Spunti di pedagogia crociana nelle pagine della rivista «La Critica»

Author di Maria Federica Paolozzi

Spunti di pedagogia crociana nelle pagine della rivista «La Critica»

Se si tiene presente l’intero sviluppo del pensiero crociano, potrebbe apparire improprio e, per certi versi, azzardato, parlare in senso stretto ed esplicitamente di una pedagogia crociana, specialmente se si rileva che alla pedagogia in termini specialistici Croce non dedicò sezioni specifiche della sua opera. È pur vero che, comunque, non sono mancate voci, anche autorevoli, che hanno dedicato al tema alcuni studi, come è il caso del noto, e ancora attuale, volume di Vittorio Enzo Alfieri, Pedagogia crociana[1], e del saggio di Adelchi Attisani Pagine di pedagogia di B. Croce, in Interpretazioni crociane[2]; così come un legame evidente con la tematica pedagogica è palese nel ruolo istituzionale che Croce ricoprì come ministro della Minerva nel biennio 1920-1921 nel governo Giolitti[3]. Se, poi, si vuole rintracciare una dimensione pedagogica “implicita” (come quella che si rinviene negli exempla delle grandi opere del pensiero come nelle biografie, che rivelano sempre un indirizzo pedagogico) nella sua opera, possiamo senza dubbio affermare che quella di Croce rappresenta una grande pedagogia civile.

In questa direzione è possibile affermare che l’azione svolta dalla «Critica» abbia avuto e abbia ancora, nel voler mantenere la prospettiva da essa indicata e realizzata, una funzione pedagogica ed educativa tra le più alte della storia della cultura italiana, ben coerente con le linee pedagogiche di matrice speculativa rintracciabili negli scritti crociani e nell’intero pensiero del filosofo: ovvero coerente con quei valori di libertà, autonomia ed emancipazione che sono anche i capisaldi di un’ideale di educazione intesa come formazione spirituale dell’uomo alla propria umanità, che si esplica attraverso l’universalità della cultura e l’individualità della coscienza critica e responsabile all’interno dello storico mondo della società e della comunità umana. Sin dai primi numeri della rivista, nel 1906, in uno scritto inserito nelle “Varietà” dal titolo Scienza ed università, tale compito ‒ quasi una missione ‒ viene attribuito come scopo della nascente rivista, allorché Croce scrive: «è necessario condurre instancabilmente la polemica, che questa rivista, per sua parte, conduce»[4].

Nel presente breve intervento, che non intende essere esaustivo riguardo al rapporto fra Croce e la pedagogia, si cercherà di offrire alcuni spunti di riflessione sulla dimensione educativa presenti negli scritti crociani comparsi nella «Critica».

Il rapporto tra Croce, la pedagogia e l’educazione nella «Critica» e in altri suoi scritti

Nei fascicoli della «Critica» che precedono la rottura tra Croce e Gentile è presente, specialmente in forma di recensioni a volumi di trattazione pedagogica, un vivace dibattito, condotto essenzialmente da Gentile e Lombardo Radice, attraverso il quale vengono esposti molti dei principi fondamentali del pensiero pedagogico che i due studiosi andranno a porre in forma rigorosa e sistematica nelle loro opere. I temi di fondo, a volte affrontati in modo aspro e polemico, come del resto è il tono di molti saggi presenti nella rivista, possono essere ricondotti, a grandi linee, all’affermazione di una pedagogia di matrice idealistica sviluppata attraverso la polemica antipositivistica e, in particolare per Gentile, a quella che oggi definiremmo la ricerca di uno statuto epistemologico della pedagogia, che il filosofo siciliano, com’è noto, riconduce interamente sotto il dominio della filosofia. Questi scritti hanno, inoltre, il non secondario merito di aprire un importante e autorevole sipario e di fornire una ricca testimonianza storica del confronto riguardo alla dimensione epistemologica della pedagogia che si svolse nei primi decenni del Novecento e che, specialmente alla luce del dibattito attuale, sembra avere rinnovata attualità.

In primo luogo, merita di essere ricordata, seppur brevemente, la questione, ripresa sulle pagine della rivista da Gentile, dell’inserimento dell’insegnamento della storia dell’arte nei programmi di istruzione secondaria[5], sulla cui occorrenza Gentile non discute, affermando come essa sia già ampiamente accreditata favorevolmente nel dibattito. Lo scritto testimonia la difficoltà di attuazione del provvedimento e presenta disparate ipotesi circa quale docente disciplinare debba assumerne l’insegnamento e per quante ore, e da sottrarre a quale attività. I problemi sollevati si prestano al confronto e non sono lontani da equivalenti questioni che di volta in volta, anche oggi, si affacciano a ogni riforma degli ordinamenti e dei programmi scolastici.

La proposta avanzata da Pasquale Papa[6] ‒ che Gentile discute ‒ consiste nell’affidarne l’insegnamento ai professori di lettere e, per non sottrarre ore all’insegnamento della letteratura, di impiegare i professori di filosofia per la revisione dell’attività di componimento. L’ipotesi offre lo spunto a Gentile per riflettere sul tema del componimento e per mettere in dubbio lo stesso valore di tale attività, in cui «s’impone a tutti i giovani d’una classe, a giorno ed ora fissa, di pensare e sentire quello che naturalmente essi non penserebbero e non sentirebbero»[7]; egli la giudica «ridotta a una ricerca della pura forma, a un’incetta di immagini ed argomenti, a una pura arte topica, allo studio della morfologia, del lessico, della sintassi, della retorica, sempre della morta astrazione, del preparato anatomico tratto dalla dissezione di quel vivo organismo che è l’umano pensiero»[8]. Un’arte che induce e abitua, continua Gentile, «all’abilità sofistica di escogitar argomenti a sostegno di tutti gli assunti e quindi all’indifferenza scettica verso la verità»[9]. Contro il componimento Gentile difende «l’inscindibile unità della forma letteraria con la sostanza del pensiero» e propone di sostituire la composizione con l’esposizione, ossia con la trasposizione in forma letteraria del contenuto concreto del pensiero per mezzo delle discipline che gli studenti hanno appreso e vanno apprendendo: in tal modo la correzione delle singole “esposizioni” avverrà collegialmente e non occorreranno ulteriori competenze né vi sarà un ulteriore carico di lavoro per i professori delle diverse discipline se non quello di conoscere, ciascuno, la propria.

A intervenire nel dibattito sulle riforme, gli ordinamenti e i regolamenti liceali e universitari è, in alcuni interventi, anche Croce, di cui vale la pena ricordare, sin dal primo volume (nella recensione a Donato Jaja, L’insegnamento filosofico universitario e il regolamento nuovo[10]), il tentativo di difesa, sempre in chiave antipositivistica, della filosofia teoretica e dell’autonomia della filosofia dalle scienze naturali a proposito delle nuove disposizioni riguardo all’insegnamento della filosofia nelle università. In tali disposizioni Croce intravede un tentativo sottile e “furbesco” di delegittimare e detronizzare, da un lato, la filosofia teoretica (con l’associarla e, in qualche modo, delimitarla, specificandola, alla logica e alla psicologia); e, dall’altro, la filosofia pratica, affiancandole la sociologia. E, in ultimo, intravede il tentativo di eliminare dai corsi di laurea in Lettere, Filologia e Storia l’obbligatorietà della filosofia teoretica per sostituirla con quella della storia della filosofia perché ‒ scrive Croce non senza una certa ironia ‒ «si tratta di storia, e la storia è rispettabile» purché sia «una storia della filosofia senza filosofia», dal momento che nei corsi suddetti, tolta l’obbligatorietà della filosofia teoretica, essa rimarrebbe tale. Tutte queste disposizioni (che secondo il filosofo non avranno forza effettiva, ma che piuttosto manifestano la crisi che vive allora la filosofia) coincidono, per Croce, con la negazione stessa della filosofia: una «nuova forma di persecuzione contro la filosofia fatta non con le carceri e i roghi», come lo stesso Croce suggerisce. La via di redenzione da tale malcostume e deriva non può che essere ‒ ed è questa una costante della rivista crociana ‒ la fiducia che la filosofia possa esser fatta salva attraverso gli individui che ad essa si dedicano per responsabilità e dovere.

Nel fascicolo del 1923, cominciato il ministero gentiliano, in due postille (L’insegnamento religioso[11] e L’abbinamento delle cattedre di storia e filosofia[12]), Croce prende una posizione favorevole, pur non facendo mancare originali appunti, nei confronti dei due provvedimenti. Nella seconda postilla, prima di riferirsi all’argomento oggetto del breve scritto, si può leggere un’accorata quanto autentica, malinconica ‒ come anche egli suggerisce ‒ descrizione dello stato di crisi in cui si trovano la filosofia e, in genere, la cultura italiana, soggiogate dalle mode e somiglianti alla vichiana “barbarie della riflessione”. Nelle prime righe si trova una testimonianza chiara ed efficace dell’evoluzione storica e antropologica nel rapido progredire della cultura di massa, ai cui mali Croce oppone la fantasia della fondazione di una “Società per gli studi eleganti”, rammaricandosi che erano allora ignorati «nomi e cose un tempo celebri» e che vi erano «vuoti mentali e culturali, dove immaginavo che ci fosse lo stesso pieno e ultrapieno che è in me»:

Sono ora studi eleganti – scrive ‒ quelli che si occupano nel raccogliere religiosamente le tradizioni locali, nel tener viva la memoria di uomini e di questioni e dibattiti che un tempo appassionarono, e la congiunta aneddotica, nel leggere libri e opuscoli che nessuno più legge o nel leggere diversamente quelli che tutti leggono o dicono di leggere; persino nell’amore e possesso del libro materialmente inteso, dell’edizione che un tempo fece testo, del libro raro e curioso, dell’opuscolo a lungo ricercato e che serve a illustrare un particolare recondito. Anche questo genere di bibliofilia, da povero letterato, sembra ora poco comune, sostituita dalla grande e lussuosa bibliofilia da americani, da milionari o da arricchiti di guerra, che quota i libri colme titoli di borsa, e li chiude come questi nelle casseforti, e spasima per gl’incunaboli, per le plaquettes, per le legature, pei libri a figure, come un tempo si collezionavano tulipani o come oggi altri colleziona (oh la stupidissima collezione, quantunque la si veda esposta perfino nel British Museum!) francobolli[13].

Suggestivo è il ritratto che Croce delinea della cultura dominante, in quel 1923, che, a paragone degli ultimi anni del secolo precedente, gli appare come «un grande quadro disegnato e dipinto nel quale mancassero mezze tinte, sfumature, e velature» e nella quale invece domina «il crudo, lo stridente, l’esagerato, lo stonato».

Prendendo di seguito a trattare dell’argomento che la nota esprime nel titolo, Croce elogia senza dubbio il provvedimento di unificare le cattedre, che ritiene:

Ottimo perché costringerà i filosofi a tuffarsi nei fatti particolari, nella cognizione della vita del genere umano, a interpretar la quale la filosofia è nata; e costringerà gli storici a ripensare ai concetti che essi adoperano nel raccontar la storia, configurandola e giudicandola nel suo carattere e nei suoi aspetti di civiltà, progresso, regresso, stato, politica, religione, cultura, arte, scienza, pensiero, e via di séguito[14].

D’altro canto, Croce scorge il rischio che tale possibile proficuo sviluppo possa tramutarsi ‒ ed è qui ben chiara la preoccupazione dell’eccessivo hegelismo e idealismo e delle filosofie della storia ‒ mercé la pigrizia, più dei filosofi che degli storici, nella compilazione e presentazione, già presente nei testi scolastici, di «esangui classificazioni», schemi e astrazioni, «movimenti di pensieri e grandi dialettiche».

Altri scritti usciti sulla rivista chiariscono meglio, comunque, il discorso pedagogico di Croce, mostrandone anche l’attualità di fondo. Il primo è il già citato Scienza ed università, apparso nel quarto volume del periodico e del quale è stata individuata precedentemente la caratteristica di fondo, che consiste nel fare appello al dovere della verità che è compito degli studiosi, missione degli intellettuali e dei professori, nei quali la funzione di promozione (e di difesa) della scienza è incarnata, materializzata, istituzionalizzata.

Il testo, pur nella sua linearità e nella chiarezza del pensiero, risulta piuttosto complesso: vi è, innanzitutto, una critica ai mali connaturati all’Università che Croce in certo qual modo giustifica allorquando, nel presentare l’argomento, si difende dall’accusa rivoltagli di «condurre una campagna contro l’università». Il filosofo argomenta affermando che vi sono mali in ogni tipo di organizzazione e che questi, se sembrano necessari perché insiti nella sua struttura, vanno comunque sempre individuati e combattuti. Croce prende le distanze sia dalle drastiche contrapposizioni all’Università, per quanto riguarda il rapporto tra questa e il progresso scientifico, facendo riferimento alla condanna assoluta dell’istituto universitario condotta da Schopenhauer (la cui posizione il filosofo analizza, tra l’altro, nel fascicolo del 1909); sia da ogni forma di cesura netta fra i due poli della relazione: Università e progresso scientifico. Si tratta, afferma Croce, di combattere non l’Università ma l’“universitarismo”; e capovolge le accuse mossegli nella difesa, persino strenua, dell’Università, della sua incontrovertibile utilità, proprio dalla deriva “universitaristica”.

Passati i tempi in cui Chiesa e Stato si contendevano il controllo pervicace sulle attività universitarie, la libertà degli studi è, a suo parere, piuttosto minacciata da «manifestazioni di interessi pratici» che hanno origini “meschine” e che si esprimono, essenzialmente, in «manifestazioni pseudoscientifiche». L’avanzare di occupazioni pseudoscientifiche, sostiene ancora Croce, è mosso dal bisogno del collocamento lavorativo, specialmente negli studenti, che rende estrinseche le ragioni della ricerca e piega le prospettive e le teorie alle mode del momento; il procedere a discapito del progresso del sapere è dovuto all’atteggiamento di difesa delle posizioni acquisite, che rimuove «ogni minimo accenno di dubbio e di discussione». Mali e problemi, questi, che ricadono sotto l’accezione di “universitarismo” e che sembrano occorrere al determinarsi di un certo tipo di società, ancora attuale: per risolverli Croce ha ben chiaro che non vi siano soluzioni estrinseche, calate dall’alto, registrate e misurate e sottoposte a rigido controllo di chissà quale ente preposto a valutare e giudicare, ferma restando la pur parziale utilità di strategie e strumenti di tal genere. Le possibili soluzioni risiedono, piuttosto, nelle stesse forze insite nell’Università: «nel sentimento della dignità degli studii, nella libertà interiore, nello scrupolo morale, nella forza del volere». E precisa:

E queste doti, come sono doveri di tutti, non sono privilegio di nessuno; né vengono distribuite o rifiutate secondo le classi e le corporazioni. Ciò importa che, nella polemica che conduciamo, noi continuiamo su tutti gli animi ben disposti; e, giacché, come abbiamo riconosciuto, la massima parte degli studiosi, e i più benemeriti, appartengono in Italia al pubblico insegnamento, contiamo anche sul loro assenso ed aiuto: sull’università, contro l’universitarismo[15].

Una pagina interessante dal punto di vista pedagogico si trova nel quindicesimo fascicolo della rivista, laddove Croce analizza il significato e le diverse angolature di senso del concetto di “scolaro”, inteso in termini molto ampi, che esulano dall’analisi specifica del rapporto scolaro-maestro nelle istituzioni educative e di istruzione, cogliendone la dimensione sostanziale, senza la quale ogni aspetto tecnico e metodologico non avrebbe reale significato.

In tutta la storia della pedagogia è possibile riscontrare, nelle differenti posizioni, un’attenzione privilegiata alla fenomenologia del rapporto fra maestro e scolaro. Alla riflessione filosofico-antropologica sull’educazione e sulla formazione come processi inerenti la natura umana e alla tematizzazione circa i fini e gli scopi pratici, etici, sociali, dell’azione educativa, intenzionale o meno, è sempre accostato il momento pratico effettivo dell’educare, da intendersi non come giustapposizione e derivazione secondaria rispetto al momento della riflessione, ma nella relazione di circolarità tra i due momenti, che stanno assieme e si significano a vicenda, e sono distinti solo dal fatto che l’uno è cieco senza l’altro e quest’ultimo è vuoto senza il primo, come la teoria e la prassi. Croce rintraccia e disegna tre modelli ideali nei quali collocare l’atteggiamento dello scolaro nei confronti dell’insegnamento del maestro e, per estensione, nei confronti del sapere che riceve: quello dello scolaro fedele, quello dello scolaro ribelle e quello, infine, giudicato l’unico positivo, dello scolaro-maestro[16]. Il primo dipende anche dalle capacità e dal ruolo del maestro e da quella che potremmo definire, ricorrendo a un concetto in uso oggi, la relazione educativa: è giudicato negativamente giacché, rispetto all’insegnamento ricevuto, si limita al «momento riproduttivo», che viene assunto come momento definitivo e nel quale «la scienza è solidificata in fede». Se, come scrive Croce, tale atteggiamento da parte del discepolo nei confronti del maestro, sia anche egli un maestro ideale, può certamente compiacere per l’efficacia che l’insegnamento ‒ vorremmo dire la trasmissione del sapere ‒ ha sortito, esso pone, d’altra parte, il maestro nella condizione di vedere come frutto del proprio operato «un morto sé stesso», un «cadavere» se non, addirittura, «uno scheletro». È interessante qui notare la centralità che viene attribuita alla necessità di consapevolezza del maestro nel riconoscere il proprio ruolo e la propria funzione: quasi una richiesta di assunzione di responsabilità che potremmo concepire come prioritaria rispetto alla determinazione di qualsiasi metodo e metodologia applicata. “L’estrema fedeltà” dello scolaro è riscontrabile, sostiene Croce, in molti allievi e studiosi di Hegel in Germania e di Rosmini in Italia: i risultati delle interpretazioni e dei libri di questi “scolari”, così acritiche rispetto alle elaborazioni dei maestri, che richiedono di coltivare dubbi e di esercitare la critica e non sono mai assolute e definitive, costituiscono «non vie, ma barriere, a giungere ai libri dei maestri».

