profile of their unique selves? To describe inner feelings in detail, in the manner of Richardson or Proust would make less sense than, quite differently from Kafka, to apprehend the “existential code” (as Kundera calls it) of each character’s life, the personal themes that point to his / her main features, dreams and worries, as, for example, the body, the soul, the vertigo, the weakness, the idyll, and the Paradise, in the case of Tereza, the delicate, tolerant spouse of unfaithful Tomas, in The Unbearable Lightness of Being, published in 1984 (p. 29).

This approach allows Kundera to reflect on the feelings his characters experience when they interact with each other. In Life is Elsewhere (1973), the young, inexperienced Jaromil «is out walking with a girl who suddenly lays her head on his shoulder». As the author tells his readers, this was the happiest event the young man experienced up to this point in his life and, to explain Jaromil’s attitude, he adds that «[a] girl’s head meant more to him that a girl’s body». It doesn’t mean that the young man wouldn’t have been happy to look at her body, but, as the author’s comment continues, «he didn’t long for the nakedness of a girl’s body; he longed for a girl’s face lighted by the nakedness of her body» (p. 30). An early twentieth-century painting suddenly comes to mind, since this is how the smiling, naked Eve peacefully rests her head on Adam’s shoulder in Gustav Klimt’s Adam and Eve (1917/1918).

Trying to name this attitude, the writer proposes “tenderness”. How to define it? Not by telling readers what happens in Jaromil’s mind, but by showing them how he, the author, understands and labels the young character’s attitude. The tenderness he portrays is thus described as the creation of «a tiny artificial space in which it is mutually agreed that each would treat the other like a child» (pp. 30-31). Notice that this account of tenderness differs from the usual definitions of the term as ‘the quality of being gentle, loving, or kind’ (Cambridge Dictionary) or ‘a tendency to express warm, compassionate feelings’ (Century Dictionary). By describing tenderness as a scene rather than a notion, a scene that involves two naked characters who gently rest against each other in an intimate space, the author, not unlike a painter, imagines and narrates how Jaromil and the girl who walks next to him would possibly act.

The enacting of tenderness does not actually take place in Life is Elsewhere, yet it belongs to the novel’s ambiance, given that, as Kundera explains in his conversation with Christian Salmon, whereas historians write «about events that have taken place […, a] novel examines not reality but existence», that is «the realm of human possibilities, everything that man can become, everything he’s capable of» (pp. 42-43). Novelists, he argues, draw maps of existence or, rather, maps of its possibilities. Quoting Martin Heidegger’s dictum that human existence is “being-in-the-world”, Kundera reminds us how his novels pay particular attention to the characters’ close dependency on the time and space in which they live. In The Joke (1967), which takes place in Czechoslovakia under the Stalinist leadership of the early 1950s, the main character, young Ludvik, is excluded from the university during a meeting at which he sees all his friends raise their hands to approve the exclusion. Since Ludvik is certain that they would also have voted to hang him if they had been required to do so, he defines a human as «a being capable in any situation of consigning his neighbor to death» (p. 37).

The Unbearable Lightness of Being takes place almost two decades later, during the occupation of Czechoslovakia in 1968 by the armies of the Soviet Union and of some of its allies. The Czech communist leader Alexander Dubcek, considered guilty for having promoted a version of socialism with a human face, is arrested and sent to Moscow to negotiate with the Soviet leader Leonid Brezhnev. When Dubcek returns home and must announce over the radio the pro-Soviet results of these negotiations, he is still terrified, gasps for breath and makes long pauses, cut in time by radio technicians. Weakness, Kundera comments, is a general feature of human existence that arises when human beings face superior strength[4]. Just as Dubcek was afraid of Brezhnev, Tereza, the female character of the novel is weak and defenseless in the face of her husband Tomas’s infidelities. Private, daily interactions and historical conflicts rely on similar existential features. Kundera, one may infer, does not worship the goddess of History (with capital H), whom so many rulers and thinkers had held in the highest regards. For him, human interactions, whatever their span and scope might be, rely on the same set of existential features, all being possible topics of the novel. Yet, concerning his portrayal of totalitarian systems, I’m not sure I can suggest a corresponding set of paintings.

His characters, however, are also “in-the-world” in a less terrifying way, since this expression means that they constantly interact with other human beings, some being fully identified and living close to them: parents, children, husbands, wives, friends, colleagues, and bosses; while others exerting their influence anonymously and at a distance: past and present geniuses, political parties, leaders, media, police. To “be-in-the-world” is to intermingle with those who are immediately, undeniably around us, but also to undergo the more distant pressure of traditions, cultural ideals and clichés, collective aspirations, ideological trends, propaganda, and fashions. And both meanings have well-known painterly correspondents.

