Recensione di “Diavoli di sabbia” (2022) di Elvira Seminara

Author di Maria Panetta

In una Sicilia-Mondo contemporanea, rievocata tramite mai neutri riferimenti all’Etna (ad esempio, alle pp. 49 e 131) e a Messina, un’inquietante perturbazione atmosferica sembra innescare un’indiavolata catena di storie tutte legate fra loro: è il perfetto meccanismo a orologeria di un’affabulatrice esperta, ma sempre innovativa nelle trame e nello sguardo, assieme cinico e incantato, sulla realtà. Diavoli di sabbia è l’ultima, avvitata creazione letteraria targata Einaudi della geniale autrice dell’Atlante degli abiti dismessi (2015) e dei Segreti del giovedì sera (2020) nonché di tante altre fortunate prove narrative, oltre a una lunga e impegnata serie di articoli giornalistici.

Elvira Seminara tiene da anni vivaci corsi di scrittura, e chi ha avuto il piacere di assistere alle sue luminose e sorprendenti lezioni conosce bene la sua sapienza nell’architettare storie spesso a partire da minimi dettagli, nel congegnare strutture raffinatissime dagli incastri perfetti, nel curare il lessico fino alla maniacalità, nello scrivere auscultando sempre il ritmo dei pensieri e traducendolo in parole e pause, pesate e calibrate armoniosamente, alternando con maestria termini precisissimi e lapsus rivelatori (nel romanzo, ad es.: «ho tagliato e cucito tre donne, […] volevo dire tre gonne», p. 7). Sempre un piacere sentir vibrare la sua brillante intelligenza nelle pagine acute e scoppiettanti che confeziona ad arte per i lettori, in genere nascondendosi e mimetizzandosi fra le righe, ma talvolta (magari suo malgrado) facendo capolino in una riflessione o in un commento. Nel romanzo ce ne sono tanti, che arrivano con la perentorietà di motti a innervare ulteriormente certe battute: «è uno sbaglio rattoppare e ricucire quando è più sano demolire» (p. 30); «Tenere per sé non è nascondere. Custodire segreti, ricordi e fantasie non è mentire, è una cosa benefica invece, salutare, oltre che un diritto, si chiama anche riservatezza» (p. 38); «L’umanità non può tollerare troppa realtà» (ibidem); «è incredibile quante briciole di noi lasciamo ai colombi, e quante impronte, per chi vuole raggiungerti anche solo così, da estraneo, scrivendo di te» (p. 47); «noi siamo fatti per stare in mezzo agli altri, per rapinarci e salvarci. La società comincia con la rottura del femore, chi l’ha detto?» (p. 50); «è una cosa molto bella, e rara, mantenere l’estraneità» (p. 63); «Ma quanti sono i giorni felici, in una vita, secondo te? Un mucchietto così, di sabbia d’oro. Tutti gli altri servono a fare massa, come la paglia sotto le bottiglie, nei cesti di Natale» (p. 88); «è impossibile capire le proprie madri, è come leggere il tuo diario in una lingua sconosciuta» (p. 89); «perdiamo la gioia per negligenza, e l’amore per scarsa manutenzione» (p. 136) etc.

In Diavoli di sabbia Seminara ha scelto la modalità del dialogo a due, dialogo peraltro in cui talora le voci volutamente si confondono e quasi si sovrappongono: il romanzo potrebbe essere letto e rappresentato felicemente come una serie di quattordici scene teatrali che prendono il titolo, ognuna, dai nomi dei due protagonisti. Funzionano benissimo, in tal senso, alcune chiuse, come quella del capitolo 8, Sonia e Alga:

  • Guarda i miei capelli, con questa umidità diventano schiumosi e viola elettrico, sembro la regina Elizabeth col cappellino da cocktail, ecco l’unico difetto delle vetrate
  • Quale?
  • Che ti specchiano mentre guardi fuori. E cerchi il mondo, invece. (P. 77)

I Dust Devils esistono veramente: sono fenomeni meteorologici tipici dei territori desertici o secchi, dovuti a correnti connettive. Si tratta di coni di sabbia e polvere che possono superare i 500 metri e che, in una mezz’ora al massimo, in certi casi potrebbero arrecare anche seri danni: nel romanzo di Seminara il Dust Devil diviene «un vortice che ti afferra, e ti trasforma» (p. 125), metafora di quei particolari frangenti di vita in cui un’intera esistenza sembra avvitarsi attorno a un evento anche casuale oppure occasionale, non sempre importante, ma che finisce per provocare un effetto a catena che, da un momento all’altro, può sconvolgere anche annosi equilibri e portare situazioni in bilico a deflagrare («poi a un tratto salta la grata, e affiora tutto il sottosuolo», p. 135). Del resto, una delle immagini più significative dell’intero romanzo a quadri – a nostro modesto avviso – è proprio quella della «rosa borderline» (p. 100): una «rosa squinternata, lei chiama così i fiori al confine, in punto di sfiorire» (ibidem).

Un nome maschile pronunciato inconsciamente nel sonno è, infatti, all’origine di una sorta di effetto domino, che si protrae per tutta la durata del romanzo, facendo cadere illusioni, barriere, difese, sogni, ipocrisie, autofinzioni: il vortice atmosferico esterno si ripercuote sulla vita di tutti i protagonisti, che vedono la propria quotidianità in qualche modo sconvolta. C’è chi coglie la palla al balzo e ne approfitta per dare un taglio a una relazione sentimentale ormai stantia; e chi ne soffre, reagendo agli eventi in maniera inattesa, creativa o tragica («Quando dico di voler morire mia sorella ride, lo chiama eccesso di vitalità, perché amo troppo la vita, e non mi rassegno quando scarseggia», p. 121). Fatto sta che le narrazioni trainate dai dialoghi (le sceneggiature di Seminara sono perfette nei loro ritmi) si susseguono l’una all’altra, connesse sempre da un personaggio. Come nelle provenzali Coblas capfinidas, infatti, il secondo dei due nomi del titolo del capitolo precedente si ritrova per primo in quello successivo (Iris e Rodolfo, Rodolfo e Dora etc.), legando e dando continuità a una serie di “scene” che altrimenti potrebbero viaggiare benissimo anche isolate. Conferisce ulteriore compattezza alla trama, però, l’ingegnoso espediente narrativo che vede riecheggiare, negli ultimi capitoli, le storie raccontate nei primi, ma deformate – come in una sorta di “gioco del telefono” (del resto, l’oralità è una marca prepotente di tutto il romanzo) – dall’ottica personale e dall’aggiunta di senso che, nel passaparola, ogni “ripetitore umano” imprime alla narrazione dei fatti nudi e crudi. L’abilità narrativa di Seminara, inoltre, fa sì che, anche all’interno di ogni singolo capitolo, siano incastrate altre storie che, come matrioske, contengono a propria volta nuovi spunti di racconto: un intarsio magico alla Mille e una notte, condensato nel giro di poche pagine (come accade, ad esempio, nel capitolo 12, Olimpia e Manlio).

Il passato giornalistico di Seminara affiora spesso fra le pagine, specie in relazione alla tematica ambientale, che le sta evidentemente molto a cuore (si vedano i riferimenti al bambù a p. 20, alla «massa antropogenica» a p. 83, ai «detriti» in orbita a p. 89, ai rifiuti sull’Everest a p. 95, agli scheletri di case e alle «opere pubbliche incompiute» a p. 100), ma anche da qualche riferimento alla pandemia da Covid-19 (pp. 71, 121): questo romanzo dall’apparenza giocosa da intrattenimento (presentato in questi termini, anche in copertina, come “giostra”), a nostro parere, rivela infatti, al contempo, anche un intento militante di denuncia (intenso il brano sull’odore del carcere di p. 21, per esempio) e una riflessione seria, e a tratti cupa, sul destino umano che – confessiamo – ce lo rende assai caro.

Fin dalla dedica a Ripellino si percepisce che il comico e il tragico saranno allegramente alternati, nel corso dell’opera. A nostro avviso, però, il contrasto più forte e potente del libro è quello fra il dominante horror vacui delle valanghe di parole, delle sequele di pensieri accatastati e giustapposti, dell’ammassarsi degli oggetti (fra gli altri, tornano le scarpe e gli indumenti, elementi ricorrenti dell’immaginario di Seminara), dell’ossessione per i dettagli, della rapidità affannata dei ritmi verbali e dell’accelerazione folle che agli eventi sembra imprimere il vorticare caotico dei mulinelli di sabbia; e la sotterranea aspirazione al silenzio («il silenzio è un regalo di Dio, per farsi perdonare di aver creato gli uomini», p. 116), alla dissoluzione, alla smaterializzazione. L’umano desiderio di visibilità, la necessità della considerazione altrui e l’egoistico protagonismo si alternano all’anelito opposto: a scomparire, dileguarsi («scorporandosi», p. 9), non lasciare traccia («avrei voluto farmi sciogliere dall’acqua, sbavare, scontornare, ripulire, cancellare, farmi punire e umiliare dall’acqua, perché ero incarognito», p. 45; «Ha il pelo scuro come la terra, ma quando nevica diventa bianca. Si mimetizza e scompare. Io vorrei essere una lepre bianca», p. 57; «L’assenza di tracce e di ricordi dà un senso di libertà, di scorrimento», p. 74); al malinconico fiume carsico dell’annichilimento – a volte subìto come una subdola violenza («ma lei si sente invisibile perché lui la sta cancellando, pezzo a pezzo», p. 117) – che spesso affiora tra le pagine.

Per adoperare una metafora cara al Realismo Terminale, si può dire che Diavoli di sabbia sia come un “frullatore”: di storie, di coscienze, di dialoghi, di lessico, di fatti, di opinioni. Solo gli ultimi due capitoli del romanzo sembrerebbero essere al riparo dall’influenza satanica dei diavoli di sabbia: il terzultimo, infatti, si chiude con un rasserenante «arcobaleno» (p. 140) che parrebbe preludere al ripristino della “normalità” e alla fine dell’emergenza. Il tredicesimo, però, appare smentire immediatamente le aspettative del lettore, con un cortese ma gelido dialogo muto, a distanza telematica, fra i due uomini che avevano dato origine alla diabolica macchina narrativa, Manlio e Rodolfo: e non sfugge il lapsus di quest’ultimo, che lo appella come “Mario” perché è ancora chiaramente turbato dal nome di uno sconosciuto, pronunciato dalla sua donna durante il sonno. La loro chat, dunque, non promette niente di buono; e, infatti, l’ultimo capitolo interviene a ribadire che, ormai, il senso della crisi è consustanziale all’oggi (del resto, la sabbia si rivela essere troppo granulosa ed effimera per dare corpo a diavoli davvero persistenti e a lungo impenetrabili). E a riaccendere il finale con una nota briosa e arguta, chiudendo il cerchio con gli stessi due personaggi (Rodolfo e Iris) che, se nell’incipit dialogavano in carcere, nell’explicit si trovano nell’appartamento di lui a distanza di cinque anni; ma l’interrogativo terminale («Fine?», p. 150) lascia in bocca al lettore il sapore acidulo dell’ambiguità, la curiosità del dubbio, del finale a sorpresa, dietro al quale s’intravede il ghigno giocoso e divertito della fatina demiurga che ha concepito questa caleidoscopica sciarada.

La realtà – sembra suggerire, in limine, Seminara – è spesso più diabolica della nostra stessa immaginazione: e, per fortuna, a volte – commentiamo noi – anche al romanziere più accorto sfugge qualche iridescente riflesso di sé, fra le righe, nonostante il suo impegno costante a «raffreddare e contenere, vigilando» (p. 68). Del resto, montalianamente

Ogni giorno scompaiono cose, ci sono fessure dappertutto, faglie pericolosissime, spaventose o invisibili, e nascondono insetti, uova di animali, filamenti, ma anche frammenti di cose sconosciute, che si mischiano […] ci sono buchi anche nelle giornate, e dentro cade di tutto, cose minime e innocue, virgole, refusi, sillabe di cose non dette, scaglie e pezzi di un sogno, e si decompongono, diventano germi, virus del pensiero, scarti, avanzi, starnuti, droplet, insomma tutti lasciamo una mappa […]. (P. 82).

Lo scrive la stessa Seminara che la logica «non è il contrario del sentimento, è invece un sentimento, anzi di più, è un aggregatore di sentimenti» (p. 101). E allora sorge il dubbio che tutti i suoi personaggi in bilico possano essere declinazioni di un’unica voce alla ricerca di un contatto umano sincero e di uno scambio schietto, non paga dell’ingenua illusione di poter essere «la vacanza di qualcuno, la sua avventura libera e felice» (p. 103), perché, se la solitudine talora schianta e annienta, a volte dalla Zweisamkeit o “Duitudine”, dalla «solitudine provata in due» (p. 108), non si esce vivi.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

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Recensione di “Close” (2023), di Lukas Dhont

Author di Francesco Gualini

La vera impossibilità di un recupero

L’estate sta finendo in un paese belga. I tredicenni Léo e Rémi si affacciano all’adolescenza e corrono spensierati in un immenso campo fiorito: due ragazzini legati da una profonda e intima amicizia.

Close, il nuovo film di Lukas Dhont, giovane regista e sceneggiatore belga, porta lo spettatore in un viaggio solo apparentemente prevedibile. Infatti, non si tratta di una pellicola sulla consapevolezza della propria sessualità e identità di genere o sulla scoperta di un’attrazione sentimentale, tematiche che stanno avendo una loro degna rappresentazione in campo cinematografico e seriale. È qualcosa di diverso, se non di nuovo.

Léo e Rémi sono una certezza l’uno per l’altro, condividono esperienze e sentimenti, dimostrando quell’intesa invidiabile e invidiata dei migliori amici: un equilibrio che si altera nel momento in cui varcano la soglia della scuola superiore. Léo, attento ai comportamenti dei coetanei, vuole essere accettato e fare nuove conoscenze. Rémi, un sensibile suonatore di oboe, è più timido e fragile. La loro amicizia affettuosa colpisce alcune alunne che chiedono a entrambi senza pudore e con la tipica sfrontatezza adolescenziale se sono anche una coppia. Questa indiscrezione scatena una lunga serie di conseguenze, in primis l’allontanamento progressivo di Léo da Rémi, che porta via con sé la perdita brutale di un’intimità.

Rispondendo ad alcune domande sull’origine della trama, Dhont ha ricordato la visita alla sua scuola primaria, ai luoghi della sua infanzia. Nella campagna fiamminga ha pensato al desiderio di narrare un’amicizia, ambientandola in mezzo alla natura; poi si è imbattuto in un lavoro di ricerca condotto da una psicologa americana, Niobe Way (Deep Secrets: Boys’ Friendships and the Crisis of Connection). Way ha raccolto le interviste di circa 150 giovani di sesso maschile fra i 13 e i 18 anni: i più giovani hanno parlato dell’importanza capitale degli amici del loro stesso sesso, con toni affettuosi. La psicologa ha poi notato come, nel corso di cinque anni, a causa di una cultura disumanizzante e della cosiddetta mascolinità tossica, gli stessi ragazzi si distaccassero da tale percezione perché avevano paura di essere descritti e additati come effeminati o gay. Infatti, la società non si aspetta tenerezza, sensibilità e, tantomeno, vulnerabilità dai giovani uomini.

