Recensione di Michele Mari, “Locus desperatus” (Einaudi 2014)

Author di Giovanna Lo Presti

L’ultimo romanzo di Michele Mari, Locus desperatus ‒ finalista al Premio Campiello 2024 ‒, mi riporta al titolo di un famoso e ormai datato saggio di Charles Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale. Chiunque abbia letto Mari sa che le metafore ossessive sono talmente numerose nei suoi scritti che viene addirittura difficile enumerarle. Quanto alla costruzione del “mito personale”, non c’è dubbio: l’autore di Leggenda privata di quello parla in ogni suo testo e lo fa con una, almeno apparente, grande generosità nei confronti del lettore, che si accresce libro dopo libro. A ben vedere, però, il testo di Mauron funziona, applicato a Mari, soltanto per il titolo: la psicocritica di Mauron vuole cogliere ricorrenze e dimostrare «la presenza accertabile, in parecchi testi dello stesso autore, di reti fisse di associazioni, che non si possono dire volute». Invece le ricorrenze, nei testi di Mari, sono volute, studiate, ben mirate come freccette che debbono colpire il bersaglio nel centro, altro che involontarie. Così come sono dichiarate le ascendenze letterarie e non che, in opere scritte da un autore molto colto, si infiltrano dovunque, non sempre esplicite ma sempre riconoscibili da chi abbia un orecchio sufficientemente allenato. Faccio un esempio che non ha nulla a che fare con Mari: sento parlare di “alba chiara”. A seconda dei miei riferimenti, penserò a Vasco Rossi o al “Don Giovanni” di Mozart e Da Ponte («Ma, essendo l’alba chiara, non sarebbe/ Qualche nuova conquista?») o a entrambi. Anche in Michele Mari ogni parola porta con sé un retaggio di riferimenti e nasce il sospetto che anche congiunzioni e generici connettivi siano reperti letterari complessi.

Prendiamo l’incipit di Locus desperatus:

Quattro tavole originali del Necron di Magnus, due del Dick Tracy di Chester Gould, due del Li’l Abner di All Capp, un Cocco Bill dedicatomi da Jacovitti; una calcografia di Piranesi, altrettanto originale; una madonna lignea del Cinquecento, con tracce dell’antica doratura; l’Oca di Enzo Mari; la lampada Toio di Achille Castiglioni; la prima edizione dell’Ortis foscoliano, quella dei Canti orfici di Dino Campana, quella del Voyage au bout de la nuit autografata dall’autore… Quel certo oggettino, in cui si rapprendeva una tenerezza lontana, quei testimoni fraterni ormai radioattivi…

Dunque, i fumetti: di quelle tavole originali abbiamo già fatto almeno parziale conoscenza alle pagine 86 e 87 di Asterhusher; molto aggraziato il disegno di Jacovitti a pagina 87 (lo dico malgré moi: in genere non amo Jacovitti), con la seguente dedica “A Michele Mari, con simpatia! Jacovitti 97. A pagina 86, se non vedo male, compare la tavola di Magnus, con la terribile dottoressa Frieda Boher, la scienziata pazza e necrofila che, novella Frankestein, mette insieme parti di cadaveri e realizza Necron, una creatura fortissima, infantile ma dotata di grandi appetiti sessuali. Sarà un caso il fatto che questo fumetto erotico-grottesco compaia come il primo oggetto-feticcio di Locus desperatus?

Lascio aperta la domanda, e affermo che possiamo sapere tutto sulla copia dei Canti orfici che possiede il protagonista del romanzo (e Mari) a pagina 91 sempre di Asterhusher; a pagina 70 vedo, tra altri libri, una copia del Voyage au bout de la nuit; per l’Ortis non cerco traccia del volume in Asterhusher; mi basta il ritratto del diletto poeta (lo definisce così Mari: mi associo) a pagina 99. La calcografia di Piranesi la vedo a pagina 80 e l’Oca di Mari-padre, che non compare nel libro fotografico, è sostituita dai “sedici animali” sempre di Enzo Mari. Mi resta un dubbio, e cioè se la conclusione dell’elenco che funge da incipit («Quel certo oggettino, in cui si rapprendeva una tenerezza lontana, quei testimoni fraterni ormai radioattivi») debba coincidere con l’oggettino che compare in Verderame:

Era uno di quei santini laici formato da una base in similoro che reggeva, come fosse il quadrante di un orologio, un tondo metallico coperto da un quadrante leggermente bombato: sotto il vetro, stampato su un cartoncino, un montaggio fotografico rappresentante coloro che all’inizio degli anni Sessanta erano considerati i tre benefattori dell’umanità e i custodi della pace mondiale: John Fitzgerald Kennedy a sinistra, papa Giovanni XXIII al centro, e Nikita Kruscev a destra.

Nessun dubbio, invece, sull’attribuzione dei “tre puntini”: appartengono a Céline e ci seguono con insistenza sin dai tempi di Rondini sul filo, per poi ricomparire trionfalmente in Tutto il ferro della torre Eiffel:

Gli stava porgendo uno scatolino di latta (un nano misterioso a Walter Benjamin, ndr), di quelli che gli entomologi adoperano per trasportare gli insetti. ‒ Guardate, su. Non abbiate paura del prezzo, ci metteremo d’accordo. Aprì lo scatolino. Dentro, adagiate sopra un letto di bambagia, c’erano tre minuscole sfere nere, ognuna non più grande di un pallino da caccia. Interrogò il nano con lo sguardo.

– Non li riconoscete? […]

– Non ditemi che…

– Ma certo che sono loro! I tre puntini! La più grande invenzione del secolo! Per quel che riguarda la letteratura, s’intende, ci si vuole mica allargare! (P. 12)

Dovrei ancora insistere su parecchi passaggi, se volessi non dico esaurire ma almeno illustrare a sufficienza quanto ogni oggetto evocato nell’incipit di Locus desperatus comporti una mise en abyme da capogiro. Tiro dritto e torno indietro, al titolo.

Michele Mari è un filologo e forse non sarà casuale che intorno alla pagina 60 del romanzo anche il lettore incolto venga informato che la crux desperationis era il segno grafico con cui i copisti medioevali indicavano un passaggio testuale irrimediabilmente corrotto. E se quella croce fatta con il gesso, comparsa sulla porta del protagonista, non fosse quello che sembra quasi subito al protagonista – e cioè il segno di un “subentro”, di qualcuno che deve impadronirsi della sua casa e, soprattutto, delle sue cose, ma piuttosto la croce con cui i copisti antichi indicavano l’impossibilità di emendare o integrare un testo? Prima che l’angosciato protagonista metta a fuoco questa possibilità, ci vorrà parecchio tempo e il lettore farà conoscenza con una serie di personaggi inquietanti e bizzarri, emissari di non si sa quale potere, sfragisti che sembrano usciti da un racconto di Hoffmann, insomma quelli che fanno le croci sulla porta.

Presa consapevolezza che nel “subentro” diventerà un altro e che tutte le sue cose, non più sue, «sapendosi pensate», rimarranno «tranquille ed eguali a se stesse», il protagonista non si arrende. Tornato a casa, scopre però che certe targhette ovali numerate, un cimelio prezioso che già conoscevamo per averlo visto tal quale in Asterhusher, si stanno autonomizzando: vede, infatti, una striscia, quasi una cicatrice, che si muove su un muro, sotto l’intonaco. Scrosta l’intonaco, nella parte finale della misteriosa striscia, e vi scopre la targhetta numero 19:

“O targhetta mia bella”, feci, “ove ten vai così di soppiatto?”

“Men vo”, rispose quella, “dietro alle compagne mie fuggitive”.

“Ma dove, perché?”

Dopo questo inizio, in cui sentiamo echi di Petrarca, Da Ponte, Leopardi, la targhetta bella spiega che si stanno nascondendo perché non vogliono essere portate via («E ci porteranno via a te, per sempre, per sempre!»); e il lettore, ormai un po’ stordito, sebbene ci si trovi soltanto a pagina 14, rammenta l’invito sinistro delle due gemelline-fantasma di Shining: «Vieni a giocare con noi per sempre». E, se non è a quello che pensava l’autore, pazienza: anche il lettore ha il diritto di divertirsi e di divertire.

Annuncia, la targhetta fedele, inquietudine tra le targhette: si è diffusa la voce che il nuovo inquilino le porterà nel bosco del Siam, «presunto paradiso delle cose espropriate». Ben presto l’anonimo protagonista avrà a vedersela con le targhette traditrici, che, invece, tentano la fuga.

“Ma perché, sciagurate?! Perché?” urlai stringendo la 22 come un plettro. Perché, fu il responso, all’uggia e all’umiliazione di rimanere sepolte vive chissà per quanto, forse per sempre, avevano preferito l’alea di un nuovo proprietario, me lo disse così, senza vergogna, la troia. E forse, aggiunse, questo nuovo proprietario le avrebbe portate nel bosco del Siam.

Sulle fedifraghe si abbatte, tremenda, la vendetta: vengono ridotte in briciole a suon di martellate, tanto per dare un esempio a libri, francobolli e qualsivoglia collezione contenuta nella Casa.

Le targhette le conoscevamo di già; le avevamo viste in una fotografia di Asterhusher, dove erano accompagnate da una didascalia:

una serie di numeri è irresistibile come un’ipnotica litania: il ferro bombato e smaltato è purissimo eros: sublime forma è l’ovale: una collezione di targhette ovali in ferro smaltato si fa quindi pregiare come tesoro, cui degno contenitore è la scatola in latta di esotiche sigarette. Se poi questi numeri corrispondono ad attaccapanni di minatori in un’antica e dismessa miniera di ferro a duemila metri di altezza ove penetrai clandestinamente nel 1972, che dire, ci troviamo di fronte a qualcosa di veramente molto bello. (P. 104)

Nell’ultimo romanzo il “tesoro”, come abbiamo visto, si rende autonomo e cerca di trovare riparo, anche a costo di abbandonare il collezionista che lo ama ogni giorno d’amor più forte. Quanto siano importanti, povere belle targhette miste a targhette opportuniste, ce lo confida la scelta di metterne l’immagine in copertina, tutte insieme nella scatola di Turmac che le racchiude.

A un certo punto il consiglio sulla strategia da seguire per salvare sé stesso e le proprie cose, arriva, per il protagonista, da un libro di Alfred Kubin, L’altra parte: «Urgere un altrove. Individuatolo, trasferirvi parte delle cose etc.». L’altra parte il fedele lettore di Mari lo aveva incontrato anni fa in Tutto il ferro della torre Eiffel, laddove Walter Benjamin lo riceve in dono da Scholem, ne resta assai impressionato e ne parla poi con Bloch. Nel libro ci sono «fantocci agitati, illusioni… prestanome del male», e anche un inquietante Altrove, proprio come nei romanzi di Mari.

Non c’è dubbio: Michele Mari è un adepto del pensiero magico e questo suo ultimo romanzo ne dà ulteriore prova. Mi rifiuto di far eco ai tanti recensori che vedono in Mari ascendenze gaddiane, segni chiari dell’influenza di Landolfi, Gombrowicz, Céline etc. Ci sono, e si rischia sempre di dimenticare qualcuno, ad esempio Mervyn Peake, scrittore grande e misconosciuto, ma molto amato da Mari. Chiunque, dopo aver letto due pagine di Michele Mari, capisce che ci si trova di fronte a uno scrittore che è un lettore vorace ma non onnivoro; la citazione è l’abito di Mari, lessico e sintassi hanno sempre risonanze precise. Anche questo fa parte del gioco tra chi scrive e chi legge – la sintonia, pur non necessaria, rende il gioco più divertente e la voce di chi scrive si arricchisce, per il lettore che sa, di armonici. A volte basta una parola il cui peso specifico determina la narrazione. Per esempio, il racconto di Fantasmagonia che ha come protagonista Machiavelli diventa horror puro quando il lettore comprende qual sia il cibo che, solum, serve al segretario fiorentino (dalla lettera a Francesco Vettori: «mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui»). Terrificante, quel solum.

In Locus desperatus il protagonista – altro esempio – è ridotto a “personaggetto”: è meglio avere nell’orecchio la voce del presidente della regione Campania De Luca (e la geniale imitazione di Crozza) che declassa continuamente a “personaggetti” gli altri politici per dare il giusto peso a questa citazione non colta. Insomma, la capacità di Mari di variare la densità semantica delle parole, di ridurle a elementi chimici che interagiscono tra di loro generando un caleidoscopio, è talmente evidente che insistere oltre mi pare banale.

Al pari delle parole, le cose diventano altro da sé in tutti gli scritti di Mari. Era già così ai tempi di Tutto il ferro della torre Eiffel: già allora le “cose” avevano un potere, anche se tutto il ferro della torre Eiffel non sarebbe bastato ad arginare la barbarie hitleriana («per quello ci vuole l’atomo», suggerisce nel romanzo un misterioso cinese). In Locus desperatus le cose si fanno protagoniste, alleate o traditrici che siano.

Chi è il protagonista umano di Locus desperatus? Mettiamo tra parentesi il fatto che Mari, come Flaubert, potrebbe esclamare rispetto al suo protagonista “C’est moi!”. Atteniamoci ai fatti e alle parole scritte; a rigore, del protagonista sappiamo che è un uomo, che ha una certa età (i compagni di liceo, che hanno una parte nella narrazione, li ha persi di vista da tempo), che soffre di quello che si dice disturbo ossessivo-compulsivo (e chi non ne soffre?), che vive in una Casa in cui ha raccolto innumerevoli oggetti e un numero enorme di libri. Ciò che ha raccolto ha contribuito a formare ciò che è e le cose sono diventate un indispensabile esoscheletro: «Potevo negare, io trepido personaggetto, di aver riposto la mia identità in quelle cose, investendole, fidandomi di loro e a loro?».

Perciò quella che viene narrata in Locus desperatus è una “crisi della presenza”, come la definirebbe Ernesto de Martino: «L’esserci è una realtà condenda, esposta al rischio della labilità, a cimenti terribili che possono mettere a dura prova la resistenza del ci sono, al pericolo estremamente concreto di perdere l’anima e di perdere il mondo, sicché nel “franamento di ogni limite, tutto può diventare tutto, che è quanto dire: il nulla avanza”»[1].

Perdere l’anima: il “trepido personaggetto” scopre con sgomento di non aver memoria di parecchi dei libri a lui più cari. Il processo, Lo straniero, Cuore di tenebra, Cronache marziane – tutto dissolto dall’oblio. Ancora una volta un libro gli viene in aiuto, lanciandogli un segnale tenue e fosforescente: sono le poesie di Guido Gozzano e il volume si apre, sua sponte, su Totò Merumeni. Il testo è corrotto, irriconoscibile; eppure gli vuole comunicare qualcosa: «dev avertite ke de notte naltro wwiene / che cci prende e legce viaa ltua legtura».

Un doppio, quindi, si insinua di notte e, leggendo, sottrae al misero protagonista la memoria dei libri letti e amati. In Locus desperatus i doppi si sprecano: altri doppi si generano dai primi doppi, in varianti plurime e vertiginose. Chi subentrerà nella Casa al protagonista se non un “doppio”? Egli è assalito dal dubbio iperbolico: e se la questione del “subentro” non fosse iniziata ora ma avesse accompagnato tutta la sua vita, dall’inizio? Se insomma nella sua intera esistenza si fosse celebrata «l’orgia del doppio»? In fondo, ha appena sognato la sua mamma che, dopo avergli preparato il pancotto, arretra guardandolo e gli sibila: «Schifoso ultracorpo ti ammazzo!».