At the beginning of Life is Elsewhere, for instance, readers find out that Jaromil’s parents asked themselves whether the future poet was conceived at a friend’s apartment, on a bench in a public square, or at a romantic spot not far from Prague. Jaromil’s mother is convinced that her son could only have been conceived during a sunny morning under the cover of a big rock. Her “existential code” reimagines the actual event in accordance with the romantic stereotype of free love surrounded by a majestic landscape. Subsequently, she would convert her ordinary experiences into revelatory events by calling upon the patriotic pride, the religion of art, and the blind devotion to one’s progeny. As for Jaromil, he would grow up and succeed in life by being encouraged on the one hand by his mother’s blind trust in his poetic genius and on the other hand by his time’s inquisitorial political stereotypes.

By emphasizing the characters’ intoxication with imaginary ideals, Kundera’s novels differ from Kafka’s exclusive interest in the situation that traps his main character K. and rejoin instead the much older parody of blind imitation of ideals depicted by Cervantes in Don Quixote, whose half-mad main character is convinced that he must bring back to life the heroic models of the medieval errant knights[5]. Like Cervantes’s hero, «set forth from his house into a world he could no longer recognize» (p. 6), Kundera’s The Art of the Novel vindicates the ironic portrayal of “being-in-the-world” by asserting that in the twentieth century the world has grown alien to the older spirit of continuity and cross-temporal dialogues. To survive and advance, he asserts, the novel must turn «against the progress of the world» (p. 19). The future, Kundera agrees, would pass judgement on his choices. But since he does not crave for the approval of the future or worship abstract notions like God, country, people, or the individual, he confesses that in fact his true attachment is the legacy of Cervantes who, like Kundera, patiently depicted Don Quixote’s and his square Sancho Panza’s small surroundings and staggering ideals.

Thus, Kundera’s narrative art invites us to remember two kinds of painterly achievements. On the one hand, the actual life of his characters evokes the genre paintings that depict everyday interactions, as do Pieter de Hooch’s friendly Interior with Figures (1664) and Company in Garden (1664) or, in a darker fashion, Wilhelm Leibl’s Dachauerin mit Kind (1875) and Der Zeitungleser (1891)[6]. On the other hand, both Jaromil and his mother transfigure their daily life as if it was nothing less than an early modern ceiling fresco, resembling, say, Pietro da Cortona’s spectacular Ceiling Fresco with Medici’s Coat of Arms (1648-49)[7]. And just as, to admire Cortona’s beautiful fresco, visitors at the Palazzo Pitti must turn their heads up, thus losing sight of what goes on around, Kundera’s characters most often neglect what happens next to them, instead letting themselves be enthralled by splendid, dizzying archetypes.

  1. Transl. by Linda Asher, New York, HarperCollins, 1998. All quotations will be taken from this edition.
  2. As examined by Simona Carretta, Il romanzo a variazioni, Milano, Mimesis, 2019.
  3. On Kundera’s links with Kafka, see Philippe Zard, « Le territoire où le jugement moral est suspendu » ? Penser « l’art du roman » avec (après) Milan Kundera, presented at the colloque Sagesse du roman? L’Héritage critique de Milan Kundera (2021), in http://www.revue-silene.com/f/index.php?sp=comm&comm_id=302.
  4. For an overall view of this topic, see François Ricard, Le Roman de la devastation. Variations sur l’oeuvre de Milan Kundera, Paris, Gallimard, 2020.
  5. See Guiomar Hautcoeur, “Kundera, lecteur de Cervantes”, in Sagesse du roman? L’Héritage critique de Milan Kundera (2021), http://www.revue-silene.com/f/index.php?sp=comm&comm_id=299.
  6. Well discussed in Christopher Brown, Scenes of Everyday Life: Dutch Genre Painting, London, Faber and Faber, 1984 and Marianne von Manstein & Bernhardt von Waldkirch, Wilhelm Leibl: Gut sehen ist alles!, München, Hirmer Verlag, 2019.
  7. The classic study being Malcolm Campbell, Pietro da Cortona at the Pitti Palace. A Study of the Planetary Rooms and Related Projects, Princeton, NJ Princeton University Press, 1977.

(fasc. 48, 11 luglio 2023)

Le Variazioni Kundera

Author di Lakis Proguidis

Se prendiamo in esame l’insieme degli studi, dei trattati, dei commenti critici e dei saggi dedicati alla letteratura e pubblicati in Europa negli ultimi cinque o sei secoli, è giocoforza constatare che il romanzo non è mai stato considerato, a livello della percezione e dell’analisi estetica, come un’arte indipendente. Ovviamente ho solo una conoscenza parziale del suddetto insieme. E, certo, esistono degli studi che vanno contro lo spirito dominante in questo ambito. Ma il loro impatto è stato e resta sempre insignificante rispetto alla tendenza generale. Tendenza che, cosa sorprendente, si scontra con il buon senso, con il sentimento comune più diffuso: il romanzo è la grande arte dell’Europa moderna, come la tragedia è stata la grande arte dell’antica Atene. A partire da Rabelais e Cervantes, l’albero del romanzo non ha mai smesso di crescere, fiorire e dare i suoi frutti mirabolanti su tutto il suolo europeo e, dalla fine del XIX secolo, sul resto della Terra. Triste constatazione: l’Europa ignora la sua unica “espansione” di cui dovrebbe andare fiera.