Dhont ha voluto sia rappresentare cinematograficamente la tenerezza di un’amicizia maschile, un modo di essere represso e censurato, sia riprodurre in parte il proprio vissuto, contaminato dalla paura delle etichette e dagli stereotipi machisti, dedicando Close agli amici perduti lungo la strada. Durante la prima parte della pellicola, Léo allontana volontariamente Rémi: inizia a evitare contatti fisici con l’amico, sceglie di non dormire più a casa sua, impara a giocare a hockey sul ghiaccio con altri coetanei. Rémi subisce questo distacco improvviso e ne soffre senza capire la ragione. In seguito a uno scontro fisico tra i due ragazzi, è emblematico e toccante un pianto silenzioso di Rémi davanti ai suoi genitori e a un freddo Léo.

La transizione adolescenziale, com’è risaputo dagli studiosi del settore, è un periodo pieno di cambiamenti non solo fisici e intellettivi, ma anche affettivi e sociali e risente dell’influenza del contesto culturale. In particolar modo, nella preadolescenza i problemi legati alla pubertà, all’identità corporea, alla sessualità s’impongono spesso con forza e senza preavviso prima che i ragazzi abbiano gli strumenti psicologici necessari per affrontarli e comprenderli. In Close è evidente come l’ambiente e la pressione sociale condizionino pesantemente il comportamento di Léo e la dinamica relazionale dei protagonisti, e come loro stessi non abbiano ancora la capacità di decodificare certe emozioni, di restituirle l’uno all’altro e di discuterne con la giusta maturità.

L’amicizia dei ragazzi si compromette fino ad arrivare a un punto di non ritorno. I due vanno sempre insieme a scuola in bici, ma un giorno Léo non aspetta Rémi. La reazione di quest’ultimo è dirompente e violenta: di fronte a una spiegazione insoddisfacente di Léo, Rémi piange e prova a picchiare l’altro davanti a tutti i compagni nel cortile scolastico, fino a essere bloccato da un adulto.

Durante la conferenza stampa al Festival di Cannes, Dhont ha specificato l’importanza del linguaggio del corpo e della naturalezza, e la scelta di dare al cast la piena libertà d’espressione, puntando molto sulla chimica creata tra gli attori sul set. I ragazzi sono stati seguiti appositamente da un tutor per la gestione delle emozioni e hanno ricevuto supporto professionale da Léa Drucker e Émilie Dequenne, interpreti, rispettivamente, delle madri di Léo e Rémi.

In seguito all’episodio di forte rottura, i ragazzini non si frequentano più e alcuni sguardi furtivi restano l’unico contatto tra loro. Lo spettatore non intuisce appieno se c’è un effettivo sentimento d’amore, corrisposto o meno e stroncato sul nascere: non è questo il vero cuore del racconto, perché all’improvviso la pellicola prende una piega inaspettata. La classe di Léo fa una gita fuori porta, ma Rémi non partecipa. Ritornando a scuola con l’autobus, tutti i genitori aspettano stranamente i propri figli, creando un presentimento oscuro e, purtroppo, dai risvolti drammatici: Rémi, infatti, si è suicidato. Una verità che la stessa madre di Léo fa fatica a rivelare al figlio, esplicitando, paradossalmente, il tabù che aleggia attorno alla morte. A questo punto inizia la seconda parte del film, segnata dall’elaborazione di un lutto traumatico.

In una società egocentrica con insufficiente educazione affettiva, in cui vige lo stereotipo perpetuato del maschio aggressivo e competitivo, la psicologa Niobe Way ha indicato nei propri studi un incremento del 60% dei tassi di suicidio mondiali negli ultimi 45 anni. Le società industrializzate che prediligono la produttività economica rispetto all’uguaglianza sociale o l’indipendenza rispetto all’amicizia hanno tassi più alti di depressione, criminalità e dipendenze: un quadro negativo e pericoloso su cui converrebbe riflettere.

La morte del ragazzino stravolge le aspettative dello spettatore e, soprattutto, la vita di Léo. Sophie, la madre di Rémi, interpretata da una magistrale Émilie Dequenne, incarna tutto il dolore provato per un lutto così inconcepibile e contro natura. Durante un concerto di musica classica, Léo concentra la propria attenzione su Sophie: la camera resta ferma e fa un lungo zoom sulla donna, il cui sguardo commosso ne rivela i pensieri e comunica uno strazio che non può avere nessuna parola consolatoria.

Prendendo in esame Lutto e melanconia di Freud, Massimo Recalcati ha sottolineato che il lutto è una reazione a una perdita che sconvolge la vita e il suo stesso senso, e costringe a rivedere il proprio modo di guardare il mondo. Chi sopravvive è costretto a rapportarsi non più con la presenza del defunto, ma con la sua assenza: un problema eterno che ha riguardato, riguarda e riguarderà tutti. Inoltre, scrive Recalcati, anche se l’elaborazione del lutto è pienamente realizzata, la perdita è irreversibile: rimarrà sempre una vera impossibilità del recupero. Allora si sente davvero la necessità di una preparazione formativa, di un’educazione alla morte, se così si può chiamare, oltre che di quella sessuale e affettiva. Il mondo degli adulti tratteggiato dal film belga ne è una controprova: al funerale di Rémi il sacerdote riempie l’omelia di metafore retoriche; la psicologa chiamata dalla scuola per alcune sedute di gruppo con gli studenti adotta uno stile professionale discutibile; la stessa famiglia di Léo (i genitori e Charlie, il fratello maggiore poco più grande) non sa come affrontare l’argomento e, alla fine, lo evita. Davanti alla morte di un figlio, di un ragazzino, tutto sembra insignificante e diventa fondamentale saper usare bene le parole. I genitori di Rémi vengono invitati a cena dalla famiglia di Léo e l’elefante nella stanza è ignorato finché Charlie non fa ingenuamente a Peter, il padre di Rémi, una domanda comune che pesa come un macigno: «Come stai?». La risposta imbarazzata di Peter e gli aneddoti raccontati dal ragazzo sulla sua vita personale palesano l’essenza becera delle frasi fatte che tutti usano e subiscono e, nondimeno, la mancanza di una preparazione emotiva adeguata a circostanze delicatissime. La pellicola restituisce, infatti, una realtà tanto autentica quanto dura: Peter scoppia in lacrime e Sophie si allontana dalla tavola di fronte all’inebetita famiglia di Léo.

La reazione luttuosa, scrive Freud, si concretizza mediante depressione, ripiegamento della libido e un generale allentamento dei rapporti col mondo. L’affetto depressivo, se il lutto non è elaborato come un lavoro vero e proprio, può generare due reazioni: maniacale, un atteggiamento negazionista volto al rifiuto dell’esperienza e a sostituire la persona perduta; oppure melanconica, centrata sull’impossibilità di dimenticare e andare avanti.

In Incontrare l’assenza. Il trauma della perdita e la sua soggettivazione, un incontro organizzato dall’ASMEPA, Recalcati evidenzia che con gli adolescenti è più difficile fare un lavoro di supporto al lutto perché il dolore e la memoria trovano spesso sfogo in azioni più immediate, quali la violenza o l’abuso di sostanze stupefacenti.

Inevitabile e silente nel protagonista solitario è il senso di colpa per aver causato la scelta di Rémi assieme all’autorimprovero, i quali raffreddano il rapporto, prima stretto e profondo, con Sophie, alla ricerca di spiegazioni. Léo impiega il proprio tempo aiutando energicamente la famiglia nell’azienda di proprietà, un vivaio, e continua a giocare a hockey sul ghiaccio, uno sport impegnativo e molto fisico su cui riversa la propria rabbia e l’aggressività inconscia. «Lui mi manca», sussurra Léo al fratello maggiore una notte, rendendosi conto di quanto sia inutile e impossibile sostituire l’amico con un altro ragazzo.

Secondo Freud il lutto, per trasformarsi in un lavoro produttivo, esige tempo, l’accesso effettivo al dolore psichico e la volontà di ricordare il defunto: la memoria, infatti, è indispensabile per poter tornare a vivere pienamente. Sarà, infine, un confronto liberatorio di Léo con Sophie a portare entrambi verso nuove direzioni e a una consapevolezza diversa.

Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2022, il lungometraggio ha vinto il National Board Review Award per il miglior film straniero l’anno scorso e ha ricevuto numerose candidature nella stessa categoria in altri premi quest’anno, tra cui il Golden Globe e gli Oscar: riconoscimenti meritati, che dovrebbero coinvolgere anche i due giovanissimi e strepitosi attori, Eden Dambrine e Gustav de Waele, rispettivamente Léo e Rémi, e la sobria, delicata colonna sonora curata dal compositore Valentin Hadjadj.

In un’intervista, il regista ha dichiarato che oggi viviamo in un momento storico e culturale vicino agli ideali femministi e a un bisogno comune di decostruzione del patriarcato e dell’eteronormatività. Crede che, a causa di modelli di riferimento errati, abbiamo in qualche modo reso invisibile e trascurato il desiderio di connessioni emotive, un bisogno umano imprescindibile. Close è un film politematico e più che mai necessario per la società odierna, già a partire dal titolo, che in inglese non intende solo una vicinanza fisica, ma anche una affettiva: una pellicola da proiettare nelle scuole.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

Recensione di Alfredo Giuliani, “Ebriedad de aplacamientos. Poetrix bazaar” (2022)

Author di Fabio Zarroli

La diffusione in lingua spagnola della poesia di Alfredo Giuliani dipende esclusivamente dall’opera di traduzione e divulgazione di José Muñoz Rivas, docente di Filología italiana all’Università d’Estremadura, Cáceres[1]. La sua recente edizione[2] di Ebrezza di placamenti e Poetrix Bazaar[3], gli ultimi due libri di poesia di Giuliani, ha portato infatti a compimento un’opera di traduzione che si vedeva iniziata già al principio degli anni Novanta. Allora veniva data alla luce presso il Secretariado de Publicaciones e Intercambio Científico de la Universidad de Murcia la versione al castigliano di Versi e nonversi, volume di raccolta di tutta l’opera poetica di Giuliani, dal suo primo e ormai introvabile libro Il cuore zoppo (1955)[4] al 1984.

L’edizione giunge a compimento a quindici anni dalla scomparsa del poeta, avvenuta a Roma nel 2007. Allora la morte inattesa di Giuliani fu causa di un decisivo prolungamento dei lavori, come sostenuto dallo stesso Muñoz Rivas nelle prime righe della sua Introducción al volume: «La desaparición tan inesperada de Alfredo Giuliani (Mombaroccio, 1924-Roma, 2007) hizo que el proyecto de traducir al español sus dos últimos libros […] se fuera aplazando una y otra vez, a lo largo de estos quince años»[5].

“Decisivo” perché la scomparsa del poeta provocò l’interruzione di una fitta corrispondenza epistolare[6] grazie alla quale i consigli forniti dall’autore al traduttore permisero il raggiungimento di felicissimi risultati nel tradurre al castigliano un così impervio e complesso tessuto testuale. Lo stesso Giuliani, consapevole del carattere sperimentale dei suoi testi, aveva definito come segue il proprio rapporto con il testo poetico:

Alla poesia non vale più dire, ma agire. Se non c’è conciliazione con la società, e neppure convivenza pacifica con le ideologie della realtà, la poesia deve porsi in rigore dell’anarchia, quale estremo tentativo di conferire un senso all’insensatezza quotidiana. Certo l’insensatezza è un mero «contenuto» del nostro mondo: qualcuno se ne servirà per manifestare la propria insensibilità o un comodo cinismo; per altri sarà l’unica possibile e sofferta soluzione stilistica[7].

L’epistolario citato, che contiene fra l’altro una ricca quantità di informazioni utili alla comprensione del pensiero, della poetica e dello stile di Giuliani, è stato poi pubblicato presso la casa editrice Peter Lang nel 2021 (solo le lettere destinate al traduttore e scritte per mano di Giuliani, mentre le restanti si trovano nell’archivio del poeta), fra le pagine di Poesía italiana contemporánea. Dal Crepuscolarismo al Neoexperimentalismo y la Neovanguardia.

Ad ogni modo il lungo lasso temporale trascorso fra le edizioni italiane di Ebbrezza di placamenti e Poetrix Bazaar e la loro versione spagnola ha aiutato il traduttore a mettere a fuoco l’importante svolta compiuta da Giuliani nella sua più tarda stagione poetica verso nuovi orizzonti compositivi. Muñoz Rivas infatti, sempre nella Introducción di cui sopra, parla di un «nuevo espacio editorial» che «anuncia la pérdida (si bien parcial) del armazón teórico metapoético de los poemas pertenecientes a la última etapa vital del poeta»; e ancora di un’apertura verso «situaciones poéticas nuevas, que conforman un panorama poético insospechado, y un ambiente de algún modo inédito»[8]. Tutto ciò dovuto forse anche al fatto che Giuliani si trovava, in quella fase, a ridosso dell’inizio del nuovo millennio, un terminus che non lo lasciava indifferente, bensì che provocava in lui un capovolgimento di fronte, un’inaspettata e sorprendente presa di coscienza dell’avanzare dell’età[9]. Ciò giustificherebbe il fatto che in quel periodo il poeta si trova a «dare del tu al mondo»[10], senza più niente da perdere e con il bisogno di, affermazioni dello stesso, «Godermi il piacere di soffrire e giocare con le parole. Divertirmi con le forme e le informalità della metrica»[11]. E saranno proprio queste contingenze, o per meglio dire queste esigenze, a costituire la più grande sfida per il traduttore. Muñoz Rivas è, infatti, consapevole della difficoltà e dei rischi che questa poesia comporta, come egli stesso ha avuto modo di asserire al Convegno pescarese dedicato proprio ad Alfredo Giuliani:

es posible plantear un ambiente narrativo novedoso y mágico, como quería el poeta, del todo inédito. Incluso si pensamos en los ejercicios y en las recreaciones literarias que el poeta nos regala ya en Ebbrezza di placamenti, a través de la recuperación del stilnovista Guido Cavalcanti, y de las tres excelentes odas de Ibn Hamdîs. Y no digamos en los oníricos poemas del queridísimo poeta-crítico William Empson, que Giuliani propone ahora en su dimensión eminentemente poética, y de clara tensión lírica[12].