Perdita della memoria e trionfo del doppio sono due temi privilegiati di Mari. Per la memoria, il riferimento obbligato è a Verderame, in cui il co-protagonista, il Felice, perde progressivamente l’uso delle parole. Non sono soltanto le cose che ci costituiscono, ma anche e soprattutto la memoria, che ci tiene agganciati alla realtà e che ci fa considerare reale quel che possiamo condividere con altri. Quando ciò che si è costruito esplode, chi ha edificato sente la propria condanna. Finiamo, in un attimo, nel clima perturbante dell’Invasione degli ultracorpi o veniamo risucchiati nell’indecidibile follia dell’ultima inquadratura di Shining, in quella foto, scattata al ballo dell’Overlook Hotel il 4 luglio del 1921: al centro c’è Jack Torrance, il protagonista morto assiderato molto tempo dopo. Chi è Jack Torrance? Un alcolista con tendenze criminali, un uomo posseduto dai demoni, la reincarnazione di quell’uomo identico a lui che partecipava al ballo del 1921?

Non ho parlato della casa di campagna del protagonista (vedi Euridice aveva un cane, Verderame etc. e, per la documentazione fotografica, di Asterhusher). In essa, è aiutato da un simpatico aiutante magico di nome Sileno, una sorta di saggio «aborto incatramato» che sembra uscito da un fumetto, discendente dalla famiglia delle resine purissime e adesso uomo-morchia che si presenta foscolianamente: «Non son quel che fui: perì di me gran parte». Sileno avanza una teoria decisiva: il subentro è soltanto una messinscena e le croci sulla porta rappresentano soltanto (soltanto!) una maledizione scagliata dall’invidia: insomma, un caso di malocchio (ah, de Martino!). Contro il malocchio ci vogliono oggetti scaramantici. Nel finale, perciò, il protagonista allestisce il proprio esercito dotato di forti poteri apotropaici: è formato da oggetti che in buona parte conosciamo e comprende anche il Bibendum Michelin (Michelino?) che ci segue dai tempi di Tutto il ferro della torre Eiffel e la già citata tavola di Magnus.

Al collezionista non manca la capacità di mettere ordine tra le cose, al filologo non manca la capacità di mettere ordine tra le parole. Un filologo-collezionista: ecco chi è il protagonista di Locus desperatus. Non è difficile rintracciare il punto preciso in cui avevamo incontrato un’analoga ibrida creatura: abita nel racconto La serietà della serie, che già dal titolo fa rimbalzare ad Asterhusher («una serie di numeri è irresistibile come un’ipnotica litania»). Nel racconto parla, in prima persona, un ladro, finito fortuitamente nella casa del Mostro di L***, sive Il Collezionista (tra gli oggetti della collezione, un vasetto di lingue umane sotto spirito). Il ladro chiede al Collezionista perché uccida le proprie vittime:

«Vedete, “nella vita” io facevo il filologo. Avete un’idea di cosa significa? Significa incontrare un testo grasso, flaccido, pieno di macchie e di impurità, e dirgli: testo, io ti riporterò alla tua verità […] dovete scegliere gli strumenti più affilati: le alme della paleografia, la grattugia della recensio, lo squartamento della tradizione nelle nudità dello stemma […] e poi sezionare, eviscerare, potare […] insomma, quando avete pulito e asciugato dappertutto siete voi due soli, voi e il testo, perfetto nella sua semplicità originaria, nudo, scheletrico, puro! Avete capito?»

«Sì»

«No, non potete. Non avete mai fatto un’edizione critica».

Scopriamo poi che il Collezionista è anche un’enigmista, un cabalista che si compiace dell’esser pensato, dell’essere interpretato. Se il ladro, in un quarto d’ora, gli regalerà “una nuova nozione” in cui rispecchiarsi, lo lascerà libero. Altrimenti: «Chi non saprà significare, incontrerà il Segno. Chi non interpreterà, conoscerà la Lettera nella sua immediatezza. Chi non sarà sacerdote, parteciperà all’esegesi secondo i suoi mezzi, e sarà vittima». Insomma, in questa imponente “variazione sul tema” che è l’opera narrativa di Mari il lettore potrà ritrovarsi e ritrovare lo scrittore. Alla fine, il cambiamento è inevitabile, ma possiamo forse creare una barriera che ci difenda dal perenne trasmutare delle cose. A dire il vero, avremmo bisogno di uno sciamano che ci aiuti a difenderci dalle congiunture avverse e inopinate che turbano la vita quotidiana e che argini anche le fatture e il malocchio.

Secondo de Martino il mondo magico nasce quando la labilità diventa un problema,

quando è appresa come rischio nell’angoscia, e quando sollecita il riscatto di un ordine culturale definito che valga come sistema di guarentigie per l’esserci minacciato. Ora cultura significa iniziativa geniale che si consolida in una tradizione, tradizione che condiziona e alimenta l’iniziativa geniale, secondo una circolarità che la effettiva considerazione storica vieta di spezzare[2].

Siamo mai usciti dal mondo magico? La scienza, la tecnica, quella che definiamo civiltà ci hanno protetti a sufficienza dall’irruzione dell’orrore, del mistero, dell’irrazionale nelle nostre esistenze? Non sentiamo ogni giorno la carenza di oggetti apotropaici e di formule propiziatorie che ci difendano dall’incertezza? Il sonno e il sogno non ci portano a pensare a un Altrove in cui scivoliamo ogni notte, senza la certezza di uscirne indenni?

Se siamo di quelli che si tirano la porta di casa alle spalle e se ne vanno felici nel mondo, senza curarsi della propria ombra, forse Locus desperatus non è lettura adatta. Ma, se anche il chiudere la porta di casa obbedisce a una ritualità ed è strettamente codificato, se la non emendabilità dell’esistenza è un problema ricorrente; se poi siamo convinti che la serialità dell’azione sia anche garanzia di serietà della stessa ma, tutto sommato, non vogliamo rinunciare alla piacevole mutevolezza dello stadio estetico; se troviamo insopportabile l’ingiuria che il tempo fa alla nostra memoria e al nostro corpo; se abbiamo gettato l’ancora nel fondale fertile e confuso della giovinezza (o, meglio ancora, dei tredici anni) e non ci siamo mai decisi ad approdare alle più sicure secche della maturità, ebbene, Michele Mari ha scritto soprattutto per noi.

Un’ultima informazione: non ho affrontato la storia di S***, antica compagna di scuola, che attraversa il testo. La lascio al lettore, intatta e priva di commento.

  1. C. Cases, Introduzione a E. de Martino, Il mondo magico, Torino, Boringhieri, 1973, p. XIX.
  2. Ivi, pp. 120-21.

(fasc. 53, 25 agosto 2024, vol. II)

• categoria: Categories Recensioni

Recensione di Lorenzo Graziani, “Che cos’è la fiction?” (Carocci 2021)

Author di Marianna Scamardella

Che cos’è la fiction?, pubblicato nella collana «Le bussole» di Carocci, è un importante volume che indaga il concetto di finzione narrativa attraverso la differenza di significato che intercorre tra il reale, l’immaginario e la menzogna. Lorenzo Graziani propone una ricognizione delle principali teorie romanzesche, approfondendo questioni metodologiche, strutturali ed estetiche che caratterizzano un romanzo e non mancando di porre l’accento su quelle che sono le possibili reazioni psicologiche dei lettori. Rifacendosi alle “teorie universaliste” di Aristotele, l’autore afferma che «l’attività di finzione viene presentata come coestensiva all’essere umano, come una delle caratteristiche che lo distinguono dagli altri animali» (p. 19).

In particolare, per spiegare la compartecipazione del lettore alla narrazione fittizia, lo studioso concentra particolarmente la propria attenzione su Anna Karenina di Lev Tolstoj e Madame Bovary di Gustave Flaubert, sottolineando il fatto che le loro vicende, seppur immaginarie, creano grande coinvolgimento nel lettore che finisce per immedesimarsi nella storia di queste “eroine-vittime”. Perciò, se da una parte, «quando si prova un’emozione per qualcosa, si ritiene che quel qualcosa esista» e «nel momento in cui si comprende che non c’è nulla, anche l’emozione svanisce» (31), dall’altra parte, per quanto concerne la fiction, il coinvolgimento empatico esiste malgrado la consapevolezza dell’irrealtà romanzesca.

In ambito analitico, considerando le principali intuizioni della “teoria artifattualista” di Van Inwagen, prima, e Saul Kripke dopo, «le entità finzionali si distinguono da quelle reali in quanto oggetti che non esisterebbero senza le opere reali che li rappresentano» (p. 43) per cui, alla domanda se Anna Karenina esiste ‒ come nota intuitivamente Graziani ‒ «si può rispondere negativamente o affermativamente in base all’uso che si fa del linguaggio: nel primo caso si utilizzano le sue attitudini referenziali in senso stretto (“là fuori” non esiste alcuna Anna Karenina), mentre nel secondo si sfrutta la sua capacità di far da supporto a un’ontologia di oggetti inventati (Anna Karenina esiste in quanto “là fuori” c’è un romanzo intitolato Anna Karenina) che ne narra le vicende» (p. 43).

Inoltre, rifacendosi al pensiero di Hamburger, secondo il quale «la narrativa finzionale si distingue dall’enunciato di realtà poiché organizza un sistema spazio-temporale la cui origine non è più ancorata al presente dell’autore» (p. 27), Graziani si concentra sull’atemporalità della fiction, che aiuta a delineare una pluralità di punti di vista espressi in forma prospettica del romanzo moderno. Pertanto, dal momento che l’illusione di realtà scaturisce da varie strategie, è necessario parlare di una «categoria del reale» piuttosto che di un «contenuto del reale» (p. 31).

Conducendo un’analisi di tipo teorico, lo studioso tenta di risolvere tale contraddizione di credere all’irrazionale e si rifà (tra gli altri) agli studi di Kendall Walton, per il quale le sensazioni reali che percepisce il lettore sono dovute all’obiettivo che si pone il romanzo di simulare empiricamente la realtà. Inoltre, l’autore ‒ rievocando il celebre pensiero di Leibniz ‒ precisa che esistono più mondi possibili dove individuare numerose realtà che interagiscono con il mondo reale ed empirico. Sulla scia della teoria leibniziana, Graziani cita anche David Lewis, esponente della filosofia analitica del secondo Novecento, secondo il quale «il mondo di cui facciamo parte non è che di un’immensa pluralità di mondi concreti, abitati da individui altrettanto concreti […] che per qualche motivo, si assomigliano abbastanza da essere considerati controparti l’uno dell’altro» (p. 67). Ancora una volta l’autore pone attenzione all’uso del linguaggio, che «non ci obbliga in alcun modo a considerare i modi alternativi come concretamente esistenti» ma come «speculazioni controfattuali, ovvero compiute contro fatti del mondo reale, riguardanti i modi in cui quest’ultimo avrebbe potuto essere» (p. 68).

L’attenta disamina proposta da Graziani arriva all’epoca contemporanea, nella quale si attuano legami complessi tra realtà e finzione, enunciati finzionali, fattuali e controfattuali la cui contrapposizione è solo apparente, dal momento che «un mondo finzionale è sempre un mondo possibile, ammobiliato prelevando ampio materiale dal mondo attuale» (p. 79). Infatti, i mondi controfattuali, benché suggeriscano una deviazione, mantengono tuttavia «un certo grado di continuità con la realtà fattuale» poiché tali mondi, anche se differiscono da quello attuale, «vengono però creati attraverso l’elaborazione di informazioni, strutture e conoscenze maturate in esso» (p. 81).

La parte finale del volume è dedicata allo studio della narratologia con una distinzione fra approccio classico e moderno. Il primo, affermatosi negli anni Sessanta e Settanta, evidenzia il primato della fabula con attenzione alla sequenza logica e lineare del racconto rispetto alla dislocazione dell’intreccio finalizzata a creare suspense. Il secondo si prefissa lo scopo di prestare attenzione alle molteplici realtà prodotte da opere letterarie. In questo caso Graziani, approfondendo le ricerche cognitive degli ultimi anni, spiega il significato intrinseco al termine “controfattuale”, nozione fondamentale per comprendere la natura della fiction, con cui s’intende «una versione alternativa del mondo costruita modificando un certo elemento di quella che si suppone essere la successione reale degli eventi» (p. 87). In questi termini, l’immaginazione permetterà al lettore di vedere realtà possibili simulate attraverso il mondo fattuale della narrazione. In altre parole, se da una parte i mondi di invenzione incorporano numerosi materiali attuali, resta il fatto che «la conformità della fiction all’attualità è solamente l’orizzonte di partenza dal quale il lettore è disposto ad allontanarsi nella misura in cui le regole interne al mondo di invenzione contraddicono quelle attuali» (p. 90). Viene, dunque, attribuita importanza non solo alla temporalità ma anche a relazioni di natura spazio-temporale fra i testi.

Oltre che al processo di immedesimazione, Graziani fa riferimento al concetto di “transfinzionalità” adottato dalla studiosa Marie-Laure Ryan, con riferimento alla condizione che si crea quando un ecosistema letterario viene sviluppato da più autori; si pensi, tra gli altri, al caso di Game of Thrones di George R. R. Martin, vero e proprio caso editoriale che ha dato vita a una vastità di prodotti culturali differenti, «dalla serie televisiva ai videogiochi, dalle fanfiction ai remakes porno che ampliano o approfondiscono alcuni aspetti del mondo originale» (p. 97). Con questo esempio, tra i più efficaci, Lorenzo Graziani dimostra che «più il mondo rappresentato appare indipendente dall’autore che lo ha creato e dalla forma dell’espressione che lo proietta, più facilita l’immersione» (p. 97), contraddizione solo apparente, dal momento che la richiesta di evasione rivolta alle opere finzionali è molto forte.

Infine, lo studioso si pone una domanda che provocatoriamente rilancia ai lettori, chiedendosi il motivo per il quale si leggono storie inventate. Sulla scorta di M. Vargas Llosa, secondo cui «l’interpretazione di un’opera letteraria offre un’immagine della vita in cui tutti gli esseri umani possono riconoscersi» (p. 110), Graziani sembra concludere il proprio lavoro con un grande omaggio appassionato alla letteratura, ossia con la consapevolezza che «i concetti e le idee mediante cui si comprende la realtà vengono espressi a parole» (p. 111), parole che ci permettono costantemente di entrare «in relazione emotiva con personaggi e situazioni finzionali» (p. 113), immaginando, simulando, identificandoci. Forse proprio per questo abbiamo bisogno di leggere storie inventate e ‒ perché no? ‒ d’inventare storie.

(fasc. 52, vol. II, 3 giugno 2024)

• categoria: Categories Recensioni

Recensione di Azar Nafisi, “Quell’altro mondo: Nabokov e l’enigma dell’esilio” (Adelphi 2022)

Author di Giuseppe Candela

Azar Nafisi raggiunse la fama soprattutto grazie al romanzo autobiografico Reading Lolita in Tehran: A Memoir in Books, pubblicato nel 2003 negli Stati Uniti, dove la studiosa si era rifugiata in seguito al trasferimento dall’Iran fondamentalista. Nel libro Nafisi ripercorreva gli anni di docenza all’università Allameh Tabatabei della capitale iraniana, dove insegnava letteratura americana e dedicava le proprie lezioni soprattutto all’opera di Nabokov, uno scrittore per lei oltremodo interessante. Eppure, la sua prima opera sull’autore russo risaliva a quasi un decennio prima, quando aveva scritto in farsi il suo primo studio su Nabokov, Ân donyâ-e digar: ta’ammol-e dar âsâr Vladimir Nabokov [lett. Quell’altro mondo: riflessione sull’opera di Vladimir Nabokov], pubblicato a Teherân nel 1994.