Si possono ipotizzare diverse cause per spiegare lo scarto tra riflessione estetica e pratica nell’ambito del romanzo. Ai miei occhi, la causa più semplice, ossia la più umana, è quella del tempo. Se c’è bisogno di tempo, molto tempo direbbe Bachtin, perché un’arte maggiore (la poesia, la pittura ecc.) consolidi il suo terreno, formi il suo nucleo estetico e inauguri la sua storia, quanto altro ne serve perché l’animo colga e concettualizzi la portata artistica e le ripercussioni sull’immaginario della suddetta arte! Cinque, sei secoli? Sì, nulla di sorprendente. La riflessione e il pensiero estetico non riescono a sconvolgere tanto velocemente i gusti e le abitudini. Tanto più che, trattandosi del romanzo, la novità estetica non consiste in una semplice innovazione formale. Con l’arrivo del romanzo ciò che cambia è il nostro regime estetico: passiamo dal regime estetico mimetico (da mimesis), ossia dal regime che ha prevalso per tutte le arti durante l’Antichità greco-latina e durante il Medioevo, dal regime che ha formato le preferenze artistiche di vaste popolazioni per ventidue o ventitré secoli, al regime romanzesco[1].

Questa mancanza per l’arte del romanzo di approcci teorici ad essa confacenti, a parte, ripeto, qualche brillante eccezione, come ad esempio tra le più recenti Le vite del romanzo[2] di Thomas Pavel, avrebbe potuto perpetuarsi all’infinito, se l’arte non si fosse incaricata da sola di ristabilire l’ordine. L’arte o l’artista; è lo stesso. Verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso dalla confraternita dei grandi romanzieri si è levata una voce, quella di Milan Kundera, per sostenere che bisognava smetterla di sottovalutare l’arte che ha plasmato quasi da sola l’uomo dei Tempi moderni. Kundera non è stato né il primo né l’unico romanziere ad aver compreso ed espresso il valore insostituibile della sua arte.

Tutti i grandi romanzieri hanno sottolineato, in una maniera o in un’altra, la singolarità estetica delle loro opere letterarie. Kundera ha fatto qualcosa in più. In un momento storico in cui la diffidenza verso il romanzo, incrementata dalla carenza cronica di difese della sua autonomia estetica, cominciava a insediarsi con effetti durevoli nelle menti dei critici come degli scrittori, la voce di Kundera è risuonata come il segno di una riscossa salutare. Kundera non si è accontentato di difendere la propria arte. La sua intera opera incarna e illustra la ragion d’essere di questa arte. Ci ritornerò.

La lotta proromanzesca di Kundera, lotta condotta su più fronti (creazione, riflessione, commenti critici, insegnamento e vari interventi pubblici), ha contribuito a scalfire in un qualsiasi modo l’indifferenza della gente verso l’estetica del romanzo? Per niente affatto. I docenti universitari continuano a tenere i loro corsi sui testi letterari, i critici a ruminare dei cliché sulla scrittura e gli editori a pubblicare romanzi a palate. Possibile? È certo possibile ignorare delle voci solitarie che hanno scarsa influenza al di fuori della cerchia dei pochi che condividono i loro interessi; ma Kundera è tradotto in quasi tutte le lingue del mondo e la sua opera è presente nella sua totalità in una trentina di paesi. È possibile che la sua voce resti inascoltata? Certo. Per forza. Le orecchie sono allenate a captare esclusivamente i richiami a questioni molto più importanti, a quanto sembra, rispetto alla sorte dell’arte del romanzo.