Grazie a una grande lucidità di lettore Muñoz Rivas, piuttosto che soffermarsi sugli aspetti linguistici formali e correre così il rischio di impantanarsi in ineluttabili mancanze di corrispondenze tra l’una e l’altra lingua, mette in atto un processo di ricostruzione ideale del mondo contenuto nelle poesie di Giuliani, diciamo anche un’indagine gnoseologica della semantica giulianea, che gli permette di restituire in maniera efficace anche il più intraducibile dei significanti. Di seguito si riporta un passo illuminante del già citato El universo de Versi e nonversi de Alfredo Giuliani, in cui Muñoz Rivas spiega il proprio approccio alle poesie di Giuliani, che si ritiene essere una vera e propria lezione di traduzione poetica:

Una vez iniciado el trabajo fue importante constatar que el mundo al que remiten estos textos es un mundo que tanto al lector español como el italiano dominaban de igual modo, o podrían dominarlo, deformándolo con total naturalidad, dentro de su ambigüedad consustancial, y que esta era una clave de lectura que daba acceso a muchos contenidos de los poemas. El concepto de deformación con el lenguaje de un mundo deforme, o sea, nuestro mundo contemporáneo, inherente a la poética de Giuliani y de la mayoría de los autores neoavanguardistas italianos de su generación, es el primer pilar en el que se sustenta la traducción de un libro como el que nos ocupa. Y el que, en mi opinión, le ofrece el estatuto de traducible[13].

Definiti così, benché in maniera approssimativa e sintetica, gli aspetti principali dell’evoluzione poetica dell’autore e del suo rapporto con il traduttore, è ora opportuno addentrarci in medias res nei vicoli impervi del reticolato della traduzione.

Si ritiene che le sfide maggiori che il traduttore ha dovuto affrontare siano di quattro tipi, ognuno dei quali legato alle risorse stilistiche più peculiari della poesia di Giuliani:

1) utilizzo di verbi denominali o parasintetici (dal sapore vagamente montaliano) che perdono in spagnolo il loro effetto fortemente poeticizzante. In questo caso utilizziamo a titolo d’esempio il primo tempo della poesia eponima del primo libro. Nel v. 4 si legge, infatti: «La terra raggiunta si tranquilla»[14], dove il riflessivo che conferisce caratteri animati al soggetto-cosa cui si riferisce viene tradotto in castellano con un decisamente più comune «se tranquiliza» (per i parasintetici vedi al v. 27 di Caro padre il «si smemora» tradotto in «se olvida»);

2) presenza di neologismi, parole composte e/o alterate, tipiche del lessico neoavanguardista[15]. In questo caso il numero dei possibili esempi è decisamente troppo vasto per essere esaurito nel presente intervento, soprattutto per il largo uso degli alterati. Si vedano però, sempre in funzione di modello, i termini bizzarri in Stammi bene, topo!: «lui o lei topastra» (v. 1), tradotto in «él o ella ratoncita»; «ciò che destina rosicchia» (v. 5), che viene adattato in «lo que quiere roe»; «esiguo affarino» (v. 6), risolto in «exigua cosa»; «t’intopisci» (v. 9), magistralmente risolto in «te enratonas»; «t’inverni» (v. 10) adattato in «hibernas»; infine l’esclamazione «che topata la vita, eh, topo?» del verso finale, a cui corrisponde «¿Qué ratona la vida, eh, ratón?»; (interessante anche il caso di «veteronovissimi»-«veteranos novísimos» di Aneddoto di una trasferta in Giappone);

3) ricorso a termini peculiari di specifiche varietà linguistiche in senso diatopico e diacronico. Per quanto riguarda quelli del primo gruppo, si vedano il tipicamente romano «jella», tradotto in «desdicha», di Sei scherzi decasillabi, 6 e il toscano «Babbuccio mio» de Il badante di Eraclito in Poetrix Bazaar, tradotto in «Papaíto mío». Al secondo gruppo appartiene invece la poesia Accordi, dissonanze (esercizio su testi di Guido Cavalcanti), nella quale Giuliani utilizza uno stato di lingua ormai in disuso e non restituibile dalla traduzione. Si prendano a titolo di esempio solo il v. 2 «noia in loco di paura» tradotto in un contemporaneo «tedio en lugar de miedo», il v. 11 «I’ vo come colui ch’è fuor di vita» tradotto in «Voy como aquel que está fuera de la vida» e, per finire, l’«infra le membra» del verso finale tradotto in «bajo los miembros»;

4) vasto utilizzo di figure retoriche di suono, in particolar modo l’allitterazione. Possiamo senza dubbio affermare che la figura retorica utilizzata da Giuliani con maggiore frequenza è l’allitterazione. Come accennato più sopra, Giuliani presta particolare attenzione all’aspetto fonologico dei suoi componimenti, tanto da farne un motivo centrale della propria poetica. La ricerca esasperata dei giochi sonori, però, viene a costituire un serio ostacolo alla traduzione, dato che in ogni caso la versione in un’altra lingua, e dunque l’obbligo all’utilizzo di significanti specifici di un altro sistema linguistico, non può che alterare la particolare struttura fonica e ritmica del verso originale. In una poesia di Poetrix Bazaar intitolata Quando penso piove, il verso finale, «monumenti continenti sentimenti luminosità di stelle morte», contiene nella struttura da un lato una svolta ritmica provocata dalla distribuzione di accenti percussivi e martellanti nella prima parte e poi subito rilassanti nella seconda (soffermarsi sull’effetto conferito dalla parola tronca dopo tre piane dalla stessa estensione sillabica); dall’altro un’alternanza di nasali e dentali che riproducono l’opposizione di senso tra il primo emistichio, in cui il verbo allude a un imprigionamento («monumenti continenti sentimenti»), e il secondo emistichio, in cui invece le «stelle morte» e la «luminosità» evocano un’apertura in spazi addirittura cosmici.

In spagnolo, benché il verso sembri preservare la sua cadenza e la sua alternanza fonica di nasali e occlusive dentali («monumentos continentes sentimientos luminosidad de estrellas muertas»), la presenza delle consonanti finali di ogni parola (soprattutto la sibilante) tipica nello spagnolo, del tutto assente nell’italiano, osteggia la possibilità di figurazione fonica della contrapposizione spazio aperto/spazio chiuso. La struttura fonica del verso tradotto infatti, proprio in ragione della presenza delle consonanti finali, si vede scandita da un terzo fattore assente nella versione originale e che indebolisce la sua carica espressiva.

Per concludere, si può affermare che le traduzioni di Muñoz Rivas non solo segnano un passaggio fondamentale nel campo degli studi di italianistica nei dipartimenti spagnoli, ma gettano le basi per una diffusione di tipo eminentemente culturale di un’esperienza fondamentale della poesia italiana del secolo scorso. La diffusione dei testi di Giuliani e i saggi sulla di lui poesia, infatti, rappresentano un trampolino di lancio per l’approfondimento di una corrente poetica, quella neo-avanguardista, che con le sue determinate peculiarità normative riflette il temperamento di uno stato della storia sociale italiana di indiscutibile rilevanza. Il nome di Giuliani è, infatti, anche quello di un critico e teorico della poesia che, con la sua antologia di poeti I Novissimi, pose nel 1961 le basi per la costituzione di un movimento che coinvolse numerose figure di intellettuali essenziali per la cultura italiana di quel periodo, ovvero il «Gruppo 63». Un nome, perciò, legato a quelli di autori del calibro di Luciano Anceschi, Nanni Balestrini, Giorgio Manganelli, Antonio Porta, e di tanti altri ancora poco conosciuti nella penisola iberica.

  1. In una lettera del 1994 contenuta nell’epistolario tra Giuliani e Muñoz Rivas poi pubblicato nell’Apéndice di José Muñoz Rivas, Poesía italiana contemporánea. Del Crepuscolarismo al Neoexperimentalismo y la Neovanguardia, Berlin, Peter Lang GmbH, 2021, pp. 213-48.
  2. Cfr. A. Giuliani, Ebriedad de aplacamientos seguido de Poetrix Bazaar, edición y tradución de José Muñoz Rivas, Madrid, El sastre de Apollinaire, 2022.
  3. Cfr. A. Giuliani, Ebbrezza di placamenti, introduzione di Romano Luperini, Lecce, Manni editore, 1993; Id., Poetrix Bazaar, Napoli, Tullio Pironti, 2003.
  4. Cfr. A. Giuliani, Il cuore zoppo, Varese, Mantegna Editrice, 1955.
  5. A. Guliani, Ebriedad de aplacamientos. Poetriz Bazaar, op. cit., p. 7.
  6. La presenza dell’epistolario è sicuramente uno degli aspetti più interessanti delle traduzioni di Muñoz Rivas. Alcune notizie su esso sono riportate nel corpo del presente testo. Qui si vuole però almeno accennare alla lettera in cui Giuliani definisce lo scambio di missive «traduzionario», prendendo a prestito il termine dal lessico carcerario. Si riporta direttamente il testo della lettera: «con l’arrivo della primavera, da metà aprile circa, sarò un po’ più libero e potremo riprendere la nostra filologia traduzionaria (questa parola bruttissima contiene una forte allusione al carcere: nel gergo carcerario-giudiziario, la “traduzione” è lo spostamento di un detenuto da un carcere a un altro…). Non cerchi “traduzionario” nei dizionari, spero che non vi si troverà mai… ma per i nostri usi privati, per significare le sanguinose fatiche, può essere una parola chiave, essenzialmente liberatoria: le gioie dell’universo traduzionario, l’umore traduionario, ecc. ecc.». Cfr. J. Muñoz Rivas, Apéndice, Correspondencia de Alfredo Giuliani sobre la traducción española de Versi e nonversi (1986-2002), in Poesía italiana contemporánea. Del Crepuscolarismo al Neoexperimentalismo y la Neovanguardia, Berlin, Peter Lang GmbH, 2021, pp. 211-48: 231. Corsivo nel testo.
  7. A. Giuliani, Prefazione 1965, in I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, Torino, Einaudi, 2003. I corsivi sono miei.
  8. J. Muñoz Rivas, Introducción, in A. Giuliani, Ebriedad de aplacamientos. Poetrix Bazaar, op. cit., p. 9.
  9. Cfr. A. Giuliani, Qualche notizia dell’autore su com’è nato questo libro, in Id., Poetrix Bazaar, op. cit., pp. 13-14: 14, tradotta in lingua spagnola da Muñoz Rivas in A. Giuliani, Ebriedad de aplacamientos seguido de Poerix Bazar, op. cit.: «Trovarmi nel 2001 mi ha fatto una curiosa impressione, mi sentivo da un’altra parte del tempo e per la prima volta ho contato i miei anni. Mi sembrava di essere diventato un giovane vecchio, era come una percezione di realtà capovolta. […] Non ho più niente da perdere, mi sono detto, posso chiamare a raccolta i pensieri e i sarcasmi prediletti». Corsivo nel testo.
  10. Ibidem.
  11. Ibidem.
  12. Gli Atti del Convegno pescarese sulla poesia di Alfredo Giuliani sono stati pubblicati in Spagna sulla rivista digitale «El cuaderno digital» con il titolo El diálogo con la literatura en el último Giuliani, rintracciabile al link: https://elcuadernodigital.com/2022/08/22/el-dialogo-con-la-literatura-en-el-ultimo-giuliani/. Tondi nel testo.
  13. J. Muñoz Rivas, El universo lingüistico de Versi e Nonversi de Alfredo Giuliani en español, in Poesía italiana contemporánea. Del Crepuscolarismo al Neoexperimentalismo y la Neovanguardia, Berlin, op. cit., pp. 191-210: 205.
  14. Il corsivo è mio.
  15. Cfr. A. Giuliani, Prefazione 1965, in I Novissimi, op. cit., pp. XIII-XIV: «stesure intrecciate del discorso, i giochi linguistici (neologismi, schizofasie), la similarità tra il linguaggio del sogno e l’espressione della psicosi, la giustapposizione degli elementi di logiche diverse, il linguaggio-sfida, il non-finito: tutto ciò coincide con un’attitudine antropologica che precise condizioni storiche hanno esaltato fino alla costituzione di un linguaggio letterario che fa epoca e da cui non si può tornare indietro».

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

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Recensione di “Cesare Pavese. Una vita tra Dioniso e Edipo” (2022) di Monica Lanzillotta

Author di Rosario Carbone

La nuova monografia su Cesare Pavese scritta da Monica Lanzillotta e pubblicata da Carocci editore rappresenta un contributo di notevole importanza per lo studio e la conoscenza del grande scrittore piemontese: essa offre finalmente una ricognizione approfondita, completa e aggiornata della sua vita e della sua opera. Il volume, di grande respiro, si presenta come una riconsiderazione complessiva di tutta la produzione pavesiana, che viene discussa e analizzata nella sua interezza, rimanendo però sempre strettamente ancorata al percorso biografico dello scrittore. Quest’ultimo viene ricostruito con cura e con piglio quasi narrativo, anche in quei dettagli minimi che appaiono però rilevanti nell’ottica di una maggiore comprensione della personalità di Pavese. Lo scrittore, vissuto in un secolo tragico, tra fascismo e guerra fredda, ha «interpretato i valori di fondo della storia di lungo periodo con sguardo ampio, tessendo, da infaticabile artigiano della scrittura, trame che sono sopravvissute nel tempo, diventando classici» (p. 11).

Il libro si articola in otto capitoli che, partendo dalla nascita dello scrittore e arrivando fino alla sua tragica morte, ne ripercorrono l’intera vita, soffermandosi di volta in volta, in ordine rigorosamente diacronico, su tutte le opere da lui composte. La Premessa iniziale è fondamentale per comprendere appieno l’impostazione critica su cui si basa questo lavoro. L’autrice presenta un Pavese che si mantiene lontano sia dal Naturalismo sia dal Neorealismo, sfuggendo «a ogni collocazione nel territorio strettamente letterario del primo Novecento» (p. 12). Egli «può semmai essere collocato nella più ampia categoria del modernismo» (ibidem) in quanto la sua narrativa, come quella modernista, «è caratterizzata dalla rappresentazione di una realtà non più positiva e verificabile che si dissolve in un prisma di punti di vista, dalla presenza dell’antieroe […] che si guarda dentro o si guarda vivere, e dallo sfrangiarsi della trama classica unilineare che determina il collasso della forma lunga in strutture a tenuta debole, grazie all’influsso di cinema e teatro» (p. 13).