Il volume ebbe una florida circolazione in Iran e andò presto esaurito, entrando poi nel mercato nero fino a esaurimento delle scorte, come spiega l’autrice nella prefazione all’edizione inglese. Infatti nel 2019, venticinque anni dopo la prima edizione in farsi, Azar Nafisi licenziò l’edizione inglese, That Other World: Nabokov and the Puzzle of Exile, tradotta da Lotfali Khonji e uscita per i tipi della Yale University Press (New Haven). Nella nuova edizione in inglese l’autrice aggiungeva appunto un’importante premessa, intitolata Volodja (il nome con cui in famiglia era chiamato Nabokov), nella quale rifletteva sul ruolo svolto dall’opera dello scrittore russo sulla sua carriera di docente e lettrice. Su questa nuova edizione è condotta la traduzione di Valeria Gattei uscita per Adelphi nel 2022.

Tornando al proprio lavoro in farsi dopo venticinque anni, Nafisi spiega il motivo dell’importanza di Nabokov per lei e molti altri iraniani. Non solo nella sua opera, ma anche nella sua esperienza biografica lo scrittore russo ha riflesso, infatti, il destino di diversi persiani costretti all’esilio a seguito dell’istituzione della Repubblica Islamica in Iran, che limitò drasticamente la libertà di espressione e la dignità di molte classi sociali. La stessa Nafisi fu costretta a ritirarsi dall’insegnamento universitario perché donna.

In particolare, la studiosa identifica il lascito più importante dell’opera dello scrittore russo nei suoi romanzi. In essi è riscontrabile in sordina un sottile tono ironico che smorza quelli della più triste tragedia:

Quel silenzio doloroso, espresso nei romanzi, genera una forte empatia. Le opere di Nabokov, più di qualunque altro romanzo moderno, sono variazioni sui mali del solipsismo. Tuttavia, sia nei romanzi non politici che in quelli politici, e perfino nei più tragici come Lolita, si trova sempre una vena di assurdo, una presa in giro sprezzante, quasi una parodia di qualche forma di crudeltà; il pathos è sempre accompagnato dalla discesa nel ridicolo. (P. 23)

Nonostante Nabokov abbia sempre tenacemente rigettato l’idea che le sue opere potessero contenere elementi ideologici e politici, Azar Nafisi, sulla scorta di altri specialisti nabokoviani (è il caso di menzionare almeno la lettura di Connolly e, in tempi più recenti, il lavoro del 2007 di Leland de la Durantaye) insiste sulla presenza di un fondo morale e di una finalità pedagogica in tutti i suoi romanzi:

Non critica un governo specifico in un’epoca specifica; il bersaglio dei suoi libri è la mentalità totalitaristica, che si tratti di opere distopiche come Invito a una decapitazione e Un mondo sinistro o, su un piano più personale, della cecità di Humbert verso Lolita quale essere umano separato e distinto, con ambizioni proprie e sentimenti propri. Alla fine il crimine peggiore di Humbert non è l’assassinio di Quilty, ma la confisca della vita di una bambina, trasformata in un prodotto della sua immaginazione disturbata, in un oggetto di desiderio. (P. 25)

L’attenta lettura dei suoi libri non rivelerebbe dunque, secondo Nafisi, solo uno scrittore attento all’aspetto formale e alla resa impeccabile del congegno narrativo: in essi emergerebbe invece con forza la visione del mondo dell’autore e quindi il suo messaggio positivo ed essenzialmente ottimista al lettore. I suoi personaggi disturbati e perversi, i suoi mondi distopici e infelici, sono creati allo scopo proporre una pedagogia in negativo:

Libro dopo libro, Pnin, Lolita, Invito a una decapitazione, Un mondo sinistro, Fuoco pallido e Ada, scopriamo che i cattivi sono i solipsisti, coloro che, per una ragione o per l’altra, diventano troppo egocentrici per udire, vedere ed essere capaci di empatia; coloro che impongono a esseri umani vivi, reali, non soltanto la loro volontà, ma immagini e idee prefabbricate. Questi nuovi, affascinanti mostri sono tra i grandi contributi di Nabokov alla narrativa moderna. (Pp. 37-38)

Azar Nafisi, nonostante ciò, si professa una lettrice e una critica «formalista» (p. 28), fedele a una lettura tradizionale della macchina narrativa, senza però tralasciare quella portata metaforica e attualizzante che la rende significativa per il lettore. Lo scopo del libro ab origine era quello di «parlare del rapporto fra la nostra realtà e le opere di Nabokov, un modo che definii metaforico» (p. 26).

Il libro, esclusa la premessa, è rimasto immutato dal 1994 ad eccezione di qualche piccolo ritocco dovuto all’aggiornamento degli studi. Esso si compone di sette capitoli, il primo dei quali è essenzialmente introduttivo e narra in breve la vita dello scrittore russo, concentrandosi sugli eventi più importanti e attingendo ampiamente al fondamentale lavoro biografico e critico di Brian Boyd sugli anni russi (1990) e quelli americani (1991) di Nabokov. Più precisamente, Nafisi dà ampio spazio al racconto dell’infanzia tra San Pietroburgo e la tenuta di Vyra, dove Vladimir crea il suo immaginario poetico, mentre gli anni del college a Cambridge e quelli nei quali si conquista progressivamente il ruolo di più grande scrittore dell’emigrazione russa di Berlino sono narrati più sbrigativamente per dar maggior risalto agli anni americani, nei quali Nabokov compone le opere di cui le pagine successive tratteranno quasi esclusivamente (ad eccezione del Dono). In questo primo capitolo biografico è presente anche un cappello introduttivo che riflette sull’importanza del tema del tempo, presente in quasi tutti i romanzi nabokoviani, seppur declinato in maniere differenti: «Uno dei temi principali di Nabokov è la lotta sofferta per mantenere intatto ogni momento vissuto, sia come scrittore sia come uomo che condivide un’esperienza universale. Ma alla fine questa lotta deve fare i conti con il fluire del tempo, che si fa beffe persino delle nostre ambizioni più salde» (p. 43). E poco più oltre:

Le idee di Nabokov prendono forma alla luce di questo metatema del “tempo come prigione”, che getta le basi della sua intera opera e ne scolpisce ogni meandro. In questo libro mi propongo di esplorare a fondo l’evoluzione dei temi ricorrenti in Nabokov. L’esilio, la realtà contrapposta al sogno, la crudeltà e il dolore, l’arte e l’amore (o l’amore e l’arte): sono i mattoni con i quali l’autore costruisce il suo mondo narrativo. (P. 44)

Nei capitoli che seguono sono oggetto di analisi i seguenti romanzi: nel capitolo II Il dono, Guarda gli Arlecchini e La vera vita di Sebastian Knight, che trattano «il tema delle associazioni nascoste e dell’interdipendenza di tutte le cose» (p. 95); nel III, Invito a una decapitazione e Un mondo sinistro, romanzi di carattere distopico; Pnin nel IV, Fuoco pallido nel V, Lolita nel VI capitolo e Ada nel VII e ultimo. La scelta di queste opere tra l’ampia produzione narrativa di Nabokov si deve a un principio tematico che collega, appunto, il motivo del rapporto tra arte e vita al tema dell’esilio e a quello del tempo contro cui la memoria (e l’arte) ingaggia una lotta per la sopravvivenza: «L’unico modo di sopravvivere, allora, è trasformare per mezzo dell’arte la “realtà” intollerabile: il mondo reale diventa un mondo di ombre, così che la memoria e l’immaginazione possano ottenere lo status di “realtà”. I romanzi di Nabokov ci insegnano come vivere nel vuoto» (p. 98).

In molti romanzi di Nabokov, inoltre, la narrazione si concentra su intrecci tragici, ma queste storie, come nota Nafisi, possiedono una forza polisemica proprio in virtù della loro capacità di non esaurirsi in un’unica tonalità e di contenere molto spesso elementi parodici e ironici che smorzano la visione tragica di molti protagonisti: «Lolita, come la maggior parte dei romanzi di Nabokov, combina la tragedia con la parodia della tragedia, cosicché la trama procede, inevitabilmente, lungo due linee diverse» (p. 304).

Avvalendosi dei contributi di altri critici, Azar Nafisi ricostruisce la struttura e i temi principali dei romanzi trattati senza uniformarli a una visione parziale e particolare tipica di molte monografie. Il fil rouge dell’esilio, che dà il sottotitolo anche alla traduzione italiana (L’enigma dell’esilio), è infatti illustrato all’interno della costellazione tematica dei romanzi e si riconnette all’importante premessa scritta nel 2019.

Vale la pena ricordare in chiusura che questa traduzione è tanto più preziosa in quanto rappresenta una delle pochissime monografie presenti in italiano sull’opera narrativa di Nabokov, con la sola eccezione del sintetico Invito alla lettura di Nabokov di Andrea Carosso (Milano, Mursia, 1999) e di I romanzi russi di Vladimir Nabokov di Gabriella Schiaffino (Milano, Arcipelago, 2004). La pubblicazione di questa traduzione di Azar Nafisi sembra inoltre aver anticipato due importanti volumi su Nabokov usciti in italiano nel 2023: Strange opinions? Le lezioni di letteratura di Vladimir Nabokov a cura di Cinzia De Lotto, Susanna Zinato e Manuel Boschiero (Liguori), che si concentra sull’opera critica dello scrittore; e Il clan Nabokov di Chiara Montini (Mimesis), che studia il rapporto tra Vladimir e il figlio Dmitri nell’ambito della versione in inglese dei romanzi russi, di cui Dmitri fu spesse volte traduttore.

(fasc. 52, vol. II, 3 giugno 2024)

• categoria: Categories Recensioni

Recensione di Antonio Sanges, “Les jeux sont faits: la cultura della superficie. Beckett e il teatro della crisi”, a cura di Marino A. Balducci (Carla Rossi Academy Press 2023)

Author di Francesco Muzzioli

Come se la passa Beckett ai nostri giorni? Apparentemente bene. Gli hanno fatto un bel volume dei «Meridiani» Mondadori dal titolo Romanzi, teatro e televisione, che contiene anche testi poco noti e quindi aiuta la conoscenza complessiva dell’autore; gli hanno fatto anche un biopic, Prima danza, poi pensa, del regista Premio Oscar James Marsh, che lo presenta al grande pubblico delle sale cinematografiche. Però quest’ultimo omaggio – puntato com’è necessariamente sulla biografia – dice molto poco dell’opera e la diluisce tra rimpianti e rimorsi. Insomma, Beckett sta così così: per forza, perché deve essere messo in offerta a un pubblico “popolare” che ormai non ha più alcuna cognizione di quella “modernità radicale” che ha rappresentato nelle forme dello svuotamento e della verbigerazione del nulla.

Ben venga dunque uno studio serio e filosoficamente agguerrito come quello che a Beckett ha dedicato Antonio Sanges: Les jeux sont faits: la cultura della superficie, Carla Rossi Academy Press. Un saggio di dibattito e di polemica, che ha il merito di seguire – con coerenza e scansando tutte le influenze, anche le esimie – una sua ipotesi, che potremmo condensare nella parola “superficialità”. Vi aveva accennato Savinio, nella sua Nuova Enciclopedia, là dove affermava: «Scopro l’inesistere della profondità», e: «Anche la ‘profondità’ è una ‘superficie’». Sanges ne fa la base di un approccio che tiene in sospetto l’imperversare dell’interpretazione. Against interpretation, aveva detto la Sontag: e nel caso di Beckett la questione si fa ancor più spinosa perché tanto più lo scrittore si batte contro il Senso con la maiuscola, cercando di impedire che si coaguli (per fallire sempre meglio, cioè peggio), e tanto più si fa alta la tentazione di ricondurlo indietro, in più “spirabil aure”, attribuendoglielo questo Senso, volente o nolente. La tentazione metafisica (nel Godot tradotto quale deus absconditus), la tentazione esistenziale (la negazione del senso come crisi dell’affettività), oltre che, ovviamente, la versione psicoanalitica, perché l’oltranzismo di voler continuare a dire il nulla da dire è ideale per l’analista che trae indizi proprio dall’inessenziale, basta che continui a parlare.

Tutte queste “riconversioni” però violano quella “superficialità” che Beckett ha assiduamente perseguita. Nel farlo, devono ogni volta aggiungere qualcosa dall’esterno a quanto si trova nel testo. La contromossa deve essere allora quella di attenersi “alla lettera”, «tornare alla lettera nuda del testo di Beckett, dove inizia e finisce la parola che si fa azione drammatica che non agisce». Questa la dichiarazione d’intenti di Sanges:

In questo senso, la superficialità esposta della lingua beckettiana e la sua scarnificazione stilistica assumono una pregnanza logica e, solo dopo, culturale, i cui esiti non sono ancora valutabili in toto, ma si dovrà notare che il dramma che si ha davanti non significhi niente se non sé stesso, altrimenti ogni valutazione culturale sulla sua opera prescinderà dallo scopo di questo lavoro che è non quello di restituire il senso dell’opera beckettiana, o interpretarlo ermeneuticamente, e nemmeno antagonisticamente criticare l’interpretazione, bensì quello di notare la superficialità del testo stesso, ridotto ad azioni inutili, espressioni inutili, all’ascolto di una Musa epidermica.

A partire da tali premesse, che sembrerebbero tagliare le gambe a qualsiasi discorso critico, Sanges opera sul suo testo d’elezione, che è Endgame, Finale di partita, seguendone meticolosamente i passi e mostrando come la parola e l’azione non debbano essere riportate ad un contenuto nascosto, ma valgano per se stesse, nell’attività meramente ostensiva del mostrare la tabula rasa.

La scelta del teatro da parte di Beckett e anche di Sanges nel ruolo purtuttavia di critico si può spiegare allora proprio perché il teatro è il luogo per eccellenza della presenza e del dialogo e quindi lì maggiormente risalta l’anomalia beckettiana. Facendo riferimento alla teoria degli atti linguistici, Sanges indica bene gli aspetti per i quali Beckett nel mettere in scena la conversazione contravviene alle buone norme socio-linguistiche. I personaggi, per esempio Hamm e Clov, da un punto di vista formale parlano l’uno con l’altro, però in realtà non rispondono a tono, oppure si contraddicono, oppure ancora inibiscono il pathos che potrebbe formarsi dalla loro condizione distopica. Quindi, l’annullamento è ancora più forte dall’interno della situazione che dovrebbe essere cooperativa (anche secondo la “buona volontà” dialogica dell’ermeneutica) che non nel soliloquio, per esempio dell’Innommable.

Il dispositivo beckettiano riceve, nel discorso di Sanges, diversi nomi, quale “scarnificazione” («scarnificazione della lingua e dello stile»), disinnesco («è un’azione disinnescata in sé stessa che non porta ad alcuno sviluppo drammatico») e soprattutto disattivazione. Così, a proposito della scena in cui si inserisce anche il personaggio del padre:

Anche in questa scena, per l’ennesima, estenuante volta, non accade assolutamente niente: l’azione è disattivata, la narrazione è disattivata, il pathos è disattivato, non c’è alcuna sostanza, ciò che resta è null’altro se non la successione fonica delle parole inutili, idiote, vuote se non perché emesse da un organo fonatorio, e delle corrispondenti azioni a loro volta inutili.

E ancora:

Così, tutto ciò che resta, disattivata l’azione che non porta ad una progressione drammatica o epica interpretabile dal pubblico o dal critico, è il dramma da “vedere” e non da “interpretare”, e il punto fermo sulla scena è lo small talk, il parlare di niente, laddove anche quando vengono toccati i temi “universali” dell’Occidente, come il dolore, oppure si sfiorano toni lirici e patetici (la natura!), essi vengono disattivati, in un appiattimento dell’ethos dei personaggi nonché del pathos completamente escluso dalla scena.