Il motivo per il quale la voce di Kundera è rimasta inascoltata è che è stata emessa in un’epoca di estrema politicizzazione. Politicizzazione che continua ai nostri giorni a soggiogare le menti – come l’immaginario – a un livello ancora più catastrofico di quello che ha sperimentato Kundera durante gli anni della sua formazione artistica, ossia gli anni Cinquanta e Sessanta (non confondiamo politicizzazione e vita politica: stricto sensu, troviamo la politicizzazione dove non c’è vita politica). Kundera ha avvertito molto presto il pericolo. Potremmo dire da dentro. Questo perché la sua giovinezza e i suoi primi passi come scrittore sono stati segnati, come per tutti a quel tempo, dalla sua obbedienza entusiastica ai diktat dell’homo politicus. Ma, da quando ha messo piede sul territorio stabile del romanzo, da quando ha preso coscienza della sua vena artistica, a partire, diciamo, dalla pubblicazione dello Scherzo nel 1967, non ha mai smesso di rivendicare il primato del suo lavoro di romanziere su tutto il resto: patria, nazione, partito politico; investimenti ideologici, sociali, geopolitici; dissensi ecc. Un romanziere atipico, tuttavia: una delle sue prime opere è stata un saggio letterario, L’arte del romanzo, incentrato su Vladislav Vancura e pubblicato nel 1953[3]. Mi sembra difficile trovare un altro romanziere del calibro di Kundera che abbia avviato la sua carriera con una riflessione approfondita sulla sua arte.

Fatica sprecata. Nonostante Kundera non perdesse occasione di mettere i puntini sulle i riguardo a ciò che lo interessava, nonostante i suoi ripetuti sforzi per attirare l’attenzione dei critici, dei giornalisti e del pubblico verso le sue preoccupazioni estetiche, il demone della politicizzazione arrivava sempre con una battuta d’anticipo. Quarant’anni di malintesi! Quarant’anni di chiarimenti inutili. Alla fine Kundera ha preferito chiudersi nel silenzio. Senza, tuttavia, aver prima di tutto garantito la perennità del suo apporto all’eredità di Cervantes.

Œuvre (Opera [N.d.T.]) è il titolo che Kundera ha scelto per le sue opere riunite in due volumi della Pléiade[4]. Pubblicate a cura di François Ricard nel 2011, sono state ripubblicate nel 2016 al fine di includere La festa dell’insignificanza, uscito nel 2014. La Pléiade “Kundera” include la sua raccolta di racconti, i suoi dieci romanzi, una delle sue pièce di teatro, i suoi quattro saggi, e la prefazione e la «Biografia dell’opera» redatte da François Ricard. Così, esiste in Francia, e solo in Francia, il corpus kunderiano come l’autore lo ha voluto alla fine della sua carriera. Da questo insieme sono deliberatamente esclusi tutti i suoi scritti d’occasione di interesse culturale, storico o politico, così come alcune delle sue opere letterarie. È allora questo corpus che deve studiare chi voglia comprendere il particolare apporto di Kundera all’arte del romanzo. E questo basta e avanza. Per la semplice ragione che, se tra gli scritti scartati da Oeuvre ci fosse qualcosa di importante per l’arte del romanzo, sul fronte della creazione o della riflessione, Kundera sarebbe il più idoneo a saperlo (ho avuto la fortuna di seguire per tutta la sua durata il seminario sui grandi romanzieri centroeuropei che Kundera ha svolto all’École des Hautes Études en Sciences Sociales dal 1981 al 1994: tutto ciò che Kundera ha detto di essenziale nei suoi corsi è stato rielaborato e ripreso nei suoi quattro saggi).

È stupefacente constatare l’indifferenza, se non proprio la diffidenza, espressa dal mondo letterario francese – una volta placato il brusio mediatico –, verso la decisione presa da Kundera di separare i suoi scritti validi da quelli non validi. Una decisione che ha imposto, questo va considerato, contro una tradizione editoriale che ha sempre voluto che i glossatori si vendicassero degli autori illustri. Ciò che conta, lo ripeto, è che Oeuvre esiste. E ciò che colpisce immediatamente è la parola. Perché Oeuvre, al singolare, e non “Opere scelte” o “Opere complete”? Perché la parola è rivelatrice della “forma” che Kundera ha scelto al fine di preservare il suo contributo personale alla storia e all’estetica del romanzo.

Oeuvre è una trilogia a due autori preceduta da una prefazione in cui François Ricard presenta l’opera. Il primo «libro» contiene, nell’ordine cronologico, Amori ridicoli, i dieci romanzi e il dramma teatrale che, sebbene scritto nel 1972, è collocato alla fine. Il secondo «libro» contiene i quattro saggi. Il terzo «libro» è la «Biografia dell’opera» di François Ricard. Questo «libro» concepito e scritto da una terza persona è destinato – che non se ne abbiano a male i biofili del mondo intero – a spostare il centro dell’interesse dalla vita dell’autore alla sua creazione. Tuttavia, in questo terzo libro di Oeuvre nulla è scartato. Tutto ciò che è stato significativo nella vita di Kundera è scrupolosamente menzionato, datato e commentato nel suo contesto storico, politico e culturale: opere letterarie, pubblicazioni di ogni genere, interventi pubblici e dati biografici importanti. Il tutto redatto nella prospettiva di far apparire più chiaramente possibile la costruzione di Oeuvre, libro dopo libro, nel corso del tempo.