Non migliore ufficio viene svolto dall’altra tipologia, opposta a quella dello scolaro fedele: quella dello scolaro ribelle. Tale figura, secondo Croce di derivazione hegeliana, può riuscire più affascinante della prima perché, nello sviluppo del sapere, il superamento tramite la negazione del pensiero precedente «contiene qualcosa di vero»; eppure tale posizione, «presa a rigore, è falsa anch’essa». I termini della questione, rispetto alla fedele riproduzione, cambiano poco. Infatti: «Negare la teoria del maestro è imitarla al rovescio, è insistere sullo stesso problema di lui, è spremere il frutto già spremuto di lui, è darsi l’aria del nuovo rimanendo nel vecchio»[17]. Il giudizio di Croce sembra essere ancora più duro nei confronti di questo secondo tipo di studioso, forse per l’illusione che un siffatto atteggiamento produce verso il progredire del sapere, e scrive:

La quale critica logica della posizione dello scolaro ribelle riceve conferma o illustrazione dalla osservazione psicologica del tipo stesso di questo scolaro, che è di colui che ha sostituito al sentimento servile dell’ossequio il sentimento, non meno servile, dell’invidia; e, senza saper essere differente, va cercando come possa differenziarsi dal maestro, e nega per negare, o fa questioni di lana caprina, o cangia le parole dandosi a credere, e per dare a credere, di aver cangiato le cose. Anche costoro conosciamo per frequenti incontri nella vita, dove si incontra di tutto; e sono anch’essi gente noiosa, gente che si poteva risparmiare la pena di venire al mondo[18].

Infine è presentata la terza figura: quella del «vero scolaro, scolaro-maestro». Figura di derivazione teoretica[19], che identifica lo scolaro con colui che si accinge a comprendere il pensiero altrui, formandosene uno proprio. In tale immagine, la conoscenza autentica del pensiero di un maestro, in carne e ossa o ideali che siano la grandiosità e l’efficacia del suo insegnamento – Croce esemplifica attraverso il ricorso ad Hegel –, ha sempre come risultato il «distinguersi» da esso, ossia il porre e risolvere «problemi proprii»; e implica il rivolgersi al pensiero del maestro «rendendosi conto dei problemi risolti da lui, o accogliendone il frutto per vie indirette, o ignorando talora persino il nome dell’autore», poiché la vera consacrazione all’immortalità del pensiero di lui vive nella «nuova storia del pensiero»: non solo se riguarda lo stesso genere di disciplina e lo stesso ordine di problemi, ma anche in ciò che non ha natura teoretica ovvero nell’azione pratica. Tale tipo di relazione è innalzata a esemplificazione della costante condizione del progredire ‒ libero, autentico e consapevole ‒ del sapere e della vita spirituale, in modo che colui che la persegue «è maestro ed assieme scolaro di sé medesimo. Perché la relazione di scolaro e maestro non è la relazione di due individui fisicamente distinti, ma di due momenti ideali, il ritmo stesso della vita dello spirito». Nell’autonomia e nella libertà, potremmo dire, consiste ogni autentico processo di formazione.

Nell’analisi crociana risuonano, com’è evidente, echi idealistici e, allo stesso tempo, la dimensione pedagogica si delinea con coerenza rispetto al pensiero teoretico del filosofo, laddove, in sintesi, tutto il processo si determina nel «farsi diverso», che è cosa semplice a dirsi, sostiene Croce, ma difficile a realizzarsi e che ha uno stretto legame con la formazione della personalità. Formazione della personalità che nobilita l’esistenza e la rende degna in ciascuna circostanza e che consiste nel:

saper ascoltare e saper tacere, cercare indefessamente e assieme pazientemente aspettare, confidare e diffidare sempre di sé stesso, e rassegnarsi anticipatamente al qualsiasi grado cui accadrà di pervenire, anche al grado ed ufficio di piccolissimo, di minimo uomo, purché sia di uomo e non di scimmia o finto uomo[20].

E conclude che «quel che importa (e non è facile) è di essere uomini».

Il tema della formazione della personalità occorre nuovamente nello scritto Specialismo e dilettantismo[21]. Qui Croce asserisce che è opportuno senz’altro raccomandare ai giovani di “specializzarsi” e «farli vergognare della “genialità”» che è presupposta nell’elogio del dilettantismo. Ma lo specialismo, ed è questione strettamente attuale e di grande interesse, se si rapporta all’odierno avanzamento tecnologico, può assumere significati diversi e, se a un primo esame esso sembra rimandare a un «fermar la mente sul particolare e sul concreto e guardarlo da tutti i lati e penetrarlo sino al fondo», può anche voler dire «dividere in pezzetti il mondo della realtà e della storia, e distribuirne un pezzetto a ciascuno», da cui può derivare, tutt’al più, utilità. In questa sua definizione deteriore, lo specialismo[22] ha significato meccanicistico («il meccanico specialista», lo definisce Croce) e non richiede nemmeno la fatica del pensiero, che sempre s’imbatte anche nell’errore e nella deviazione. Il vero specialismo, afferma Croce, è insieme universalismo, «perché il singolo non sorge e non vive se non sul tronco del tutto», e il vero specialismo si realizza nella formazione della personalità, ed è qui che si riscontra in forza il tema pedagogico-educativo, giacché la personalità non si possiede per natura e il ritenerla erroneamente tale produce sempre il falso e l’illusione di cui si nutre il dilettantismo.

Nella sezione “Schiarimenti e idee” del fascicolo del 1943, le pagine intitolate Aristocrazie e masse[23], assieme allo scritto L’aristocrazia e i giovani raccolto in Cultura e vita morale, potrebbero essere considerate un piccolo manifesto sull’educazione, che sembra identificarsi con la vita stessa. Il concetto di aristocrazia è sostanzialmente adoperato, in un primo momento, nel significato quasi letterale di aspirazione a distinguersi: a elevarsi individualmente dalla massa e a determinarsi in quel gruppo dei pari cui appartengono in pochi. Così, almeno, nella definizione essenziale. Potremmo dire che si allude alla formazione dell’uomo come soggetto o come individuo. Eppure è un concetto che, sebbene esprima un’aspirazione all’elevazione presente in maniera quasi universale (si potrebbe, prendendo spunto da ciò, cominciare un lungo e difficile discorso sul bisogno di identità, di appartenenza, di conformazione che esprime oggi il nostro tempo), dà adito a una serie di fraintendimenti e sbrigative interpretazioni.

In primo luogo è da fugare, secondo Croce, la banale ed errata visione schematica e dicotomica d’intendere per aristocrazia ciò che si oppone, in maniera meccanica, alla massa. Il significato denso e profondo di aristocrazia è riferibile, lungi da allusioni a vecchie e chiuse aristocrazie di sangue, a coloro «che pensano e operano profondamente» e ai quali sono, perciò, legate «le sorti della società umana»; e che, proprio per tale ragione, per pensare e operare nello sviluppo e nel progresso storico, sono sempre «aperti» e in «continuo rinnovamento». Si trova qui una seconda definizione essenziale di ciò che si può intendere positivamente per “aristocrazia”: la capacità, propria delle minoranze “elette”, ciò che altri hanno definito avanguardie, di preparare e guidare i cambiamenti storici. Non vi è, come abbiamo detto, opposizione determinata, netta separazione, tra massa e aristocrazia, e per tante ragioni: perché l’aristocratico proviene e appartiene alla massa, dal momento che non è tale per una dote naturale; perché l’idea mistica della massa non è lecita né corretta, al pari del concetto ottocentesco di popolo, che vive e si muove come un individuo solo e in carne e ossa, e dirige le sorti intere della storia; perché nessuno è “interamente aristocratico”, nel senso che si distingue e supera tutti in tutto, ma è sempre volgo e plebe in qualcosa, nei campi che non gli competono e di cui non si occupa. E, per via dell’inconsistenza di tale opposizione, l’aristocrazia non può trattare la massa «da nemica né da estranea né da materia indifferente, che calchi col piede e sulla quale superbamente passi».

Nella sua funzione storica e civile, e nel rappresentare un modello di virtù nel praticare lo sforzo costante del pensiero e dell’impegno, l’aristocrazia ha però, verso le masse, un dovere e un compito: quello di educarle. Ma lo scopo di tale educazione non può non essere che quello di contribuire a rendere migliori le società umane, che è il solo ufficio cui possa attendere chi aspiri ad appartenere all’aristocrazia così intesa. E il contributo consiste nel preparare il terreno, nell’arare il campo per il rinnovamento e il progresso.

In tale prospettiva educare le masse non vuol dire conformarle a sé e avvilirle come nella schiavitù del dover essere sempre sottoposte, dipendenti e subalterne, ma «metterle in condizione che si educhino da sé»: al perseguimento di questo fine occorre che sia un’educazione «universalmente e pienamente umana, opera morale e non particolaristica e partigiana» che non coincide affatto, diremmo, con la mera formazione tecnica e utilitaristica, e nemmeno con l’indottrinamento. Tale modello educativo, tiene a chiarire Croce, non deriva solo dall’educazione istituzionalizzata nelle scuole.

Anticipando tematiche e argomenti di attualità pedagogica, quali la ricerca della necessaria “dimensione motivazionale” che è sottesa a ogni processo volto all’acquisizione di una formazione culturale e di un’educazione alla cittadinanza attiva e consapevole, e la necessità di un’educazione degli adulti intesa come formazione permanente, Croce ritiene che emancipazione e capacità di orientarsi e di educarsi da sé provengano, deweyanamente, dall’esperienza diretta, dalla partecipazione alla vita sociale, culturale e politica: «duplice e consecutiva educazione del maestro e della vita»[24], come scrive. Così Croce nel saggio citato:

E come si suol lasciare, per non comprimerli troppo e invano, che la vita stessa educhi i giovani e che essi dagli errori traggano le lezioni dell’esperienza, così è da condursi verso gli uomini che si vuole innalzare a cittadini, partecipi della vita politica della loro patria. Associazioni operaie, camere di lavoro, sindacati, richieste di provvedimenti legislativi, leghe di resistenza, scioperi, e simili istituti e azioni, sono solo alcuni dei mezzi coi quali si compie il processo educativo dei già adulti. Né c’è da temere, salvo che episodicamente, d’intemperanze ed eccessi da parte di quegli uomini appartenenti alle masse, perché l’operare, il contrastare, il persuadere, il durare pericoli, il dichiarare guerre e il sostenerle, le sconfitte non meno che le vittorie, sono efficacissimi mezzi pedagogici, che danno, la coscienza dei propri e degli altrui diritti, di quel che si può e di quel che non si può chiedere né aspettare, del divario tra il desiderato e l’ottenibile, del limite che è nelle cose ossia nelle situazioni storiche, e fanno apprendere, a chi non le possegga già adulte, le virtù della moderazione e della pazienza. In questa libera lotta si svolge la comprensione e la generosità. Gli uomini sotto tutela, gli schiavi, avviliti, diventano, quando l’occasione si presenti, crudeli e bestiali[25].

In questo modo, nell’analisi della relazione circolare tra aristocrazie e masse, viene dato un contributo al “problema” e al “mistero” della formazione delle classi dirigenti. E, se si volesse provare a rispondere alla domanda circa cosa dovrebbe e potrebbe concorrere a realizzare tale proposito, un suggerimento sarebbe dato se si esaminasse il già citato scritto L’aristocrazia e i giovani. In esso si scorgono sia una definizione del concetto di sapere inteso nella dimensione educativa sia il valore da attribuire all’educazione.

Croce si domanda se l’ideale aristocratico sia di ordine materiale, ossia coincidente con certe determinazioni particolari che si oppongono a certe altre determinazioni particolari come in una sorta di astratta precettistica, o formale, in modo che «superi e abbracci» tutte le determinazioni particolari. Non si tratta di intendere l’accezione “formale” come ciò che è vuoto ed estrinseco, ma come ciò che riguarda «l’integralità dello spirito umano» in cui il bene non esclude il vero, l’utile e il bello. Solo in questo senso Croce ritiene possa essere considerato il termine “aristocratico” (il saggio s’inscrive nella polemica tra le mode del democraticismo e del falso aristocraticismo), ossia come ciò o colui che “si distingue”, si individualizza nel conato all’elevazione, nel lavoro, nello sforzo di tenere assieme l’unità dello spirito, nel vir bonus, scrive Croce, nel raggiungimento della «piena umanità». E piena umanità viene raggiunta nel porsi come individualità che vive e partecipa pienamente alla comunità[26]: «il giovane deve studiare ed educarsi» allo scopo di «rendersi utile alla società», per superare «l’oziosità e l’individualismo atomico». Oziosità e individualismo atomico che si superano con l’attendere al proprio ufficio, perché è tramite esso che la società progredisce, e non attraverso l’ingannevole illusione e la fede nei «grandiosi programmi» che solo astrattamente sono considerati motori della storia. Il richiamo all’impegno, il sollecitare l’impegno nelle generazioni che si affacciano sulla scena della storia, sembrano essere, in definitiva, la dimensione più propria della pedagogia crociana, che è inscritta nella sfera dell’attività pratica.

Gli abiti volitivi e l’individualità

Una delle pagine più interessanti dal punto di vista pedagogico potrebbe essere, come sottolineato già da Vittorio Enzo Alfieri, un capitolo, Gli abiti volitivi e l’individualità, contenuto nel volume Filosofia della pratica, una parte del quale, fra l’altro, è dedicata proprio all’educazione. Il tema principale del capitolo riguarda le passioni che sono definibili quali abiti volitivi: «i concetti empirici delle passioni debbono fondarsi sulla varia determinazione dell’attività volitiva secondo gli oggetti»; esse non corrispondono al mero impulso o al desiderio istantaneo, ma si spiegano «come inclinazione o abito di desiderare e volere in un certo indirizzo». Nell’orizzonte dell’abito e della volizione sembra trovi fondamento l’individualità empirica che si definisce, quindi, come del resto gli abiti, nel determinarsi assieme nella relativa fissità e nella relativa mobilità, ossia storicamente. Scrive Croce:

Coteste passioni o abiti volitivi non sono rigidi e fissi, perché niente di rigido e fisso v’ha nel campo del reale. Come il letto del fiume regola il corso del fiume e ne viene insieme di continuo modificato, così accade delle passioni e degli abiti volitivi che la realtà viene formando e modificando, e nel modificare forma da capo e nel formare modifica. Perciò qualcosa di arbitrario vi ha sempre nel definire gli abiti come se rispondessero a una realtà ferma e ben delimitata. Gli abiti non sono categorie né sono pensabili come concetti distinti […][27].

Assunta come premessa questa serie di distinzioni concettuali, l’interrogativo di fondo riguarda sia la possibilità di signoreggiare, quindi anche di educare (auto o etero-educare), le passioni sia il modo attraverso cui ciò possa essere possibile. Coerentemente con il metodo argomentativo crociano, il saggio procede attraverso la disamina delle semplificazioni e degli errori con i quali tradizionalmente si è affrontato il tema del padroneggiamento di abiti e passioni, che richiede impegno e tenacia e che non si innesca in modo automatico:

Nulla, infatti, ci toglie così bruscamente la coscienza della libertà e della personalità, e ci fa sentire in modo così sconfortante la nostra impotenza, la nostra umana miseria, come il trovarci con la buona intenzione o l’appena iniziata azione dinnanzi alle forze scatenate delle nostre passioni e degli abiti a quella contrari, che col loro frastuono assordante coprono la voce debole e timida della incipiente azione, la soverchiano con la loro prepotenza e ci rapiscono per vie note e aborrite[28].

Sbagliano i «livellatori» e i «pedanti della astratta regolarità» nel ritenere che vi sia uniformità degli abiti; sbagliano i sostenitori dell’unilaterale polipatismo o dell’altrettanto unilaterale apatismo, i quali:

come nella teoria dell’atto volitivo propugnavano un’astratta azione condotta dalla mera volontà razionale nel vuoto delle passioni, così ora, nella teoria degli abiti volitivi, propugnano un astratto abito razionale, un modello di umana attività, al quale tutti gl’individui dovrebbero conformarsi. […] l’atto volitivo e le passioni, la volizione e le volizioni, sono tagliate nella stessa stoffa (benché l’una sia attuale e le altre soltanto possibili, l’una positiva, le altre negative), e che la natura del volere importa situazioni di fatto determinate; onde non si vuole mai in universale, ma sempre in particolare. Allo stesso modo la virtù, l’abito virtuoso della volontà, non è di natura diversa dagli abiti della volontà in genere, dalle passioni; ed è sempre particolare e individuale come quelli. Coloro che imprendono la guerra contro gli abiti individuali non riescono mai a sostituirli con un abito universale, che è inconcepibile […][29].