Insomma, questo eroico autore del “forse”, che più d’ogni altro è rigoroso nel mettere e nel togliere, viene tradito se è inteso (come oggi si è propensi a fare) secondo un modello espressivo del sé, oppure attraverso le facili allegorie della storia (sia pure quale antitesi al capitalismo) e ne va invece preservato il meccanismo, nel suo girare a vuoto.

Concludendo,

Il dramma Finale di Partita è una successione di conversazioni laddove le parole sono, per convenzione letteraria, funzionali ad un’azione che a teatro deve necessariamente esserci, ma tale azione non porterà a niente, così come le parole che non hanno nessun significato tangibile, ovvero interpretabile dal pubblico secondo le regole del gioco sociale; esse hanno invece senso nell’ambito di un gioco che sia stato creato ad hoc dall’autore che presenta sulla scena personaggi che parlano del niente, laddove quel niente s’intende in senso tematico; […].

Il che non significa che di Beckett non si possa parlare, ma che occorre diffidare delle “sovrinterpretazioni” che eccedano nello spiegarlo su altri piani non giustificati dalla lettera del testo e non si presentino al modo aperto dell’ipotesi. Di Beckett si può sempre, anzi si deve, discutere ed è quello che Sanges fa con adeguati riferimenti ai grandi precedenti critico-filosofici (Adorno, Deleuze ecc.), ma senza timori reverenziali e senza scorciatoie intuizioniste, bensì “secondo logica”.

(fasc. 52, vol. II, 3 giugno 2024)

• categoria: Categories Recensioni

Recensione di Franco Di Mare, “Le parole per dirlo. La guerra fuori e dentro di noi” (Sem 2024)

Author di Pierluigi Mascaro

Fibra, assenza, resilienza, memoria, amore, storia, amici: sono i temi trattati nell’ultimo libro del compianto giornalista, conduttore televisivo e scrittore Franco Di Mare, intitolato Le parole per dirlo. La guerra fuori e dentro di noi (Sem 2024). Ed è proprio per questa ragione che tutte le suddette sezioni che compongono il volume sono bipartite: la prima parte riguarda “la guerra fuori di noi”, e racconta vivide e commoventi scene di vita quotidiana nella cornice del contesto bellico vissuto dall’Autore; mentre la seconda ha per oggetto “la guerra dentro di noi”, e riprende con singolare delicatezza d’animo le vicende relative alla sua battaglia contro il mesotelioma, affrontate con grande coraggio, consapevolezza di sé e dei propri limiti, serenità d’animo. L’unica sezione non bipartita è l’ultima, “amici”, poiché vuole essere una particolare forma dei canonici ringraziamenti di fine volume, che enumera in ordine sparso (o forse “affettivo”?) le persone che hanno accompagnato l’Autore nell’estenuante lotta contro la malattia, evocando brevemente dettagli e particolari che glieli hanno fatti sentire in comunione d’animo; tutto ciò nell’ambito della cornice programmatica del libro, annunciata nella breve e intensa prefazione, che non vuole in nessun modo generare senso di pietà o, peggio, commiserazione nei lettori.

Moltissime e disseminate nel testo sono le citazioni letterarie, che a chi scrive sembrano avere una funzione simile a quelle delle note a piè di pagina in un saggio scientifico, cioè di corroborare e avvalorare “aliunde” le asserzioni proferite e le storie raccontate, ma con una grande differenza: in questo testo è il cuore (di certo unitamente alla testa) a parlare, e dunque le citazioni adatte al contesto non potevano che essere poetiche e letterarie. Autori più antichi, autori più moderni, ma tutti capaci di interpretare il senso della guerra (esteriore e interiore all’uomo, che comunque la vive e la combatte) con sguardo maturo e costruttivo.

Colpisce particolarmente chi scrive il pensiero dell’Autore, collocato alla fine della seconda parte della sezione “assenza”, secondo cui «ci confermiamo comunità umana ogni volta che riusciamo a leggere il bisogno negli occhi di un altro, e lo aiutiamo a sottrarsi alla propria assenza»: ciò è valido, nell’economia della suddetta sezione testuale, per combattere sia il male che ci circonda sia quello che ci attanaglia interiormente. E dà il la all’Autore per parlare di una piaga silenziosa che attanaglia tutta la Comunità umana, senza distinzioni, quasi invisibile, ma indelebile: lo stigma sociale che purtroppo ancora oggi accompagna coloro che sono affetti da molte delle patologie conosciute e diagnosticabili, spesso foriero di abbandono, isolamento, chiusura fisica e mentale.

Lo stile dell’intero testo risulta essere piano e terso, figlio della serenità e della libertà d’animo che hanno accompagnato Di Mare nella carriera di inviato di guerra prima, e di paziente oncologico poi, mantenute fino alla fine. Una lettura davvero caldamente consigliata, che si lascia assaporare tutta d’un fiato, ma che al contempo invita il lettore a profonde riflessioni su cosa sia e su come funzioni la vita organizzata in Comunità, su cosa sia necessario per preservarla e svilupparla, su come questa si riverberi e incida sul “micro-io” interiore di ogni individuo.

(fasc. 52, vol. II, 3 giugno 2024)

• categoria: Categories Recensioni

Recensione di “Arripizzari. Tessitrici di storie. 14 scrittrici italiane contemporanee”, a cura di Alma Daddario (Le Commari Edizioni 2023)

Author di Maria Panetta

C:\Users\MP\Desktop\DIACRITICA\Annata X TRIMESTRALE - 2024\N. 2 Letteratura e musica - Anni Settanta\Letteratura e musica\Arripizzari image.jpg

Personalmente, ho un ben preciso ricordo del momento in cui, nello studio della storia della letteratura greca antica, si passa dalla trattazione della poesia cantata dagli aedi a quella relativa ai testi recitati dai rapsodi[1]. Lo rammento soprattutto per i toni sufficienti riservati in svariati manuali (anche universitari) a queste figure di cantori “tardi”, se così si può dire. Com’è noto, il rapsodo ‒ così si legge ad vocem nell’Enciclopedia Treccani ‒ è l’

Antico recitatore professionale dell’epica greca. Omero adopera il nome di aedo (ἀοιδός, ‘cantore’) sia per il poeta sia per il recitatore; solo dal 5° sec. a.C. è usato il termine ῥαψῳδός, inteso poi dai moderni come recitatore di canti altrui in opposizione ad aedo, il vero e proprio poeta. Tale contrapposizione, però, non sembra accettabile, perché in Omero ῥάπτω vale anche «escogitare con arte» […]. Infatti, i rapsodi divennero semplici recitatori solo in seguito, col sorgere dell’elegia, del giambo e della prosa, che con nuove problematiche rispondevano alle nuove esigenze civili e politiche dei Greci. Dapprima i rapsodi avevano probabilmente domicilio fisso: a Chio, per esempio, erano organizzati in una specie di gilda e si chiamarono Omeridi [dal gr. ῾Ομηρίδης][2]; poi dal 5° sec. a.C. andarono errabondi di paese in paese prendendo parte agli agoni rapsodici nelle feste (per es., nelle Panatenee), in cui recitavano Omero in modo drammatico, accompagnando il canto, e i gesti, col suono della lira. In età più recente presero a recitare tenendo un bastone in mano (da tale circostanza deriverebbe la falsa etimologia della parola da ῥάβδος «verga»)[3].

Perché aprire con una digressione sulla figura del rapsodo, che spesso viene raccontata come meno illustre rispetto a quella dell’aedo? Poiché i “rapsodi” erano i recitatori, ma erano anche i “cucitori di storie”.

Da un passo di Pindaro (precisamente il primo verso della seconda Ode Nemea) si ricava l’etimologia del termine, che è ricollegabile al verbo ῥάπτειν (‘cucire’), per cui il rapsodo – appunto ‒ sarebbe il ‘cucitore di canti’. In base a questa etimologia, alcuni studiosi hanno dedotto che il rapsodo, a differenza dell’aedo, si limitasse a ripetere ciò che gli era stato trasmesso dalle generazioni precedenti (da qui i toni di sufficienza, se non di disprezzo, verso questa figura, da parte di alcuni specialisti). Altri, invece, ritengono che anche i rapsodi intervenissero sul repertorio tradizionale, talora arricchendolo; in entrambi i casi, comunque, resta fondamentale il loro ruolo nel tramandare il patrimonio mitico greco.

Venendo al titolo della silloge uscita per Le Commari Edizioni nel 2023, “arripizzari” in siciliano sta per ‘rammendare’ o ‘ricucire’: se, dunque, trasliamo la metafora del “tessuto” nell’ambito della pratica scrittoria, otteniamo il “testo” (textum, i o textus, us, a seconda della declinazione prescelta). Le storie che in questo volume sono raccolte, infatti, parlano tutte di arte del “rappezzo” e insieme del drappeggio; per adoperare anche una metafora musicale, di variazioni su tema e insieme di virtuosismi da solista. La scrittura, dunque, come tessitura e/o come ricamo; e la scrittrice come abile sarta: non solo esperta dell’arte del cucito, ma anche creativa orditrice di trame del tutto inedite e originali.

Con queste premesse, di certo, alla sapienza organizzativa della curatrice Alma Daddario non può essere sfuggito che scelta vincente sarebbe stata quella di porre nella posizione forte dell’explicit, e di chiudere la silloge, con un delizioso racconto intitolato L’uovo di legno (il n. 14), che appunto allude al “rammendacalzini” adoperato dalle nostre nonne, di cui l’autrice all’inizio ignora l’utilità, concentrandosi sulla valenza simbolica dell’oggetto, che la rimanda idealmente alla fertilità, alla rinascita, all’«essenza femminile» (p. 154); e focalizzandosi sulla sua forma, che le risveglia «il bisogno di qualcosa di essenziale, mi conduceva in un percorso di pulizia dal superfluo, dall’arzigogolio mentale, dall’inutile. […] mi riportava all’atmosfera metafisica dei dipinti del mio amatissimo Giorgio De Chirico e ai suoi manichini che per anni ho tentato di imitare» (pp. 155-56). Il passaggio dall’arte pratica del rammendo a un suo significato ulteriore è inevitabile: «Chi sa rammendare più, chi rammenda ancora calzini bucati? – chiede all’implicito lettore Luisa Stagni ‒ Chi perde tempo a ricucire uno strappo, un buco? Nessuno» (p. 157). Quell’oggetto diviene per la protagonista della narrazione un vero e proprio simbolo: «raccontava di una lunga resistenza alla consunzione, di atti di volontà per riparare ciò che si era rotto o, appunto, consumato» (p. 158). Di questo passaggio sottolineerei il concetto di “resistenza alla consunzione” che, per varie ragioni – perlopiù intuibili –, mi pare caratteristico soprattutto dell’approccio femminile alla vita.

Devo confessare che questo racconto mi ha molto coinvolta e commossa, forse perché anch’io mi sto trovando nella difficile condizione emotiva e mentale di dover affrontare la durissima prova di decidere cosa conservare e cosa dare via degli abiti e degli oggetti di mia madre, scomparsa da poco; e perché anche la mia adorata nonna materna, solare e piena di energia, aveva un uovo di legno, che adoperava sempre per rammendare le calze di mio nonno e che m’incuriosiva tanto, quando ero bambina; confesso anche che, appena ho terminato di leggere il racconto, mi sono precipitata a cercarlo, perché mi è venuta voglia di porlo in mostra su uno scaffale della libreria, come decide di fare istintivamente la protagonista del racconto prima di venire a sapere qual è la reale funzione di quell’oggetto così misterioso e pieno di fascino. Si può agevolmente individuare almeno un messaggio (implicito ed esplicito) nel testo: «Il mio uovo di legno mi costringeva a guardare i tanti buchi che non avevo riparato, i tanti secchioni del non riciclabile che avevo riempito di storie lise dal tempo, bucate da strappi di noia, gettate via perché attratta da nuove, luccicanti, promesse» (p. 158). E alla fine la voce narrante, in un bilancio piuttosto confortante, conferma: «Ho imparato a raccogliere i punti smagliati, a unire i lembi di uno strappo. […] so distinguere i buchi non aggiustabili da quelli che possono essere invece riparati» (pp. 158-59). Il che, in realtà, non delinea una netta differenza di genere, non traccia una linea di demarcazione rigida, ma a mio parere riguarda uomini, donne e anche chi non si riconosce nei due generi citati. La forza di questi testi, infatti, consiste proprio nel fatto che, nonostante le voci siano femminili e raccontino punti di vista apparentemente solo femminili, in realtà, nella maggior parte dei casi, le sensazioni, gli stati d’animo, le emozioni, le esperienze vissute risultano condivisibili e facilmente comprensibili per un pubblico di lettori eterogenei.

Aggiungo che, in tutta onestà, non sono proprio certa che si possa nettamente identificare una “via femminile alla scrittura” o che si possano descrivere con precisione le caratteristiche di un approccio femminile alla narrazione. Dalla notte dei tempi sembrerebbe che la narrazione sia appannaggio particolare delle donne (si pensi, ad esempio, alla Sherazade delle Mille e una notte, che ne fa addirittura una ragione di vita, anzi uno strumento per scampare alla morte, per allontanarla, per rimandarla il più possibile, fino al lieto fine). Però, sono convinta che un grande scrittore e una grande scrittrice siano egualmente capaci di immergersi talmente in profondità nell’animo umano da riuscire a empatizzare e a comprendere, quasi allo stesso modo, le emozioni e le ragioni di chiunque, senza distinzioni di genere; mi piace immaginare il mio scrittore/scrittrice ideale come dotato/a di una sensibilità talmente spiccata e di una capacità di immedesimazione talmente istintiva da riuscire a calarsi perfettamente nei panni sia di una donna sia di un uomo (o di un sasso, un animale, una pianta…). Si potrebbe obiettare che la com-passione (in senso etimologico) per l’Altro alberghi più spesso in animi femminili (sarà vero?); il che, forse, potrebbe concedere alle donne anche un vantaggio nella scrittura di finzione (sempre in senso etimologico). Ad ogni modo, sono anni che continuo a interrogarmi sulla differenza ‒ se esiste (non ne sono così convinta) ‒ di approccio alla scrittura fra una donna e un uomo; e questa antologia mi ha regalato suggestioni, mi ha suscitato altre domande, mi ha innescato altri dubbi, mi ha fornito qualche altra risposta, mi ha emozionato, mi ha dis-tratto, mi ha intrattenuto, mi ha indotto a riflettere ancora e ancora. Ha svolto, dunque, egregiamente il compito precipuo di ogni testo letterario.

Mi pare, in generale, che le narrazioni raccolte in questa silloge sappiano fotografare situazioni e ambienti diversi con uno sguardo sempre disponibile verso l’Alterità, aperto a comprenderla e curioso della Vita. Per tali ragioni ritengo che la lettura di questi racconti possa egualmente affascinare e coinvolgere lettori di tutte le età e di diversa esperienza, anche perché le scrittrici sono state molto attente a elaborare testi che possano essere interpretati a vari livelli.

Persino la più dura di queste storie, Schiave di Susanna Schimperna (n. 12), che è un vero e proprio pugno nello stomaco, racconta di una condizione che purtroppo ancora oggi è prettamente femminile, ma che talora è condivisa anche da bambini e giovani uomini, sebbene la situazione delle donne sia quasi sempre di gran lunga più difficile e problematica rispetto a quella maschile. Nel caso di Schiave, la scrittura non può essere risarcimento alla violenza gratuita, all’ingiustizia, alla rabbia, al dolore fisico e morale provato e subìto dalle donne rapite, picchiate, torturate, sfruttate, stuprate, terrorizzate e rese succubi psicologicamente da uomini senza scrupoli, ma si fa strumento di denuncia e, dunque, in qualche modo, di liberazione almeno ideale: invito alla resistenza, monito, richiamo alla coscienza di chi vive in condizioni di agiatezza e, dandolo erroneamente per scontato, può decidere liberamente del proprio corpo e del proprio destino, come ovviamente sarebbe giusto per ogni creatura vivente.