Chiaramente François Ricard non è un terzo neutro. Suppongo che Kundera lo abbia scelto perché, fra tutti i critici, Ricard è stato quello che ha meglio compreso e formulato il pericolo della politicizzazione che correvano le sue opere. Aggiungiamo che, oltre ai dettagli sulla pubblicazione successiva degli scritti di Kundera (senza distinzione tra libri e articoli importanti), Ricard si è preoccupato di far seguire le informazioni di carattere editoriale dall’eco che questi scritti hanno suscitato presso la critica e i media. Il bilancio globale? Accoglienza, a parte qualche eccezione, sempre entusiastica ma per delle ragioni che sono in rapporto con la doxa geopolitica, con i temi prediletti dei giornalisti, o con entrambi nello stesso momento. Così, grazie al «libro» di Ricard ci è permesso conoscere tutti gli scritti di Kundera, le condizioni della loro produzione come della loro ricezione. Kundera non ha nascosto o negato nulla. Ma, dal magma costituito dai suoi tentativi artistici, i suoi impegni politici, i suoi gusti, le sue letture e i suoi successi inframmezzati ai diversi episodi della sua vita personale come li ha riportati François Ricard rispettando la cronologia, Kundera è riuscito a estrarre in Oeuvre ciò che a suo giudizio doveva essere recepito dai posteri.

Ritorno alla mia idea che l’intera opera di Kundera incarna e illustra la ragion d’essere dell’arte del romanzo. E rettifico: non l’“intera opera” ma Oeuvre. È grazie a Oeuvre che il progetto proromanzesco di Kundera si svela in tutta la sua chiarezza e in tutta la sua coerenza. Perché è in Oeuvre e da nessun’altra parte che si concretizza in maniera vistosa il connubio, cercato fino all’ossessione, intensamente desiderato da Kundera, tra il sensibile e il cognitivo, tra lo slancio creatore e la concettualizzazione, tra la forma artistica (infinitamente variabile) e l’intelletto (che dipende sempre da certi parametri del pensiero). Non si tratta solo dell’abitudine ben nota di Kundera di integrare nei suoi romanzi delle parti saggistiche: questa non è che la punta dell’iceberg. In Oeuvre, per ciò che concerne il suo “ideale” artistico, ci troviamo dinanzi a qualcosa di molto più significativo delle sue trovate formali per così dire secondarie. Questa coabitazione, questa giustapposizione di due forme letterarie nello stesso libro, romanzo e saggio, attesta il fatto che Kundera non può concepire la sua creazione artistica staccandola dalla sua riflessione sull’arte in generale e sul romanzo in particolare e, di contro, che egli non vorrebbe che le sue riflessioni fossero dissociate dalle sue conquiste nel campo dell’arte. Ciò ci autorizza a immaginare che per Kundera il sensibile è solo un’altra forma del cognitivo, una metamorfosi, una variante e viceversa. Certo che le due forme non sono omologhe. Per passare dal cognitivo al sensibile, serve un enzima: il personaggio romanzesco. Eppure l’edificio è uno. La composizione è una. Oeuvre abbraccia con la stessa forza «romanzo» e «saggio». Questo può aiutarci a comprendere la particolare estetica di Kundera e il legame di questa estetica con il senso del romanzo.

Penso di non sorprendere nessuno se affermo che in Kundera l’ispirazione è cerebrale. Nessun’accezione peggiorativa in questo giudizio. Voglio dire che i personaggi romanzeschi kunderiani (delle «cavie», come li chiama) eseguono delle partiture (dei «temi», afferma) stabiliti in anticipo. Ciò che è miracoloso è che la loro esecuzione non è affatto cerebrale. È romanzesca dall’inizio alla fine. Si svolge tutto come se toccasse a loro provare che, una volta deposti sul terreno di sperimentazione voluto dal loro maestro, possano evolvere in un modo imprevedibile. E ci riescono a livelli magistrali. Nel senso che cominciano a vivere in noi a lungo. Si avvinghiano alla nostra esistenza con un’incredibile forza.

Prendiamo, ad esempio, il «kitsch», tema che percorre quasi tutti i romanzi di Kundera. Dopo la lettura, abbiamo imparato qualcosa di nuovo sulla sua natura? Sul piano del sapere, niente. Sul piano dell’esistenza, sì: il kitsch è intimamente legato al nostro desiderio, umano, troppo umano, di fonderci con il mondo per quel che appare. È un bene? È un male? Kundera non giudica. Conduce degli esperimenti. È facile verificare, romanzo dopo romanzo, che, nel territorio dell’esistenza, tutte le variazioni sono valide. Anche il saggio è un esperimento. Ma un esperimento senza le cavie. In Kundera “romanzo” e “saggio” si succedono come le due facce di un nastro di Möbius. O, per dirlo in altri termini, in Kundera “esistenza” e “pensiero” sono intrinsecamente legati. E allora? In cosa questa asserzione di stampo filosofico potrebbe interessare noi, lettori di romanzi?