La poetica di Pavese, che si nutre di diverse tradizioni (classici, letteratura angloamericana, etnologia, psicanalisi), ruota essenzialmente intorno a due poli: l’infanzia e la maturità. La prima è l’età istintivo-irrazionale che si fissa nella memoria e diventa “mito”, ponendosi come «periodo di predeterminazione del destino» (p. 14) e quindi della successiva maturità. Infanzia ed età adulta si ricollegano rispettivamente alla campagna (che rappresenta lo spirito dionisiaco) e alla città (che rappresenta l’apollineo). A detta di Lanzillotta, dunque, le opere di Pavese «sono incentrate sul riemergere delle origini, che permettono di comprendere chi si è: le trame ruotano intorno all’indagine conoscitiva che porta progressivamente il personaggio a riconoscere il destino, la forza inconscia che lo respinge in una sola direzione, verso le origini» (p. 15). Per questo motivo i miti fondativi dell’opera pavesiana sono quelli di Dioniso, «che rappresenta lo stato costitutivo dell’infanzia, il caos indifferenziato, il mostruoso» (ibidem), e quello di Edipo, che simboleggia il destino tragico dell’uomo. «Dioniso e Edipo sono inoltre condannati […] a essere erranti», precisa la studiosa, «e la strada costituisce la struttura fondante della produzione creativa di Pavese» (ibidem). A questa componente dionisiaca ed edipica l’autrice farà costante riferimento nel corso di tutto il libro. Ecco perché le ultime pagine della Premessa vengono riservate al racconto preliminare di questi due miti archetipici (Dioniso e la poetica della fanciullezza ed Edipo e la poetica del destino) sulla base delle fonti pavesiane: la loro conoscenza, infatti, si rivelerà fondamentale per comprendere l’approccio interpretativo adottato nel saggio. Lanzillotta, dunque, spiega preliminarmente che «Edipo, come Dioniso, è nomade e selvaggio, perché è condannato a non poter essere un cittadino della pòlis […]: è ascrivibile dunque, come Dioniso, alla barriera, ai margini, che sono eletti da Pavese a poetica» (p. 33).

Il primo capitolo prende in esame gli anni 1908-1930 e si concentra sulla formazione di Pavese tra letteratura e cinema (arte, quest’ultima, particolarmente sviluppata a Torino in quegli anni e di cui lo scrittore fu appassionato fruitore). Si parte dalla nascita, il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, e, attraversando tutta la fase dell’istruzione primaria e liceale (particolarmente importante per gli incontri con il suo maestro Augusto Monti e con amici del calibro di Einaudi, Bobbio, Mila o Ginzburg), si arriva alla sua prima affermazione come traduttore.

Il secondo capitolo si sofferma sulle prime prove di scrittura giovanili: poesie e racconti «caratterizzati da un alto tasso di autobiografismo» e che «riflettono gli stati d’animo di Pavese» (p. 61), ma soprattutto il diario adolescenziale di un campo scout a Celle Ligure (Dodici giorni al mare) e il prosimetro Ciau Masino, composto fra il ’30 e il ’32, che vede protagonisti l’operaio Masin e il giornalista Masino.

Gli anni fra il 1930 e il 1938 sono al centro del terzo capitolo: è il periodo che vede l’affermarsi definitivo di Pavese come traduttore di letteratura angloamericana, ma sono anche anni dolorosi in cui si susseguono numerose delusioni amorose, che costituiranno una costante di tutta la sua vita. Il 1933 è, inoltre, l’anno della nascita della casa editrice Einaudi a cui Pavese parteciperà attivamente. Le posizioni antifasciste dell’ambiente einaudiano e della rivista «La Cultura» portano, però, Pavese all’arresto e al suo confino in Calabria, a Brancaleone Calabro, dove rimarrà dall’agosto 1935 al marzo 1936. Al suo rientro pubblica per «Solaria» la prima edizione di Lavorare stanca, raccolta di poesie fortemente innovativa sia dal punto di vista formale sia da quello contenutistico rispetto alla lirica coeva. Due anni dopo racconta l’esperienza del confino nel suo primo romanzo, Il carcere, che però verrà pubblicato solo nel 1948.

Gli anni 1939-1941 (presi in esame nel capitolo quarto) vedono Pavese come «motore intellettuale dell’Einaudi». Per lo stesso editore pubblicherà Paesi tuoi, il romanzo che farà conoscere lo scrittore al pubblico come narratore. Segue La bella estate, che assieme a Il diavolo sulle colline e a Tra donne sole formerà un trittico: attraverso la simbologia dell’estate, questi testi raccontano la stagione dell’adolescenza. Infine, con La spiaggia, romanzo che ha per protagonista un anonimo professore torinese, lo scrittore si concede una «breve vacanza dionisiaca dalla maturità apollinea» (p. 115).

Il capitolo quinto si concentra sui terribili anni della guerra (1942-1943): Torino viene bombardata e Pavese si rifugia a Serralunga di Crea dalla sorella Maria (periodo successivamente rievocato nella Casa in collina), non prendendo parte alla lotta partigiana come invece avevano fatto molti suoi amici di gioventù. Nel ’43 esce per Einaudi la nuova edizione (parecchio accresciuta) di Lavorare stanca, vero e proprio canzoniere che pone al centro il tema del passaggio dall’adolescenza alla maturità.

Gli anni dell’immediato dopoguerra, 1945-1946, sono raccontati nel sesto capitolo. È questo il periodo in cui si afferma la letteratura dell’impegno sociale, a cui però Pavese non ha mai guardato con particolare simpatia. Anzi, egli in più occasioni ha manifestato avversione verso il Neorealismo, opponendo come modello il realismo americano. Questo è anche il periodo che vede Pavese impegnato, assieme a Ernesto De Martino, nella direzione della cosiddetta «Collana viola», originale progetto editoriale di studi religiosi, etnologici e psicologici. Nel ’45 lo scrittore conoscerà Bianca Garufi, segretaria della sede romana dell’Einaudi: per lei comporrà la silloge di nove poesie La terra e la morte e insieme scriveranno il breve romanzo, rimasto incompiuto, Fuoco grande. Il disagio provato da Pavese nei confronti degli amici morti nella lotta contro il fascismo lo porterà a “pagare il suo tributo” alla letteratura dell’impegno, scrivendo Il compagno (pubblicato nel ’47). Nel ’46 viene dato alle stampe anche Feria d’agosto, libro ibrido diviso in tre sezioni e composto sia da racconti sia da saggi. Qui l’estate, la stagione delle ferie, è rappresentata come la stagione dionisiaca dell’infanzia, contrapposta all’inverno, «stagione della maturità e della consapevolezza edipea» (p. 160).

Nel settimo capitolo viene presentato il “triennio creativo” di Pavese 1947-1949, che vede la composizione di opere di grande importanza: i Dialoghi con Leucò, La casa in collina, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, a ognuna delle quali Lanzillotta dedica diverse pagine di accurata analisi. In particolare i Dialoghi con Leucò – libro complesso costituito da ventisette dialoghi mitologici – sono considerati dallo stesso Pavese la sua opera più importante e il suo «biglietto da visita presso i posteri».

Infine, l’ultimo capitolo del volume si concentra per intero sul 1950, anno in cui Pavese pubblica l’ultimo romanzo, La luna e i falò, che definisce la sua «modesta Divina Commedia». Questo è il libro «della strada e della casa provvisoria» (p. 203) in cui il protagonista, Anguilla, si muove tra passato e presente. Ma il 1950 è anche l’anno dell’amore per Constance Dowling, alla quale dedica dieci poesie (otto in italiano e due in inglese) lasciate nel cassetto della sua scrivania e pubblicate postume da Massimo Mila e Italo Calvino con il titolo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Tra il 26 e il 27 agosto 1950 Pavese muore suicida in una camera d’albergo a Torino, ingerendo dei sonniferi: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi» sarà il suo messaggio di addio, annotato su una copia dei Dialoghi con Leucò che lascia sul comodino.

Qui il volume si conclude: nelle pagine finali il lettore trova raccolte tutte le note e un’utile bibliografia critica, accanto alla quale viene offerto un ampio elenco di opere musicali ispirate a Cesare Pavese (a cura di Flavio Poltronieri e Manlio Todeschini), indice della grande fama raggiunta oggi dallo scrittore. Utile tanto per gli studenti quanto per studiosi, critici e ricercatori, questo libro – molto chiaro e scorrevole anche nella forma in cui è scritto – è destinato a rimanere un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si accinga a studiare la figura e l’opera di Pavese, che qui viene svecchiata e considerevolmente aggiornata con nuovi e originali apporti critici e interpretativi.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

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Recensione di Giuseppe Langella, “Pandemie e altre poesie civili” (Mursia 2022)

Author di Maria Panetta

Giuseppe Langella, marchigiano, già professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è il Presidente dell’Associazione dei contemporaneisti italiani, la MOD o Società italiana per lo studio della modernità letteraria. Nell’ateneo lombardo ha diretto per anni il Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”, e l’“Archivio della letteratura cattolica e degli scrittori in ricerca”.

Oltre a essere noto per tali meritorie iniziative, è uno stimato studioso soprattutto di Manzoni, Svevo e altri autori dell’Ottocento e del Novecento italiano, avendo pubblicato svariati volumi di critica letteraria, fra i quali si possono ricordare: Il secolo delle riviste. Lo statuto letterario dal Baretti a Primato (Milano, Vita e Pensiero, 1982); Da Firenze all’Europa. Studi sul Novecento letterario (Milano, Vita e Pensiero, 1989); Italo Svevo (Napoli, Morano, 1992); Le ‘favole’ della Ronda (Roma, Bulzoni, 1993); Il tempo cristallizzato. Introduzione al testamento letterario di Svevo (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995); Poesia come ontologia. Dai vociani agli ermetici (Roma, Studium, 1997); L’utopia nella storia. Uomini e riviste del Novecento (Roma, Studium, 2003); Cronache letterarie italiane. Il primo Novecento dal Convito all’Esame (Roma, Carocci, 2004); Amor di patria. Manzoni e altra letteratura del Risorgimento (Novara, Interlinea, 2005); Manzoni poeta teologo (1809-1819), uscito a Pisa per ETS nel 2009. Numerose sono, però, anche le curatele che portano la sua firma, a partire da testi dedicati alla formazione e al rapporto tra scuola secondaria e università come Il Novecento a scuola (Pisa, ETS, 2011) o La didattica della letteratura nella scuola delle competenze (Pisa, ETS, 2014); fino ad arrivare ad Atti di convegno come: L’interrogazione infinita. Roberto Sanesi poeta (Novara, Interlinea, 2004); A verità condusse poesia. Per una rilettura di Clemente Rebora, con Roberto Cicala (Novara, Interlinea, 2008); Giuseppe Pontiggia. Investigare il mondo. Atti del Convegno internazionale di studi nel decimo anniversario della scomparsa (Milano 30 ottobre 2013), con Alberto Cadioli, Daniela Marcheschi, Gino Ruozzi (Novara, Interlinea, 2015); o antologie poetiche come: Il canto strozzato: poesia italiana del Novecento. Saggi critici e antologia di testi, con E. Elli (Novara, Interlinea, 1995); e Silvio Ramat, Tutte le poesie (1958-2005) (Novara, Interlinea, 2006). Infine, da ricordare Luci di posizione: poesie per il nuovo millennio. Antologia del realismo terminale (Milano, Mursia, 2017): la silloge, di cui Langella è curatore e anche uno dei sei poeti antologizzati (ognuno con dieci testi), è quella che, in questa sede, c’interessa maggiormente perché anche il recente Pandemie e altre poesie civili – di cui si tratterà più nello specifico in seguito – s’inscrive di diritto nella poetica del Realismo Terminale.

Pino Langella, infatti, ha pubblicato anche altri versi, ma quelli della citata Luci di posizione sono pienamente in linea con l’indirizzo del movimento poetico il cui “punto di partenza” è stato Il realismo terminale, manifesto elaborato dal poeta Guido Oldani nel 2010[1]. Dopo un primo contatto con i realisti terminali in occasione del Convegno di Cagliari del 2012 (inserito nel festival Traghetti di poesia), Langella è entrato ufficialmente a far parte del gruppo in occasione della nascita del movimento, al Salone del libro di Torino del 10 maggio 2014, e ha sempre preso parte a tutte le iniziative di militanza organizzate fino a oggi.

Il Realismo Terminale ha al proprio attivo tre antologie: oltre alla già menzionata Luci di posizione (2017), L’occhio di vetro. Racconti del realismo terminale, a cura di Daniele Maria Pegorari (Milano, Mursia, 2020); e Il gommone forato. La poesia civile del Realismo Terminale, a cura di Tania Di Malta (Pasturana (AL), puntoacapo, 2022), che racchiude poesie, riferimenti militanti a fatti di cronaca e foto di opere d’arte che testimoniano del progressivo allargamento del movimento anche a ulteriori linguaggi espressivi. Fra gli altri libri editi, da ricordare La guancia sull’asfalto di Oldani (Milano, Mursia, 2018), oltre a Pandemie.

Per illustrare, in primo luogo, quali siano le caratteristiche del Realismo Terminale si ritiene utile rimandare in primis a un bel saggio di Stefania Segatori, uscito proprio recentemente su «Diacritica», dal titolo Pandemie, glossari e visioni: il Realismo Terminale e la poesia di Giuseppe Langella[2]: un punto di riferimento importante per inquadrare il fenomeno entro il quale s’inscrive la raccolta Pandemie[3].

Sappiamo bene che purtroppo la poesia occupa una posizione marginale nello scenario culturale e nell’editoria di oggi, sebbene le nuove forme di poesia e post-poesia – come quella di ricerca, quella in prosa, il neo-metricismo, fra le altre – attirino ancora l’interesse di certa critica, specie francese e americana (si ricordino almeno i nomi di Christophe Hanna, K. Silem Mohammad, Emanuel Hocquard). Attualmente, com’è noto, hanno successo soprattutto ibridazioni fra poesia e paradigma narrativo, versi attenti all’aspetto performativo o forme caratterizzate dal «riuso citazionistico dei linguaggi dei nuovi media» (S. Segatori, art. cit.), frequentissimo anche nei versi di Langella (si veda, per esempio, Notiziario, alla p. 9 di Pandemie).

Il Realismo Terminale ha risposto alla progressiva perdita di centralità della poesia anche nel panorama editoriale con la pubblicazione, nel 2009, della raccolta collettiva Prosa in prosa (per Le Lettere, con introduzione di Paolo Giovannetti): un invito a tornare a credere nell’importanza dell’espressione poetica e nella sua capacità di rappresentare il reale.

Come ha acutamente notato Segatori, il Realismo Terminale è un’avanguardia sui generis che non ama né lo sperimentalismo fine a sé stesso né l’utilizzo di un lessico troppo ricercato; non dimentica la tradizione, tornando al gioco delle rime, delle consonanze e delle assonanze; all’importanza della sonorità e alla misura del verso. Dal punto di vista del contenuto, la poetica realista terminale è fortemente militante in senso civile, attirando l’attenzione del lettore su gravi eventi di cronaca per stimolare il suo senso di empatia e indurlo a riflettere sul destino dell’umanità: l’io scrivente resta, infatti, spesso implicito, in questi versi, prevalendo la dimensione collettiva del “noi”.