Di conseguenza, la possibilità di dominare le passioni e guidare e modificare la formazione degli abiti ha fondamento nell’individualità stessa, per cui il primo passo, la condicio sine qua non, è «la scoperta del proprio essere», il «cercare sé medesimo», l’«indagare le proprie disposizioni» per dare forma alla propria materia: il che non significa assecondare il proprio capriccio o «l’individualità disgregata», ma affermare un «diritto dell’individualità». Quanto finora detto insegna che «ogni potenza ha la sua impotenza, ogni individuo il suo limite» e che non avrebbe senso, da parte dell’educatore e del sistema di educazione, forzare eccessivamente una natura che non può conformarsi a un modello assoluto.

In questo orizzonte sembra quasi venir meno la possibilità stessa dell’educazione o pare che essa debba ridursi all’assecondare le attitudini individuali, il che, sostiene Croce, sarebbe null’altro che addestramento. Invece, leggendo le pagine in questione, sembra proprio che la “soluzione” di una così importante e complessa questione sia affidata all’educazione, che ha il compito di connettere l’individuale e l’universale, che non sono mai scissi; di difendere il corrispettivo «diritto dell’universalità», poiché ciascuno ha «l’obbligo di cercare sé stesso» ma, per fare ciò, «ha l’obbligo assieme di coltivarsi come uomo in universale», di modo che il bene e il meglio, in questo campo, è in «colui che adempie la sua propria e individuale missione così perfettamente, da adempiere insieme, con essa e per essa, la missione universale dell’uomo»[30].

Appare opportuno concludere questo breve intervento con le parole che Croce dedica alla missione della scuola, che non deve essere addestramento ma palestra di attività spirituali e creatrici: «Una scuola che fosse semplice cultura delle attitudini individuali, sarebbe addestramento e non educazione, fabbrica di utensili, non vivaio di attività spirituali e creatrici».

  1. Cfr. V. E. Alfieri, Pedagogia crociana, Napoli, Morano, 1967.
  2. A. Attisani, Interpretazioni crociane, Messina, Università degli Studi di Messina, 1953. Si ricordino anche i saggi contenuti nel volume L’opera filosofica, storica e letteraria di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1942: in particolare, C. Sganzini, L’estetica di Benedetto Croce e la pedagogia (pp. 32-56) e W. Günther, Benedetto Croce e la pedagogia (pp. 57-68).
  3. Cfr. almeno G. Tognon, Benedetto Croce alla Minerva. La politica scolastica italiana tra Caporetto e la marcia su Roma, Brescia, La Scuola, 1990; Id., Croce ministro della Pubblica Istruzione, in Enciclopedia Treccani, 2016; cfr. l’URL: https://www.treccani.it/enciclopedia/croce-ministro-della-pubblica-istruzione_%28Croce-e-Gentile%29/.
  4. B. Croce, Scienza ed università, in «La Critica», a. IV (1906), pp. 319-21: 321 (rist. in Id., Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza, 1914, pp. 75-79).
  5. G. Gentile, L’insegnamento della storia dell’arte ne’ licei e l’arte del comporre, in «La Critica», a. I (marzo 1903), pp. 232-36.
  6. Sul dibattito relativo all’introduzione della storia dell’arte nei licei, si confronti P. Papa, L’insegnamento della storia dell’arte nei licei. Lettera al prof. I.B. Supino, in «Miscellanea d’arte. Rivista mensile di storia dell’arte medievale e moderna», I (1903), Supplemento al n. 2, pp. 1-16.
  7. G. Gentile, L’insegnamento della storia dell’arte ne’ licei e l’arte del comporre, art. cit., p. 235.
  8. Ibidem.
  9. Ivi, pp. 235-36.
  10. B. Croce, Recensione a D. Jaja, L’insegnamento filosofico universitario e il regolamento nuovo, in «La Critica», a. I (1903), pp. 372-74.
  11. B. Croce, Sull’insegnamento religioso, in «La Critica», a. XXI (1923), pp. 253-56, in Id., Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, ed. 1926, con il titolo: Sull’insegnamento religioso nella scuola elementare.
  12. B. Croce, L’abbinamento delle cattedre di storia e di filosofia, in «La Critica», a. XXI (1923), pp. 318-20, in Id., Cultura e vita morale, op. cit., ed. 1926, con il titolo: Degli studi eleganti.
  13. Ivi, p. 318.
  14. Ivi, p. 319.
  15. B. Croce, Scienza ed università, in «La Critica», a. IV (1906), pp. 319-21: 321.
  16. Le consonanze con il pensiero gentiliano sono, come vedremo, più che evidenti.
  17. B. Croce, Lo scolaro fedele – Lo scolaro ribelle – Lo scolaro-maestro, in «La Critica», a. XV (1917), pp. 141-44: 142, in Id., Cultura e vita morale, op. cit., 1926, con il titolo Maestro e scolari.
  18. Ivi, pp. 142-43.
  19. Sulla dimensione teoretica del rapporto scolaro-maestro si confronti il saggio di K. R. Popper, Ritorno ai Presocratici, in Congetture e confutazioni, trad. di G. Pancaldi, Bologna, Il Mulino, 1989, nel quale la nascita della filosofia come tradizione critico-razionale è fatta risalire al peculiare rapporto critico che si instaura nella Scuola di Mileto.
  20. Ivi, p. 144.
  21. B. Croce, Specialismo e dilettantismo, in «La Critica», a. XVIII (1918), pp. 378-80 e in Id., Cultura e vita morale, op. cit., 1926. Si confronti anche Id., Filosofia della pratica, op. cit., p. 165.
  22. Al riguardo potrebbe essere utile approfondire le consonanze con il pensiero della complessità e, soprattutto, con le teorie pedagogiche di Edgar Morin. Si confronti, fra gli altri, il volume di G. Gembillo, Benedetto Croce filosofo della complessità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.
  23. B. Croce, Aristocrazie e masse, in «La Critica», a. XLI (1943), pp. 224-26.
  24. A tal proposito si ritiene utile rimandare alle suggestioni contenute nel volume di F. M. Sirignano, Il grande esule di Acquafredda. Francesco Saverio Nitti tra pedagogia, politica e impegno civile, Milano, Franco Angeli, 2019. In particolare si fa riferimento al capitolo dedicato a Il radicamento etico-civile delle istituzioni democratiche: l’educazione alla libertà, nel quale l’autore, riferendosi al pensiero di Francesco Saverio Nitti, scrive: «La capacità di Francesco Saverio Nitti di cogliere l’implicito pedagogico-educativo delle relazioni socio-politiche vigenti nei vari contesti storici emerge con tutto il suo vigore e la sua chiarezza nella monumentale monografia su La democrazia. Nel ricostruire e nell’analizzare criticamente la formazione delle democrazie moderne, lo studioso lucano evidenzia che uno degli aspetti peculiari dei processi democratici consta nel travalicare l’ambito puramente istituzionale per costituirsi come una pluralità di forme di vita aperte, dialogiche e cooperative, che ne favorisce il radicamento etico-civile» (p. 74).
  25. B. Croce, Aristocrazie e masse, in «La Critica», a. XLI (1943), pp. 224-26: 224-25.
  26. Sul rapporto tra individuo e comunità si rimanda al volume di E. Paolozzi, Il liberalismo come metodo, Napoli, Kairos Edizioni, 2015, al capitolo Individuo e comunità.
  27. B. Croce, Filosofia della pratica, Bari, Laterza, 1963, p. 156.
  28. Ivi, p. 157.
  29. Ivi, pp. 159-60.
  30. Ivi, p. 165.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

A cento anni dalla “Legge Croce” del 1922 per la tutela del paesaggio

Author di Maria Panetta

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Il tema di questa Conferenza[1] mi è stato suggerito dalle dottoresse Marta Herling e Maria Ametis (che colgo l’occasione per ringraziare nuovamente per il graditissimo invito e per l’impeccabile organizzazione dell’evento di Pollone), ma l’ho accolto con molto interesse, data anche la sua cogente attualità: Croce e il paesaggio, a cento anni dalla data assai significativa del 1922.

Innanzitutto, va precisato che una delle prime formulazioni del principio del diritto al paesaggio e alle bellezze naturali, principio fondamentale anche della Costituzione italiana, risale addirittura a una legge di Ferdinando II di Borbone: il Rescritto del 19 luglio 1841. A puntualizzarlo e a ricordarlo è stato proprio Benedetto Croce, quando si fece promotore della Legge 778 del 1922, la prima legge italiana che, appunto, sancì il “diritto al paesaggio” e pose le basi per la tutela degli immobili di interesse storico: essa è rimasta in vigore fino al 2009, rappresentando, per circa novant’anni, il principale riferimento giuridico italiano relativo a questioni ambientali.

Nella propria Relazione al Parlamento, Croce rivelò che, nel corso dell’indagine preliminare funzionale alla formulazione del testo di legge, aveva effettuato numerose ricerche negli archivi degli Stati preunitari (e ovviamente non c’è da dubitarne, vista la sua notorietà anche come erudito e valente storico, oltre che come filosofo e critico): era giunto, così, a individuare, appunto, dei rescritti borbonici che, di fatto, anticipavano la normativa appena approvata. Le sue testuali parole furono, infatti: «nulla di nuovo, quindi, si è escogitato nel presente regolamento».

Si possono ricordare, dunque, oltre al citato Rescritto del 1841, almeno un decreto del maggio 1822 e uno del settembre 1839:

[…] era vietato portare fuori dal Regno delle Due Sicilie opere d’interesse storico ed artistico. Così stabilì, in effetti, Ferdinando I. Che, con un decreto del maggio 1822, vietò di togliere dal posto in cui si trovavano quadri, statue, bassorilievi, oltre a tutti gli oggetti e monumenti d’arte e storici. Presenti tanto negli edifici pubblici e nelle chiese quanto nelle cappelle soggette a diritti di patronato. Il decreto vietava anche di demolire o comunque di arrecare degrado ad antiche costruzioni, pur se ricadenti in fondi privati, come nel caso di templi, basiliche, teatri, anfiteatri, ginnasi, acquedotti, mausolei di pregiata architettura e mura di città distrutte. Era proibito, infine, esportare qualsiasi oggetto d’arte e d’antichità, anche se di proprietà privata, senza preventivo permesso. Che sarebbe stato eventualmente accordato soltanto in mancanza di un merito tale da interessare il decoro del Regno. Sarebbe stata chiamata a giudicare l’oggetto, stabilendone il merito, l’istituenda Commessione di antichità e belle arti. Successivamente, nel settembre 1839, Ferdinando II volle adottare un decreto che, richiamandosi a quanto sopraprescritto, desse maggior efficacia alle misure per conseguire l’importante fine di preservare da ogni degredazione i pregevoli monumenti antichi e di arte. In tal senso stabilì che gli stessi fossero posti sotto la sorveglianza delle autorità amministrative dipendenti dal Ministero degli affari interni e che dovessero essere ben conservati dai proprietari. Essi, in particolare, avrebbero dovuto vigilare perché non si alteri né si deturpi l’antico con lavori moderni, senza eseguire restauri privi di permesso, da rilasciarsi previo esame e parere dell’Accademia di belle arti. Le contravvenzioni sarebbero state considerate come violazione dei monumenti pubblici. Il decreto del 1839 stabilì, inoltre, che monumenti di particolar pregio, suscettibili di essere conservati in modo migliore e di essere utili allo accrescimento de’ mezzi di eccitare il genio della gioventù coll’esempio degli antichi maestri nell’arte, potessero essere trasferiti dal sito originario al Museo Borbonico, ove sarebbero stati esposti alle osservazioni degli amatori e de’ dotti, ed all’istruzione del Pubblico. Al loro posto, sarebbero stati messi o delle copie o degli adeguati ornamenti a spese del predetto Museo. Ciò non valeva per i quadri delle chiese che, ancorché capolavori, dovevano restare nel luogo originario, ferma restando la stretta vigilanza[2].

Da non trascurare neanche un decreto del 1842 in base al quale

[..] le “piantagioni lungo le strade” furono poste sotto la particolare cura e protezione del Governo. Così precisava, in effetti, il primo articolo di un regolamento approvato nel gennaio di quell’anno con decreto di Ferdinando II. La normativa, che riguardava la piantagione e conservazione degli alberi lungo le strade provinciali e comunali, prevedeva che a concorrere allo scopo fossero chiamati: – gli appaltatori delle piantagioni, i quali potevano anche assumere e armare dei custodi; – le autorità civili, in particolare gli agenti municipali e la gendarmeria, che potevano arrestare i rei colti in flagranza; – i proprietari o coloni di fondi limitrofi alle strade oggetto di piantagioni. E vietava nei pressi delle piantagioni di stabilire passaggi di strade e il pascolo del bestiame di qualsiasi tipo. Chi procurava danni agli alberi, direttamente o con vetture o con propri animali, doveva essere punito con tre giorni di reclusione e con un’ammenda pecuniaria[3].

Nella sua Relazione introduttiva, ad ogni modo, Croce ricordava soprattutto i «Rescritti Borbonici del 19 luglio 1841 e 17 gennaio 1842 e 31 maggio 1843», che «vietavano di alzare fabbriche, le quali togliessero amenità o veduta lungo la via di Mergellina, di Posillipo, di Campo di Marte, di Capodimonte».

Questi, dunque, i più significativi interventi legislativi ottocenteschi che precedettero e ispirarono la formulazione della cosiddetta “Legge Croce” del 1922. Com’è noto, però, se alcuni intellettuali illuminati di epoca fascista avrebbero continuato a lavorare per una regolamentazione dei beni culturali fino all’incirca alla fine degli anni Trenta del Novecento, con la Seconda guerra mondiale e nel periodo post-bellico cambiò tutto: la “Legge Croce”, infatti, fu poco applicata nel dopoguerra, come ricorda anche il film drammatico Le mani sulla città, diretto nel 1963 da Francesco Rosi, una spietata denuncia della corruzione e della speculazione edilizia nell’Italia degli anni Sessanta.

Si rammenti anche che, prima della cosiddetta “Legge Croce”, i costruttori avevano un ampio margine di discrezionalità nella progettazione degli edifici, anche perché la proprietà privata era considerata un bene di primaria importanza: lo testimoniano, ad esempio, i tanti lavori realizzati in alcuni dei quartieri più antichi di Napoli, come la costruzione del rione Santa Lucia, della Galleria Umberto e di Corso Umberto I o, al contrario, la proposta di abbattimento di Castel dell’Ovo durante il periodo del cosiddetto Risanamento (negli anni Ottanta dell’Ottocento)[4].

Come ha sottolineato il 3 ottobre 2011 l’archeologo e storico dell’arte calabrese Salvatore Settis, in un intervento dal titolo Benedetto Croce ministro e la prima legge sulla tutela del paesaggio[5], le battaglie più accese per tutelare i beni culturali dello Stato partirono da alcune delle regioni d’Italia più sensibili al patrimonio storico: soprattutto Campania, Lazio e Toscana (la tradizione cosiddetta “piemontese” tendeva, invece, a tutelare maggiormente la proprietà privata). Prima della “Legge Croce”, furono bocciate decine di proposte portate in Parlamento per tutelare il paesaggio e i beni culturali, avanzate da deputati del calibro di Francesco De Sanctis, Saverio Nitti, del veneziano Pompeo Gherardo Molmenti, del lucchese Giovanni Rosadi (proprio Rosadi, esponente della Toscana, fu uno dei più accesi promotori della tutela dei beni culturali e, assieme a Croce, fu assai lieto dell’approvazione della Legge del 1922, dopo trent’anni di battaglie in Parlamento).

La “Legge Croce” del 1922

Veniamo al testo della cosiddetta “Legge Croce”, uscita sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 148 del 24 giugno 1922 ed entrata in vigore a partire dal 9 luglio 1922: lo riportiamo integralmente di seguito (nella trascrizione sono solo stati corretti gli accenti sulle parole tronche, resi nel testo ufficiale con apostrofi finali: «né», «antichità», «facoltà», «affinché», «altresì» etc.).

LEGGE 11 giugno 1922, n. 778

Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico (022U0778)

VITTORIO EMANUELE III

per grazia di Dio e per volontà della Nazione

RE D’ITALIA

Il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato;

Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:

Art. 1

Sono dichiarate soggette a speciale protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale e della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria. Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche.

Art. 2

Le cose contemplate nella prima parte del precedente articolo non possono essere distrutte né alterate senza il consenso del Ministero dell’istruzione pubblica. Il Ministero dell’istruzione pubblica ha facoltà di procedere, in via amministrativa, alla notificazione della dichiarazione del notevole interesse pubblico ai proprietari ed ai possessori o detentori a qualsiasi titolo degli immobili di cui è parola nel precedente articolo. Tale dichiarazione dev’essere, su istanza del ministro stesso, iscritta nei registri catastali e trascritta nei registri delle Conservatorie delle ipoteche, ed ha efficacia nei confronti di ogni successivo proprietario possessore o detentore a qualsiasi titolo. I proprietari possessori o detentori a qualsiasi titolo degli immobili i quali siano stati oggetto di detta dichiarazione, sono tenuti a presentare preventivamente alla competente Sovraintendenza dei monumenti i progetti delle opere di qualsiasi genere relative agli immobili stessi, per ottenere l’autorizzazione ad eseguirle dal Ministero dell’istruzione pubblica, il quale provvede, sentito il parere della Giunta del Consiglio superiore per le antichità e belle arti.