Un’ipotesi di studio attraversa come un filo conduttore l’insieme dell’opera di Kundera (romanzesca e saggistica). Che il nostro mondo è, adoperando le sue parole, il mondo dei paradossi terminali, ossia il mondo in cui tutti i nostri valori di un tempo si rovesciano e diventano il contrario di ciò che erano. E cosa dicono le sue cavie di questo assurdo sconvolgimento? Niente. Continuano a vivere, ciascuno più o meno soddisfatto del suo accecamento, della sua ignoranza. È un bene? È un male? Non è questo il punto. In compenso, lo sperimentatore ha ancora una volta il piacere di verificare in concreto lo straordinario rigoglio esistenziale dinanzi a delle situazioni che a una prima impressione si potrebbe giudicare opprimenti.

In quest’ottica, si direbbe che Kundera non nutra altre ambizioni oltre a quella di decostruire i propri giudizi sul mondo. Potrebbe essere così, se l’autore dello Scherzo privilegiasse il ludico per il ludico con cui si dilettano gli scrittori definiti postmoderni. E forse sarebbe vero, se le amare constatazioni dell’autore dei Testamenti traditi perdessero la loro parte di verità dopo questi tentativi. No, Kundera non oppone l’esistenza al sapere. Non è la dialettica dell’esistenza e del pensiero a interessarlo. Non è alla ricerca di soluzioni. Non coltiva né lo spirito della negazione né lo spirito della resistenza. Si accontenta di accumulare le variazioni esistenziali delle sue cavie – senza offrire il minimo giudizio morale.

Qual è il senso di questa accumulazione delle diverse opzioni esistenziali? Perché Kundera insiste a immaginare delle varianti umane a partire da soggetti sui quali non si è mai smesso di ragionare – il riso, l’ignoranza, il lirismo ecc.? Qual è il significato della sua estetica della variazione? Prima di tentare una risposta, mi sembra necessario ricordare il profondo attaccamento di Kundera alla modernità, a questa esplosione artistica e culturale di carattere paneuropeo che, dopo aver debuttato prima della fine del XIX secolo, è durata fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Più che a ogni altra cosa è alla modernità che Kundera deve l’essenziale della sua sensibilità d’artista e dei suoi gusti rispetto alle altre arti. E ricordiamo anche che Kundera è stato uno dei protagonisti della Primavera di Praga (1960-1968), di quell’effervescenza creatrice in tutti i campi dell’arte e del sapere che, per la sua estensione e la sua varietà, resta ancora unica nel mondo del dopoguerra. Che si guardi, allora, verso le fonti della sua ispirazione o verso la sua attività pubblica, ciò che colpisce e che motiva Kundera è la novità. Non la novità per la novità. Ma la novità di sempre. Come quella di Rabelais e di Cervantes, ai quali Kundera ritorna a più riprese nella sua opera. La modernità di Kundera è quella di un uomo rinascimentale e di uno spirito umanista (nel principale senso della parola, quello del ritorno alle origini). La sua estetica della variazione non è un capriccio individuale. È il frutto di un felice matrimonio tra una predisposizione innata, intima, a non accontentarsi della doxa e un gaio sapere che abbraccia le conoscenze e le esperienze artistiche più variegate e lontane nel tempo e nello spazio.

Ritorno alla domanda: perché tutte queste variazioni esistenziali? Soffermiamoci sulla parola “esistenza”. Supponiamo che si tratti di un valore a cui teniamo e ammettiamo che Kundera abbia ragione, quando afferma che viviamo nel mondo in cui tutti i nostri valori volgono nel loro contrario. Qual è il contrario dell’esistenza? La morte? No, la morte è il contrario della vita. Il contrario dell’esistenza, dell’esistenza suscettibile secondo Kundera di variare indefinitamente, è l’evoluzione. Dal Petit Robert, «Evoluzione: seguito di trasformazioni nello stesso senso». Sì, il contrario dell’esistenza che viene fuori dal laboratorio di Kundera è la credenza che le cose evolvano «nello stesso senso».

E il contrario dell’evoluzione? Cosa avrebbe potuto essere il contrario del valore supremo della nostra civilizzazione, del valore strutturale della civilizzazione prodotta dai Tempi moderni (all’inizio del XVI secolo)? Ai suoi inizi, l’evoluzione non suscitava molto entusiasmo. Ma, secolo dopo secolo, non ha smesso di rafforzare la sua presa sull’immaginazione e sul pensiero fino al punto di diventare ai nostri giorni il valore assoluto, il valore al quale devono adeguarsi tutti gli altri. Questo valore di riferimento, “procustiano”, non può essere né sostituito né rovesciato. Il suo contrario? Nessuno osa immaginarlo. Giacché nessuno osa immaginare che ne sarebbe del mondo, una volta perduto il suo fondamento. È il nulla? Forse. In ogni caso, per ora, e che se ne pensi dello stato catastrofico delle nostre società, l’evoluzione resiste, «nello stesso senso». Il che contraddice la concezione kunderiana del possibile rovesciamento di tutti i valori. La concezione sì, ma non la sua arte.