Secondo Oldani (Il Realismo terminale, Milano, Mursia, 2010, pp. 14 e 17), è propria del Millennio in corso, ovvero dell’era dell’Antropocene, la coscienza che hanno gli uomini di essere attori con un’enorme influenza sull’ecosistema: pertanto, ciò che rende attuale il Realismo Terminale – con una bella definizione sempre di Segatori (art. cit.) – è il suo essere una «voce interrogante del tempo presente». Fra le sue tematiche, infatti, si possono annoverare la contrapposizione tra natura e città, l’oppressione per l’affollamento degli oggetti “servi-padroni” del quotidiano, le istanze ambientaliste ed ecologiste, problematiche che la pandemia da Covid-19 ha di certo aggravato. Una delle parole-chiave del Realismo Terminale è proprio “pandemia”, termine utilizzato già da Oldani, in tempi non sospetti, nel pamphlet del 2010 e poi ripreso nella versione breve del Manifesto datata 2014:

A TESTA IN GIÙ

Manifesto breve del Realismo terminale

La Terra è in piena pandemia abitativa: il genere umano si sta ammassando in immense megalopoli, le “città continue” di calviniana memoria, contenitori post-umani, senza storia e senza volto.

La natura è stata messa ai margini, inghiottita o addomesticata. Nessuna azione ne prevede più l’esistenza. Non sappiamo più accendere un fuoco, zappare l’orto, mungere una mucca. I cibi sono in scatola, il latte in polvere, i contatti virtuali, il mondo racchiuso in un piccolo schermo.  È il trionfo della vita artificiale.

Gli oggetti occupano tutto lo spazio abitabile, ci avvolgono come una camicia di forza. Essi ci sono diventati indispensabili. Senza di loro ci sentiremmo persi, non sapremmo più compiere il minimo atto. Perciò, affetti da una parossistica bulimia degli oggetti, ne facciamo incetta in maniera compulsiva. Da servi che erano, si sono trasformati nei nostri padroni; tanto che dominano anche il nostro immaginario.

L’invasione degli oggetti ha contribuito in maniera determinante a produrre l’estinzione dell’umanesimo. Ha generato dei mutamenti antropologici di portata epocale, alterando pesantemente le modalità di percezione del mondo, in quanto ogni nostra esperienza passa attraverso gli oggetti, è essenzialmente contatto con gli oggetti.

Di conseguenza, sono cambiati i nostri codici di riferimento, i parametri per la conoscenza del reale. In passato la pietra di paragone era, di norma, la natura, per cui si diceva: «ha gli occhi azzurri come il mare», «è forte come un toro», «corre come una lepre». Ora, invece, i modelli sono gli oggetti, onde «ha gli occhi di porcellana», «è forte come una ruspa scavatrice», «corre come una Ferrari». Il conio relativo è quello della “similitudine rovesciata”, mediante la quale il mondo può essere ridetto completamente daccapo.

La “similitudine rovesciata” è l’utensile per eccellenza del “realismo terminale”; il registro, la chiave di volta, è l’ironia. Ridiamo sull’orlo dell’abisso, non senza una residua speranza: che l’uomo, deriso, si ravveda. Vogliamo che, a forza di essere messo e tenuto a testa in giù, un po’ di sangue gli torni a irrorare il cervello. Perché la mente non sia solo una playstation.

Firmato
Guido Oldani
Giuseppe Langella
Elena Salibra

Si noti, fra l’altro, il riferimento iniziale alle “città continue” di calviniana memoria, come Leonia e Pentesilea.

Come si legge anche nello stesso Manifesto, lo strumento retorico preferito dai poeti realisti-terminali è la “similitudine rovesciata”, dispositivo che si serve di capovolgimenti, inversioni, paragoni stranianti che possono aiutare il lettore a comprendere meglio la dimensione artificiale in cui oggi vive: se, infatti, in passato il secondo termine di paragone di una similitudine era in genere rappresentato da un elemento naturale, arrivati al Terzo Millennio, paradossalmente è il mondo artificiale a essere divenuto indispensabile per comprendere quello della natura. La “similitudine rovesciata” tende, dunque, ad assimilare fenomeni naturali come la grandine a oggetti artificiali del quotidiano contemporaneo come i chicchi di polistirolo (la similitudine è stata proposta dallo stesso Langella nel suo intervento al menzionato convegno di Cagliari)[4], contravvenendo alla logica, che invece tenderebbe a rispettare l’ordine cronologico degli eventi: così, ad esempio, il sole potrebbe essere avvitato come una lampadina nel mezzo del cielo, come accade in un recente spot pubblicitario; oppure potrebbero essere utilizzati come faretti dalla luce calda dei limoni tagliati a metà (si veda lo spot Esselunga del 2018 di Armando Testa)[5]. L’asse temporale viene, dunque, infranto dalla retorica del Realismo Terminale, perché è come se la Storia fosse stata interrotta e non scorresse più lungo una linea retta: il movimento poetico, dunque, non fa altro che aiutare i lettori a prendere coscienza e a divenire consapevoli di fenomeni e tendenze già in atto nel mondo contemporaneo.

Così Langella nella poesia Pandemie:

Pandemie

A Guido Oldani

La Terra è un otto volante, una giostra

che si contendono a spinte e sgambetti

i più ambiziosi per mettersi in mostra.

È anche un cesto di posti mai visti,

da offrire a pacchetti in pasto ai turisti.

Per la finanza, invece, è biancheria

da strizzare a oltranza, finché ne avanza.

Per tutti gli altri è un grande frullatore,

dove ogni cosa vortica e si ammucchia,

si urta e si miscela senza posa;

anche i virus: quello a forma di mina,

nato, Dio sa come, in pancia alla Cina,

sta facendo una strage d’innocenti,

seminato nei cinque continenti.

Sfocia ogni crisi in una pandemia:

questa è la legge del mondo globale,

il tempo del realismo terminale.

Da notare, in questi versi, oltre alla presenza di varie similitudini rovesciate “accatastate” (ottovolante, giostra, cesto, frullatore etc.), l’uso sapiente dell’enjambement e la posposizione del soggetto al predicato, artificio assai utilizzato da Langella che contribuisce a turbare l’ordine atteso dei costituenti logici del discorso, movimentandolo e catturando l’attenzione del lettore. Il fine di tali versi impegnati è quello di risvegliare nel lettore l’attenzione all’impatto dei manufatti umani sull’ambiente, nel tempo della crisi perpetua, e a sensibilizzarlo sulla problematica ecologica, prima che gli esseri umani divengano essi stessi parte della catena di montaggio che hanno creato, riducendosi a meri pezzi di ricambio. Al riguardo, si legga anche C-ottimisti, inclusa nella Sezione L’uomo delle metropoli:

C-ottimisti

Ragionieri, stagiste, calciatori,
modelle, segretarie, tute blu,
lavoratori stagionali in nero,
siamo come padelle in mano a un cuoco,
che devono vedersela col fuoco,
congegni a molla cui dare la carica.
Pezzi di ricambio, o al massimo bijoux,
quando, pile esauste, non serviremo
più, ci smaltiranno in una discarica.

Da notare l’accumulazione caotica in cui tutto si mescola (torna idealmente l’immagine del frullatore già incontrata), tratto dominante pure in Tutti al mare (p. 32). In relazione al paragone con le «pile esauste» (v. 8), in particolare, la mente corre alle struggenti illustrazioni dell’artista giapponese Avogado 6[6], che genialmente rappresenta sentimenti e stati d’animo con una sensibilità e una potenza evocativa di fortissimo impatto.

La silloge delle ultime poesie di Langella, edite per l’editore Mursia (nella collana «Argani», diretta proprio da Oldani) ma precedentemente accolte anche su alcune riviste, si compone di un prologo (Pandemie), cinquanta poesie, suddivise in cinque sezioni (Cronache della barbarie; L’uomo delle metropoli; Money, money, money; La Terra presa a calci; Fratelli tutti, gli ultimi i primi), e un epilogo (Le ultime parole famose).

L’autore invita gli uomini a unirsi nuovamente nella «social catena» di leopardiana memoria in versi come quelli della sezione La Terra presa a calci quali Disastro ambientale (p. 50) o La pentola a pressione (p. 55). Nella raccolta Langella si scaglia spesso contro il consumismo e le speculazioni ambientali; deride il pop e il contraffatto (ad esempio, in La movida, p. 31); descrive l’uomo come ingranaggio di un sistema (ad esempio, in Pendolari, p. 24, e Underground, p. 25), un sistema che gli nega anche un nome (in Nickname, p. 30, e Il Grande Fratello, p. 29).

Non mancano rimandi alla sfera religiosa: ad esempio, alle parabole del figliol prodigo (La leggenda del figliol prodigo ai tempi di Las Vegas, pp. 44-45) e del buon samaritano; nella ricorrenza del termine «esodo»; nel titolo De profundis sul Bel Paese (p. 49); o nell’allusione al vitello d’oro e «ai falsi profeti di ogni libertà», nell’amara L’idolo di gesso (p. 19), che allude alla Statua della Libertà divenuta priva di significato nel momento del ritiro della Nato dall’Afghanistan, nell’agosto 2021.

In versi dall’andamento cantilenante e ricchi di assonanze interne, Langella racconta la dimensione tragicomica del quotidiano, deridendolo con ironia o sarcasmo: in Disonorevoli (p. 10) si utilizza il martellante decasillabo anapestico del primo Coro del manzoniano Carmagnola per mettere in burletta la politica dell’oggi («S’ode a destra uno slogan di fronda, / gli fa eco, dal centro un insulto; […]: p. 10, vv. 1-2); e in Quando si dice il destino (pp. 11-12) l’alternanza fra tondo e corsivo sottolinea il passaggio dal racconto degli eventi (in tondo) al loro commento dal sapore quasi aforismatico (in corsivo):

Il destino è un cecchino spietato:

dove punta il fucile alla cieca,

reca danni e il bersaglio è spacciato.

Sei al volante, in vacanza, sereno,

e dal monte si stacca una frana…

Cento metri più avanti, anche meno,

eri salvo e la notte lontana.

Il destino non prende la mira,

non ti vede nemmeno, ma tira.

[…]

Il destino è sempre in agguato.

A chi tocca, fra mille, è un mistero

di pietà che ci lascia sgomenti,

ma chi arma il destino rammenti

che una vita val più di uno zero.

Da notare anche che in questa, come in varie altre poesie dell’antologia, la chiusa contiene un memento, un monito, una conclusione di tono completamente diverso dal resto della composizione poetica, che rimanda al “sugo” della storia, all’insegnamento che deve venire dai gravissimi fatti di cronaca rievocati, fra le righe, dai versi: che siano storici come la morte dell’anarchico Pinelli in Non era l’Uomo Ragno (p. 14) o che siano di cruda attualità come il Pestaggio con spettatori (p. 15) del ventiduenne scandiccese Niccolò Ciatti.

Alcune poesie rimandano alla tradizione letteraria: impossibile non pensare al pascoliano Lavandare, leggendo Attende il trattore (p. 13), dedicata all’imprenditore Vittorio Mocchi; fa riandare con la mente a Una valigia di cartone di Nelida Milani la terribile Esodi (p. 18); l’uso insistito dell’onomatopea e lo stridore dei freni in Underground (p. 25) rievoca la carducciana Alla stazione in una mattina d’autunno; si cita esplicitamente dalla Canzona di Bacco di Lorenzo de’ Medici nella chiusa di L’altalena (p. 36); allude a Dostoevskij il titolo di Memorie dal sottosuolo (favoletta ecologica) (p. 57) etc. Rimanda, poi, efficacemente alla Commedia Cose dell’altro mondo. Terzine ecologiche per Dante (pp. 58-59): si noti, in effetti, che il plurilinguismo dei versi di Langella – che accosta anglismi e latinismi ad esempio in Brace, brace! (p. 35), mescolando termini dell’inno nazionale inglese con titoli di videogiochi e formule liturgiche – si rifà maggiormente al modello linguistico dantesco che a quello petrarchesco, meno atto a rappresentare il caotico mondo globalizzato attuale.

Particolarmente sentita la partecipazione del poeta agli eventi di cronaca rievocati nell’ultima sezione, divenuta sceneggiatura per un cortometraggio realizzato dalla studentessa Margherita Merzagora come laboratorio e presentato il 7 dicembre 2021 all’Università Cattolica di Brescia. Il titolo, Fratelli tutti, gli ultimi i primi, rimanda all’enciclica papale: vi sono raccolte dieci poesie di testimonianza su recenti episodi di discriminazione, miseria, brutalità, abuso, oltraggio ai diritti dell’umanità, al fine di evitare che si ripetano a causa dell’indifferenza dilagante e dell’assuefazione alla violenza tipica della civiltà dell’immagine. Si ricordino almeno: Il letto di cartone (p. 63), dedicata al senzatetto Michele Ubaldi, spentosi a ventinove anni nel 2019 («Per quasi tutte le persone sono un oggetto fuori posto»); Il bambino coi libri in braccio (p. 64), ispirata all’undicenne di origini marocchine che, nello sgombero di un ex-edificio scolastico occupato da famiglie di sfollati a Primavalle, scelse di portare con sé «i libri di scuola, tutto il futuro»; Slogan per Willy (p. 70), che rievoca il sacrificio del ventunenne Willy Monteiro Duarte, ucciso brutalmente a Colleferro il 6 settembre 2020 per essersi intromesso in una lite; e I can’t breathe (p. 66), i versi dedicati a George Floyd, assassinato a causa di pregiudizi razziali a Minneapolis il 25 maggio 2020.

Appare opportuno, infine, chiudere con la malinconica e struggente rievocazione del villaggio israeliano “Oasi di pace”, fondato nel 1972 da un domenicano, in cui convivevano pacificamente ebrei e arabi palestinesi, in parte distrutto da un incendio doloso il 31 agosto 2020, ma che resta a testimoniare il sogno di un mondo in cui s’impari a essere fratelli nella diversità, e a valorizzare le differenze che ci rendono unici, invece di appiattirle:

Wahat al-Salam

Lievita l’odio i più sordi rancori,

come le schiume dei poliuretani,

invoca vendetta, dente per dente,

nutre di sangue la mente e le mani.

Appicca incendi la setta fugace

nei villaggi per spegnere la pace.

Arde Nevé Shalom, manda bagliori,

rifulge nel rogo il sogno dei saggi,

fa più luce di cento riflettori.