Contro la dichiarazione ministeriale è ammesso il ricorso al Governo del Re che decide, sentita la Giunta del Consiglio superiore per le antichità e belle arti e il Consiglio di Stato, salvo il ricorso alla IV sezione del Consiglio di Stato ed il ricorso in via straordinaria al Re.

Art. 3

Anche indipendentemente dalla preventiva notificazione della dichiarazione di pubblico interesse, di cui nel precedente articolo, il Ministero della istruzione pubblica ha facoltà di ordinare la sospensione dei lavori iniziati su gli immobili soggetti alla presente legge. Entro il termine di un mese il Ministero della istruzione pubblica dovrà procedere alla notificazione della dichiarazione di cui all’art. 2. Trascorso questo termine senza che il Ministero abbia provveduto alla notificazione, l’ordine di sospensione si considera revocato. Nel caso di non avvenuta preventiva notificazione di cui all’art. 2, se la sospensione non è revocata, è riservata agli aventi diritto l’azione per indennità limitata al rimborso delle spese.

Art. 4

Nei luoghi nei quali si trovano cose immobili soggette alle disposizioni della presente legge, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori possono essere prescritte dall’autorità governativa le distanze, le misure e le altre norme necessarie, affinché le nuove opere non danneggino lo

aspetto e lo stato di pieno godimento delle cose e delle bellezze panoramiche contemplate nell’art. 1°. L’autorità governativa potrà altresì prescrivere opere di tutela strettamente necessarie per impedire danneggiamenti a bellezze naturali.

Art. 5

È vietata l’affissione con qualsiasi mezzo di cartelli e di altri mezzi di pubblicità, i quali danneggino l’aspetto e lo stato di pieno godimento delle cose e delle bellezze panoramiche di cui nell’art. 1º. Questo divieto riguarda anche i cartelli e gli altri mezzi di pubblicità affissi anteriormente alla presente legge. Il Ministero dell’istruzione pubblica, a mezzo del prefetto o sottoprefetto, ordina la rimozione dei cartelli e degli altri mezzi di pubblicità, dei quali è vietata l’affissione a norma del presente articolo.

Art. 6

Chiunque contravviene agli obblighi ed agli ordini di cui negli articoli 2º, 3° e 5° della presente legge, è punito con l’ammenda da L. 300 a L. 1000. Indipendentemente all’azione penale, il Ministero dell’istruzione

pubblica con ordinanza motivata può ordinare la demolizione delle opere abusivamente eseguite e la rimozione dei cartelli e degli altri mezzi di pubblicità indebitamente affissi o mantenuti. Trascorsi quindici giorni dalla notificazione dell’ordinanza in via amministrativa, la demolizione delle opere abusivamente fatte e la rimozione dei cartelli e degli altri mezzi di pubblicità indebitamente affissi o mantenuti è eseguita d’ufficio, a carico del proprietario del fondo, salvo il diritto di rimborso da parte di esso contro i responsabili della trasgressione. La nota delle spese relativa è resa esecutoria con ordinanza del Ministero dell’istruzione, e rimessa all’esattore competente che ne fa la riscossione nelle forme e coi privilegi delle imposte prediali.

Art. 7

Gli ispettori onorari, le Commissioni provinciali previste nell’articolo 47 della legge 27 giugno 1907, n. 386, gli uffici comunali e provinciali, gli uffici di dipartimenti forestali e del Genio civile e gli uffici tecnici di finanza devono segnalare alle Sopraintendenze dei monumenti e al Ministero dell’istruzione pubblica le opere progettate o iniziate, nonché l’affissione dei cartelli ed altri mezzi di pubblicità che contravverranno alle disposizioni della presente legge.

Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

Data a Roma, addì 11 giugno 1922.

VITTORIO EMANUELE

Facta – Anile.

Visto, il guardasigilli: Luigi Rossi.

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Nota redazionale

Il testo riportato è già integrato con le correzioni apportate dall’errata-corrige pubblicato in G.U. 8/07/1922, n. 160 durante il periodo di “vacatio legis”. È possibile visualizzare il testo originario accedendo alla versione pdf della relativa Gazzetta di pubblicazione[6].

Ai nostri fini, sono particolarmente interessanti da commentare i passi degli articoli 1, 2, 4 e 5 che si ripropongono nella versione originale, qui di seguito:

[…]

Art. 1.

Sono dichiarate soggette a speciale protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria.

Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche.

Art. 2.

Le cose contemplate nella prima parte del precedente articolo non possono essere distrutte né alterate senza il consenso del Ministero dell’istruzione pubblica.

[…]

Art. 4.

Nei luoghi nei quali si trovano cose immobili soggette alle disposizioni della presente legge, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori possono essere prescritte dall’autorità governativa le distanze, le misure e le altre norme necessarie, affinché le nuove opere non danneggino lo aspetto e lo stato di pieno godimento delle cose e delle bellezze panoramiche contemplate nell’art. 1°. […]

Art. 5.

È vietata l’affissione con qualsiasi mezzo di cartelli e di altri mezzi di pubblicità, i quali danneggino l’aspetto e lo stato di pieno godimento delle cose e delle bellezze panoramiche di cui nell’art. 1°.

Questo divieto riguarda anche i cartelli e gli altri mezzi di pubblicità affissi anteriormente alla presente legge. […]

Data a Roma, addì 11 maggio[7] 1922;

VITTORIO EMANUELE.

FACTA – ANILE.

Visto, il guardasigilli: LUIGI ROSSI.

In primo luogo, va posto l’accento sulla valorizzazione – nell’Art. 1 – dell’«interesse pubblico» quale criterio di elezione delle «cose» «soggette a speciale protezione»: come si legge, tale “interesse pubblico” nella tutela degli immobili è motivato dalla loro «bellezza naturale» oppure dalla loro «particolare relazione con la storia civile o letteraria». A tale proposito non si può non evidenziare che quest’idea collima perfettamente con quelle espresse da Croce nella lunga e problematica elaborazione e rielaborazione delle sue teorie estetiche che, come sappiamo, presero forma – oltre che in vari articoli sparsi anche precedenti[8], negli interventi sulla Letteratura della nuova Italia (editi da Laterza in 6 volumi, a partire dal 1914) e in varie recensioni – soprattutto in quattro libri fondamentali: l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale del 1902, il Breviario di estetica del 1913, l’Aesthetica in nuce del 1928 e La Poesia del 1936. In particolare, laddove – semplificando molto – dalle prime formulazioni emergeva una netta contrapposizione fra Poesia e Non poesia[9], Poesia e Letteratura[10], man mano che il pensiero del filosofo evolveva, tale profonda cesura si veniva ad attenuare. Prova ne sia, ad esempio, il progetto sotteso alla nota e fortunata collana Laterza degli «Scrittori d’Italia», fondata nel 1910 proprio da Croce[11]: sia nei Criteri direttivi[12] della serie sia nel volume che inaugurava la collezione, quello dedicato ai Lirici marinisti e curato da Croce[13], infatti, veniva riconosciuto ai versi dei seguaci di Marino un valore documentario di testimonianza civile indipendente dal loro pregio estetico, non sempre all’altezza di quello del modello cui s’ispiravano; ad ogni modo, ne veniva valorizzata l’utilità in quanto documentazione erudita sulle peculiarità, le mode e i gusti letterari dell’epoca. Questa impostazione avrebbe trovato la definitiva consacrazione nel meraviglioso volume del 1936, nel quale alla Letteratura (in prosa[14] e in versi, contrapposta alla Poesia in prosa e in versi) veniva riconosciuta una nobile funzione civile[15].

Il primo articolo stabiliva anche che la Legge tutelava le «bellezze panoramiche», il che rientrava nell’accento sul particolare rilievo attribuito al diritto alla “visione”[16].

Ci permetteremmo, infine, di rilevare che la sensibilità attuale che ha dato il via all’istituzione dei Parchi letterari (nati – si ricordi – da un’idea di Stanislao Nievo, che desiderava preservare i resti del Castello di Colloredo di Montalbano in Friuli, dove Nievo aveva composto le sue note Confessioni) è anch’essa “figlia” di tale impostazione: nel 2009 l’istituzione e il coordinamento dei parchi letterari sono passate alla Srl Paesaggio Culturale Italiano, che si è riproposta di organizzare una rete sia nazionale sia internazionale atta a fornire un’offerta turistica e culturale rispettosa dei parametri di qualità e sostenibilità fissati dalla Convenzione Europea del Paesaggio (2000), dal Piano di attuazione del Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile elaborato a Johannesburg nel 2002[17], e dalle Convenzioni Unesco finalizzate alla salvaguardia, alla promozione e alla valorizzazione del patrimonio culturale (materiale e immateriale), naturale e delle espressioni della diversità culturale[18]. Tutti questi interventi legislativi rappresentano, dunque, il punto di riferimento ideale che ha dato origine all’istituzione dei vari e preziosi parchi letterari italiani e, in particolare, a quelli ora patrimonio della Regione Abruzzo: il parco dedicato a Benedetto Croce (che comprende la zona di Pescasseroli, Montenerodomo e Raiano); quello di Anversa degli Abruzzi (AQ) ispirato a Gabriele d’Annunzio; quello per Ignazio Silone a Pescina e quello ovidiano di Sulmona.

Se interroghiamo la pagina del sito Web dedicata ai parchi crociani, vi ritroviamo proprio una nota affermazione dello stesso Croce risalente alla sua esperienza legislativa dell’inizio degli anni Venti: «Il paesaggio altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della Patria, […] con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli»[19]: assai interessante l’accento posto da Croce non solo sul paesaggio come veduta, quindi, ma anche sull’attenzione alla pedogenesi, allo studio geologico – e dunque scientifico – della formazione, della composizione e dell’evoluzione del suolo, con tutto ciò che esso comporta anche per le attività umane – agricole, pastorali, industriali, turistiche, naturalistiche etc. – a esso connesse e da esso supportate.

In particolare, il Parco Letterario dedicato a Croce comprende tre luoghi-chiave del rapporto del filosofo con la propria terra: Pescasseroli, la sua cittadina natale (vi era nata anche la madre, Luisa Sipari), divenuta nel 1923 capitale del Parco Nazionale d’Abruzzo appena istituito; Montenerodomo, paese paterno in provincia di Chieti incluso, nel 1991, nel Parco Nazionale della Maiella; infine, Raiano, nella Valle Peligna, luogo legato all’amore giovanile per Angelina Zampanelli, a numerose villeggiature estive di Croce fra il 1895 e il 1913, e anche all’importante primo incontro, avvenuto nel dicembre 1901, fra il filosofo e Giovanni Laterza, incontro che avrebbe dato origine al loro intenso sodalizio, interrotto solo nell’agosto del 1943 dalla morte dell’editore pugliese.

Tornando al testo della Cosiddetta “Legge Croce”, del secondo articolo ci limiteremmo a sottolineare che allora l’ambiente era posto sotto la tutela del Ministero dell’Istruzione Pubblica, impostazione a nostro modesto avviso molto condivisibile che, purtroppo, si è persa negli anni: questa scelta sottintende la ferma convinzione che il patrimonio storico-culturale comprenda anche quello ambientale e paesaggistico, trattandosi di un fatto identitario. E trasmette al cittadino di oggi pure la misura dell’importanza che allora veniva giustamente attribuita all’istruzione e al Ministero che la regolamentava.

Dell’Articolo 4 appare opportuno mettere in evidenza quanto sia connesso con il secondo, nella rivendicazione del riconoscimento del piacere che la fruizione del paesaggio può trasmettere; nel caso di costruzioni ex novo o di ricostruzioni di immobili, infatti, la Legge si accertava che non danneggiassero «lo aspetto e lo stato di pieno godimento delle cose e delle bellezze panoramiche»: la sottolineatura, dunque, del valore della bellezza e del diritto a usufruirne senza essere disturbati da altri manufatti umani.

L’Articolo 5, infine, riporta all’attualità, nel divieto di turbare l’armonia del paesaggio con l’affissione di cartelli e altri mezzi pubblicitari che, invece, attualmente, in barba a qualsiasi regola, al decoro urbano e al buon gusto, violentano le nostre strade cittadine e anche la natura: il fatto che nel 1922 si sia avvertita la necessità di dedicare uno specifico articolo di legge a tale questione indica indirettamente che la pubblicità, nata alla fine del secolo precedente e rapidamente diffusasi anche grazie a uomini proiettati nel futuro e scaltri come Gabriele d’Annunzio, era già diventata talmente invadente e ingombrante da rappresentare un problema cui porre argine.

Un movimento europeo

Come ha notato sempre Settis, in Breve trattato del paesaggio (1997), tradotto da Sellerio, il filosofo francese Alain Roger ha rilevato intelligentemente che nel 1912 tre grandi intellettuali europei osservarono, indipendentemente l’uno dall’altro, che il paesaggio non è natura ma storia, ed è per questo che lo “vediamo” attraverso il filtro della letteratura e dell’arte. Lo scrissero in Francia il filosofo dell’arte Charles Lalo (1877-1953), in Germania il filosofo e sociologo Georg Simmel (1858-1918), in Italia Croce. Una tale sintonia di vedute si può spiegare con il fatto che tutti e tre si riferivano a un topos classico, quello secondo cui ‘la natura s’ingegna a imitare l’arte’, come si legge nelle Metamorfosi di Ovidio («simulaverat artem ingenio natura suo»: III, 158-59); ma riflette anche lo spirito del tempo di quel principio di secolo, quando i movimenti per la conservazione del paesaggio si affermarono, in tempi e modi diversi, in tutta Europa (specie in Francia, con la Legge, approvata il 21 aprile 1906 per iniziativa del socialista radicale Charles Beauquier[20], sulla «protection des sites pittoresques», premessa della futura Legge francese del 2 maggio 1930[21], volta a riorganizzare la protezione dei monumenti naturali e dei siti di carattere artistico, storico, scientifico, leggendario o pittoresco).

Il ruolo di Benedetto Croce al riguardo, comunque, non si limita alle riflessioni di un grande intellettuale: infatti, proprio a lui si deve, nel brevissimo periodo in cui fu Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Nitti, la prima legge italiana per la tutela del paesaggio di cui si è detto. E sarà bene ricordare che tale tutela del paesaggio in Italia ha rango costituzionale, poiché il nostro Paese è stato il primo al mondo a porla fra i principi fondamentali dello Stato (art. 9, comma 2: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»).

Altrettanto importante, nella tradizione giuridica e civile italiana, è lo stretto legame che sussiste fra tutela del paesaggio e tutela del patrimonio storico-artistico, che lo stesso art. 9 della Costituzione sancisce: se ne possono rintracciare antecedenti assai remoti, tornando indietro nel tempo fino all’ordine del Real Patrimonio di Sicilia del 21 agosto 1745, che, ad esempio, impose sia la conservazione delle antichità di Taormina sia quella dei boschi dell’attuale Parco dell’Etna.

Con il grande giurista Sabino Cassese, si può affermare che l’art. 9 della Costituzione rappresentò di fatto la “costituzionalizzazione” delle due leggi Bottai – l’una sulla Tutela delle cose d’interesse artistico o storico[22] e l’altra sulla Protezione delle bellezze naturali[23] – che furono approvate entrambe nel giugno del 1939, ma non bisogna dimenticare di aggiungere che esse furono, di fatto, la rielaborazione di due leggi dell’Italia liberale: la Legge Rava-Rosadi del 20 giugno 1909 n. 364 sulla tutela del patrimonio storico e artistico[24] e, appunto, la “Legge Croce” per la difesa del paesaggio. Queste due norme rappresentano il fondamento della cultura italiana della tutela, poi trasfusa nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (decreto legislativo del 22 gennaio 2004 n. 42, con modifiche del 2006 e del 2008)[25]. Si può, dunque, affermare senza tema di smentita che la “Legge Croce” del 1920, passando attraverso la riformulazione della legge Bottai del 1939, ha determinato l’art. 9 della Costituzione del 1948 nonché la legge vigente.

Vi si arrivò, tuttavia, attraverso un lungo processo che si concluse soltanto nel 1909, poiché si dibatté a lungo su publica utilitas e proprietà privata, per stabilire quale delle due ottiche privilegiare: infatti, sussisteva una disparità di vedute fra la tradizione “piemontese”, che attribuiva una priorità ai diritti dei privati, e quella “romana” (ma anche “toscana” e “napoletana”) che anteponeva il pubblico bene a ogni altro valore.

Si ricordi che, con la Legge n. 386 del 27 giugno 1907 (Istituzione soprintendenze antichità e belle arti)[26] era stato creato, appunto, il sistema delle Soprintendenze con speciali ripartizioni (archeologia, monumenti, gallerie e oggetti d’arte), che ebbero competenza territoriale ma furono sottoposte al Ministero dell’Istruzione. Nell’Articolo 3, la Legge equiparava di fatto sfera pubblica e privata in relazione alla conservazione e alla vigilanza dei monumenti; altri articoli interessanti, a nostro avviso: il 33, che prescrive l’ammissibilità solo dei laureati in Lettere al concorso per ispettore negli scavi e nei musei archeologici; il 35, che indica come «tema necessario d’esame la pratica della fotografia», nel concorso per disegnatori; il 74, che stabilisce che non possono essere impiegati come comandati agli uffici delle antichità e delle Belle arti dipendenti di altri uffici (tutte nette sottolineature dell’importanza del possesso di competenze specialistiche in materia come requisiti imprescindibili per svolgere un ruolo professionale di tale delicatezza e rilevanza culturale: di «funzionario che ritengano singolarmente competente» si parla, infatti, anche nell’Articolo 44).