Questo racconto rappresenta il picco tragico della raccolta, quello che ha meno possibilità di risarcimento, ma le note presenti nella silloge sono varie e le tonalità di colore molto diversificate: dalla cupezza plumbea di Schiave si passa all’appello alla razionalità implicitamente contenuto in La lettera ai nipoti (n. 8) di Toni Maraini, un’impietosa descrizione del mondo contemporaneo (è ambientato nel 2020), della società odierna e delle sue contraddizioni, dei pericoli incombenti (tra guerre e minaccia nucleare), del cambiamento antropologico in atto, dell’emergenza ambientale, della degenerazione di certi rapporti umani etc. In un ideale passaggio di consegne, di generazione in generazione, del Mondo che stiamo vivendo e contribuendo a creare o, forse, soprattutto a distruggere, la Lettera di Toni Maraini, che ovviamente è implicitamente indirizzata a tutti i lettori, ha la delicatezza di chiudersi riallacciandosi a un’arte sorella della letteratura, la musica, sulle note di Blowing in the wind di Bob Dylan, e in particolare della sua seconda strofa:

Per quanti anni può esistere una montagna

Prima che sia lavata dal mare?
Sì, e quanti anni possono vivere alcune persone
Prima che sia permesso loro di essere libere?
Sì, e quante volte un uomo può girare la testa
Fingendo di non vedere?
La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento.

Ma in questo florilegio sono ben rappresentati anche la levitas e il senso di magia: ad esempio in Ali, di Lia Migale (n. 9), in cui domina la scena una quasi salvifica apparizione di un miracoloso uccello dal variopinto piumaggio, che incanta un intero paese con i suoi colori e la promessa di felicità che sembra incarnare. Un omaggio al valore e al potere vivificante della Bellezza in senso lato che, però, contiene in cauda venenum, con la sua chiusa fulminante, spiazzante e malinconica: quasi a ricordarci che purtroppo, laddove si manifesta la Bellezza, a volte si vengono a creare e si palesano, come vortici sorti all’improvviso dal più arido deserto, forze che mirano solo a soffocarla, a imbrattarla, a spegnerla e a distruggerla.

«Cosa sapeva Lei della notte, della noia, dell’abisso? Nulla. Oppure molto, molto di più di tutti noi»: questa, la chiusa criptica e ambigua del decimo racconto, a firma di Valeria Moretti, dal titolo emblematico Altrove, che rievoca le suggestioni regalate dalla sua modella Teha’amana al pittore Paul Gauguin, noto per i colori squillanti e le ambientazioni lussureggianti. Il sogno esotico (ed erotico) dell’Altrove, il «desiderio di fuga» (p. 116) che, prima o poi, accomuna tutti nella perpetua lotta contro il grigiore della reiterazione dei gesti quotidiani, sembra nascondere, però, in queste pagine, una qualche insidia. Oltre a comunicare un concetto assai interessante, specie nel mondo attuale (in cui sembrano contare solo la performance, il profitto, il risultato), ovvero quello di «tempo non tempo» (p. 117):

quello che desideriamo va trovato nel tempo non tempo, solo unicamente in quello. Nel tempo lasciato a se stesso, nel tempo lasciato andare… Ho rincorso tempi “svogliati”. È quel tipo di tempo che ho inseguito andandomene lontano. Sì, è quel tempo che volevo conquistare. Solo ed unicamente quello: il tempo non tempo. (Ibidem).

Struggente è anche la fragile figura dell’ex professoressa di italiano protagonista di Dove finiscono i palloni (n. 11) di Veronica Passeri, in bilico fra realtà e follia, passato e presente, pensieri e ricordi: un matrimonio fallito alle spalle, un figlio a Londra a fare carriera oppure morto, secondo certe voci. Come nei migliori racconti di Buzzati o nel suo capolavoro, Il deserto dei Tartari, nella quotidianità all’improvviso irrompe il mistero: una declinazione molto tangibile del fantastico, in questo caso, perché si tratta di palloni da gioco. «Fu allora che li vide» (p. 127): una decina di palloni persi nel raggio di anni, «sulla loggia sotto la sua terrazza» (p. 127), da ragazzini che giocavano nel cortile. La sua reazione è prima di confusione e poi di partecipazione al dolore del Mondo: «Li guardò una seconda volta e sentì tutto lo strazio di cui sono capaci le cose minime. Un senso di perdita inspiegabile» (p. 131) che, però, verrà chiarito in parte nel corso della narrazione, rievocando un episodio del passato in cui il figlio Giacomo, a nove anni, aveva perso un adorato «pallone del Paris Saint Germain ai giardini del centro» (p. 131).

Sempre alla musica si torna con Yesterday (n. 13) di Orsola Severini, emblematico titolo di una storia che riguarda ancora una volta un’eredità materiale e culturale assieme: una scatola di cd appartenuta a Esther, nata da una famiglia ebraica in Francia nel 1942 e poi inviata a vivere presso dei contadini svizzeri per scampare ai rastrellamenti di Hitler. La sceglie un’adolescente fra gli oggetti appartenuti a un’amica appena scomparsa della madre, Esther appunto, cui era affezionata: un cofanetto nero con l’intera collezione degli album dei Beatles, selezionato solo per curiosità e quindi per caso, ma che innescherà un’autentica passione senza tempo per il quartetto londinese e la sua travolgente musica. La chiusa del racconto: «[…] la musica ha sconfitto la morte». Torna ‒ foscolianamente ‒ il Leitmotiv dell’Arte eternatrice, strumento di dilatazione del tempo terreno e di nutrimento vivificante per l’anima.

Altri rimandi interni collegano i racconti della prima metà del volume agli ultimi sette sin qui velocemente passati in rassegna e analizzati: ad esempio, per affinità tematica La lettera ai nipoti (n. 8) di Toni Maraini si può idealmente assimilare al secondo racconto, La Ribelle di Daniela Bertulu; Ali di Lia Migale (n. 9) può essere affiancato per il tono a L’angel sulla collina (n. 3) di Maria Antonietta Coccanari de’Fornari, che personalmente mi richiama alla memoria La Lupa di Verga a causa del nome e del portamento della sua protagonista; Altrove (n. 10) di Valeria Moretti ha in comune con Fughe e ritorni di Maria Rosa Cutrufelli (n. 4) alcune parole-chiave (come, appunto, “altrove” e “fuga”). In vari racconti come in Agamennone (n. 5) di Alma Daddario, che orbita intorno a un amato cagnone, ricorre il motivo della resistenza alla morte tramite il ricordo, della mancata resa all’oblio grazie alla memoria e alla testimonianza; Kill me di Katia Ippaso (n. 6), che introduce una coppia di una notte nata da un fugace incontro, nella cornice della seducente Lisbona, fra un uomo passionale e travolgente e una donna non più giovanissima e alle prese con la malinconica constatazione dell’appassire della propria bellezza, è ricollegabile, anche nel sottile erotismo affiorante dalle pagine, al già ricordato Altrove; infine, il tema dell’emancipazione femminile e della ricerca della libertà è il filo teso fra il racconto-testimonianza di Dacia Maraini Africa: una bambina e il suo maestro (n. 7) e il crudo Schiave.

Come alcuni sanno, il tema della scrittura come “riparazione” mi è molto caro, almeno fin dai tempi della prima edizione di Guarire il disordine del mondo, una raccolta di saggi che nel 2012 ho dedicato a una serie di prosatori a mio avviso accomunati dall’intento di mettere ordine nel caos del mondo attraverso la fissazione su carta, nero su bianco, di parole. Il “filo rosso” che lega quei saggi, incentrati su romanzieri, saggisti, critici letterari italiani (come Manzoni, De Sanctis, Pellico, Bini, Settembrini, Graf, Croce, Capuana, Serra, Alvaro, Buzzati, Morselli, Bufalino, Sciascia) è l’idea che «la scrittura rappresenti, in qualche modo, un espediente per cercare di dare forma al Caos, un modo di fare ordine, di arginare l’entropia che governa il mondo» (dalla Premessa). Vi si indagava la scrittura come phàrmacon, nella sua duplice accezione greca di ‘rimedio’ e di ‘veleno’; e la prosa come «consapevole scelta stilistica e formale, in quanto specchio di un pensiero che è sempre anche emozione» (ibidem). Pure per queste ragioni, non sarà difficile credere che ho trovato molto interessante e coinvolgente la lettura di questi testi.

Inoltre, l’affermazione di Maria Vittoria Vittori, nella Prefazione, che «le parole sono tra gli strumenti più efficaci a nostra disposizione per cercare di ricucire e riparare, rendendo ciò che si ripara ancora più prezioso» (pp. 5-6) mi ha fatto pensare immediatamente – e il mio è un omaggio anche a Fosco Maraini e alle sue figlie, che il Giappone lo hanno conosciuto bene ‒ alla nobile arte giapponese del Kintsugi, termine che letteralmente significa ‘riparare con l’oro’ e che indica una tecnica di restauro ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per restaurare tazze in ceramica per la cerimonia del tè, Cha no yu. Secondo tale pratica, le linee di rottura delle ceramiche, ricongiunte tramite la lacca urushi, non vengono camuffate ma vengono lasciate visibili e, anzi, enfatizzate ed evidenziate con della polvere d’oro. Gli oggetti riparati tramite il Kintsugi diventano, dunque, vere e proprie opere d’arte, perché la tecnica di impreziosirli con la polvere d’oro accentua la loro bellezza, rendendo la fragilità un punto di forza e di perfezione, anziché una debolezza o una mancanza. Ogni ceramica restaurata, inoltre, presenta un diverso intreccio di linee dorate, irripetibile per via della casualità con cui la materia può frantumarsi, dando vita a disegni unici. Questa pratica nasce, quindi, dall’idea che dall’imperfezione e dalle ferite possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore; e trovo che questa immagine ben si adatti alla raccolta curata da Alma Daddario.

Da ultimo, mi fa piacere sottolineare che la maggior parte delle autrici raccolte in questa silloge ha a che fare, in qualche modo, con il mondo del teatro (la drammaturga, attrice e sceneggiatrice Chiara Alivernini addirittura lo cita nel racconto d’esordio A cena da Anne e William, riferendosi a Shakespeare), un dato che colpisce ma non sorprende perché a mio avviso rappresenta la perfetta quadratura del cerchio per il ragionamento fin qui condotto: anche il teatro, infatti, è – se così si può dire ‒ un’arte di riparazione. Tramite il teatro, ad esempio in vari progetti scolastici in cui sono stata coinvolta parecchi anni fa ‒ primo fra tutti il magnifico “Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli” del Teatro di Roma ‒, ho visto “guarire” tanti ragazzi: adolescenti inquieti che hanno scoperto il valore della disciplina o timidi impacciati che sono riusciti a liberare la propria creatività; giovani sbandati che si sono sentiti, forse per la prima volta nella loro vita, accettati e accolti; o, infine, ragazzi disabili, che hanno potuto sperimentare la vera inclusione, sentendosi parte di un gruppo e di un progetto comune. Il teatro rappresentato, infatti, guarisce: al pari della scrittura. E, in questa antologia, l’arte di combinare le parole ha una pulizia di linee e di sguardo, una schietta concretezza e una delicatezza di tocco che forse, in particolar modo, appartengono soprattutto alle voci femminili e le caratterizzano.

Non sarà un caso, infine, che abbia deciso di sostenere questo progetto di sole donne una casa fondata e gestita da due editrici: Cristina Anichini e Maria Corona Squitieri. La copertina scelta per il volume è di Lavinia Fagiuoli, un’altra donna: la sua gioiosa illustrazione ha al contempo un sapore di sfrenate danze etniche, chiacchiere franche e gonne vaporose che ben si adatta alla vivacità di toni dei testi proposti.

  1. Si propone il testo – riadattato ‒ della presentazione al pubblico dell’antologia in data 19 aprile 2024 e presso il Caffè letterario di Roma Horafelix: si ringrazia Roberta Fidanzia per il coinvolgimento nell’evento.
  2. Nell’antica Grecia, “omerida” sta proprio per rapsodo seguace di Omero, che recitava o imitava i suoi poemi; nell’isola di Chio, in particolare, gli omeridi avevano costituito una sorta di casta e affermavano di discendere da Omero, tramandando la loro professione di padre in figlio.
  3. Cfr. l’URL: www.treccani.it/enciclopedia/rapsodo (ultima consultazione: 18 aprile 2024).

(fasc. 52, vol. II, 3 giugno 2024)

• categoria: Categories Recensioni

Recensione di “I demoni della Santa Fede. Diario di un monaco giacobino del 1799” di Vincenzo Villella (Grafichéditore 2023)

Author di Carmine Chiodo

«Sono io l’ignoto calabrese offeso nel piede dritto, citato nell’elenco segreto dei cospiratori partecipanti alla storica agape di Posillipo della notte del 7 agosto 1793»: questo, l’inizio di uno splendido e affascinante romanzo storico che si snoda in modo fluido in ventotto capitoli. L’autore è Vincenzo Villella, uno dei maggiori e più attendibili storici calabresi, che ci ha dato validi e illuminanti contributi storici mettendo a fuoco aspetti e momenti vari della storia della Calabria e non solo. Al riguardo, tra le sue moltissime pubblicazioni mi limito solo a richiamare le seguenti: La Calabria della rassegnazione in ben tre volumi (1984-1986), L’albero della libertà (1987), I briganti del Reventino (2006), Joachim Murat. La vera storia della morte violenta del re di Napoli (2019). Solo uno studioso, scrittore e storico ferratissimo, ci poteva dare un’opera che, vista nel suo complesso, mostra non solo la vasta e ben organizzata conoscenza storica di Villella, ma pure la sua perizia di scrittore che con lingua sempre chiara e scorrevole rende piacevole la narrazione dei fatti storici e umani di cui si racconta.

Siamo trasportati in vari ambienti, tempi e vicende; veniamo a conoscere vari personaggi ben delineati da un punto di vista storico e umano, per cui il lettore si appassiona a ciò che legge. È un’opera corale, ben congegnata, e chi legge è continuamente invogliato a proseguire nella lettura. Si ammira anche la perizia con cui lo studioso presenta i fatti e le varie vicende, gli ambienti e i luoghi, mostrando non solo le azioni storiche dei personaggi, ma anche i loro caratteri umani. Ovunque si respira storia e cultura: così viene messo a fuoco un avvenimento fondamentale e cruento del Regno borbonico di Napoli, impegnato nella lotta contro le nuove idee repubblicane provenienti dalla Francia con la sua rivoluzione del 1789.

Insomma, un libro che si legge con partecipazione e coinvolgimento nelle vicende storiche che, a mano a mano, vengono presentate in modo agile, ma profondo. Nella fattispecie, le parole citate all’inizio sono di Francesco Butera di Conflenti, in provincia di Catanzaro (Villella è anch’egli di questo paese): illuminista, massone, giacobino e monaco agostiniano (prima di farsi tale era il “notaio zoppo”). Difatti, è proprio Francesco che in prima persona narra i fatti che formano la Memoria di Francesco Butera, già notaio e ora monaco, sui trascorsi fatti di mia vita nell’epoca della Santa Fede del cardinale Fabrizio Ruffo. Conflenti, monastero di Sant’Agostino, agosto 1804. Gli avvenimenti narrati sono quelli del triennio giacobino (1796-1799), «caratterizzato dalle insorgenze antifrancesi in Europa e in Italia, movimenti insurrezionali contro le idee liberali e rivoluzionarie» (Presentazione, p. 7): ecco, quindi, il «Sanfedismo nel Regno di Napoli». Quest’ultimo fu certamente il più cruento e molti alberi della libertà, dapprima piantati, vennero poi spazzati via dai sanfedisti e dalle bande capitanate dal Cardinale calabrese di San Lucido, Fabrizio Ruffo.