  1. Al riguardo si veda il sito web dedicato a tutte le opere del Langella poeta all’URL: http://giuseppelangellaopere.weebly.com/il-realismo-terminale.html.
  2. Cfr. n. 44, vol. II, 25 maggio 2022: https://diacritica.it/letture-critiche/pandemie-glossari-e-visioni-il-realismo-terminale-e-la-poesia-di-giuseppe-langella.html).
  3. Il testo di questa recensione riproduce alcuni passaggi della presentazione del volume che ha avuto luogo a Roma, presso la libreria L’Altracittà, il 3 dicembre 2022.
  4. Cfr. G. Langella, Chicchi di polistirolo, in La faraona ripiena. Bulimia degli oggetti e Realismo Terminale, a cura di Elena Salibra e Giuseppe Langella, Milano, Mursia, 2012, pp. 54-61.
  5. Cfr. l’URL: https://newsroom.armandotesta.it/it/con-esselunga-e-armando-testa-va-in-scena-la-convenienza/.
  6. Cfr. le URL: https://www.collater.al/illustratore-giapponese-avogado6-illustration/ e il sito dell’artista https://www.avogado6.com/.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

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Recensione di “L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo” di Rosalba Galvagno (Milella ed. 2022)

Author di Ada Bellanova

Uno scavo nello scavo: la seduzione delle archeologie consoliane

Leggendo l’introduzione a L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo (Milella edizioni 2022), scopro che Rosalba Galvagno è approdata alla passione per l’opera di Consolo grazie alla lettura di Retablo. In particolare, è stata la musica magica e melodiosa dell’incipit a sedurla, a evocare in lei il profumo e l’incanto della Sicilia e a spingerla allo studio di una vita.

È forse questo dato, in consonanza con il mio vissuto – anche la mia scoperta di Consolo ha avuto inizio con la fascinazione delle prime pagine del romanzo –, a indurmi a una fruizione “amica”. La lettura non smentisce le attese e i saggi mi permettono, poi, di “ripassare” l’opera consoliana, regalandomi alcune sorprese attraverso una prosa piacevole anche nelle pagine più tecniche.

Nella scelta di ricordare il dato autobiografico della genesi dell’interesse letterario, la studiosa offre da subito un’indicazione importante al lettore, anche a quello meno esperto: a sedurre davvero è la Sicilia, o meglio la trasfigurazione letteraria che Consolo ne propone. È la Sicilia l’oggetto perduto (sempre), e la scrittura scava e tenta di approssimarvisi, nei resti archeologici, nelle pietre, per sublimarlo, e goderne, «ma denunciandone anche la faccia orrida senza veli o mistificazioni» (p. 18). Ecco giustificato, dunque, il titolo del volume: L’oggetto perduto del desiderio.

La prima parte contiene due testi che indagano soprattutto Il sorriso dell’ignoto marinaio. Nel primo in particolare, Galvagno va fino alle radici della scrittura di alcune pagine del romanzo e ne rintraccia ingredienti compositivi a volte molto nascosti, portando così alla luce interessanti allusioni, per esempio quelle a Los desastres de la guerra di Francisco Goya, che scandiscono, nella penna di Mandralisca, la descrizione dello spettacolo orrendo successivo alla rivolta di Alcara Li Fusi, e che contribuiscono anche a plasmare l’immagine di frate Nunzio, nel celebre Morti sacrata.

Galvagno evidenzia come corrispondenze e rimandi non siano fini a sé stessi ma funzionali alla «ricostruzione poetica di una verità più profonda e oscura che difficilmente si presenta allo sguardo del cronista o anche dello storico di professione» (p. 28): i riferimenti a Goya, in particolare le didascalie di chiara derivazione goyesca, permettono di «dare immagine alla spaventosa scena altrimenti non rappresentabile» (p. 22). La pagina palinsestica, insomma, viene giustificata dalla necessità di scrivere l’impossibile (La scrittura dell’impossibile è, opportunamente, il titolo del primo paragrafo del saggio). Dal desiderio della chiave perduta – quella logorata e per sempre persa al centro dell’arco del carcere, ovvero la possibilità della letteratura di dire «l’essere, il sentire e il risentire» (V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1976, p. 216) degli umili – scaturisce allora il messaggio finale del romanzo, nelle scritte del carcere. Nell’interpretarle Galvagno riprende lo studio di Salvatore Trovato sulla presenza del sanfratellano e del Vasi (S. C. Trovato, Valori e funzioni del sanfratellano nel pastiche linguistico consoliano del “Sorriso dell’ignoto marinaio” e di “Lunaria”, in Dialetto e letteratura, a cura di G. Gulino e E. Scuderi, Pachino, Assessorato ai Beni Culturali – Biblioteca Comunale “Dante Alighieri”, 1989, pp. 113-144) per evidenziare che «la voce che emana dall’abisso […] è quella di una fanciulla innamorata e separata dal suo amato» (p. 36). Il desiderio amoroso viene dunque iscritto nell’ultima dichiarazione del carcere per esprimere, però, la distanza da un altro oggetto perduto e tanto desiderato, ovvero la libertà, verso la quale il sanfratellano prigioniero nutre come gli altri una fame senza fine. Come fame senza fine è quella dello scrittore per il senso profondo della realtà, il fondo della spirale.

Al primo saggio il successivo Il linguaggio del potere si collega per l’analisi della scelta consoliana di scavare e trovare la verità, soprattutto verità sul potere: unica possibilità di combattere mali e orrori del tempo presente. Se Consolo sceglie un linguaggio complesso e articolato, lo fa dunque per opporsi al linguaggio con cui si esprime il potere: un potere libidico che, con violenza inaudita, stupra la verità. Da qui il risalto che l’autore sceglie di riservare al goyesco Murió la verdad, dove per l’appunto la giovane donna morta e luminosa è circondata da una folla sconvolta e confusa.

La seconda sezione si concentra, invece, sulla rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo, e ruota dunque attorno al tema geografico. Trovo particolarmente utili, anche per i non esperti di Consolo, Abitare il confine, inedito, che si ricollega a un saggio del 2014, e Il mondo delle meraviglie e del contrasto, intervento al convegno milanese del 2019 (anche in “Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione, a cura di G. Turchetta, Milano-Udine, Mimesis, 2021, pp. 77-98). Il primo insiste sulla radice geografica dell’ispirazione dello scrittore o, meglio, sulla «ricostruzione immaginaria» (p. 66) che egli fa delle sue origini; Galvagno si concentra sulla divisione tra le due Sicilie, sul valore del limes, del confine nella produzione di Consolo, per arrivare a presentare al lettore lo sconfinamento, la mescolanza – crogiolo – di Porta Venezia in cui l’autore ama stare con «lo sguardo solidale e compassionevole» (p. 73) di chi nell’altro, nello straniero, vede sé stesso.

Nel Mondo delle meraviglie e del contrasto, che si apre con una citazione da Di qua dal faro a proposito del viaggio di Ibn Giubayr, citazione da cui il saggio prende il titolo, l’attenzione si concentra sul ruolo centrale del Mediterraneo nella riflessione dello scrittore. L’opera di Consolo, infatti, pur trovando la propria radice nella Sicilia, comunica anche la necessità di un’apertura al di qua del faro, al mare, come ha già evidenziato Gianni Turchetta (in particolare nell’introduzione al volume Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione, cit., pp. 7-24). In questo, sostiene Galvagno, l’autore modifica il tradizionale ordine dello sguardo del lettore, invitandolo a riscoprire il Sud, quindi «la Sicilia nel e del Mediterraneo» (p. 88). Nel suo essere mare degli incanti e dei disastri, il Mediterraneo è espresso nelle pagine consoliane attraverso la figura dell’antitesi: attraverso l’analisi di alcuni testi paradigmatici – estremamente puntuale l’esegesi della descrizione della città di Milazzo –, la studiosa mette in evidenza la visione doppia antitetica, di bellezza e insieme di orrore, di alcuni spazi consoliani.

La terza parte riguarda la passione archeologica, ovvero l’attenzione per i reperti, i siti antichi. L’oggetto perduto del desiderio si identifica con le pietre, che recano in sé la memoria del passato. Interessante è il primo saggio che riguarda il “romanzo di Selinunte” nella vita e nella trasposizione letteraria di Consolo. Molte sono le occasioni in cui l’autore non fa solo riferimento al sito archeologico, ma lo mette al centro della propria riflessione letteraria. Alla ricostruzione attenta della biografia e delle fonti non sfugge l’errore di memoria di Consolo, che non ha scoperto Selinunte a 15 anni, come dichiara in La grande vacanza orientale-occidentale, bensì a 34. Prova ne è il testo poetico che l’autore compone per Sergio Spadaro che l’accompagnava in quell’occasione, testo che è proposto al lettore nel saggio. La ricollocazione nel tempo – consapevole o no, forse risultato della sovrapposizione con la visita a Siracusa effettivamente svoltasi nella prima adolescenza dell’autore – fa in ogni caso parte della mitopoiesi consoliana a proposito di Selinunte. D’altronde, Consolo in un articolo (In lettere d’oro il romanzo di Selinunte, in «L’Ora», 13 marzo 1984) scrive: «Ciascuno di noi forse non ricorda più il momento in cui ha visto per la prima volta le metope di Selinunte».

Della sezione intitolata Metamorfosi dell’oggetto del desiderio mi preme segnalare le pagine dedicate a Retablo. L’intero romanzo è letto come una preghiera, una supplica all’Altro: divinità (Asclepio, Demetra), ma soprattutto creatura femminile, nelle varie forme di donna, santa, antica divinità greca, ninfa. Questo giustifica la definizione di inno per il prologo, mentre Rosalia è riconosciuta come la vera protagonista del romanzo. Nel saggio compare un’attenta esegesi del passo da cui consegue la considerazione a proposito della natura assolutamente inedita di Rosalia, donna oggetto dello slancio d’amore: «Alle due donne – Venere celeste e Venere terrestre – celebrate da questa tradizione letteraria [italiana e europea] si sostituisce in Retablo una sola donna dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e concupita (sogno o incubo di ciascun uomo forse)» (p. 154). Ma non basta: Galvagno evidenzia come si assista nel testo consoliano a un’ibridazione «attraverso la coalescenza della corrente tenera e della corrente sensuale dell’amore, che fa sì che i tratti ideali e i tratti erotici di questo oggetto femminile divengano interscambiabili» (p. 154).

Sull’antitesi ritorna anche l’ultima sezione. L’analisi puntuale della presenza della poesia bucolica del Meli in Retablo per esempio si chiude con alcune considerazioni interessanti a proposito della presenza nel romanzo sia della poesia bucolica, che «incarna un’etica pastorale basata innanzitutto sul canto amoroso e armonico, quindi sull’ospitalità, sull’arte medica coniugata con la poesia, sull’umiltà, sul lavoro ecc.» (p. 228), sia della figura del poeta libertino e lascivo sedotto dalla bellezza del corpo femminile. Il termine “chiarìa” invece, parola poetica ripresa proprio dal Meli, già in bocca al pastore Nino Alaimo in Retablo, divenuto parte dell’incipit di Nottetempo, casa per casa e in forza della memoria letteraria veicolata, esprime l’insanabile contrasto tra l’Arcadia utopica e armoniosa e il disforico paesaggio notturno e, proprio in questa contrapposizione, dice l’angoscia indicibile del personaggio.

Significativa è la scelta di porre in appendice il testo della Conferenza di Consolo, tenuta all’Accademia di Belle Arti di Perugia il 23 maggio 2003 (alle pp. 251-65), prezioso inedito dono di Caterina Pilenga a Rosalba Galvagno, in cui l’autore definisce il proprio lavoro di archeologo, che cerca di disseppellire parole da lingue dimenticate, in difesa della memoria, e parla di una «poesia delle rovine, delle vestigia del nostro passato che ci commuovono ogni volta che le vediamo» (p. 263).

Riposto il libro, dopo la bella postfazione di Sebastiano Burgaretta (Con Consolo per antiche pietre, pp. 269-79), in cui il racconto di alcuni episodi autobiografici di esperienze vissute con Consolo conferma la passione archeologica dell’autore – «sembra retorico, ma non lo è: sono emozionato a vedere tutto questo» (pp. 272-73), le sue parole davanti alle rovine di Eloro –, più forte mi sembra la traccia offerta dal titolo della raccolta: ciascuno di questi saggi, infatti, indaga l’oggetto perduto del desiderio consoliano. Ma ancora più significativa mi sembra l’espressione Archeologie di Vincenzo Consolo, accostata a L’oggetto perduto del desiderio. Essa infatti finisce con l’inquadrare, sì, la passione dello scrittore per le rovine e il suo scavo nelle pietre e nella lingua, ma anche la direzione e le modalità dello studio di Galvagno. Anche la studiosa, insomma, è impegnata in un lavoro “archeologico”, in uno scavo al quadrato, nelle pagine dense di strati – e di reperti non sempre facilmente identificabili – dell’opera di Consolo. L’esito è la testimonianza felice dei ritrovamenti. Vi persistono il profumo e la musica di quella prima lettura incantatrice.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

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Recensione di “Eliodoro” di Mario Fresa

Author di Edgarda Golino

Eliodoro di Fresa, un moto perpetuo

L’ultima fatica letteraria di Mario Fresa (poeta, saggista, traduttore, nato a Salerno nel ’73) è Eliodoro (apparso nella collana «Gli Specchi Mercuriali» della casa editrice Fallone), uno straordinario romanzo di ricerca nel quale le categorie tradizionali di spazio e di tempo si scompongono e deflagrano, risucchiando il lettore nei misteriosi corridoi di un viaggio folle e allucinatorio, tutto immerso in un’atmosfera che ricorda le movenze stilistiche ed espressive del film Mulholland Drive di David Lynch.

Il romanzo si regge su una sorta di estremo flusso di coscienza che travolge i numerosi e strambi personaggi, che appaiono sempre fantasmatici e “intermittenti”, come se fossero sull’orlo di una perenne, prossima (auto)sparizione: lo psicanalista Fliege (il dottor “Mosca”: cioè Belzebù, al quale il protagonista cede l’anima); Eliodoro e le sue donne amate o desiderate o riesumate dal passato (Luisa, Clara, Vanitosa…); il maestro di musica Danise (omaggio all’antico baritono Giuseppe Danise?); Ester, Augusto, Ruggeri, il professor Ventolini etc. Figure che, di fatto, non sono mai tratteggiate in modo univoco o compiuto, ma quasi spiriticamente evocate per il tramite di situazioni surreali e beckettianamente grottesche, risultando sospese tra il ricordo e il sogno (o tra l’immaginazione e la magica invocazione). Poi, l’ardito e mobilissimo reticolo di citazioni enciclopediche (soprattutto musicali, ma anche poetiche, bibliche, filosofiche, pittoriche, psicanalitiche, teatrali), così tanto presente nell’opera, si rivela capace di spazzare via, con diabolica destrezza, tutti i codici espressivi e comunicativi tradizionali e consolidati, sicché l’intero poema-romanzo procede secondo gli sviluppi di un percorso frantumato, parodisticamente meta(e anti)narrativo; e si può ben immaginare quanto l’autore si sia crudelmente divertito nell’architettare questo estremo gioco-racconto con la re-invenzione di una lingua che, di continuo, priva il lettore di precise coordinate logiche o di pacificanti appigli orientativi.