Il fiorire di norme sulla tutela di quegli anni si spiega anche con la convinzione di molti intellettuali e parlamentari dell’epoca (fra cui Croce) che il patrimonio culturale fosse un elemento essenziale per definire e promuovere l’identità dei diversi territori e quella della nazione, in sintonia con l’educazione scolastica; il progetto era, insomma, quello di muoversi “tra scuola e custodia”.

La Legge n. 364 del 20 giugno 1909, come accennato, portò la firma del Ministro Luigi Rava, ravennate, ma deve almeno altrettanto a un altro ravennate, Corrado Ricci, che Rava nominò Direttore Generale alle Antichità e Belle Arti; al liberale lucchese Giovanni Rosadi e all’abruzzese Felice Barnabei, che era stato anch’egli Direttore Generale alle Antichità e Belle Arti. Come recita il suo Articolo 1, la Legge regolamenta «le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico o artistico» e ne tutela il «pubblico godimento» (Art. 2) e la manutenzione anche da parte dei privati, pena l’esproprio (cfr. Art. 7), oltre a impedirne l’esportazione (cfr. Art. 8), che comporterebbe un «danno grave per la storia, l’archeologia o l’arte» (ibidem).

Per la precisione, si rammenti anche che il testo della successiva Legge del 1° giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose d’interesse artistico o storico) parlava di «cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico» (Art. 1), con ulteriori differenze rispetto ai testi di legge precedenti; e che ereditava l’Articolo 1 della “Legge Croce”, modificandone il dettato in «cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, siano state riconosciute di interesse particolarmente importante» (Art. 2) – agghiaccia il riferimento alla “storia militare”, esattamente tre mesi prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale –; e l’Art. 5, divenuto: «sarà vietato il collocamento o l’affissione di manifesti, cartelli, iscrizioni e altri mezzi di pubblicità, che danneggiano l’aspetto, il decoro o il pubblico godimento degli immobili indicati negli artt. 1, 2 e 3» (Art. 22; le relative ammende venivano fissate nell’Art. 60). L’accenno dell’Art. 55 all’esproprio, invece, si riconnetteva maggiormente alla Legge del 1907 sulle Soprintendenze.

Da sottolineare ancora che alla Legge Rava-Rosadi n. 364 del 1909 si arrivò anche grazie a una pubblica assemblea tenuta a Firenze, il 6 dicembre 1908, e al lancio di una petizione, che raccolse ben 360 firme, fra le quali quelle di Giacomo Puccini, Pasquale Villari, Isidoro Del Lungo, Gaetano Salvemini, Adolfo Venturi, Arturo Graf, Corrado Ricci, oltre a quelle di 43 senatori e 16 sindaci. All’assemblea partecipò anche Benedetto Croce come delegato della Società Napoletana di Storia Patria: fu proprio il filosofo a proporre una mozione che venne votata per acclamazione e che, anche grazie all’emozione condivisa suscitata dal terribile terremoto di Messina (del 28 dicembre 1908), fu determinante per l’approvazione della norma.

Il vissuto traumatico di Croce e la sua attenzione all’ambiente

A proposito del terremoto, è necessario aprire una piccola parentesi per ricordare che, come ha sottolineato il fondamentale saggio di Gennaro Sasso Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di Benedetto Croce[27], i preziosi Taccuini del filosofo (che registrano pazientemente i lavori svolti da Croce dal 27 maggio 1906 fino al 1950)[28] sono una fonte inesauribile di notizie sulla sua alacre attività di studioso, condotta quotidianamente senza interruzioni per decenni. Come si è tentato di mettere in evidenza in un saggio del 2005[29], furono davvero pochissimi i momenti in cui uno scoramento paralizzante gli impedì di lavorare. Essi si possono individuare, ad esempio, nei giorni terribili in cui la già citata Angelina Zampanelli, la vivace signora romagnola con cui Croce aveva vissuto per quasi vent’anni, dopo una breve e violenta malattia si spense, il 25 settembre 1913; nei giorni più cupi del periodo della Prima guerra mondiale (in particolare, durante il catastrofico 1917, segnato pure dalla disfatta di Caporetto); proprio in quelli (tra il 1920 e il 1921) in cui egli fu Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Giolitti (a causa dello sconvolgimento che l’inizio di quella nuova attività produsse nella regolarità della sua vita di studioso); in quelli seguiti, nel 1926, alla soppressione della libertà di stampa, durante i quali gli aleggiò nella mente, per un attimo, il pensiero (e quasi la speranza) della morte; in quelli della scomparsa dei più cari amici (il 7 aprile 1926, Amendola; il 26 gennaio 1940, il giovane e promettente Aldo Mautino); fino al biennio 1938-1939, il più buio della vita di Croce, gravando sull’Europa la minaccia della nuova guerra e le «malvage» leggi razziali.

Come accennato, anche la notizia del terribile terremoto di Reggio e Messina del 1908 – circa 150.000 morti, e danni enormi[30] – lo sconvolse tanto da provocare la prima, seria interruzione della sua laboriosità[31]. Tutti i carteggi contengono accenni al terremoto di Messina e alla trepidazione con cui Croce seguì l’evento, attendendo notizie dei propri cari; tra le varie epistole, sono interessanti anche alcune lettere scambiate con Karl Vossler[32]. Ovviamente, l’impatto negativo che tale tragedia produsse nell’animo di Croce venne amplificato dalla primigenia, catastrofica esperienza da lui vissuta la notte del 28 luglio 1883, a soli 17 anni, durante il terribile terremoto di magnitudo 5.8 di Casamicciola, nel quale perse i genitori e la sorella Maria (il sisma fece circa 2000 vittime), rimanendo in prima persona ferito e claudicante a vita: segnato per sempre nel corpo e nello spirito, indelebilmente[33].

In occasione del nuovo sconvolgimento tellurico di magnitudo 3.9 (ma percepito quasi fosse di magnitudo 6, a causa dell’area molto ridotta, di soli 2 chilometri) accaduto recentemente a Ischia – a Casamicciola Terme, il 21 agosto 2017 –, sono apparse varie testimonianze, a mezzo stampa e televisive, nelle quali si sottolineavano svariate analogie fra i due eventi catastrofici del 1883 e del 2017[34], evidenziando alcuni errori commessi peccando di superficialità e di miopia: ci è parso, dunque, inevitabile pensare che probabilmente Croce fosse particolarmente sensibile al tema del paesaggio anche perché, nella sua esperienza di vita, la rovina (in senso etimologico, ruina) del paesaggio aveva coinciso anche con la perdita di persone care, provocando un vuoto che non sarebbe mai stato colmato del tutto in futuro. Pertanto, la tutela dell’ambiente e la difesa delle bellezze paesaggistiche da abusivismo, pubblicità aggressive e degrado con buona probabilità poteva rappresentare, nei suoi auspici, una forma di prevenzione atta a scongiurare che accadessero ancora tragedie simili a quella ischitana, sempre amplificate dall’imprudente e scorretta gestione del territorio da parte dell’uomo.

Ci si permetta, infine, di rilevare che, alla luce della lettura del testo della già citata Legge del 1907 sulle Soprintendenze – nella quale non sfugge l’alternanza dei verbi “vigilare” (ad es., nell’Art. 3) e “invigilare” (negli articoli 17, 22 e 42) e relativi campi semantici –, ci si potrebbe domandare quanto quel lessico abbia influito anche sulla “nota diaristica” crociana dei Taccuini (l’arcaismo «invigilato» viene adoperato, ad esempio, il 31 gennaio 1939) ricordata da Sasso nel titolo del proprio illuminante saggio del 1989[35], considerando che i suddetti Taccuini di lavoro registrano eventi della vita intellettuale di Croce dal 1906 al 1950. In tal caso, infatti, alla luce di quell’interessante spia linguistica, potrebbe essere lecito interpretare il suo “invigilare me stesso”, oltre che come “autosorveglianza”, anche come una sorta di “autotutela”.

L’apporto di Corrado Ricci

Si è, in precedenza, fatto cenno all’imprescindibile apporto anche di Corrado Ricci al dibattito dell’epoca. In un articolo uscito su «Emporium» nel 1905, Ricci aveva posto l’accento su tre questioni significative di quegli anni: il progetto dell’apertura di una nuova porta nelle mura di Lucca (scongiurato anche grazie al parere negativo e all’influenza sull’opinione pubblica di Carducci, Pascoli e d’Annunzio) e le minacce all’integrità paesaggistica e ambientale della cascata delle Marmore e della pineta di Ravenna. Proprio da quelle battaglie ebbe origine la Legge 411 del 1905 Per la conservazione della Pineta di Ravenna, la prima legge paesaggistica d’Italia che indicava nell’importanza storica del sito (in relazione a Odoacre, Teodorico, Dante, Byron, Garibaldi etc.) una ragione più che sufficiente per la sua salvaguardia.

Di questa e di altre battaglie resta ampia traccia nel ricchissimo Carteggio Croce-Ricci, uscito per il Mulino nel 2009: la corrispondenza tra Benedetto Croce e Corrado Ricci si estende per un arco temporale di quasi 38 anni, dal 26 ottobre 1890 al 27 maggio 1928 e – nel volume curato da Clotilde Bertoni per l’Istituto di studi storici di Napoli – consta di 561 missive. Come viene illustrato nella Nota al testo del volume, sono state inserite nel carteggio, oltre alle lettere private dei corrispondenti, alcune comunicazioni «di carattere ufficiale e di forma impersonale e paludata»[36] che i due si scambiarono soprattutto nei periodi in cui Ricci fu alla Direzione generale di antichità e belle arti (1905-1919) e Croce al Ministero della Pubblica Istruzione (1920-1921). L’intesa tra Croce e Ricci si risolse più sul piano pratico e dell’azione che su quello dei principi, provenendo Ricci dall’ambiente positivista che Croce, com’è noto, in gran parte criticava e cui si contrapponeva; nonostante ciò, il punto di contatto più evidente tra i due corrispondenti è la tenacia che li accomunò nel portare avanti battaglie civili che entrambi reputavano di grande importanza. Fra le tante occasioni in cui il loro congiunto impegno fu rivolto a vantaggio della collettività, sono da ricordare le battaglie: per un’accorta gestione del Museo nazionale di Napoli e il riordinamento della suddetta Pinacoteca, per il consolidamento della chiesa partenopea della Croce di Lucca (lettera 377 etc.), per la valorizzazione del sepolcro di Giacomo Leopardi (346), in favore della chiesa di Santa Maria alle Grazie a Caponapoli (358 etc.), per l’acquisizione da parte del Museo di S. Martino della raccolta di quadri del pittore Giuseppe Cammarano (367-368, 375-376), per la salvaguardia del Colosseo da una serie di interventi inopportuni volti a ospitarvi una stagione di concerti di lirica (540); e, inoltre, contro la deturpazione della piazza di San Domenico maggiore e il taglio del Palazzo Casacalenda di Napoli (378, 394 etc.), e contro la devastazione delle querce del chiostro dell’ex monastero di San Marcello, allora proprietà della Regia Università di Napoli (462-463) etc. Questo per ricordare brevemente che la formulazione della Legge del 1922 non fu l’unico intervento di Croce in favore del patrimonio storico-culturale nazionale.

La battaglia per l’approvazione della Legge del 1922

Del dibattito che si svolse negli anni trascorsi fra le due leggi del 1909 e del 1922 appare opportuno ricordare anche gli interventi del calabrese Luigi Parpagliolo, alto funzionario ministeriale secondo il quale bisognava estendere l’ambito di tutela della Legge Rava-Rosadi del 1909, includendovi anche «l’aspetto delle città storiche, gli spazi liberi che circondano le grandi città», e inoltre elementi dell’ambiente e della tradizione popolare.

Non si dimentichi neppure che, negli stessi anni, si cominciava anche a discutere della possibile istituzione di parchi nazionali, sul modello americano e di alcuni paesi europei, come la Svezia e la Svizzera. E non si trascuri l’impulso decisivo dato alla Legge del 1922 da Francesco Saverio Nitti, che istituì per regio decreto (n. 1792/1919) un Sottosegretariato alle Antichità e Belle Arti che avrebbe anticipato il Ministero dei Beni Culturali creato quasi sessant’anni dopo.

Il disegno di legge sul paesaggio venne redatto nel marzo del 1920 e toccò a Benedetto Croce, senatore dal 1910 e Ministro della Pubblica Istruzione dal giugno 1920 al luglio 1921, presentarlo in Senato il 25 settembre 1920; ne ottenne l’approvazione il 31 gennaio 1921, trasmettendolo alla Camera il 17 febbraio, ma, dopo le elezioni anticipate del 15 maggio 1921, dovette ripresentarlo il 15 giugno 1921. I suoi successori alla Pubblica Istruzione, Orso Mario Corbino (governo Bonomi) e Antonino Anile (governo Facta), portarono a compimento l’iter.

La relazione introduttiva dal titolo Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico, presentata da Croce al Senato il 25 settembre 1920, partiva dal presupposto che fosse «cosa ormai fuori da ogni dubbio» che «una legge in difesa delle bellezze naturali d’Italia fosse invocata da più tempo e da quanti uomini colti e uomini di studio vivono nel nostro Paese». Il Senatore rammentava pure la convinzione con cui, già nel governo precedente, il presidente Nitti aveva affermato che la tutela delle «maggiori bellezze d’Italia, quelle naturali e quelle artistiche», rispondeva ad «alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia» (passaggio assai efficace e attuale).

Alludendo fra le righe alla celebre formula secondo la quale il paesaggio è “il volto amato della Patria”, in quegli anni spesso attribuita erroneamente a John Ruskin, Croce in seguito comunque lo nominava quale iniziatore del movimento europeo in difesa della natura e del paesaggio, quando nel 1862 «sorse in difesa delle quiete valli dell’Inghilterra minacciate dal fuoco strepitante delle locomotive e dal carbone fossile delle officine». Nella Relazione di Croce, dunque, l’urgenza della salvaguardia del paesaggio veniva basata sulla sua affinità con il patrimonio artistico nel fondare l’identità nazionale, e legittimata mediante paralleli con le altre nazioni civili europee dell’epoca. Inoltre, il riferimento alle vedute e ai panorami presentava il vantaggio giuridico sia di assimilare il paesaggio a un quadro, categoria di beni già tutelata dalla norma del 1909, sia di collegare la nuova legge al principio della protezione delle vedute (aspectus, prospectus) assai radicata nel diritto romano e nei citati rescritti del Re di Napoli.

L’apporto di Parpagliolo

Si è citato, in precedenza, anche Luigi Parpagliolo: al riguardo si rimanda a un interessante saggio di Lorenzo Arnone Sipari dal titolo La storia «civile» in rapporto alla conservazione della natura. Il dibattito Croce-Parpagliolo sulla legge per le bellezze naturali del 1922, uscito nel febbraio 2017 su «Diacritica»[37]. In questo intervento si sottolinea sempre il ruolo di primo piano avuto da Croce in favore della causa del primo movimento della conservazione della natura; ma vi si ribadisce pure che, in realtà, le origini di quellʼimpegno vanno collocate anche nel quadro dei contributi apparsi nel periodico «Napoli Nobilissima», e in particolare nel decennio 1892-1902, in cui egli svolse un’incisiva attività di denuncia dello stato di degrado in cui versavano beni archeologici, artistici, urbanistici e ambientali.

Come sottolinea Arnone Sipari, proprio Parpagliolo testimonia che Croce intervenne «profondamente» sul testo della Legge, prima della sua formale presentazione[38]. I due, sebbene non fossero legati né da una particolare amicizia né da un sodalizio intellettuale profondo, furono di certo concordi nel sostenere la costituzione del Parco Nazionale dʼAbruzzo: Croce tramite la pubblicazione della monografia su Pescasseroli[39], e Parpagliolo mediante la stesura di vari articoli; dal 1923, inoltre, questi fu vicepresidente del relativo Ente autonomo presieduto da Ermino Sipari[40], cugino di Croce. La Difesa delle bellezze naturali dʼItalia di Parpagliolo, uscita dopo la “Legge Croceˮ e i decreti istitutivi dei parchi nazionali del Gran Paradiso e dʼAbruzzo (datati 3 dicembre 1922 e 11 gennaio 1923), è – sempre secondo il parere di Arnone Sipari – una fonte preziosa, assieme alla cosiddetta Relazione Sipari[41] del 1926, proprio per ricostruire la genesi della Legge del 1922 e l’apporto fattivo e decisivo di Croce.

Il Discorso di Pescasseroli

Si è appena fatto cenno alla monografia crociana su Pescasseroli del 1922: si può affermare, però, che la sua celebre chiusa, in cui Croce s’interrogava sull’avvenire del paese natìo, fosse stata anticipata dal noto Discorso di Pescasseroli[42], un sentito ricordo che Croce volle dedicare alla propria terra nel giorno del suo primo “ritorno a casa”, il 21 agosto 1910, secondo alcune fonti parlando dal balcone di Palazzo Sipari[43].

Se ne isolano tre brevi passi, peraltro molto evocativi:

Quantunque io non abbia, prima di questi giorni, percorso materialmente la via che conduce a questo paese, l’ho percorsa infinite volte con la fantasia; e quantunque ora per la prima volta abbia contemplato la casa dei miei progenitori materni, la piazza, la chiesa, i ruderi del castello, li avevo già visti molte volte come in sogno.