Villella con la sua opera ci immette nell’atmosfera culturale, politica e umana, cruenta e drammatica, che ha caratterizzato il Regno di Napoli: il 1799 è ricordato giustamente dagli storici come l’anno finale del cosiddetto triennio giacobino. Il testo è unitario e organico anche se gli argomenti, le vicende, i fatti sono tantissimi: tutto è ben fuso fino all’esito finale della lotta tra giacobini e sanfedisti. Chi legge viene trasportato da un ambiente a un altro, ora si imbatte in un personaggio, ora in una vicenda ora in un’altra: per esempio l’iniziazione massonica di Francesco nella Loggia della Cappella del Cristo Velato e poi la sua monacazione forzata.

Da sapere a tal riguardo che Francesco, quando diventò massone, venne spedito dal gran Maestro Jerocades di Parghelia in Calabria per diffondere le idee giacobine. Una volta arrivato in Calabria, si ammalò gravemente tanto da finire in agonia e la mamma, fervente cattolica, fece un voto alla Madonna della Quercia: se Francesco si fosse ripreso dalla malattia, l’avrebbe fatto diventare monaco; e così fu.

Nel romanzo il monaco forzato Francesco nel Convento di Sant’Andrea condivide la stessa cella con il monaco tedesco Ilarione, anch’egli giacobino e grande studioso di Gioacchino da Fiore. Poi si vedono piantare molti alberi della libertà, ma ecco, subito dopo, il contrasto per cui da questi alberi si passa ai patiboli, alle moltissime esecuzioni spietate, affollatissime di gente, per le quali muoiono anche eroi e grandi intelligenze. Il tutto si svolge a Piazza Mercato, in Napoli (tutti i capitoli in cui si svolgono le varie scene e agiscono i personaggi forniscono pure il contesto entro cui avvengono i fatti storici afferenti ovviamente alla lotta tra giacobini e sanfedisti).

Poi ecco ancora il 1799, anno in cui è proclamata la Repubblica partenopea e si muove dalla Calabria la marcia della Santa Fede del Ruffo. Le sue truppe, formate da un’accozzaglia di uomini di malaffare, si intrattengono nel Convento di sant’Andrea e assoldano in modo autoritario tutti i frati, scegliendo ovviamente quelli più giovani. Quindi, il monaco Francesco (pure notaio come già detto) vede di persona ciò che succede durante la crociata sanfedista e lo descrive minutamente nel suo diario grondante di eccidi, incendi, stupri, ogni tipo di violenza e ruberie commesse dai sanfedisti in vari luoghi: Maratea incendiata dal brigante Fra’ Diavolo che «festeggia con una messa nera e la copulazione sacra», e poi ancora l’uccisione e il vilipendio del cadavere del vescovo di Potenza Andrea Serrao; gli stupri fatti nel Convento femminile di Altamura; l’esecuzione – come già detto ‒ di tanti giacobini napoletani, il fior fiore dell’intellettualità locale, tutti ex fratelli di loggia di Francesco Butera. Ma sono registrati anche altri fatti, come l’ignobile tradimento dell’ammiraglio inglese Nelson, i suoi contrasti con il cardinale Ruffo, l’impiccagione dell’ammiraglio Francesco Caracciolo, il cannibalismo dei lazzari, il feroce martirio di Luisa Sanfelice.

Napoli diventa così la città-bestia dell’Apocalisse e Francesco, lasciata la città insanguinata, va alla ricerca del suo caro maestro Jerocades, che ritrova sempre attivo nella stamperia clandestina del Convento di san Giovanni a Cesarano, proprio quando, incatenato, viene portato in prigione, e così dà l’addio all’avvento imminente della nuova era apocalittica dell’abate Gioacchino ricordato da Dante con quei celebri versi: «di spirito profetico dotato». Francesco non si arrende per niente e, inginocchiato davanti al crocifisso dell’altare del convento, «giura di continuare l’opera del suo Maestro per la divulgazione della fede nella ragione umana, per aiutare i vinti a realizzare una immortalità terrena prima ancora di quella ultraterrena». Nella sua memoria scrive: «A tutti quelli che si recheranno in futuro a visitare Napoli raccomando di non mancare di andare in Piazza Mercato in faccia alla chiesa del Carmine e, inginocchiati su quel sacro terreno bagnato dal sangue di tanti martiri, rivolgano un pensiero ad Eleonora e a tutti i patrioti che sono morti da coraggiosi per la salute dell’infelicissima patria» (p. 395).

Come si vede, quest’opera di Villella ha tutti gli ingredienti per essere definita un “romanzo storico” in cui il lettore si imbatte in varie situazioni e sfilano davanti ai suoi occhi tante scene avvenute in quel tempo orribile delle lotte tra repubblicani e sanfedisti. Sono queste vicende fortemente intrecciate che ci mostrano anche come si viveva, quali erano gli usi, le condizioni della gente in quel periodo nel Regno di Napoli e così si legge: «Gli ‘spirdati’ arrivano qui (gli spirdati sono gli invasati dal demonio che venivano condotti a Conflenti, al santuario della Madonna della Quercia, sede diocesana degli esorcismi) sfiniti e stremati, a volte moribondi, non tanto per la pesantezza del viaggio a piedi, quanto a causa delle estenuanti pratiche alternative o preparatorie all’esorcismo cui venivano sottoposti per giorni e giorni» (capitolo quarto, p. 53); «Michele Calabria, don Michelino, come lo chiamava la gente, era mio cugino carnale» (capitolo ottavo, p. 127), un fannullone, ignorante, rozzo e prepotente, che stuprava (la sua unica occupazione) le donne, e per questo venne ucciso. «È tutto nudo – dice un gendarme – mostrandoci i pantaloni buttati poco distanti sul fieno e la camicia insanguinata» (pp. 131-32). Chi ha ucciso Michelino è Nicola Gualtieri, il chierico cursore, figlio primogenito del sarto Gennaro Gualtieri, detto Panedigrano. Nicola ha scannato don Michelino perché aveva violentato la sorella e l’ha ammazzato nella stalla dove aveva appunto abusato di lei.

Dunque, I demoni della Santa Fede di Villella è un’opera che mette in evidenza le grandi competenze storiche dello studioso e poi la grande capacità di analisi e di sintesi con cui sono raccontate le varie e incastrate vicende, per cui ci è dato assistere ed essere coinvolti in una narrazione armoniosa e chiara che tocca da vicino e sprona continuamente a meditare sulla storia, sull’uomo e sulle azioni successe in passato ma che poi, pur cambiando i tempi e i modi, vengono a galla sempre o a riproporsi. Il volume, pregevole sotto ogni punto di vista, si raccomanda a tutti per essere letto e meditato, soprattutto da parte delle nuove generazioni.

(fasc. 51, 25 febbraio 2024, vol. I)

La magia dell’ukulele incontra il fascino di Monopoli: Musica, Bellezza e Comunità al Monopolele 2024

Author di Vincenzo Vona

Si vocifera negli ambienti ukulelistici che l’idea del Monopolele sia nata in una serata vacanziera nella quale Salvo Mc Graffio e Mauro Minenna, ideatori e organizzatori del festival, videro nella città di Monopoli la location perfetta per una manifestazione musicale con protagonista lo strumento hawaiiano per antonomasia.

Si dice, inoltre, che ad accendere in loro l’entusiasmo fu una discreta quantità d’alcool, e sinceramente non stento a crederlo, perché suppongo che per pensare di mettere in moto una macchina così complessa ci vogliano determinazione sì, coraggio certamente, intraprendenza senza dubbio, ma soprattutto pochi freni inibitori.

La kermesse entra nel vivo il 30 maggio 2024, ma la presenza di un gruppo di folli irlandesi, Ukulele Tuesday, ukulelisti dublinesi fortissimi nell’animare le jam session, la fa cominciare “con il botto” già dalla sera del 29 con una coinvolgente esibizione che fa entrare nel clima festaiolo che caratterizzerà tutte le giornate e serate a seguire. Sì, perché nei festival di ukulele di tutto il mondo le persone non vogliono solamente godersi le performance di straordinari musicisti, ma suonare il più possibile, con chiunque, a qualsiasi ora del giorno e della notte e in qualsiasi luogo.

L’organizzazione parte dall’accoglienza, e a Palazzo Palmieri c’è l’Info point del Monopolele, uno stand dove trovare gadget, merchandising, il Songbook con le canzoni da suonare insieme alle jam session, il programma dei concerti e dei workshop, tutto gestito con cordialità e gentilezza da un team molto simpatico, sorridente e disponibile.

Il pomeriggio del giovedì è animato dall’Open mic, gestito con grande maestria da Giulia Nervi, attrice, comica, cantante, amante dell’ukulele e per l’occasione Maestra di cerimonie di uno dei momenti più attesi in tutti i festival. Gli ukulelisti fremono per far ascoltare la propria musica: non importa il livello di preparazione; la gioia di ognuno nel suonare davanti a un pubblico per la maggior parte composto da suonatori di ukulele, e che quindi comprende la tua passione per questo strumento, è immensa.

Si continua con l’Ukulele beach Party a Porto Rosso, una location di una bellezza indescrivibile, con gli inglesi Peter Moss e George Elmes. Uno, una leggenda dell’ukulele (non per niente conosciuto come “Ukulele Man”), e l’altro un giovane musicista dal futuro radioso, con un talento straordinario e una tecnica sopraffina. Si prosegue con Feng E, un talentuosissimo sedicenne di Taiwan che suona da virtuoso già da qualche anno. Una performance, la sua, all’insegna della sperimentazione: l’uso del distorsore o del wah wah, effetti tipici della chitarra elettrica, può far storcere il naso ai puristi, ma è fuori da ogni dubbio che questo ragazzo ha una tecnica e un’affinità con l’intrattenimento del pubblico invidiabili, degne dei performer più datati.

Concludono la serata i Veeble, un progetto musicale che da quanto ho capito nasce appositamente per Monopolele. La Party Band porta in spiaggia un sound molto coinvolgente che passa dal reggae alle atmosfere balcaniche e al rock con disinvoltura e grande maestria; l’uso dell’ukulele in questo contesto può sembrare un pochino forzato, ma la versatilità di questo strumento non smette mai di stupirmi ed è una delle caratteristiche che in lui apprezzo di più.

Si arriva a un altro dei momenti più desiderati da coloro che, ukulele a tracolla, si sono goduti il concerto: la Jam session. Alla Perla Nera di Monopoli, bellissimo locale in riva al mare, ecco che le corde si scaldano, le ugole si infiammano e si inizia a suonare e a cantare a squarciagola fin quando ce n’è!

Il venerdì partono i workshop: a rompere il ghiaccio con un workshop dal titolo The magic of Major Scale sono proprio io, Vincenzo Vona, ukulelista proveniente dal Nord Italia, docente di ukulele certificato da JHUI (James Hill Ukulele Initiative) e promotore del metodo internazionale Ukulele in the class room, ideato dal didatta e performer canadese James Hill.

Seguono George Elmes con Magic Strumming!, Peter Moss con The summer wind e Feng E con More Rhythm.

La partecipazione ai seminari è ampia e sentita: c’è molta voglia di imparare cose nuove da parte del pubblico, che si mette costantemente in gioco per approfondire lo studio dello strumento. C’è spazio anche per chi non ne ha mai imbracciato uno, e addirittura per chi non lo possiede, grazie ad Alessandra Scaraggi e a Irene Aliverti. Le due ukuleliste, infatti, offrono nella chiesa di San Pietro lezioni gratuite e ukulele a chi non lo ha: una bellissima iniziativa che permette ai curiosi di approcciarsi allo strumento e di iniziare a suonare i primi semplici accordi.

Inoltre, non può assolutamente mancare in ogni festival che si rispetti la Parata: si parte da Piazza Palmieri e si arriva suonando al Porto vecchio, dove Adriano Bono, frontman dei Reggae Circus, arriva su una barchetta a remi suonando il proprio ukulele, anche se purtroppo la bellissima iniziativa viene bruscamente interrotta dalla pioggia (ma sarà recuperata alla Jam notturna!).

I concerti del venerdì sera si tengono in piazza Palmieri, luogo fulcro del festival. È il turno di Evan J. De Silva, da Singapore: nonostante sia anch’egli un giovanissimo e talentuoso ukulelista, ciò che mi ha colpito di lui è la sua profonda musicalità. Evan ha un grande senso ritmico, melodico e di interplay, un gusto musicale e una delicatezza nella performance che mi hanno piacevolmente sorpreso.

Ed ecco apparire uno dei primi strumenti ibridi: Victor Jofre, musicista e liutaio cileno, porta sul palco il proprio ukulele tahitiano, dal suono allegro e vivace, che evoca atmosfere esotiche e lussureggianti. Ritmi caraibici e del Sudamerica si mescolano a musiche di diverse provenienze e sottolineano la natura da Globetrotter di Jofre.

Ad un certo punto un fuori programma: tre personaggi bislacchi tentano un’incursione sul palco principale e ci riescono! Sono Marco Tregambi, Alessandro Pedroni e Frank Impudent dell’OrcheStrafottente. L’improvvisato trio fa divertire, ma anche pensare; notevole, infatti, e a tratti geniale è il brano di Amanda Palmer Ukulele Anthem tradotto e riadattato in italiano: una vera e propria poesia sull’ukulele.

Li hanno definiti “orchestra”, “ensemble”, “band”: i Sinfonico Honolulu possono rientrare in ognuna di queste definizioni e sono di sicuro la miglior formazione ukulelistica che abbiamo in Italia. I loro arrangiamenti sono ricchi, preparati con rara sapienza; il repertorio di successi pop rock è una vera e propria bomba esplosiva e hanno una presenza sul palco che riesce a coinvolgere tutti. I concerti della seconda serata non potevano concludersi in modo migliore.

La Jam notturna si sposta al Caffè mezzopieno e qui la faccenda si fa ancora più godereccia: non troviamo solo ukulelisti, ma tutta la città. Turisti, monopolitani e chiunque passi di lì si uniscono alla festa.

Il sabato 1° giugno è stata forse la giornata più intensa del festival: abbiamo avuto la sessione mattutina dei workshop a Palazzo Palmieri con Vincenzo Gioia e il suo workshop dal titolo Get started on improvisation, Aldrine Guerrero con These are a few of my favorite riffs e Calico con The magic technique-SWAY; e quella pomeridiana con Davide Donelli e il suo Strumming! Idee per un’esecuzione storicamente informata, Cathy Fink con Clawhammer Ukulele e Marcy Marxer con Motown Jam.

L’immancabile Parata del sabato ha un itinerario diverso, partendo da Piazza Garibaldi per arrivare al teatro Radar, dove ci aspetta il concerto di Giovanni Albini, straordinario performer di musica classica interpretata con l’ukulele nonché docente di teoria, ritmica e percezione musicale (dobbiamo ringraziare Albini se l’ukulele è entrato al Conservatorio); e Francesco Verginelli, liutaio romano che costruisce ukulele dal suono elegante e dalla grande personalità.

Arriviamo all’apice della manifestazione, almeno dal mio punto di vista, con una scaletta di artisti, per il concerto in piazza, superlativa. Il duo Cathy Fink & Marcy Marxer delizia con un mix di atmosfere country, bluegrass e jazz, il tutto arricchito da una delle tecniche più interessanti e purtroppo meno eseguite sull’ukulele per la sua oggettiva difficoltà: il Clawhammer. Questa tecnica arriva dal banjo e la sua particolarità è quella di sfruttare, proprio come fa il banjo appunto, la corda di Sol dell’ukulele, che in gergo è definita “rientrante” perché accordata un’ottava sopra rispetto a come ci si aspetterebbe in uno strumento a corde con quegli intervalli di note, per eseguire ritmi e melodie tipiche del Traditional Folk Americano.