Un estratto-esempio del surreale e “tragibuffo” andamento onirico/narrativo dell’opera:

E spulciando tra le carte del Dossier del giovanissimo Augusto, il primo pianista in attesa per l’audizione di oggi, il Maestro Danise appare più inviperito che deluso da ciò che ha scoperto. In sintesi: poiché Augusto lavorava così male al Provveditorato, lo hanno inviato, meno di un mese fa, vicino a Camerino, ma in qualità di Rinoceronte, per ballare tra i bambini di frontiera che non solo si alzano in piedi quando entra un adulto, ma che sono già tutti buoni conoscitori del Barocco storicamente informato. Augusto, a dire il vero, non balla male. Soltanto, la sua coreografia appare già vista, un po’ stantia. E poi quel corno infiocchettato così… Rivolto proprio in faccia al pubblico! E quella tutina così aderente accompagnata ad una voce stretta, sottile, quasi morente! Le madri dei bambini, i principali spettatori, non riescono ad accettare i movimenti del suo grandissimo corno, quasi sempre messo in avanti, proprio così (si tratta di movimenti davvero sconci, dicono in coro alla Direttrice didattica, piuttosto sbalordita, inconsapevole dello scandalo che sta girando, di fatto, sulla bocca di tutti…). Ma tant’è. Questo nuovo lavoro durerà giusto, al massimo, due anni. Poi Augusto ha deciso: chiederà il trasferimento in un Circo prestigioso o, almeno, in una nuova struttura scolastica dove possa venire, finalmente, valorizzato il merito vero, non le solite piaggerie degli altri animaloni da corte poco propensi a continuare a studiare seriamente. E allora, detto fatto: dopo una telefonata velocissima, smette di colpo la sua coreografia e si trasforma in ballerino-lottatore: e se la prende con tutte le mamme, inviperite come una repubblica corrotta.

La morte, in Eliodoro, è sempre in agguato («è la certa, la camusa, la negra, la puntuale. Insomma è la signora che si presenta inaspettata e che di solito s’annuncia con certi strani dolorini ‒ sì, proprio lì! ‒ e che poi zàc, ti chiude all’improvviso, mica sai quando, il bel sipario…»). Tutti i personaggi, infine, inciampano in essa, come in un destino ironicamente crudele e incomprensibile; e tutti corrono e si affannano in un indiavolato turbinio che dona al testo un ritmo sì musicale ma anche mosso e precipitoso, inquieto e ansante (metafora e specchio del nostro vivere contemporaneo). La narrazione mima, allora, la disperante, comico-drammatica visione di un basso inferno dantesco attraversato da voci, memorie, desideri, ossessioni che non concedono ai protagonisti nessuna ipotesi di salvezza o di redenzione ma ‒ sembrerebbe ‒ neanche la certezza di una totale distruzione o di una definitiva o irreparabile dannazione.

Con questo singolare romanzo polifonico, Fresa è riuscito a costruire un’opera ‒ coraggiosamente folle ‒ che pare ambiguamente sospesa su sé stessa, o trattenuta in un perenne volo vorticoso.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

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Possesso, anoressia e abuso: tre recenti narrazioni su corpi di donne in cerca di riscatto

Author di Maria Panetta

Il percorso che si propone[1] prende avvio dal documentario (2009) e dal successivo volume di Lorella Zanardo – attivista per i diritti delle donne e scrittrice – dal titolo Il corpo delle donne (2010) per sondare tre casi di narrazioni italiane dell’ultimo biennio. In ordine cronologico:

  1. il racconto lungo La gabbia di Anna di Maria Lovito (Edigrafema 2019), che narra realisticamente la vicenda di una ragazza che, sognando un amore romantico, s’imbatte in Lorenzo, uomo possessivo che le avvelena la vita. Rimanendo a lungo inascoltata anche dai propri famigliari, Anna trova finalmente la forza per evadere da quella gabbia grazie alla sua intraprendente avvocata, che riuscirà a dimostrare che la violenza contro le donne purtroppo non è solamente di carattere fisico, ma può essere in primo luogo psicologica;
  2. Redenzione. La prima indagine di Maurizio Nardi di Chiara Marchelli (NN Editore 2020), un giallo che vede protagoniste tre donne (Giorgia, milanese in vacanza; Malina, la vicina di casa, e la mamma di lei) che nascondono, ognuna, un segreto: una vicenda dolorosa di malattia, disagio e violenza. Fa da tramite fra loro Maurizio Nardi, comandante dei carabinieri alle prese con un caso di femminicidio, in una Volterra in cui ancora campeggia un vecchio manicomio nel quale rivivono i sofferti ricordi della madre di Malina, un tempo anoressica e ivi internata. Anche Giorgia ha patito l’anoressia e s’illude di esserne guarita: disagio mentale, sociale e fisico s’intrecciano, dunque, in questa triplice narrazione di donne in cerca di riscatto;
  3. La tatuatrice gentile di Lucilla Ninivaggi (Mondadori 2021), la cui protagonista, Lara, è una giovane tatuatrice dal passato traumatico, che trova nel proprio lavoro creativo la via d’uscita per liberarsi dell’opprimente ricordo degli abusi subiti da piccola. Nel suo laboratorio Lara trasforma gli incubi delle clienti in variopinti tatuaggi, sublimando anche il proprio dolore in bellezza. Il corpo, dunque, come “possibilità”: non solo prigione, ma anche “vettore di liberazione”, perché l’atto di riappropriarsi del proprio corpo permette alla donna di riaffermarsi come soggetto, evitando di subire passivamente il controllo possessivo tipico della società patriarcale (sul tema molto utile il recente Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Torino, Einaudi, 2022).

Uso e abuso del corpo delle donne

Com’è noto, Il corpo delle donne è il titolo di un deprimente, scioccante ma illuminante documentario della durata di circa ventitré minuti prodotto da Lorella Zanardo, Marco Malfi Chindemi e Cesare Cantù. Nel 2009 esso ha messo in evidenza come la donna sia stata, man mano, sostituita, nei programmi televisivi della televisione sia pubblica sia privata, con una sua rappresentazione umiliante, senza peraltro suscitare reazioni di sana indignazione neanche da parte del pubblico femminile. “Chi siamo? Cosa vogliamo? Come mai tutte le donne d’Italia non scendono in piazza protestando per come veniamo rappresentate?”, vi si chiede Lorella Zanardo, mentre vengono proiettate immagini di corpi generosi, labbra carnose e riprese televisive da angolazioni quantomeno imbarazzanti.

Evidentemente – riflette Zanardo –, il pubblico è abituato a guardare la tv senza filtrare razionalmente e senza applicare alla visione nessun senso critico: evidentemente, “guarda” ma non “vede”. Per questo motivo il documentario si configura come una feroce carrellata di immagini accomunate da un uso manipolatorio del corpo delle donne: esso mette in rilievo, in primo luogo, l’invasivo ricorso alla chirurgia estetica applicata ai tratti del viso femminile, al fine di cancellarne i segni del tempo[2], perché pare che oggi la vulnerabilità degli esseri umani debba essere negata. Il documentario, infatti, gioca molto sulla contrapposizione fra vulnerabilità e invulnerabilità, e sulla dialettica fallimento versus successo.

In seguito alla realizzazione del video, Lorella Zanardo è stata anche intervistata dalla psicologa Francesca Penno[3], che le ha chiesto a quale tipo di donna fosse rivolto. L’autrice ha spiegato che il suo target di riferimento era, in realtà, quello dei giovani, che troppo spesso assumono come modelli gli stereotipi che vengono proposti attraverso i media: il suo obiettivo, quindi, era quello di far sì che i ragazzi guardassero la televisione con occhi nuovi, fornendo loro degli strumenti e degli spunti per una migliore comprensione del reale.

In quell’occasione alla domanda – forse un po’ scontata anche se provocatoria – se sia più importante la bellezza di un corpo o quella di un cervello brillante, Zanardo ha ammesso che sarebbe disonesto affermare che la bellezza non conta, perché indubbiamente essa produce una forte fascinazione. Ha aggiunto, però, che bisogna decidere a quale idea di bellezza si desidera far riferimento e ha citato il caso di Pasolini, che sottolineava quanto fosse importante il punto di vista dell’occhio che guarda, che è l’unico che può accorgersi della bellezza: essa, infatti, potrebbe essere presente anche in modi e forme non codificate dal senso comune. L’ostacolo più insormontabile, quindi, resta sempre quello di non saper “vedere”, sebbene si abbiano occhi per “guardare”.

Il noto video della Zanardo, mosaico di spezzoni tratti da trasmissioni della Mediaset e della RAI, è, dunque, una triste galleria di vallette, veline, ballerine e attrici dai volti rifatti. L’autrice all’inizio compare, sebbene la sua presenza sia defilata, ma in seguito diviene voce fuori-campo, che commenta e fa appello al risveglio delle donne e all’azione politica che un tale increscioso spettacolo dovrebbe suscitare.

Il video-evento accadeva nel maggio del 2009: allora Il corpo delle donne veniva diffuso online per denunciare l’imbarazzante silenzio sul trattamento del corpo femminile in televisione. Il documentario, infatti, è un vero e proprio pamphlet militante, che si rivolge direttamente e provocatoriamente alle telespettatrici, adoperando il “noi”. In meno di 25 minuti Il corpo delle donne ripropone per accumulazione un rimosso di corpi di cui allora tutti gli intellettuali (anche progressisti) si erano completamente disinteressati: una situazione che richiedeva una condanna ufficiale e urgenti misure di contenimento e che, invece, era stata tollerata per molto tempo dalle donne stesse. Zanardo nel documentario si domanda il perché di tale adeguamento a modelli imposti dal mercato: sia nella già ricordata rimozione delle rughe, segni del tempo che passa; sia nella continua riproposizione allo spettatore di corpi tonici, scattanti, in perfetta forma e sempre ammiccanti, in pose sessualmente intriganti. La dialettica su cui s’insiste, come si diceva, è quella fra vulnerabilità e invulnerabilità: un corpo apparentemente giovane illude, infatti, una donna di essere invulnerabile, in un contesto che tende a schiacciare il più debole.

Il video è un lavoro d’archivio che si situa al confine tra documentario, docu-fiction e documento: con un valore, dunque, di testimonianza, di ricostruzione di un’epoca storica, ma anche di denuncia. Assieme a Cesare Cantù e Marco Malfi Chindemi, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, Zanardo ha rimontato immagini di donne umiliate in tv, dichiarando di poter sentire, nel farlo, l’umiliazione nella sua stessa carne. Davanti agli occhi degli spettatori – come si diceva – vi sfilano veline, stelline, meteorine, ballerine, vallette e attrici mature in quiz e salotti televisivi, maltrattate da presentatori e presentatrici (ad esempio, l’odioso Mammuccari in spezzoni di quella discussa trasmissione che vedeva una giovane Flavia Vento relegata come un animale in gabbia dentro una sorta di teca trasparente, ai piedi del presentatore, che non si esimeva dal fare continuamente ironia pesante sulla presunta mancanza di cervello anche di altre donne che si alternavano sul palcoscenico). Le ospiti restavano quasi inebetite al cospetto di tale assurda violenza verbale: arrendevoli, con un timido sorriso inespressivo o malinconico, fornivano risposte improvvisate a domande insulse; e i presenti in studio, consenzienti o lievemente imbarazzati, non battevano ciglio.

La voce fuori campo nel video interroga e provoca: l’autrice si domanda le ragioni della mancata opposizione delle donne, dichiara l’urgenza di una presa di coscienza, insiste sul “disastro” simbolico. Chiede: “Cosa nascondono questi volti rifatti? Perché non si può fissare in faccia la vulnerabilità umana?”. E inserisce per contrasto, fra le immagini, Anna Magnani in Mamma Roma e Maria Callas in Medea. Cita Pasolini, James Hillman ed Emmanuel Levinas in relazione al volto umano; si chiede: “Perché non reagiamo? Di che cosa abbiamo paura?”.

Il video mette pure in luce, impietosamente, che al gioco si prestano non solo ragazze giovani in cerca di notorietà, ma anche signore non più giovanissime che cedono alla tentazione del ritocco estetico, in una battaglia contro l’inesorabile passare del tempo che oggi accomuna molte donne. Vi si dimostra chiaramente che anche alcune signore mature, anziché assumere un atteggiamento da modello o da guida nei riguardi delle giovanissime, si pongono in concorrenza con le ragazze, risultando spesso patetiche in tale “gara” destinata a penalizzarle: viene in mente Pirandello col suo Umorismo e col sentimento del contrario.

C’è da dire, però, che le radici di questa rappresentazione delle donne affondano in anni più lontani del periodo “berlusconiano” preso di mira dal documentario, e che anche certo grande cinema italiano anticipa queste forme di “pornocrazia”: se, infatti, le caricature di Fellini forse potevano essere declinazioni del bello in una società patriarcale, la cosiddetta “commedia all’italiana”, ad esempio, sdoganava, di certo, toni qualunquisti.

Tre romanzi contemporanei

Il documentario di Zanardo, comunque, introduce bene ai temi dei tre romanzi cui si accennerà, a causa della sua carica di “violenza”. Le donne vi vengono, senza dubbio, umiliate: non solo rese oggetti, ma penalizzate anche nella loro intelligenza, specie quando ossessivamente vengono riproposte le immagini di signore indubbiamente competenti, di cultura, di raffinata preparazione e indubbia sensibilità, che si sono adeguate alla moda imperante, sfoggiando labbra artificiosamente carnose, decolleté perfetti, zigomi dalla pelle tesa che le rendono delle tristi maschere senza espressione. In questo adeguarsi ai dettami della civiltà del consumo – che evidentemente anche loro hanno introiettato e fatto propri al punto da non ribellarsi affatto – purtroppo vengono tristemente a sminuire tutte le altre carte che avrebbero a disposizione, facendo trapelare il messaggio che anche loro sono convinte che a una donna non basti essere preparata, brillante, colta, sensibile, intelligente per emergere.

Del resto – se vogliamo essere polemici –, persino nel mondo della carta stampata oggi assistiamo al proliferare di scrittrici, critiche letterarie, autrici varie che, per promuovere i parti del loro ingegno e i prodotti della loro penna – ovvero prodotti di ambito culturale – non rifuggono dall’affidare alla propria immagine (e non ai contenuti dei propri libri) l’invito al lettore a essere lette e prese in considerazione. Ed è tutto un fiorire di locandine con primi piani di donne con labbra rifatte o truccate al limite della volgarità; di immagini di copertine di libri tenuti in mano da dita dalle unghie rigorosamente laccate, lunghissime e seducenti; di cartelloni pubblicitari di conferenze e presentazioni che pongono l’accento sui profili ammiccanti delle autrici più che sul messaggio che i loro libri trasmettono. Il che ci dovrebbe far riflettere, perché una minima dose di narcisismo ci accomuna tutte (e penso sia comprensibile), ma gli eccessi denunciano il fatto che ancora oggi molte intellettuali si auto-percepiscono come fossero mercanzie in vendita.