Direi anche che la sua arte rappresenta il contrappunto della fase più recente dell’evoluzione, vale a dire l’impegno a tutto spiano di separare il cognitivo e il sensibile e, infine, di sottomettere tutto al potere dell’intelligenza (il punto in cui siamo adesso). Certo, l’evoluzione proseguirà il suo cammino, imperturbabile, fedele al dogma che la anima dal principio, al dogma che vuole che in ciò che concerne la vita non tutte le varianti si equivalgono. Valgono solo le vite che, sottoposte all’una o all’altra trasformazione, proseguono «nello stesso senso». Altrimenti? Altrimenti escono dal sentiero tracciato. Un fossato invalicabile separa questo dogma evoluzionista dall’universo romanzesco-saggistico di Kundera. Secondo il concetto dell’evoluzione, concetto a priori emancipato dal dato sensibile, per mantenere la rotta dello «stesso senso» bisogna procedere per eliminazioni successive. Ma, stando agli esperimenti kunderiani, nessuna vita umana va nello «stesso senso». Una volta trasposta nell’evoluzione concretamente vissuta di una situazione umana, la vita non può mai restare «nello stesso senso». Nelle sperimentazioni kunderiane tutte le varianti della vita hanno il loro posto, a tutte si deve rispetto.

L’evoluzione, mi si ribatterà, non figura tra i temi cari a Kundera. Certo che no. Ma l’evoluzione è il tema di fondo di tutta la sua arte e di tutto il suo pensiero. È il tema portante, il tema di cui non percepiamo l’esistenza se non attraverso le sue variazioni. È lo sfondo che conta. E questo sfondo resta sempre lo stesso: sfuggire allo «stesso senso». Sfuggire al kitsch che Kundera considera come «l’accordo categorico con l’essere», ossia con l’essere che evolve sempre nello stesso senso.

Tutte le arti devono la loro esistenza alla misteriosa unione del sensibile e del cognitivo. Ma nessuna arte è stata predisposta per affrontare il pericolo della loro separazione e ancora meno per esaminare la subordinazione del sensibile al cognitivo. Sono i Tempi moderni che hanno aperto la porta a questo pericolo. E sono i Tempi moderni che hanno visto nascere, come una nuova sensibilità, come un campo di riflessione da coltivare a parte, come una prospettiva umana diversa da quella dell’evoluzione, l’arte del romanzo e la sua materia prima: l’esistenza. Perché l’esistenza? Perché esistenza uguale coesistenza. È la vita che è isolabile, analizzabile e decifrabile, non l’esistenza. L’esistenza risuona sempre in un’altra esistenza. Il “tutto cognitivo” si accontenta della vita nuda, del vivente. Non l’esistenza, che resta sempre aperta all’affettività di un’altra esistenza. È nello spazio interumano che risiede l’unione del cognitivo e del sensibile. Perpetualmente in conflitto e perpetualmente inseparabili. Gli umani non vivono, coesistono. È questa tutta la verità del romanzo. L’evoluzionismo nel nome della vita ha rovinato ciò che c’è oltre – l’anima, il bello, i piaceri della vita – e si appresta a ridurre l’umano a un ammasso di ingranaggi. Il romanzo ha scommesso, dalla sua prima apparizione, sul lato inesauribile dell’esistenza. Kundera non ha fatto che riscoprire e reincarnare la ragion d’essere della sua arte, come l’hanno voluta e praticata i suoi fondatori. Con una differenza: per la storia del romanzo, ci sarà certamente un prima e un dopo Kundera. Giacché è Kundera che ha messo in luce l’anima stessa del romanzo, il suo nucleo estetico, ossia il fatto che l’evoluzione non esaurirà mai l’esistenza.

Mi immagino la soddisfazione dell’autore presentandoci la sua Opera. Si tratta insieme di una scoperta (di uno svelamento) e di un ritorno alle fonti della sua arte. Una scoperta rispetto a ciò che si annida nelle viscere del nostro mondo. E un ritorno, dato che, a conti fatti, Oeuvre non è altro che una variante delle opere polifoniche di Rabelais e di Cervantes[5].