Jedbalak, secondi solo in ordine di scaletta, offrono al pubblico un raffinato pot-pourri di melodie dal sapore mediterraneo che colloca il festival in una dimensione propria, che gli appartiene. Le musiche, sapientemente interpretate dalla band calabro-marocchina, sono un’immersione totale nell’habitat del Sud Europa. Il frontman della band inebria con i suoi vocalizzi da brividi e il suono del guembri, strumento a tre corde di origine nordafricana, un basso percussivo che sa di terra, di radici, che suona all’altezza del primo chakra e muove i nostri istinti primordiali.

Il gran finale è affidato a quello che per me è il miglior ukulelista al mondo (assieme a James Hill), Aldrine Guerrero, che, accompagnato dal suo “Partner in Crime” Aaron Nakamura, offre uno show semplicemente straordinario. Tecnica, interpretazione, timing, Aldrine ha tutto, persino una bellissima voce: soave, delicata, che arriva al cuore. E poi Aaron Nakamura! Che chitarrista! l’ho definito a fine concerto, andando a dirglielo di persona, un “metronomo umano” per la sua capacità di tenere il tempo. Si sa, dal vivo succede: i musicisti tendono a velocizzare o rallentare la velocità dei brani; e invece lui procede dritto come una freccia! I due artisti concludono il loro spettacolo invitando sul palco i due giovani prodigi Evan J. De Silva e Feng E, e il finale è da fuochi d’artificio. Poi di nuovo una Jam session al Mezzopieno a Monopoli, e le ore si fanno sempre più piccole.

L’ultimo giorno di festival inizia con un’altra serie di interessantissimi workshop: Patrìcia Lestre (P I S C O) con One hour, one flower, one song, una surpresa!, Francesco Verginelli con Exploring Ukulele Acoustics: Understanding Your Instrument e Victor Jofre con South pacific ukulele.

Quasi in contemporanea nella Chiesa di San Pietro avviene una delle cose meno prevedibili, il progetto Organetto a cUkù, un altro riuscitissimo esperimento di mescolanza di musiche e culture con lo scopo di far ballare a tutti, ma proprio a tutti (me compreso!), una serie di danze popolari, in coppia e in cerchio, delle tradizioni di tutto il mondo.

Ammetto di essermi poi posto la domanda: “Si può fare un Open Mic di quattro ore?” La risposta è sì: al Monopolele si può! Incredibile! La lista dei nomi per prenotare i propri 7 minuti era lunghissima e le esibizioni davvero interessanti. Dalle 14 alle 18 nella stessa chiesa l’ultimo palco aperto del festival è stato un successo! E c’è stato spazio anche per un laboratorio di ukulele rivolto ai più piccoli a Palazzo Palmieri, Ukulele for Kids.

Arriva il tempo dell’ultima parata e, mentre si attendono i ritardatari in loco, c’è l’uomo giusto, nel posto giusto, al momento giusto: Lorenzo Vignando, in Arte Ukulollo, che intrattiene il pubblico con la sua straordinaria verve da vero showman, con canzoni semplici, con pochi accordi che possono suonare tutti, e ci conduce al Porto Vecchio per l’ultimo grande ritrovo e la foto di rito.

La serata finale di concerti apre con i Rhomanife, un piacevole fuoriprogramma: infatti, la band non era in scaletta. Una sorpresa che gli organizzatori hanno voluto fare ai Monopolitani, probabilmente per via della loro provenienza. La Reggae Band, infatti, vanta un glorioso passato nell’underground barese e suona musica energica, fatta di testi profondi e ricercati; hanno una grande personalità, la cosa che personalmente apprezzo di più in un collettivo musicale.

Tiene alta l’energia della piazza il duo Pisco dal Portogallo, ukulele e fisarmonica che allietano con musiche evocative della loro terra, con quel velo di malinconia propria della musica portoghese, ma anche piena di ritmi suadenti. Una voce calda, profonda e penetrante, ricca di basse frequenze fa vibrare le membra e accompagna in un viaggio ai confini del mondo!

Ci spostiamo a Est e andiamo in Georgia con il Trio Mandili, gruppo prettamente vocale che si accompagna con il Panduri, strumento a tre corde originario del Caucaso che si utilizza nella musica folk e nelle canzoni popolari. Ed è proprio questa la caratteristica principale del gruppo tutto al femminile: l’esecuzione di brani popolari tipici del loro paese del quale, a giudicare dall’outfit e dalla presenza di alcuni loro conterranei con bandiere sventolanti, vanno particolarmente fiere. Il loro sound è unico, le loro voci toccano tutti i registri e alcune coreografie appena accennate hanno tantissima affinità con la nostra tarantella e la pizzica.

Si chiude in bellezza come si è aperto, con il dinamico duo inglese Peter Moss-George Elmes di cui si è già parlato, anche se questa volta la performance raggiunge livelli di tecnicismo notevoli e molto apprezzati dalla folla: una chiusura degna di un festival praticamente perfetto. L’ultima Jam ha il sapore amaro degli addii, anche se rimane comunque una festa.

Il Monopolele si candida, e forse lo è già, ad essere uno dei migliori festival di ukulele in Europa. Non solo, ma aver accolto quest’anno altri strumenti cordofoni, parenti dell’ukulele, ha portato la manifestazione a un altissimo livello. Mi sento di dire che non ha nulla da invidiare ad altri festival musicali non settoriali.

E poi c’è l’aspetto più importante, a mio modo di vedere, che è quello di aver dato, attraverso le tantissime iniziative, quel senso di Community che è proprio del mondo dell’ukulele italiano, anzi europeo. Ho avuto la possibilità da una decina d’anni a questa parte di vedere alcuni uke Fests in Italia e in Europa, e quello che ti rimane quando torni a casa è quel senso di appartenenza, di fratellanza, di coesione e di non competizione che sta dietro all’universo di questo piccolo grande strumento.

Una volta un tizio abbastanza famoso disse più o meno così: «Ognuno dovrebbe avere e suonare un ukulele, è così semplice che puoi portarlo con te ed è uno strumento che non puoi suonare senza ridere! È molto dolce e anche molto antico. […] Io lo adoro ‒ più siamo, meglio è ‒. Chiunque io conosca che possiede un ukulele è un “matto”. Quindi prendetene un po’ e divertitevi».

Quel tizio si chiamava George Harrison.

(fasc. 52, vol. II, 3 giugno 2024)

Troppo rumore per nulla. Qualche nota sulle canzoni del Festival di Sanremo 2024

Author di Massimo Scotti

In occasione dei funerali di Vittorio Emanuele di Savoia, il 10 febbraio 2024, una cronista del canale televisivo La7 così commentava: «Fa un po’ strano sentir parlare di titoli nobiliari ancora nel 2024». Casualmente, la giornata coincideva con la finale del Festival di Sanremo. Il caso ha spesso una sorridente ironia, e lo dimostra mettendo in atto un principio esoterico fra i più enigmatici e suggestivi: “Riunire ciò che è sparso”. Cosa si può indovinare, o dedurre, dal presentarsi di una simile coincidenza? Forse un fatto piuttosto semplice e sotto gli occhi di tutti: la tradizione è finita. O almeno tende a scomparire. A nascondersi. O a dissimulare il proprio aspetto sotto mentite spoglie.

La giornalista, piuttosto giovane, che si stupisce sentendo ancora parlare di titoli nobiliari, oggi, rivela una certa ingenuità. E sicuramente uno scarso senso della storia – ma è l’assenza di consapevolezza che atterrisce. La medesima assenza di consapevolezza che traspare dai motivi festivalieri, e che si avverte ancor prima dell’ascolto iniziale, nella lettura dei testi delle canzoni; verrà confermata, successivamente, dopo che i brani in gara sono stati interpretati, ripetuti, registrati e trasmessi più e più volte, da ogni mezzo di comunicazione, sempre più ossessivamente.

Come insegna a fare Michel Foucault, sento l’esigenza di definire chi è l’autore di questo discorso, a scanso di equivoci. Si tratta di una persona non più giovane, nata all’inizio degli anni Sessanta, che forse può almeno in parte compensare la propria ignoranza di tecnica musicale con un’assidua attenzione durata sei decenni per la manifestazione canora; tale persona è comprensibilmente in grado di valutare più i testi dei brani che le loro forme melodiche, e comunque solo da appassionato e dilettante. A sua discolpa può dire di conoscere almeno un poco la tradizione poetica occidentale e (anche solo per motivi anagrafici) la storia recente del costume italiano; è da queste premesse che si accinge a tentare una breve analisi, sapendo già quanto potrebbe apparire azzardata.

Sempre chi scrive qui fa appello a una generosa epoké, la sospensione del giudizio che sola può rendere libera ogni valutazione.

Un meraviglioso storico dell’arte come Roberto Longhi amava la canzone popolare e Marcel Proust la difese con parole celebri:

Detestate la cattiva musica, non disprezzatela. Dal momento che la si suona e la si canta ben di più, e ben più appassionatamente, di quella buona, molto di più di quella buona si è riempita a poco a poco del sogno e delle lacrime degli uomini. Consideratela per questo degna di venerazione. Il suo posto, nullo nella storia dell’Arte, è immenso nella storia sentimentale della società. Il rispetto, non dico l’amore, per la cattiva musica non è soltanto una forma di quel che si potrebbe chiamare la carità del buon gusto, o il suo scetticismo, è anche la coscienza dell’importanza del ruolo sociale della musica. Quante melodie, di nessun pregio agli occhi di un artista, fanno parte della schiera dei confidenti preferiti dai giovanotti sentimentali e dalle innamorate! Quante “Anelli d’oro”, quante “Ah! resta a lungo addormentata”, le cui pagine vengono sfogliate ogni sera, tremando, da mani giustamente celebri, bagnate dagli occhi più belli del mondo con lacrime di cui il più puro maestro invidierebbe il malinconico e voluttuoso tributo – confidenti ingegnose e ispirate che nobilitano il dolore ed esaltano il sogno e che, in cambio del segreto ardente che viene loro confidato, offrono l’illusione inebriante della bellezza! Come il popolo, la borghesia, l’esercito, la nobiltà, hanno gli stessi postini, portatori del lutto che li colpisce o della felicità che colma i loro cuori, così hanno gli stessi messaggeri d’amore, gli stessi confessori prediletti. Sono i cattivi musicisti. Un certo ritornello insopportabile, che ogni orecchio nobile e raffinato si rifiuta all’istante di ascoltare, custodisce dentro di sé i tesori di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite, di cui fu la viva ispirazione, la consolazione sempre pronta, sempre aperta sul leggio del pianoforte, la grazia sognante e l’ideale. Certi arpeggi, una certa “ripresa” hanno fatto risuonare nell’anima di chissà quanti innamorati, di chissà quanti sognatori le armonie del paradiso o la voce stessa dell’amata. Uno spartito di mediocri romanze, consumato per aver troppo servito, ci deve commuovere come un cimitero o come un villaggio. Che importa che le case non abbiano stile, che le tombe spariscano sotto le iscrizioni e gli ornamenti di cattivo gusto. Da questa polvere può levarsi in volo, davanti a una immaginazione abbastanza benevola e rispettosa per mettere a tacere un istante la sua alterigia estetica, lo stormo delle anime recanti nel becco il sogno ancora verde che faceva loro presentire l’altro mondo, e le induceva a gioire o a piangere in questo[1].

A dar ragione a Proust è Mathilde Bauchard, indimenticabile protagonista del film di Truffaut La Femme d’à côté, interpretata da Fanny Ardant, quando, in ospedale e in preda a una grave depressione, riceve la visita dell’uomo che ama disperatamente, Bernard Coudray (un inarrivabile Gérard Depardieu). «Non faccio niente tutto il giorno», dice Mathilde, trasognata e dolente. «Ascolto solo le canzoni. Sono stupide, ma dicono la verità: ‘Ti amo, non posso perderti. Non posso vivere senza di te’. Che altro c’è da dire?»[2].

Possiamo concordare ancora? Le canzoni “dicono la verità”? La dicono sinceramente, interpretando il nostro sentire odierno o del passato? E come la dicono?

Prendiamo un brano a caso, quello proposto dal cantante Alfa:

Mi han detto che il destino te lo crei soltanto tu

Vai a tempo col respiro e se corri ne avrai di più

[…] Mi han detto se ti senti così vivo

Non guardarti indietro mai e vai uh uh[3]

Un certo ottimismo americaneggiante è all’origine di queste concezioni, di abbagliante superficialità e di profonda pericolosità. Quindi, se ti va male, puoi incolpare solo te stesso; se «vai a tempo col respiro e corri», ne avrai di più: ma di cosa? Di destino, di tempo, di respiro? L’inserto affannoso («Uh uh») farebbe propendere per la terza ipotesi, ma, in sostanza, che cosa vuole dirci Alfa?

Mi han detto tempo al tempo

E non avere fretta più

Ricordo che cantavo disteso nel letto

Sognandomi cantare ma dentro un palazzetto[4]

Una considerazione che in parte contraddice le precedenti: ora c’è un saggio richiamo alla calma, al dominio dell’irrequietezza: «Tempo al tempo, non avere più fretta». Ma l’affermazione successiva è più interessante, in quanto mitopoietica: il successo, il destino agognato, è l’esibizione «in un palazzetto» (si suppone: dello sport). Il cantante sogna sé stesso acclamato da un pubblico, mentre fa quel che sta facendo in quello stesso momento sul palco dell’Ariston: metascrittura? O addirittura mise en abyme? Qualcosa induce a supporre che l’autore ignori simili concetti: la letteralità del suo messaggio, che disdegna le sfumature, per esempio.

Il brano si conclude con un monito piuttosto sensato: «Se stai via dalla strada e via dai guai / Tu non guardare indietro mai e vai». In questa filosofia contemporanea un po’ d’accatto, risuona dopotutto il buonsenso dei nonni.

Alfa, che invita a «non guardare indietro», sarebbe il primo a stupirsi di questa considerazione, che troverebbe forse offensiva. Ma il perbenismo dei nostri tempi è reso evidente dal confronto con un altro invito, quello offerto dalla star nazionale e internazionale Loredana Bertè, che in passato spronava proprio a confrontarsi con “la strada”:

Mentre la chitarra suona ancora un po’

Esci per la strada e scendi giù in metro

Così scoprirai

Che

Rinchiusi in una stanza non si vince mai[5]

Quest’anno, proprio la cantautrice ha ottenuto il Premio della Critica per il brano Pazza, interpretato come un inno alla libertà individuale e a un’idea di gran moda: l’autodeterminazione femminile. Niente di male, anzi. Forse si potrebbe obiettare che però questo fondamentale messaggio è espresso con una certa corrività facilona che caratterizza anche un film di successo basato su temi analoghi: C’è ancora domani di Paola Cortellesi (2023). Ecco l’esordio della canzone premiata:

Sono sempre la ragazza

Che per poco già s’incazza

Amarmi non è facile

Purtroppo io mi conosco

Ok ti capisco

Se anche tu te ne andrai via da me

Col cuore che ho spremuto come un dentifricio

E nella testa fuochi d’artificio

Adesso vado dritta ad ogni bivio

Va bene sono pazza che c’è che c’è[6]

Il testo è annoverabile fra i peggiori di Loredana Bertè, che ha interpretato e anche composto, invece, dagli anni Settanta del Novecento, canzoni intelligenti e visionarie, dotate di una certa ispirazione lirica scabra e fantasiosa, con caratteri di originalità molto frequenti, che riaffiorano qui solo sporadicamente, in immagini non ancora del tutto viete ma certo più pallide e prevedibili di un tempo: «Io cammino nella giungla / Con gli stivaletti a punta / E ballo sulle vipere»[7]. Si nota però, e questo va detto, una certa attenzione per la metrica che rende il testo – anche solo scritto e non cantato – apprezzabile da un punto di vista ritmico, ma niente di più: si tratta di un manifesto sociopolitico, un elenco di slogan, privo di una qualsivoglia ricerca stilistica; un tipo di discorso piattamente “denotativo” che ha ben poco di “connotativo” (e questo vale, purtroppo, per la quasi totalità delle canzoni sanremesi di quest’anno).