[…] Ed eccomi ora qui, che ho toccato il fantasma del sogno, e mi trovo anche materialmente in mezzo a voi. E voi vorrete sapere quale impressione io ora provi e se la realtà superi il sogno o se il sogno di prima superasse la realtà. Ed io vi risponderò che ancora una volta ho fatto l’esperienza, sopra me stesso, che il sogno è buono e la realtà è altrettanto (se pur diversamente) buona; che l’uomo è costituito di sogno e di realtà, di immaginazione e di azione, e l’una deve rafforzare l’altra e non sostituirsi all’altra, come suole negli spiriti, o grossolani, che non sognano mai, o fiacchi, che sognano sempre.

[…] La vostra piccola città, se volete saperlo, mi è parsa più bella, più ampia, più gaia, e (perdonatemi) più civile di come io la vagheggiavo; e tutt’altro che divisa dal mondo, perché qui, come si sente dai vostri discorsi, voi vivete del tutto affiatati con la vita italiana e moderna; e, anzi, è evidente che Pescasseroli, nome noto a così pochi per il passato (quantunque sia segnato nella geografia che il savio arabo Edrisi scrisse per Ruggero re di Sicilia), diverrà, fra non molti anni, familiare a tutti, come sono familiari i nomi dei villaggetti svizzeri; perché qui converranno, e da Roma e da Napoli e da ogni parte, i villeggianti e gli escursionisti.

Come emerge soprattutto dall’ultimo brano, Croce auspicava la realizzazione di un «modello di area protetta che si fondasse, come elaborato in anticipo sui tempi dal cugino Sipari, sull’intreccio tra tutela ambientale e sviluppo turistico; modello, questo, che era ben lungi dall’avallare una qualsivoglia devastazione della natura. Non a caso Pescasseroli usciva in contemporanea con la definizione degli atti relativi all’inaugurazione del Parco Nazionale d’Abruzzo avvenuta, per iniziativa privata, il 9 Settembre 1922»[44].

Ancora, si potrebbe ricordare al riguardo una relazione di Luigi Piccioni dal titolo Benedetto Croce e Pescasseroli tenuta proprio a Pescasseroli il 25 agosto 2007, in occasione dell’inaugurazione della mostra “Benedetto Croce dalla Costituente alla nascita della Repubblica 1943-1948”. In essa si ipotizza che, se non fosse stato convinto da Erminio Sipari, probabilmente neanche nel 1910, pur trovandosi nella vicina Raiano, Croce sarebbe andato a Pescasseroli. Il fatto che Croce avesse accettato l’insistente invito del cugino può essere spiegato, dunque, con il desiderio di rendere omaggio alle proprie radici ma soprattutto con la volontà di sostenere la carriera politica di Erminio. Infatti, Sipari legò indissolubilmente la propria fama a quella del Parco Nazionale d’Abruzzo, istituito principalmente per suo merito tra il 1922 e il 1923 e poi da lui diretto fino al 1933. In quest’opera per il Parco, e quindi per Pescasseroli e per la Valle, Croce gli fu sempre accanto; e si adoperò anche, tra il 1947 e il 1951, per la ricostituzione dell’Ente Autonomo del Parco Nazionale d’Abruzzo.

L’apporto originale di Lorenzo Arnone Sipari sull’argomento non si limita, però, ai fondamentali saggi citati in precedenza: un altro contributo assai prezioso è uscito sempre su «Diacritica» proprio nel febbraio 2022: La monografia di Pescasseroli come storia etico-politica[45]. Un passaggio di questo intervento che ci appare molto utile perché si viene a intrecciare bene con quanto espresso in precedenza è quello che connette l’«immagine» della madre, Luisa Sipari (1838-1883), alla stessa monografia Pescasseroli, rilevando come entrambe siano accomunate dallo struggente riferimento alla tragedia famigliare del terremoto di Casamicciola. In una nota dell’8 ottobre 1921 con la quale il filosofo restituiva gli scritti dello zio, Francesco Saverio Sipari, utilizzati per la stesura del saggio sul paese natale, egli confessava, infatti, di non aver «osato ripigliare e riguardare prima» quelle carte, che conservava fin dal 1883, proprio perché erano rimaste «sepolte a Casamicciola»[46].

Sipari ricostruisce accuratamente la genesi della monografia[47], ricordando che la fase della composizione interessò principalmente l’autunno del 1921. E rammenta pure che nel 1925 il saggio venne collocato, unitamente a quello dedicato a Montenerodomo (1919), in appendice alla prima edizione della Storia del Regno di Napoli. Con questa nuova veste, sotto il titolo unitario di Due paeselli d’Abruzzo, i due scritti[48], da storia famigliare e intima, da “storia domestica”, assurgevano alla dignità della storia civile ed etico-politica.

E su questa “storia civile” si chiude il cerchio, perché torniamo esattamente al testo dell’Articolo 1 della “Legge Croce” di cento anni fa.

  1. Si propone la prima parte del testo della Conferenza tenuta il 19 agosto 2022 presso la Biblioteca “Benedetto Croce” di Pollone (Biella), su invito della dottoressa Marta Herling, Segretario generale dell’Istituto di Studi Storici di Napoli, e della dottoressa Maria Ametis, Vicepresidente della Biblioteca Croce, in occasione delle Celebrazioni per i 70 anni dalla scomparsa del filosofo. Si ringrazia anche Filippo Testa per il decisivo supporto all’organizzazione dell’evento.

  2. Al riguardo cfr. l’URL: http://decretiamo.blogspot.com/2010/02/i-monumenti-non-si-toccano-1822.html.

  3. Cfr. l’URL: http://decretiamo.blogspot.com/2010/02/proteggere-gli-alberi-1842.html.maggio 1822.

  4. Al riguardo si vedano almeno: G. Alisio, Napoli e il Risanamento, Napoli, Ed. Banco di Napoli, 1980; A. Wanderlingh, Storia fotografica di Napoli (1892-1921). La città prima e dopo il risanamento. Edizione illustrata, Napoli, Intra Moenia, 2005; I. Ferraro, I Quartieri bassi e il Risanamento, Napoli, Oikos, 2018; A. Nastri, Cultura architettonica e politiche urbane a Napoli dal Risanamento all’Alto Commissariato, Napoli, CLEAN, 2019.

  5. Cfr. S. Settis, Benedetto Croce ministro e la prima legge sulla tutela del paesaggio, 3 ottobre 2011: cfr. l’URL: http://www.comitato-arca.it/joomla/DOC_VARI/allegati-agli-articoli/Settis/Croce-Ca_Foscari1.pdf.

  6. Cfr. l’URL: https://www.normattiva.it/atto/caricaDettaglioAtto?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1922-06-24&atto.codiceRedazionale=022U0778&tipoDettaglio=originario&qId=&tabID=0.9893834743559851&title=Atto%20originario&bloccoAggiornamentoBreadCrumb=true. Ecco l’URL del PDF: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1922/06/24/148/sg/pdf.

  7. Si cita dalla «Gazzetta Ufficiale» n. 148 del 24 giugno 1922, che riporta una data errata.

  8. E nell’importante Memoria La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», a. XXXIII, 1893, Memoria n. 7.

  9. Si veda, ad esempio, B. Croce, Poesia e non poesia, in «Pantagruel», a. I, 27 marzo 1887, n. 2.

  10. Si leggano, ad esempio: B. Croce, La poesia didascalica (brano di una conversazione), in «Rassegna pugliese», a. IV, 1887, pp. 52-54; Id., Poeti, letterati e produttori di letteratura, in «La Critica», a. III, 1905, pp. 239-45.

  11. Al riguardo, anche per la bibliografia sull’argomento, ci si permette di rimandare a M. Panetta, Introduzione a Ead., Croce editore, Ed. Naz. Opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, 2006, to. I, specie le pp. 62-95.

  12. Cfr. Scrittori d’Italia. Criteri direttivi e Catalogo della raccolta, Bari, Laterza, 1910.

  13. Cfr. M. Panetta, Croce editore, op. cit., to. I, pp. 277-82; Ead., L’edizione crociana dei Lirici marinisti del 1910, in «Diacritica», a. II, fasc. 2 (8), 25 aprile 2016, a cura di M. Panetta, pp. 13-17 (https://diacritica.it/filologia/ledizione-crociana-dei-lirici-marinisti-del-1910.html). ↑

  14. Cfr. B. Croce, La storia della letteratura come arte e la “prosa”, in «La Critica», a. IV, 1906, pp. 386-89.

  15. Al riguardo si rimanda sempre a M. Panetta, Note sulla genesi del concetto di letteratura nell’estetica crociana, in Ead., Croce editore, op. cit., to. II, pp. 763-69.

  16. Al riguardo si rivela sempre suggestivo M. Marangoni, Come si guarda un’opera d’arte, Milano, Treves, 1938 (lettura consigliataci in anni universitari da Mario Scotti).

  17. Cfr. l’URL: https://www.arpa.veneto.it/servizi/educazione-per-la-sostenibilita/file-e-allegati/documenti/internazionali/allegato_142-joannhesburg.pdf/@@display-file/file.

  18. Cfr. l’URL: https://www.mase.gov.it/pagina/convenzioni-unesco-lambiente-e-la-biodiversita.

  19. Cfr. l’URL: https://www.parchiletterari.com/parchi/benedetto-croce/index.php.

  20. Cfr. Barbe Noël, Charles Beauquier (1833-1916): una figura nella protezione dei siti… e tante altre cose, in «Le Jura français», n. 299, 2013, pp. 11-16.

  21. Si legge all’URL: https://www.legifrance.gouv.fr/jorf/id/JORFTEXT000000312974.

  22. Cfr. la Legge 1° giugno 1939, n. 1089, uscita nella «Gazzetta ufficiale» n. 184 dell’8 agosto 1939 e che si legge all’URL: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1939/08/08/184/sg/pdf.

  23. Cfr. la Legge 29 giugno 1939-VII, n. 1497, uscita nella «Gazzetta ufficiale» n. 241 del 14 ottobre 1939 e che si legge all’URL: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1939/10/14/241/sg/pdf.

  24. Uscita sulla «Gazzetta Ufficiale» del 28 giugno 1909, n. 150, e che si legge all’URL: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1909/06/28/150/sg/pdf (da p. 5 a p. 9).

  25. Si legge all’URL: https://www.gazzettaufficiale.it/dettaglio/codici/beniCulturali.

  26. Si legge all’URL: https://www.archeologi-italiani.it/wp-content/uploads/2021/05/LEGGE-27-Giugno-1907-n.-386.pdf.

  27. G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, Il Mulino, 1989.

  28. Napoli, Arte tipografica, 1987.

  29. Cfr. M. Panetta, Croce e la catastrofe. Gli scenari apocalittici dei terremoti di Casamicciola e Reggio, in Apocalissi e letteratura, n. 15 di «Studi (e testi) italiani», a cura di I. De Michelis, 2005, pp. 155-71.

  30. Cfr. G. Boatti, La terra trema. Messina 28 dicembre 1908. I trenta secondi che cambiarono l’Italia, non gli italiani, Milano, A. Mondadori, 2004. Simile il titolo del recente romanzo Einaudi sull’argomento a firma di Nadia Terranova, Trema la notte (2022).

  31. Taccuini di lavoro registrano queste osservazioni, al riguardo: 29 dicembre 1908: «Angosciato dalla notizia del terremoto di Messina e dall’incertezza sulla sorte di parecchi amici che sono colà. Ho telegrafato a Palermo e a Catania e ho scritto lettere; ma non so quando avrò risposta. Mi è stato impossibile far nulla nella giornata. Ho passato alcune ore a letto» (vol. I, p. 139); 30 dicembre 1908: «Stamane continua l’angoscia. Non ricevo notizie» (ivi, p. 140); 31 dicembre 1908: «Con la morte nel cuore, non avendo finora ricevuto nessuna notizia e nessuna risposta ai telegrammi e alle lettere, continuo, sforzandomi di concentrarmi nel lavoro, a scrivere la Logica» (ibidem).

  32. Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, a cura di E. Cutinelli Rèndina, Napoli, Bibliopolis, 1991, pp. 119-20, XCIV, Croce a Vossler, Napoli, 5 gennaio 1909: «Non ti ho scritto in questi giorni perché il disastro di Messina ci ha gettati nell’angoscia e nel lutto. Avevo tanti amici colà! Qualcuno si è salvato, come il Lombardo Radice; altri, come il Salvemini, vi ha perduto tutta la famiglia, e fa temere per la sua ragione; il povero Fusco, di cui tu hai recensito il libro sul Castelvetro, sembra sia restato sotto le macerie: tutte le ricerche, che ne sono state fatte fare da me, sono riuscite vane. E per me la perdita del Fusco è come quella di un figlio. Ma i dolori privati sono accresciuti dai dolori pubblici, e veramente non par cosa dei nostri tempi l’assistere alla sparizione di una grande città come Messina». E ancora si veda la lettera XCV, Vossler a Croce, Heidelberg, 9 gennaio ’909: «Temevo forte che tu avessi amici e parenti fra i morti di Messina. Ora vedo che ne hai anche più di quel che temevo. Sono stato molto coi miei pensieri intorno a quella inconcepibile catastrofe; e credimi che prendo sinceramente parte alla disgrazia tua e del tuo paese. Almeno se ne cavasse poi la fortuna di una nuova sistemazione economica del Mezzogiorno. Poiché se non se ne cava nulla, resta un fatto bruto o uno stupido e feroce arbitrio della natura – e chi potrà mai consolarsene? E il Barbi e il Restori son salvi?» (ivi, p. 120).

  33. Si rimanda ancora al saggio precedentemente citato per ulteriori approfondimenti: M. Panetta, Croce e la catastrofe. Gli scenari apocalittici dei terremoti di Casamicciola e Reggio.

  34. Al riguardo si legga: Il terremoto di Casamicciola del 1883: una ricostruzione mancata, Napoli, Alfa Tipografia, 2006.

  35. Cfr. G. Sasso, Per invigilare me stesso…, op. cit., p. 297.

  36. Carteggio Croce-Ricci, a cura di C. Bertoni, Bologna, il Mulino, 2009, p. CXCV.

  37. Cfr. l’URL: https://diacritica.it/filologia/la-storia-civile-in-rapporto-alla-conservazione-della-natura-il-dibattito-croce-parpagliolo-sulla-legge-per-le-bellezze-naturali-del-1922.html.

  38. L. Parpagliolo, La difesa delle bellezze naturali dʼItalia, Roma, Società editrice dʼarte illustrata, 1923, p. 49.

  39. B. Croce, Pescasseroli, Bari, Laterza, 1922. Al riguardo cfr. anche L. Arnone Sipari, Gli inediti di Benedetto Croce nellʼArchivio Sipari di Alvito, in «LʼAcropoli», V, 2004, n. 3, pp. 309-19.

  40. Al riguardo si vedano almeno: L. Piccioni, Erminio Sipari. Origini sociali e opere dellʼartefice del Parco Nazionale dʼAbruzzo, Camerino, Università di Camerino, 1999; e Scritti scelti di Erminio Sipari sul Parco Nazionale d’Abruzzo (1922-1933), a cura di L. Arnone Sipari, Trento, Temi, 2011, pp. 305-10.

  41. Ovvero E. Sipari, Relazione del Presidente del Direttorio provvisorio dellʼEnte Autonomo del Parco Nazionale dʼAbruzzo alla Commissione amministratrice dellʼEnte stesso, nominata con Regio Decreto 25 marzo 1923, Tivoli, Maiella, 1926.

  42. B. Croce, Il discorso di Pescasseroli, in Id., Due paeselli dʼAbruzzo: Pescasseroli e Montenerodomo, a cura dei Comuni di Pescasseroli e di Montenerodomo, Raiano, Centro Stampa GraphiType, 1999 (anche in ristampa anastatica, Raiano 2022), pp. 17-20.

  43. B. Croce, Il discorso di Pescasseroli, pubblicato per la prima volta nel fasc. 1-2/1966 della «Rivista Abruzzese» e ristampato nel volume La lunga guerra per il Parco nazionale d’Abruzzo (Quaderni di Rivista Abruzzese, 24), Lanciano 1998, pp. 15-18. In realtà, Croce non precisa, nelle proprie note, dove tenne il suddetto Discorso.

  44. L. Arnone Sipari, Il percorso di Croce all’ecologia liberale attraverso le radici familiari, in Croce tra noi. Due giornate di studio, Pescasseroli-Università degli Studi di Cassino, 3-4 giugno 2002, Atripalda, Mephite, 2003, pp. 25-37.

  45. Cfr. l’URL: https://diacritica.it/filologia/la-monografia-di-pescasseroli-come-storia-etico-politica.html.

  46. Cfr. L. Arnone Sipari, Gli inediti di Benedetto Croce nell’Archivio Sipari di Alvito, in «L’Acropoli», V, 2004, n. 3, pp. 309-19: 316.

  47. Ivi, p. 314. Ma si veda anche L. Arnone Sipari, Benedetto Croce e la monografia su Pescasseroli dall’Archivio Sipari di Alvito, in «Rivista Abruzzese», LI, 1998, n. 4, pp. 309-14.