  1. Sulla nozione di regime estetico come sul passaggio dal regime mimetico a quello del romanzo mi permetto di rinviare il lettore al mio saggio I misteri del romanzo. Da Kundera a Rabelais (Rabelais. Que le roman commence !, 2016), a cura di S. Carretta, Milano-Udine, Mimesis, 2021.
  2. T. PAVEL, Le vite del romanzo. Una storia (Lives of Novel. A History, 2013), trad. it. di D. Biagi, a cura di C. Tirinanzi de Medici, M. Rizzante, Milano-Udine, Mimesis, 2015.
  3. Si tratta di una versione precedente del saggio da cui è tratta la traduzione italiana disponibile per Adelphi, trasformato da Kundera in una riflessione sulla propria opera [N.d.T.].
  4. Il riferimento è alla collana editoriale francese edita da Gallimard che raccoglie i nomi consacrati della letteratura. Kundera è stato il primo autore vivente ad esservi stato incluso [N.d.T.].
  5. Traduzione dal francese di Simona Carretta.

(fasc. 48, 11 luglio 2023)

Spunti di pedagogia crociana nelle pagine della rivista «La Critica»

Author di Maria Federica Paolozzi

Spunti di pedagogia crociana nelle pagine della rivista «La Critica»

Se si tiene presente l’intero sviluppo del pensiero crociano, potrebbe apparire improprio e, per certi versi, azzardato, parlare in senso stretto ed esplicitamente di una pedagogia crociana, specialmente se si rileva che alla pedagogia in termini specialistici Croce non dedicò sezioni specifiche della sua opera. È pur vero che, comunque, non sono mancate voci, anche autorevoli, che hanno dedicato al tema alcuni studi, come è il caso del noto, e ancora attuale, volume di Vittorio Enzo Alfieri, Pedagogia crociana[1], e del saggio di Adelchi Attisani Pagine di pedagogia di B. Croce, in Interpretazioni crociane[2]; così come un legame evidente con la tematica pedagogica è palese nel ruolo istituzionale che Croce ricoprì come ministro della Minerva nel biennio 1920-1921 nel governo Giolitti[3]. Se, poi, si vuole rintracciare una dimensione pedagogica “implicita” (come quella che si rinviene negli exempla delle grandi opere del pensiero come nelle biografie, che rivelano sempre un indirizzo pedagogico) nella sua opera, possiamo senza dubbio affermare che quella di Croce rappresenta una grande pedagogia civile. Continua a leggere Spunti di pedagogia crociana nelle pagine della rivista «La Critica»

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

A cento anni dalla “Legge Croce” del 1922 per la tutela del paesaggio

Author di Maria Panetta

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Il tema di questa Conferenza[1] mi è stato suggerito dalle dottoresse Marta Herling e Maria Ametis (che colgo l’occasione per ringraziare nuovamente per il graditissimo invito e per l’impeccabile organizzazione dell’evento di Pollone), ma l’ho accolto con molto interesse, data anche la sua cogente attualità: Croce e il paesaggio, a cento anni dalla data assai significativa del 1922. Continua a leggere A cento anni dalla “Legge Croce” del 1922 per la tutela del paesaggio

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

Dalle tenebre alla luce. Memoria e autobiografia nel “Contributo alla critica di me stesso” di Benedetto Croce

Author di Carmelo Tramontana

Alle origini dell’autobiografia c’è un bivio: si può scegliere tra Agostino e Rousseau come modello di riferimento e in questo modo si imprimerà alla storia del genere letterario una parabola nettamente diversa. Il progetto confessionale di Agostino prevede un movimento dall’esterno verso l’interno: dalla cronologia dell’esistenza quotidiana a quella dell’esistenza spirituale, in cui il tempo è scandito in maniera diversa dal semplice susseguirsi degli istanti. Dal mondo esteriore all’anima, dall’egocentrismo alla lode di Dio, che si scopre essere insediato in interiore homine, l’autobiografia agostiniana segue la via dello sprofondamento dentro sé stessi. Il culmine di questo progetto immersivo è la scomparsa dell’individualismo esasperato, gemello neppure troppo segreto di ogni impresa autobiografica, a mano a mano che, immergendosi dentro sé stesso, l’io scoprirà Dio. Il punto più profondo dell’individualità è per l’Ipponate il luogo dove si neutralizza la tentazione solipsistica. Rousseau, che intitola allo stesso modo il suo progetto autobiografico, procede invece in direzione opposta: dall’interiorità al mondo esterno, dalla vita spirituale all’anatomia e alla cronografia dell’esistenza quotidiana. L’io russoviano si estroflette sino a coincidere con l’orizzonte della realtà esistente o escludendo dalla realtà ciò che non coincide con sé stesso: «M’impegno in un’impresa senza precedenti, e la cui esecuzione non avrà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura; e quest’uomo sarò io»[1]. Continua a leggere Dalle tenebre alla luce. Memoria e autobiografia nel “Contributo alla critica di me stesso” di Benedetto Croce

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)