Venendo brevemente ai tre romanzi di scrittrici contemporanee (viventi) proposti come testi di riferimento per l’analisi, confesso di averli scelti (tranne in un caso) soprattutto mossa da curiosità, che – in tutti e tre i casi, con le debite differenze – dal punto di vista letterario è stata perlopiù delusa, perché questi testi hanno un grande valore di testimonianza, senza dubbio, ma non uno spiccato pregio estetico. Potrebbero senza troppa difficoltà essere inseriti nel novero della maggior parte di quella che Gianluigi Simonetti, in un libro che ho apprezzato al punto da adottarlo per vari miei corsi alla Sapienza, ha definito felicemente La letteratura circostante[4]. In un’occasione come quella del Convegno AIPI 2022 di Palermo, incentrato sul racconto della realtà, si sono rivelati, però, anche utili per offrire uno spaccato del contemporaneo nella sua cruda nudità, senza troppi “fronzoli retorici”.

Una gabbia dorata

Il primo, La gabbia di Anna (2009) di Maria Lovito (Matera 1969), avvocata civilista del Foro di Matera, mette in scena una tipica “gabbia dorata”: la casa della protagonista, Anna, uno spazio soffocante soprattutto per il rapporto che la donna intrattiene col marito manipolatore e ossessivo, ma anche a causa delle sue relazioni affettive in famiglia. Il romanzo racconta una quotidianità di sottili prevaricazioni che non lasciano segni, quelle più difficili da gestire e da denunciare: vere e proprie violenze che arrivano a pregiudicare l’autostima di chi le subisce.

Anna un giorno si fa coraggio e decide di chiedere aiuto a un’avvocata. In un’intervista[5], Lovito ha dichiarato che Anna era un nome di fantasia, ma corrispondeva a una persona realmente esistita, che era stata vittima non di violenze fisiche, ma psicologiche. Nel romanzo l’autrice ha, invece, inserito un episodio di percosse per non rendere riconoscibile la vittima, ma ha al contempo ribadito che la violenza sulla psiche è, di solito, l’anticamera di quella sul corpo, ma è ancora più subdola della seconda perché non sempre viene creduta dall’esterno e spesso viene sminuita. E, prima di tutto, viene negata a sé stessa pure dalla vittima, perché non è semplice ammettere di essere o essere state oggetto di un qualsivoglia tipo di violenza.

Il messaggio veicolato dal romanzo è utile e propositivo: le vittime devono compiere un percorso molto personale di introspezione, comprendere che stanno portando avanti un legame “malato” e che tutto ciò che viene vissuto con sofferenza, come imposizione, e non è frutto di scelte condivise dai due coniugi è indice di una relazione non sana, il risultato di un rapporto di dipendenza e sottomissione. È necessario, in questi casi, avere il coraggio di uscire da sé stesse e di rivolgersi a una persona competente che possa aiutare la vittima a comprendere come sottrarsi alla situazione opprimente che l’angoscia. Non sempre risulta facile compiere questo passo, perché spesso gli altri, invece di sostenere le donne in questo delicato passaggio, le colpevolizzano, accusandole di avere sbagliato qualcosa nella gestione del rapporto insano. Spesso le donne si vergognano di ammettere la violenza subita anche perché – come si diceva in precedenza – essa testimonia della vulnerabilità di chi è stata costretta a esserne oggetto; e, soprattutto se la donna non è indipendente economicamente o è madre, spesso decide di non abbandonare l’uomo violento.

Nella suddetta intervista prima menzionata, l’autrice ha dichiarato anche di aver deciso di raccontare la storia di Anna perché, dopo le prime due udienze in tribunale, aveva la sensazione che entrambe fossero rimaste invisibili: sia la vittima sia il suo legale donna. Maria Lovito, dunque, ha scritto anche per rilanciare la funzione sociale della figura dell’avvocato e per trasmettere ai colleghi il messaggio che un buon legale deve anche saper ascoltare storie.

I reietti del ghetto: il confinamento dei corpi

Redenzione, romanzo scritto da Chiara Marchelli (traduttrice nata ad Aosta nel 1952), si configura, invece, come una sorta di noir. Il libro indaga sull’anoressia, intesa soprattutto come mancanza di desiderio; sul disagio mentale curato tramite ansiolitici ed elettroshock; sulle violenze che può subire a volte un degente, fra le quali si possono annoverare anche le lettere scritte con emozione ai propri cari, che non vengono mai spedite.

La vicenda è ambientata in una Volterra che appare quasi tagliata fuori dal mondo, con il suo Ospedale Psichiatrico Giudiziario, oggi abbandonato, che non cessa di nascondere misteri. L’OPG, di fatto, è come una città nella città, dove si finisce perché si è malati, perché si è “strani” o anche perché non si ha nessuno che possa prendersi cura del paziente: la protagonista del noir vi fa il proprio ingresso all’età di 19 anni e ne esce a 40. Personaggio centrale è Maurizio Nardi, un comandante dei carabinieri alla sua prima indagine, che investiga osservando con meticoloso scrupolo l’ambiente circostante, descrivendolo nei minimi dettagli; e non manca di ricostruire diligentemente a ritroso la vita della donna uccisa.

Si tratta di un libro dal ritmo frenetico e angosciante: un libro che, dunque, rispetta in pieno i dettami del genere che lo definisce. Forse, come accennato, oltre al fatto che mette l’accento su tre vite femminili caratterizzate tutte da forme di disagio e di violenza, il suo valore “civile” risiede soprattutto nella denuncia delle condizioni dei pazienti dell’ospedale psichiatrico e della loro situazione di “confinati”, reietti, corpo nel corpo della città: la struttura ospedaliera è un ghetto di fatto, in cui vengono rinchiusi tutti coloro che la società “civile” rifiuta, al punto da non volere che i loro corpi fisici circolino per le strade assieme agli altri, che si confondano con loro. Il noir diviene, dunque, allegoria del ridicolo tentativo di isolare e contenere la “follia”, la marginalità, la differenza, nella nostra società standardizzata e incapace di confrontarsi veramente col diverso e con l’Altro da sé senza averne timore.

La catarsi della scrittura e del segno

Il terzo caso preso in esame è quello di un fresco esordio letterario con Mondadori. Lucille Ninivaggi è una tatuatrice milanese, classe 1981: anche in questo caso, come nel primo, realtà e finzione s’intrecciano pure al livello della biografia dell’autrice.

Lara, la protagonista del “romanzo” (più che di romanzo, si potrebbe parlare di una specie di galleria di personaggi e storie tenute insieme da una cornice comune: una sorta di raccolta di racconti a tema), ha sempre amato disegnare, inventare nuovi mondi dove rifugiarsi nei momenti difficili e cupi. Per lei, la fantasia è stata l’antidoto ai tanti dolori che hanno segnato la sua vita fin dall’infanzia infelice. Cresciuta, ha trovato il coraggio di lasciare un lavoro che non desiderava e per il quale non si sentiva vocata, trasformando la propria passione in un mestiere che finalmente le dà gioia: quello della tatuatrice. Lara, però, non si limita a tatuare: quando qualcuno – soprattutto donne – la contatta per farsi realizzare un tatuaggio, prima di tutto chiede che le racconti la sua storia. Lara la ascolta con attenzione e se ne prende cura, con la stessa gentilezza e il medesimo rispetto che l’adorata nonna Ada riservava alle sue amatissime piante (la nonna è un punto di riferimento fondamentale nella storia: una figura antica e antitetica rispetto a quelle di donne mature rappresentate nel documentario prima ricordato).

Lara, quindi, traduce quei racconti di vite spesso offese in caleidoscopici tatuaggi, trasformando così il dolore in bellezza, e quindi in forza: è come se, attraverso quei tatuaggi, l’artista aiutasse le donne che si rivolgono a lei a tirare una riga su ciò che sono state e a segnare il punto della rinascita. Ogni volta che accade questo miracolo di empatia, si realizza quello che nonna Ada le amava ripetere: «ci sono volte in cui fare qualcosa per gli altri equivale a farlo per se stessi». Perché le storie di cui si fa custode e interprete Lara, storie di donne coraggiose che non vogliono permettere al male che le ha investite di ostacolarle, aiutano anche lei a guarire progressivamente, e a sentirsi sempre meno sola.

Lara non si limita a disegnare sulla pelle dei clienti: ascolta, comprende ed elabora per loro bellissimi disegni che rappresentino una rinascita. Anche da piccola, si rifugiava nel giardino di nonna Ada e la osservava curare i suoi fiori: solamente con un foglio e una matita riusciva a evadere da un mondo che non le piaceva e che la opprimeva.

Il romanzo – come recita la prima dedica – è stato scritto per «tutte le persone che si sono sentite troppe volte “non abbastanza”» (p. 5), inadeguate: torna, dunque, anche in questo caso, la centralità del tema dell’autostima, che in effetti fa da trait d’union di tutto il percorso che si è tentato di delineare.

La seconda dedica del libro contiene un’indicazione chiara del modello di donna cui l’autrice si ispira: quello di una «guerriera gentile» (ibidem), il che mi pare coniugare con una certa apprezzabile saggezza l’immagine di forza e indipendenza che alla donna oggi è richiesto di dare di sé (con caratteristiche che storicamente appartengono, in realtà, a un modello soprattutto maschile) con l’attributo della gentilezza, che fa da utile contraltare alla violenza, all’aggressività verbale e fisica, all’indifferenza, all’arroganza, al tentativo continuo di sopraffazione, all’invadenza, alla mancanza di tatto e di delicatezza, ai modi bruschi che si sono, purtroppo, imposti perlopiù nel mondo attuale. Si tratta, dunque, del recupero di un valore che la tradizione attribuisce soprattutto alle donne, ma che oggi appartiene trasversalmente a tutte le persone che fanno della cortesia, dell’educazione, del rispetto per gli altri, della pacatezza anche uno stile di condotta e di vita.

La terza dedica del libro, quella alla nonna Adelina, denuncia la matrice autobiografica dello scritto e fa appello alla «fantasia» (ibidem), forza motrice sia dei tatuaggi realizzati dalla scrittrice e dalla sua protagonista sia della creazione letteraria stessa: una concezione, se vogliamo, antica della pratica della scrittura, che fa riferimento alla capacità creativa del singolo.

Il volumetto è diviso in agili capitoletti che raccontano ognuno la storia di una delle clienti della tatuatrice e ne assumono il nome come titolo. Trattandosi di una scrittrice abile anche nel disegno, ogni storia è corredata di una pagina che riporta, stilizzato, il tatuaggio colorato che la sintetizza e la simboleggia, e che dà il via al riscatto della donna tatuata. La violenza viene, dunque, sublimata, oltrepassata attraverso il suo “confinamento” in tratti indelebili impressi sulla carne delle vittime. È come se da quella pelle, da quel corpo vivo, non potesse più uscire o propagarsi. È imprigionata, a futura memoria, ma anche come traccia di una storia di progressiva acquisizione di consapevolezza, di un percorso di conoscenza intimo e doloroso che passa, simbolicamente, per la carne, per il sangue, ma che poi se ne allontana, rarefacendosi.

Nel progettare il tatuaggio e nel realizzarlo, ogni volta anche la protagonista si libera progressivamente dei propri fantasmi in un processo di doppia catarsi: Lara, la tatuatrice, si purifica del proprio vissuto di abusi nell’infanzia disegnando e decorando corpi di altre donne, e la sua autrice lo fa scrivendo. La scrittura narrativa, dunque, ancora una volta come catarsi: come processo di presa di coscienza, autoconsapevolezza, purificazione, ri-motivazione, arricchimento spirituale profondo.

Il messaggio molto positivo che questo romanzo – seppur in uno stile assai semplice e in un lessico piuttosto piatto e piano – veicola è che la complicità femminile aiuta a fare argine alla violenza che spesso investe le donne, ancora oggi; e che l’empatia nei confronti del dolore altrui può essere anche amore verso sé stessi, perdono delle proprie debolezze e imperfezioni.

  1. Questo articolo sintetizza la relazione, dal medesimo titolo, presentata da chi scrive al Congresso AIPI (Associazione Internazionale Professori di Italiano) di Palermo dei giorni 27-29 ottobre 2022: si coglie l’occasione per ringraziare per il cortese invito le professoresse Mimì Perrone Borgese e Claudia Carmina.
  2. Questa cancellazione di rughe e volti riguarda la rappresentazione della donna e soprattutto la stessa identità femminile: per questo motivo il Coordinamento del Gruppo donne ha invitato non solo le donne a vedere il documentario, visionabile anche in inglese, portoghese e spagnolo all’URL: http://www.ilcorpodelledonne.net/.
  3. L’intervista si legge all’URL: http://www.uildm.it/docs/gdu/Zanardo.pdf. (ultimo aggiornamento: 14/09/2009).
  4. G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2018.
  5. E. Chiorazzo, La gabbia di Anna, quando l’amore diventa prigione, in Storieoggi.it, 23 novembre 2019: https://www.storieoggi.it/2019/11/23/la-gabbia-di-anna-quando-lamore-diventa-prigione/.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

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Recensione di Ezio Sinigaglia, “Sillabario all’incontrario” (2023)

Author di Claudio Morandini

Continua l’idillio dello scrittore milanese con le edizioni TerraRossa, che in questi ultimi anni hanno il merito di averlo riproposto e finalmente pubblicato con continuità. Nel 2023 è la volta del Sillabario all’incontrario, titolo cantabile e, verrebbe da dire, fanciullescamente palazzeschiano, un’opera di dimensioni contenute che ibrida l’essai e il romanzo ed è nata, così si legge, come forma di terapia durante una lunga convalescenza negli anni 1996-1997. Continua a leggere Recensione di Ezio Sinigaglia, “Sillabario all’incontrario” (2023)

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

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Recensione di “Rethorica Novissima” di Gualberto Alvino (2021)

Author di Maria Panetta

Di «respiro ampio e in un certo senso prosaico» (p. 6) parla, per questi versi editi da Il ramo e la foglia nel 2021, il prefatore Francesco Muzzioli, sottolineando quanto Alvino vi rifugga dalla ripresa delle forme chiuse della tradizione: altrettanto bene Muzzioli mette in luce, però, che, sebbene in questo volumetto non si rispettino le regole metriche, «la libertà è sofferta ed è sottesa da un ritmo incalzante e dai cambi di pedale di una scrittura in continuo movimento» (ibidem). Continua a leggere Recensione di “Rethorica Novissima” di Gualberto Alvino (2021)

(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. II)

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