  48. B. Croce, Due paeselli d’Abruzzo: Pescasseroli e Montenerodomo, op. cit.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

Dalle tenebre alla luce. Memoria e autobiografia nel “Contributo alla critica di me stesso” di Benedetto Croce

Author di Carmelo Tramontana

Alle origini dell’autobiografia c’è un bivio: si può scegliere tra Agostino e Rousseau come modello di riferimento e in questo modo si imprimerà alla storia del genere letterario una parabola nettamente diversa. Il progetto confessionale di Agostino prevede un movimento dall’esterno verso l’interno: dalla cronologia dell’esistenza quotidiana a quella dell’esistenza spirituale, in cui il tempo è scandito in maniera diversa dal semplice susseguirsi degli istanti. Dal mondo esteriore all’anima, dall’egocentrismo alla lode di Dio, che si scopre essere insediato in interiore homine, l’autobiografia agostiniana segue la via dello sprofondamento dentro sé stessi. Il culmine di questo progetto immersivo è la scomparsa dell’individualismo esasperato, gemello neppure troppo segreto di ogni impresa autobiografica, a mano a mano che, immergendosi dentro sé stesso, l’io scoprirà Dio. Il punto più profondo dell’individualità è per l’Ipponate il luogo dove si neutralizza la tentazione solipsistica. Rousseau, che intitola allo stesso modo il suo progetto autobiografico, procede invece in direzione opposta: dall’interiorità al mondo esterno, dalla vita spirituale all’anatomia e alla cronografia dell’esistenza quotidiana. L’io russoviano si estroflette sino a coincidere con l’orizzonte della realtà esistente o escludendo dalla realtà ciò che non coincide con sé stesso: «M’impegno in un’impresa senza precedenti, e la cui esecuzione non avrà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura; e quest’uomo sarò io»[1]. Continua a leggere Dalle tenebre alla luce. Memoria e autobiografia nel “Contributo alla critica di me stesso” di Benedetto Croce

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

La filosofia italiana di fronte al Grande Fratello. Croce e Franchini lettori di Orwell

Author di Rosalia Peluso

I believe that the key to the future is in the remnants of the past.

(Bob Dylan)

The last man in Europe

Tra il 1946 e il 1949 nascono due libri capitali sul totalitarismo. Il primo è Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt. L’altro è 1984 di George Orwell. Due “maestri irregolari”[1].

Il primo libro ha dalla sua parte la storia, quella appena conclusasi; le fonti, le testimonianze, le interpretazioni, benché ancora “calde”, non ancora oggettivatesi nella ricostruzione saggistica[2]. Il secondo non parla del tempo che fu, ma di quello che sarà. Non è una registrazione, ma una previsione totalitaria. Non parla del totalitarismo come lo abbiamo conosciuto ma del totalitarismo che conosceremo: di quegli elementi totalitari che, notava proprio Arendt, si annidano anche nei regimi più democratici e che sono garantiti dall’atomizzazione degli individui e proliferano grazie ad essa, all’architettato progetto di atrofizzare le esperienze condivise, quelle politiche in primo luogo. Per questo lo scrittore ambienta la narrazione in un futuro allora remoto, il 1984. Continua a leggere La filosofia italiana di fronte al Grande Fratello. Croce e Franchini lettori di Orwell

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

Le dediche dei libri di Benedetto Croce

Author di Paolo D'Angelo

È molto difficile pensare che la dedica di un libro possa contribuire in qualche modo alla comprensione del libro stesso, e ancora più strano parrebbe credere che dall’insieme delle dediche dei libri di un autore si possa ricavare qualcosa di interessante sulla sua fisionomia intellettuale. Tutto questo è pacifico per le dediche di esemplare, cioè per quelle dediche che l’autore appone sulla singola copia all’atto della consegna o dell’invio ad altri. Oltre al fatto che è obiettivamente molto difficile rintracciarle, esse interesseranno al massimo qualche bibliofilo in cerca di copie autografate. Ma la stessa cosa sembra valere anche per le dediche d’opera, cioè quelle dediche che appaiono nella versione a stampa, di solito subito dopo il frontespizio. Anch’esse, se pur facilmente documentabili, non sembrano aprire nessuna via aggiuntiva di accesso all’opera, e rimanere irrimediabilmente chiuse nell’ambito dei rapporti personali, familiari o di amicizia.

Questa sostanziale irrilevanza della dedica ai fini dell’interpretazione dell’opera sembra confermata dalla scarsissima attenzione che le dediche, anche d’opera, hanno sempre suscitato, e che trova eccezioni quasi solo quando una dedica è stata aggiunta o cancellata, come nei casi a loro modo celebri della dedica a Napoleone del Génie du Christianisme di Chateaubriand introdotta nella seconda edizione o quella simmetrica della dedica a Husserl di Sein und Zeit, cancellata da Heidegger dopo la promulgazione delle leggi antisemite in Germania. Tanto è vero che l’unico studio specifico della funzione della dedica – almeno l’unico di cui sono a conoscenza – è quello contenuto in Soglie di Gérard Genette, libro che studia i «Dintorni del testo», come i titoli, le epigrafi, le prefazioni, le note e, appunto, le dediche. E proprio da Genette ho tratto la prima distinzione, tra dediche d’esemplare e dediche d’opera, facilitata in francese dal fatto che quella lingua ha due verbi diversi per l’una e l’altra operazione: si dice dédier per la dedica d’opera e dédicacer per la dedica d’esemplare[1].

Nonostante tutto ciò, credo che prestare un po’di attenzione alle dediche con le quali Croce ha accompagnato parecchie delle sue opere abbia qualche importanza, almeno nel senso che ci restituisce alcuni tratti non secondari della sua psicologia e della sua umanità. Certo, sono il primo a pensare che occuparsi delle dediche di Croce non serva a nulla per entrare nelle sue teorie e per capire la sua filosofia, ma ritengo che per lo meno dal punto di vista biografico esse abbiano un interesse non secondario. Sicuramente lo hanno per me, che, avendo appena pubblicato per l’editore Il Mulino una biografia di Croce, potrei dire, parafrasando l’«io non sono che un critico» pronunciato da Iago in Shakespeare, di non essere che un biografo[2].

La prima osservazione che farei è che Croce utilizza moltissimo le dediche. Praticamente tutte le opere di Croce che non sono raccolte di saggi (e anche alcune che lo sono) portano in esordio una dedica.

Le raccolte di saggi non sono di solito dedicate, e il motivo è abbastanza intuibile, trattandosi di saggi per lo più scritti in tempi e circostanze diverse. Non recano dedica, ad esempio, i volumi della Letteratura della Nuova Italia, di Poesia e non Poesia, di Poesia antica e moderna. Non hanno dedica Una famiglia di patrioti ed Etica e politica. Anche nel caso delle raccolte di saggi ci sono, tuttavia, notevoli eccezioni: i Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana usciti in prima edizione nel 1910 recano una dedica ad Antonio Fusco, «morto in Messina il 28 decembre 1908», cioè perito nel terribile terremoto di Messina e Reggio. Antonio Fusco era particolarmente caro a Croce. In una lettera a Vossler Croce scriveva: «il povero Fusco sembra sia rimasto sotto le macerie […] e per me la perdita di Fusco è come la perdita di in figlio», e a Fusco Croce aveva dedicato un commosso ricordo su «La Critica» del 1909. Di lui lo colpiva certamente la dignità con cui affrontava le molte difficoltà di una vita irta di ostacoli. Fusco era stato sacerdote (aveva abbandonato l’abito talare non molto tempo prima di morire), proveniva da una famiglia semplice, aveva studiato a Napoli senza gran frutto e poi si era trasferito in Germania cercando di migliorare la sua preparazione, aveva lavorato come precettore in case private fino a quando, anche con l’aiuto di Croce, non aveva potuto vincere un posto pubblico nella scuola di Sciacca, dove però aveva dovuto sopportare le ristrettezze economiche, le prepotenze dei locali, la miseria intellettuale dei colleghi. Croce era riuscito a farlo trasferire a Messina nel 1906 (qui aveva trovato un ambiente migliore, legandosi anche a docenti dell’università) e aveva fatto pubblicare diversi suoi lavori, da quelli su Castelvetro fino al saggio su Flaubert.

Il filosofo aveva vissuto da adolescente la perdita del padre, della madre e della sorella nel terremoto di Casamicciola del 1883, e ne rimase segnato tutta la vita. Il disastro del 1908 a Messina suscitò in lui un’emozione enorme, riaccendendo i ricordi della propria personale tragedia. La preoccupazione per la sorte degli amici, come Giuseppe Lombardo Radice, e anche di studiosi a lui meno legati, come Gaetano Salvemini (che a Messina perse la moglie e i cinque figli: e Croce, negli anni immediatamente successivi, gli fu vicino come mai lo era stato e come non lo sarebbe stato in seguito), ha un preciso riscontro nella chiusa del ricordo di Fusco affidato a «La Critica»:

Quando mi giunse a Napoli la notizia del terremoto di Messina, tra le immagini che mi si affollarono rapide alla fantasia fu, tra le prime, quella del Fusco, con quel suo volto malinconico, con quella sua aria trepida e spaurita come di chi sia sempre in sospetto di qualche colpo della sventura; e subito mi sorse in cuore, irrefrenabile, il presentimento, anzi la desolata certezza della sventura. […] Per più giorni io e altri amici domandammo e cercammo dappertutto, e facemmo cercare. […] Una fallace notizia, comparsa sui giornali, ci ridette, crudelmente, la vana speranza per qualche istante. Ma nessuno l’aveva visto, nessuno sapeva di lui. Vissuto nel dolore, era dileguato nel silenzio[3].

Il caso della dedica a Fusco di una raccolta di saggi, per quanto dettato dalle circostanze particolarissime che abbiamo appena visto, non è tuttavia isolato. Anche gli Ultimi saggi recano una dedica, quella a Julius von Schlosser, lo studioso austriaco coetaneo di Croce e traduttore di alcune sue opere in tedesco. Ma di lui parleremo dopo, quando ci occuperemo di un’altra tipologia di dediche crociane, quella delle dediche a personaggi stranieri famosi.

Restando, invece, nella categoria “dediche di raccolte di saggi”, vorrei segnalare due eccezioni. La prima è quella di Uomini e cose della vecchia Italia, dedicato a Francesco Ruffini fin dalla prima edizione del 1926. Anche lui coetaneo di Croce, giurista e docente universitario, Ruffini conosceva il filosofo da tempo, ma i rapporti tra i due, inizialmente non del tutto armoniosi, si erano rinsaldati soprattutto nel periodo di ascesa del fascismo, verso il quale Ruffini aveva manifestato fin da subito profonda avversione. E con Ruffini Croce si sarebbe incontrato molto spesso, durante i soggiorni in Piemonte, negli anni successivi. Dopo la sua morte, sulla «Critica» del 1934, Croce ne avrebbe scritto un ricordo commosso, nel quale leggiamo questa frase significativa: «quel che davvero unisce gli esseri umani è qualcosa di più profondo che non il consenso delle idee: è il consenso nel sentimento verso la vita vissuta»[4].

L’altra è quella della dedica del libro estremo di Croce, le Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, apparso l’anno stesso della morte di Croce, il 1952, e che reca la dedica al banchiere Raffaele Mattioli, motivata nell’Avvertenza con queste parole: «Dedico questo volume a Raffaele Mattioli, che mi ha dato e mi dà continue prove della sua amicizia in questa età della vita in cui dell’amicizia si sente più forte il bisogno ed essa torna più cara».

Se quelle appena viste sono le principali eccezioni alla regola secondo la quale Croce non dedica le raccolte di saggi, val la pena qui di segnalare subito l’eccezione simmetrica di un’opera monografica, importante, e priva di dedica: la Storia d’Italia del 1928, forse perché troppi sarebbero stati i dedicatarii possibili, o forse per non creare possibili imbarazzi a qualcuno, dedicandogli un’opera che sarebbe subito apparsa come una critica al regime da poco instaurato.

Subito dopo la distinzione tra dedica d’opera e dedica d’esemplare, Genette ne introduce un’altra, quella tra la dedica moderna, diciamo così, disinteressata, e la dedica in uso fino al Settecento, quando spesso la dedica a un nobile o a un potente serviva per ottenere privilegi e al limite un finanziamento per la stampa. Ovvio che di questo secondo tipo di dedica, nella quale il dedicatario svolge un ruolo paragonabile a quello di un committente, non si trovino esempi in Croce, come praticamente in tutti i libri dell’età contemporanea. Se proprio volessimo trovare una corrispondenza – lo ammetto, parecchio tirata per i capelli – con le dediche di Croce, potremmo tentarla con le dediche apposte a plaquettes per nozze: usanza ancora molto frequente, nelle classi elevate, all’inizio del Novecento. Ricordo due opuscoli per nozze ai quali Croce, che non amava questo tipo di scritti di occasione, non sottrasse la propria collaborazione.

Il primo è quello a Onorato Fava, poeta e scrittore – uno dei “Nove Musi”, tra cui Croce, che usavano riunirsi in una trattoria del Vomero –, a lui dedicato in occasione del matrimonio con Giulia Massucci, Donne in pittura e matrimoni in poesia (1891):

Ma perché, mio caro Fava, io sto qui a parlare dell’Olanda, delle Fiandre, delle mogli, e della vita coniugale dei grandi pittori di quei paesi? Perché, all’annunzio del tuo matrimonio, il mio pensiero s’è portato verso l’Olanda? Ritrovare i legami di un’associazione d’idee non è sempre facile: saranno stati questa volta i tuoi libri tradotti in olandese, e stampati ad Arnheim o a L’Aja? Comunque, giacché sono in Olanda, ci resto ancora …[5].

Si noti l’accenno personale, e il legame autobiografico. Il riferimento all’Olanda, infatti, è e non è metaforico: Croce aveva viaggiato in Olanda proprio nel 1891, e il suo pezzo si chiude con la citazione di un poeta olandese in lingua originale.

Molti anni dopo, Croce dedicherà a Giuseppe Lombardo Radice e a sua moglie Gemma Harasim, in occasione delle loro nozze, avvenute nel 1910, una raccolta dei propri scritti composti quando era ancora uno scolaro, prima del terremoto di Casamicciola, nel 1882, intitolandoli Il primo passo:

A Giuseppe Lombardo Radice e alla sua gentile sposa, della quale non da ora io pregio il fine ingegno e il nobile cuore di educatrice, mi permetto di offrire nell’occasione delle loro nozze, invece di un testo inedito o di una dotta dissertazione, quei quattro articoli dell’«Opinione letteraria», che furono i miei primi – il mio primo passo – ristampati senza mutarvi parola e senza ritoccarne i tratti puerili. Accolgano essi, e guardino con un sorriso, questa ingiallita fotografia, ripescata tra vecchi ricordi, che ritrae il loro amico qual era ai suoi sedici anni[6].

Si tratta di Le Lettere Virgiliane del Bettinelli; Bettinelli e Dante; la Canzone Alla Fortuna del Guidi; Didone, tutti pubblicati da Croce nel 1882 su «L’Opinione letteraria», supplemento letterario del settimanale «L’Opinione» del marchese D’Arcais. Nell’opuscolo Croce ricorda:

Tra gli scolaretti di Liceo che rivolsero le loro vergini forze all’Opinione letteraria […] fui anch’io. Il quale, tra l’estate e l’autunno del 1882, mandai al D’Arcais, con molta trepidazione, quattro articoli, che per l’appunto erano stati prima componimenti di scuola, presentati in terza liceale all’insegnante di lettere italiane, Ferdinando Flores. Il Flores (che era insieme professore di Letteratura Greca nell’Università di Napoli) lasciava volentieri che i suoi alunni si sbizzarrissero in temi di libera elezione, suggeriti dalle personali letture e impressioni. Così si spiega come io, che passavo per l’erudito della classe, prendessi a trattare del Bettinelli e di Alessandro Guidi[7].

Può essere curioso ricordare che Croce fece qualcosa di simile anche in occasione del proprio matrimonio con Adele Rossi, nel 1914, facendo stampare da Laterza una plaquette intitolata Iuvenilia, nella quale raccolse i primi frutti della sua attività erudita successiva alla catastrofe. La dedica alla moglie è singolarmente interessante:

Qualche anno fa, ristampai per le nozze di un amico quattro miei articoli critici del 1882, che furono il mio “primo passo”. Ed ora raccolgo in questo fascicoletto alcuni scrittarelli da me pubblicati tra i diciassette e i ventun anni, e li dono a te, cara Adele, che avrai piacere di leggermi qual ero allora, e sei fortunata, vorrei aggiungere, di non avermi conosciuto allora, in quella travagliosa tristezza che si chiama gioventù[8].

Gli scritti sono: Ranuccio Farnese e Sisto V; Una vecchia questione, Arte e morale; Dante Alighieri, poeta latino del secolo XV; Pensieri sull’arte; La poesia didascalica.

Si tratta di una scelta tra i lavori composti in quegli anni giovanili; altri, infatti, sarebbero poi stati ristampati in altre raccolte. Croce qui scrive di escluderli «perché non aggiungerebbero nulla ai tratti fisionomici, che si desumono dagli scritti che ho qui raccolti. Parlo della fisionomia “intellettuale”: ché, se poi vuoi vedermi anche nel mio aspetto fisico di allora, guarda l’unico ritratto, che è di quegli anni».

È oltremodo interessante osservare che questa dedica è praticamente l’unica dedica a familiari e insomma a persone cui Croce è legato da una relazione personale, intima, assieme a quella che si legge in apertura dell’opera filosofica probabilmente più famosa e influente tra quelle scritte da Croce. Stiamo parlando, lo si sarà già intuito, della dedica che campeggia sul quarto foglio dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: «Alla memoria dei miei genitori Pasquale e Luisa Sipari e di mia sorella Maria». Ed è difficile trattenersi dal pensare che per dedicare un libro ai familiari scomparsi Croce abbia atteso il libro di cui già intuiva, se non il successo pubblico (che infatti in parte lo sorprese), certo l’importanza decisiva nel suo percorso intellettuale e in qualche modo quello fondativo della sua filosofia.

Si tratta anche di uno dei rari casi di dediche a persone scomparse. Le dediche “in memoria” sono infatti molto poche: singolare tra tutte quella retrospettiva a Francesco De Sanctis e a Giosuè Carducci che campeggia su La poesia, libro pubblicato nel 1936 quando il primo era scomparso da oltre cinquanta anni e il secondo da quasi trenta. Al di là di questo omaggio a distanza, andranno ricordate quella a Bartolommeo Capasso in Storie e leggende napoletane, e soprattutto quella ad Antonio Labriola nella seconda edizione di Materialismo storico ed economia marxistica (che così viene ad essere un’altra delle raccolte di saggi che recano una dedica). Ma la prima edizione non aveva dedica e la seconda seguiva di poco la scomparsa, nel 1904, dell’unico maestro che Croce abbia avuto: «Alla memoria di Antonio Labriola Che m’iniziò a questi studi».

Con queste dediche siamo già, però, entrati nel campo della “dedica motivata”, alla quale appartengono la gran parte delle dediche crociane. Genette la descrive così:

La dedica d’opera […] mostra una relazione, intellettuale o privata, reale o simbolica, e questa esibizione è sempre al servizio dell’opera, come argomento di valorizzazione o tema di discussione” […] La sua propria funzione, non per questo trascurabile, si esaurisce in questa esibizione, esplicita o meno. Il ruolo di patrocinio o di cauzione morale, intellettuale o estetica si è essenzialmente preservato: non si può, alla soglia o alla fine di un’opera, menzionare una persona senza in qualche modo invocarlo […] e dunque implicarlo come una sorta di ispiratore ideale[9].

La motivazione della dedica rivolta ad amici che sono stati anche compagni di studi e di ricerche è talvolta esplicitata direttamente nella dedica, come nel caso della Storia del Regno di Napoli indirizzata a Michelangelo Schipa, anch’egli uno del “Nove Musi” e collaboratore di «Napoli Nobilissima»: «All’amico Michelangelo Schipa che l’intera vita ha consacrata a illustrare la storia del mezzogiorno d’Italia»; o in quello della Rivoluzione napoletana del 1799 a Giuseppe Ceci (il “decimo Muso” dell’epigramma «Al grato arrivo di Peppino Ceci/i nove Musi diventaron dieci»): «All’amico Giuseppe Ceci in ricordo di comuni studi giovanili». In altri, nella scelta del dedicatario è implicita la motivazione, anche se alla radice della dedica c’è sempre un rapporto personale di amicizia: così nel caso della dedica all’ispanista Eugenio Mele di La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, o in quello del saggio su Goethe del 1919 al germanista Arturo Farinelli «All’amico Arturo Farinelli in ricordo dell’inverno torinese 1917-1918». Altre volte il legame motivazionale è più debole, come nella dedica al grande amico conte Alessandro Casati delle Vite di avventure, di fede e di passione, o assente del tutto come in quella all’amico di gioventù Pasquale del Pezzo, duca di Caianello, del volumetto edito da Loescher in cui veniva ripubblicata e ampliata la memoria sulla storia del 1893 (Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte, 1896).

Tra le dediche amicali spiccano, per ragioni diverse, quella a Gentile della Bibliografia Vichiana del 1904 e quella a Francesco Torraca dei Teatri di Napoli nell’edizione Laterza del 1916. Nel primo caso, la dedica è senza dubbio calorosa: «All’amico Giovanni Gentile come a un di coloro che con Vico sentono non doversi altrove il fine degli studi riporre che nel coltivare una specie di divinità nell’animo nostro», ma a voler essere maligni si potrebbe notare che Croce dedica a Gentile un lavoro bibliografico e non un testo filosofico, quasi a rimarcare la distanza tra le loro posizioni in questo campo, allora ancora sottotraccia ma destinata a emergere rapidamente. La dedica a Torraca dei Teatri è, invece, l’unico caso di mutamento di destinatario della dedica che ho avuto modo di riscontrare. Infatti, la prima edizione era dedicata ad Alessandro Ademollo, lo storico che aveva compiuto una ricerca simile a quella crociana per i teatri romani, ma era ormai scomparso da parecchi anni, mentre la seconda viene da Croce dedicata allo storico della letteratura col quale era da tempo in rapporti epistolari e personali.

Una dedica amicale singolare, perché diretta genericamente «ai miei amici», è quella di Poesia popolare e poesia d’arte, ma che, visti i versetti da una parafrasi dell’Apocalisse che la accompagnano, si spiega forse con il momento storico in cui fu scritta: «Ai miei amici Questo libro sull’antica poesia italiana. Vedralli il mondo e li dirà simili / ad olivi che han fronde ai mesi algenti / a lampade le cui fiamme gentili / Estinguere non può l’ira dei venti».

Alcuni dei libri di Croce hanno come dedicatarii personaggi stranieri famosi. Non necessita spiegazioni la dedica a Wilhelm Windelband – anzi a Guglielmo Windelband – della Filosofia di Giambattista Vico, dato che lo storico della filosofia tedesco aveva inserito Vico nella seconda edizione della sua Geschichte der neueren Philosophie. Ma altre dediche sono accompagnate da una lettera, che diventa così una vera e propria epistola dedicatoria, rinverdendo una tradizione ormai obsoleta e rara nelle dediche degli autori novecentesche. Così nel caso dello storico zurighese Eduard Fueter, al quale è dedicata la Storia della storiografia italiana del secolo decimonono:

Gentile amico, ricorderà un giorno del gennaio 1914, in Zurigo, in cui, tornando insieme in battello dalla sua casa campestre, e discorrendosi dell’edizione francese che allora si preparava della sua Storia della storiografia moderna, io le facevo notare che nel suo libro, così bene informato delle cose italiane fino al secolo decimottavo, c’era una lacuna per quel che concerneva la storiografia italiana del secolo decimonono, del periodo del Risorgimento. Ed ella conveniva con me circa questa lacuna, ed io allora le dissi che mi sarei adoperato a riempirla con uno speciale lavoro. Quel lavoro forma ora questi due volumi, e a me viene spontaneo il pensiero di dedicarlo a Lei, anzitutto come attestato di stima per così valoroso compagno nelle indagini storiche, e poi anche per una ragione sentimentale. Il breve soggiorno che feci a Zurigo, in quell’inverno del 1914, mi è rimasto nell’anima come un dolce momento idillico della mia vita, e, direi, della vita della società contemporanea. C’intrattenemmo, allora, amichevolmente, di letteratura e filosofia, e tutti noi, svizzeri e italiani e tedeschi e francesi, e ci sentivamo tranquilli, affratellati nei comuni studi; e nei nostri discorsi non s’interpose un qualsiasi sospetto che di lì a pochi mesi, saremmo stati violentemente divisi, gettati di qua e di là dalla feroce forza delle cose, e costretti a udire, e forse taluni di noi perfino a dire, aspre e ingiuste parole. Quante volte, nel corso della guerra, sono tornato come a rifugio e a riposo all’immagine di Zurigo, bianca di neve, del gennaio 1914, e alle sembianze degli amici, coi quali allora conversai! E vi torno anche ora, e da quel passato mi piace trarre un augurio per l’avvenire.

Anche la dedica a Carl Vossler, l’amico tedesco col quale Croce fu in corrispondenza per un cinquantennio, della Storia dell’età barocca in Italia, si appoggia a una epistola dedicatoria, anche se più breve:

Ti dedico questo libro nella ricorrenza del trentesimo anno da quando ci conosciamo. Avevo letto nei Literaturblatt für germanische und romanische Philologie una recensione, segnata col tuo nome, di un mio saggio riguardante la commedia dell’arte, quando, nell’estate del 1899, c’incontrammo a villeggiare insieme a Perugia, e passammo alcuni mesi tra lunghe e confidenti conversazioni e discussioni, che molte volte si sono rinnovate nel corso di questo trentennio. Né solo la filosofia del linguaggio e quella dell’arte e la metodologia della storia e le ricerche e i giudizi di storia letteraria e culturale sono stati i punti della nostra unione spirituale, ma, cosa più essenziale, il modo di concepire e sentire la vita; e tanti avvenimenti e mutamenti sono accaduti da quel tempo, per tante gravi prove siamo passati, e pure quell’intendere agli stessi segni, e la nostra amicizia, sono rimasti costanti. E non è mancato a farli saldi il necessario elemento di diversità, che a noi viene soprattutto dai paesi a cui apparteniamo, dai loro particolari atteggiamenti e dalle loro particolari tradizioni di cultura: diversità, che ha efficacia di stimolo e di arricchimento scambievole.

Gli Ultimi saggi del 1935, che abbiamo già ricordato come eccezione alla regola per cui Croce di solito non dedica raccolte di saggi, sono dedicati a un altro grande amico e divulgatore delle idee di Croce nei paesi tedeschi, lo storico dell’arte austriaco Julius Schlosser, con queste parole: «A Giulio Schlosser, nel cui vivo e limpido intelletto questi miei pensieri sanno di ritrovare una rinnovata fecondità» (e infatti non pochi degli Ultimi saggi avevano argomento estetico, a partire dall’Aesthetica in nuce che li apre.

Ma il più famoso dei dedicatari stranieri di un’opera crociana è senz’altro il grande scrittore Thomas Mann. All’autore dei Buddenbrook Croce dedicò, e non c’è bisogno di insistere sul valore civile e simbolico di questa dedica, la Storia d’Europa, con un’epigrafe dantesca: «Pur mo’ venian li tuoi pensier tra i miei / con simil atto e con simile faccia, sì che d’entrambi un sol consiglio fei». Le lettere scambiate tra i due a proposito dell’intenzione di Croce di dedicare il libro sono state ristampate da poco nel volumetto di scritti autobiografici di Croce Soliloquio[10]:

Vorrei concludere con una curiosità. Tra tutti i tipi di dedica, inclusa la dedica di esemplare, la più rara è senza dubbio l’autodedica, la dedica indirizzata dall’autore a sé stesso. Io conosco solo un caso, quello di una pièce giovanile di Joyce, intitolata A brilliant Career. Ma ne posso aggiungere uno tratto da quello che rimane il più singolare degli scritti eruditi giovanili di Croce, la Lucrezia d’Alagno, consacrato alla giovane di nobile famiglia che divenne, diciottenne, la favorita del re Alfonso D’Aragona, allora cinquantaquattrenne. Lo scritto è notevole soprattutto perché esibisce un tono disinvolto, conversativo. È un Croce stranamente a metà strada tra la congerie di fatti eruditi, che rischiano di sommergere la narrazione, e la spigliatezza dal narratore, che non può sottrarsi all’aspetto pruriginoso della vicenda: se Lucrezia fosse l’amante del re o se, come ella sostenne, si fosse sempre negata allo spasimante in attesa delle nozze regali. Labriola, spiccio come al solito, liquidava la questione in questo modo: «Ho letto la vostra biografia di quella tale sgualdrina». Lo scritto venne pubblicato da Croce su «La rassegna pugliese», e venne firmato con lo pseudonimo Gustave Colline, il filosofo squattrinato Delle scene della vita di Bohème di Henry Murger (che poi diventerà il basso che canta Vecchia Zimarra nell’opera di Puccini). Ebbene, a chi è dedicata la Lucrezia d’Alagno? «A G. C.» ovvero a Gustave Colline, cioè a Croce stesso.

  1. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 115 e sgg.
  2. P. D’Angelo, Benedetto Croce. La biografia I. Gli anni 1866-1918, Bologna, Il Mulino, 2023.
  3. B. Croce, Antonio Fusco, in «La Critica», 1909; poi in Id., Pagine sparse, vol. II, Napoli, Ricciardi, 1943, pp. 48-58.
  4. B. Croce, Francesco Ruffini, in «La Critica», 1934, pp. 229-30.
  5. B. Croce, Mogli in pittura e matrimoni in poesia, in Id., Aneddoti di varia letteratura, Napoli, Ricciardi, 1942, vol. II, pp. 61-64.
  6. B. Croce, Il primo passo, in Id., Pagine sparse, vol. I., Napoli, Ricciardi, 1943, p. 420.
  7. Ibidem.
  8. In B. Croce, Pagine sparse, vol. I cit., p. 441.
  9. G. Genette, Soglie, op. cit., p. 133.
  10. B. Croce, Soliloquio e altre pagine autobiografiche, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 2022.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

Le idee di una donna dell’Ottocento. In margine al carteggio Croce-Neera

Author di Renata Viti Cavaliere

La corrispondenza tra Benedetto Croce e Neera si svolse tra il 1903 e il 1917, anno che precedette la morte della scrittrice, avvenuta nel 1918. Il filosofo, di lei più giovane di vent’anni, era già noto al mondo degli studi per i suoi interessi eruditi, per i saggi su Marx, e soprattutto per la pubblicazione nel 1902 dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Si aggiunga, poi, che dal 1903 era nata «La Critica» col compito di svolgere nel corso degli anni un approfondito lavoro esegetico e culturale, passando al vaglio critico, con la collaborazione di Gentile (allora amico di Croce), autori e scritti di varia umanità, sceverando tra libri recenti o di fama già acquisita che spaziavano nei campi della letteratura, della storia e della filosofia. Continua a leggere Le idee di una donna dell’Ottocento. In margine al carteggio Croce-Neera

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

Croce e Löwith: contributo all’interpretazione di Giambattista Vico

Author di Francesco Di Concilio

Introduzione: crisi nella storia o crisi della coscienza storica?

Il 7 luglio 1822, il regio revisore del regno di Napoli, Lorenzo Giustiniani, appone il suo imprimatur al Saggio di alcune considerazioni sull’opera di Giovan Battista Vico intitolata Scienza Nuova di Francesco Colangelo, vescovo di Castellammare di Stabia, con queste parole:

[…] Signore era a lui serbato di far sentire per la prima volta la sua voce contro un libro, che diede occasione a segnare un’epoca molto infelice in Europa. Non essendovi cosa né contro la nostra Sacrosanta Religione, né contro i dritti della Sovranità, essendo il principale scopo del suo lavoro di far rispettare e l’una e gli altri; potrà perciò l’E.V. permetterne ben subito la pubblicazione per mezzo delle stampe[1].

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(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

La “Recherche” di Francesco Orlando. A proposito di “In principio Marcel Proust”

Author di Paolo Squillacioti

La pubblicazione degli scritti dedicati da Francesco Orlando (1934-2010) all’esegesi della Recherche[1] aggiunge un importante tassello alla meritoria opera di recupero degli scritti dispersi e inediti di uno studioso che ha fornito allo studio della letteratura, di quella francese in particolare, un modello di analisi originale ed efficace. Dopo il volume dedicato all’analisi del soprannaturale in letteratura[2], complemento all’ampia ricerca sugli oggetti desueti che il critico aveva condotto a termine con un lavoro trentennale[3]; dopo la silloge di scritti sul teatro musicale[4], chi conosceva l’attività e le passioni di Orlando attendeva l’aggiunta all’opera postuma del côté proustiano. Continua a leggere La “Recherche” di Francesco Orlando. A proposito di “In principio Marcel Proust”

(fasc. 46, 30 dicembre 2022)

Morselli e Proust: un confronto sul sentimento

Author di Maria Panetta

Dopo uno studio preliminare durato all’incirca un decennio (dal 1922 al 1932)[1], nell’agosto del 1943 Guido Morselli pubblica il primo saggio di una certa ampiezza, Proust o del sentimento[2]. Concluso nel maggio del 1942, edito da Garzanti con una prefazione di Antonio Banfi[3] e definito dall’autore, nelle pagine introduttive, una sorta di «guida»[4] alla Recherche[5], il volume è da leggere, a parere di chi scrive, soprattutto come una prima formulazione della poetica del Morselli scrittore. Continua a leggere Morselli e Proust: un confronto sul sentimento

(fasc. 46, 30 dicembre 2022)

Julia Kristeva lettrice di Proust: il “tempo” del sensibile e il “sensibile” come tempo

Author di Giovanna Russo

Proust e l’universo sensibile

Pubblicato in lingua inglese nel 1993, ampliato ed edito in Francia presso Gallimard ma ancora oggi privo di un’edizione in lingua italiana, Le temps sensible: Proust et l’expérience littéraire, della nota filosofa semiologa e psicoanalista francese di origini bulgare Julia Kristeva, merita certamente di essere annoverato tra i maggiori lavori dedicati a Marcel Proust nel corso del Novecento, e ciò non solo per l’interdisciplinarità caratterizzante le acute analisi dell’autrice, ma anche per la capacità di quest’ultima di riscoprire una (in-)attualità di Proust, gettando luce sugli aspetti del capolavoro proustiano che sembrano poter rispondere alle più specifiche esigenze del nostro tempo. Continua a leggere Julia Kristeva lettrice di Proust: il “tempo” del sensibile e il “sensibile” come tempo

(fasc. 46, 30 dicembre 2022)