Quando, anzi, si ricerca un tipo di linguaggio più metaforico, si frana facilmente, e disperatamente, nella goffaggine. L’esempio tipico è quello di uno fra i brani più osannati, e incredibilmente fatti oggetto di qualche riflessione esegetica, cioè Tuta gold di Mahmood:

Soffrire può sembrare un po’ fake

Se curi le tue lacrime ad un rave

Maglia bianca, oro sui denti, blue jeans

Non paragonarmi a una bitch così

Non era abbastanza noi soli sulla jeep

Ma non sono bravo a rincorrere

5 cellulari nella tuta gold

Baby non richiamerò

Ballavamo nella zona nord

Quando mi chiamavi fra

Con i fiori fiori nella tuta gold

Tu ne fumavi la metà

Mi passerà

Ricorderò i gilet neri pieni di zucchero

Cambio numero

[…] Dov’è la fiducia diventata arida

È come l’aria del Sahara

Mi raccontavi storie di gente senza dire mai il nome nome nome

Come l’amico tuo in prigione ma

A stare nel quartiere serve fottuta personalità

Se partirai dimmi tua madre chi la consolerà

[…] Mi hanno fatto bene le offese

Quando fuori dalle medie le ho prese e ho pianto

Dicevi ritornatene al tuo paese

Lo sai che non porto rancore

Anche se papà mi richiederà

Di cambiare cognome[8]

L’acclamatissimo brano ha senza dubbio, all’ascolto, un ritmo incalzante, al punto da diventare fastidioso. Il linguaggio, però, è davvero imperdonabile. Certo alcune allusioni alla strettissima contemporaneità, agli ambienti della tossicodipendenza, al mondo dei rave e in generale alla socialità giovanile possono apparire trasparenti alle nuove generazioni, comunicare con loro e persino affascinarle (come diceva Paul Valéry, «le moderne se contente de peu»). Si teme però che, una volta decriptato, questo artificioso linguaggio non si mostri in grado di esprimere altro che situazioni piuttosto scontate. Dietro le espressioni più lambiccate, la canzone reitera temi tipici affrontati dall’interprete fino a rischiare la monotonia. Il difficile rapporto con il padre, le preoccupazioni per la madre, la sensazione di estraneità a un mondo che esclude. Davvero, non si è già abbastanza sentito? E chi “non le ha prese, fuori dalle medie”? Per un motivo o per l’altro, alzi la mano chi non è stato vessato nel momento più drammaticamente conflittuale della vita di ciascuno (bianco o nero, etero oppure omosessuale, maschio o femmina, indigeno o straniero, asino o secchione, ce n’è sempre stato per tutti, e per i motivi più disparati).

Affiora un problema critico molto attuale in questi tempi: un messaggio viene apprezzato in quanto tale, e mai per l’aspetto stilistico che assume per la sua trasmissione (“se” arriva ad assumerla). Non si discute qui dell’importanza sociale di rivendicazioni, afflati libertari, proclamazioni di diritti, ricerca di giustizia collettiva e individuale, espressioni di problemi sommersi, anche molto gravi. No. Si deve considerare – se consideriamo la canzone popolare una forma d’arte – il suo aspetto artistico, formale, lirico, in una parola: “poetico”. Un canto popolare italiano divenuto internazionale come Bella ciao[9], per intenderci, ha un suo valore stilistico dato dall’intreccio delle immagini, dal tono accorato che lo contraddistingue, dall’emozione che suscitano i suoi versi semplici, diretti, ma anche “formalmente” significativi, proprio per la sobrietà con cui viene espressa la situazione drammatica del motivo, ormai divenuto emblematico degli aneliti alla libertà, alla pace, alla speranza di ogni popolo oppresso.

Le canzoni sanremesi dell’edizione 2024 appaiono, da tale punto di vista, estremamente povere. Un esempio è il brano proposto da BigMama, che andrebbe citato per intero:

Se potessi andare indietro ti darei una casa vera in cui dormire

Se anche fossi solo vetro ti coprirei per strada e mi farei colpire

Spalle larghe, la testa sopra ma i sogni ancora più in alto

Parole tante, ma poi strappate da ciò che diceva un altro

Pochi anni ma tanti sbagli che manco facevi tu

Li nascondevi tra lacrime d’odio che riempiva i tuoi occhi blu

Coi pugni stretti e i pensieri fragili, guardati adesso

Crollavi sempre anche con basi stabili, ma ora detesto

Pensare a me come a una di quelli lì, che ci hanno perso

Pezzi di loro per darne agli altri

Pezzi di cuore come gli scarti

Guarda me

Adesso sono un’altra

La rabbia non ti basta

Hai cose da dire

Se ti perdi segui me

Quel vuoto non ti calma

È il buio che ti mangia e non ti fa dormire

Animo buono ma riempito d’odio

Per far testa a quello degli altri

Più di un colpo d’arma da fuoco

E ti restava solo incassarli[10]

Il resto procede su questo tono, in frasi quantomeno abborracciate, metafore oscure, parecchie catacresi, ovvietà a dismisura, lessico da verbale dei carabinieri (quei «colpi d’arma da fuoco») o da testo pubblicato presso “case editrici” a pagamento (perché nemmeno in un tascabile offerto come allegato di «Confidenze» sarebbe più ammissibile una frase come «Tra lacrime d’odio che riempiva i tuoi occhi blu»).

Fatto sta che la canzone è stata dapprima selezionata e poi santificata perché dovrebbe esprimere rabbia e coraggio, nonché la rivincita di una ragazza sovrappeso che riesce finalmente ad accettare il proprio corpo (e non vuole sottoporsi all’umiliazione di una dieta). Il tema è fra i più attuali e, di nuovo, la rivendicazione più che legittima: la costrizione capitalistica alla magrezza ha dato luogo a disturbi non solo alimentari ma anche psicologici e psichiatrici di ogni tipo; ma questo non basta: il testo della canzone, in sé, è scadente.

E si salva ancora rispetto ad altri brani, nemmeno giustificati da un qualunque intento ideologico:

Serve un’idea

Continentale

Vorrei parlarti e mi vergogno come un cane

Tu aspetti il treno

Io al cellulare

Non trovo l’asso da giocare

Ma ormai, ai, ai

Lo sai che quando pensi di star bene poi ci rimani sotto

E lo sai, l’amore non si può cantare in una strofa da otto

È uguale, però sento la pelle bruciare, eh

Tanto con te rischio male, eh

Ma se mi guardi così

Se mi guardi così

(Sempre la stessa storia)

Chi non avesse riconosciuto la canzone, individuerà sicuramente il nuovo successo dei Kolors dal martellante ritornello, che ci perseguita ormai da mesi con la sua vacuità:

Un ragazzo

Incontra una ragazza

La notte poi non passa

La notte se ne va[11]

Qui non c’è neanche più il trovarobato psichedelico, tecnologico, malinconicamente urbano del goffo testo di Mahmood, i cascami di altri brani più o meno “rivoluzionari” misti a lacerti di frasi e citazioni risapute dal cantautorame più epigonico (come nella ballata di Fiorella Mannoia), il nonsense poco riuscito di Governo punk del gruppo BNKR44, ma poco più di un intarsio di parole a caso, posticce, grezze, che sembrano scelte apposta per apparire ancora più insignificanti. Al confronto, si direbbe studiata una freddura contenuta in Onda alta di Dargen D’Amico: «Non lo conosci Noè? / No, eh?»[12].

Un’immagine ricorre curiosamente in due canzoni, a suggellare la sofferenza che provoca l’ascolto dei testi “intonati” sul palco: «Una corona di arancio e di spine» (Fiorella Mannoia); «Una corona di spine sarà il dress-code per la mia festa» (Angelina Mango).

Il brano vincitore della scorsa edizione del Festival si intitola significamente La noia. Potrebbe assumere una dimensione simbolica:

Quanti disegni ho fatto

Rimango qui e li guardo

Nessuno prende vita

Questa pagina è pigra

Vado di fretta

E mi hanno detto che la vita è preziosa

Io la indosso a testa alta sul collo

La mia collana non ha perle di saggezza

A me hanno dato le perline colorate

Per le bambine incasinate con i traumi

Da snodare piano piano con l’età

Eppure sto una pasqua guarda zero drammi

Quasi quasi cambio di nuovo città

Che a stare ferma a me mi viene

A me mi viene

La noia

La noia

La noia

La noia

Muoio senza morire

In questi giorni usati

Vivo senza soffrire

Non c’è croce più grande

[…] È la cumbia della noia

È la cumbia della noia

Total

[…] Quanta gente nelle cose vede il male

Viene voglia di scappare come iniziano a parlare

E vorrei dirgli che sto bene ma poi mi guardano male

Allora dico che è difficile campare

Business parli di business

Intanto chiudo gli occhi per firmare contratti[13]

Si potrebbe se non altro riconoscere agli autori del testo una certa preveggenza, se non si ascoltassero le voci diffuse che ogni anno considerano i giochi già fatti in partenza: la figlia del vero, grande cantautore Pino Mango, autore – lui sì – di testi delicati e intensi, è destinata almeno per l’anno in corso a numerose comparsate in svariati programmi televisivi, ma anche a furoreggiare sui social media per un periodo che sarà breve o lungo a seconda del suo grado di resistenza e testardaggine.

Su tutti gli altri testi il silenzio è carità: non ci resta che azzardare qualche considerazione generale. La lunga storia del Festival della canzone italiana, giunto quest’anno alla sua settantaquattresima edizione[14], ha conosciuto momenti migliori e versi più suggestivi, escludendo il periodo della conduzione da parte di Amadeus, che dal punto di vista estetico ha toccato le punte più basse. Un giovanilismo diffuso e piuttosto scriteriato ha guidato la scelta di motivi pacchiani, presentati con più attenzione per la stravaganza degli abiti dell’interprete che per la resa artistica; in sostanza, contavano molto meno i brani in sé rispetto all’esigenza spettacolare di far esplodere infime polemiche e risibili scandali.

Per concentrare l’attenzione sui testi, invece, partendo soltanto da quelli della presente edizione, si può dire che sono espressione diretta della diffusa “disabitudine alla poesia” che caratterizza i tempi odierni; questo tema viene affrontato con solerzia, e con il coraggio tipico dell’autentica ispirazione critica, da un saggio raro per acume e pugnace sprezzo del pericolo: Se una notte d’inverno, di Carlo Donà (2022).

L’autore delinea un panorama complesso e articolato di un fenomeno allarmante quale “il tramonto della cultura del libro”, e del valore letterario in genere, in cui l’incapacità di comprendere e apprezzare il testo poetico svolge un ruolo determinante e perciò non trascurabile. Donà cita – fra le più eterogenee fonti – le divertentissime pagine dei Diari minimi di Umberto Eco, in cui si immaginava una conferenza sulla letteratura italiana del XX secolo, tenuta in un futuro lontanissimo sulla scorta di pochi frammenti dispersi di una civiltà cancellata:

Troviamo un senso di disperazione, di lucida coscienza della crisi, come in questa spietata rappresentazione della solitudine e della incomunicabilità che forse, se dobbiamo credere a quanto l’Enciclopedia britannica dice di questo autore, dobbiamo ascrivere al drammaturgo Luigi Pirandello: “Ma Pippo Pippo non lo sa / che quando passa ride tutta la città”[15].

Carlo Donà commenta: «Certo, l’idea che fra qualche secolo i frammenti delle canzoni più corrive e commerciali […] possano essere scambiati per versi di poesie ci fa sorridere»[16]. Forse c’è poco da sorridere; forse succederà di peggio. Forse le composizioni che oggi possiamo considerare deteriori diventeranno un modello per l’arte di domani, perché, se questi sono gli unici esempi di “poesia” offerti alle generazioni che verranno, le speranze di formare il gusto del futuro si riduce al minimo.

«Possiamo innanzitutto dire che il valore letterario di un testo è, almeno in parte, una funzione storica, al pari di altri suoi caratteri, come il valore documentario o sacrale»[17]. Di certo però, come spiega Donà nelle pagine iniziali del suo saggio, non si può far dipendere questa caratteristica peculiare del testo dal suo successo commerciale: tale visione concepisce qualunque opera come un semplice – e spesso trito – prodotto dell’industria culturale; questo meccanismo ormai ampiamente consolidato premia abitualmente esemplari conformisti, preconfezionati e scadenti di malintesa “letterarietà”. In sintesi, spiega l’autore, se è il pubblico a decretare il valore di un’opera, per poter considerare “oggettivo” tale valore, bisognerebbe prima valutare le capacità di scelta del pubblico medesimo (dato che la critica sembra voler rinunciare progressivamente all’esercizio di tale potere).

Per ricondurci alle nostre responsabilità di adulti, non ci dovremmo, in sostanza, arrendere all’idea che “questa canzone piace anche ai bambini”, specialmente se non siamo più bambini. Manca oggi, come spiega Donà, una precisa educazione al gusto (letterario, poetico) che consenta di distinguere certi tratti irrinunciabili del testo lirico, primo fra tutti la sua intrinseca musicalità: «Se leggiamo, a caso, qualche composizione di poeti italiani contemporanei, non possiamo non notare, credo, come di tutto ciò che dava alla poesia una dimensione propriamente musicale si sia persa ogni traccia»[18].

L’autore di Se una notte d’inverno aggiunge: «Far poesia oggi in Italia significa sfornare testi caratterizzati dal fatto di vertere su temi di adolescenziale drammaticità, in cui il discorso lirico procede, con un imbarazzante sfoggio di sentimenti ‘alti’, al di fuori di ogni vincolante congruenza logica»[19].

Se questi sono gli esempi che propone attualmente l’orizzonte poetico nazionale, non possiamo certo aspettarci dalle canzoni sanremesi scintillii lirici o ardimenti sperimentali; il discorso, ovviamente, vale per “queste” poesie come per “alcuni” autori contemporanei molto pubblicizzati, che hanno se non altro il merito di affrontare le diffidenze degli editori che – coralmente – trascurano la poesia, con le rare eccezioni di alcune collane dal prestigio ormai consolidato («Lo specchio» mondadoriano, la «Collana bianca» Einaudi ecc.).

Se autori classici come Francesco De Gregori, Ivano Fossati, Francesco Guccini si ispiravano spesso, più o meno apertamente, alla migliore tradizione poetica occidentale, oggi i parolieri sanremesi non ritengono opportuno farlo; oppure non sanno a chi appellarsi? La poesia svanisce dagli scaffali delle librerie e, di conseguenza, dall’attenzione di un pubblico sempre più distratto. D’altra parte, come spiega Carlo Donà,

scrive poesia, oggi, chi scrive strano, andando a capo in modo incongruo, o affastellando frasi dalla sintassi incerta e dai nessi scardinati, in cui sia evidente ed esibita una forte soggettività espressiva. Il fenomeno della scomparsa della lirica dal panorama culturale medio a me pare dei più imponenti: anche se, come tutte le cose davvero importanti, è avvenuto nascostamente e in silenzio. La poesia, e la lirica in particolare, è stata, in una tradizione millenaria, il deposito sacro della bellezza della parola, il tesoro del senso, il piacere del gioco, la nostalgia di una lingua pura e perfetta, in cui forma e contenuto si cristallizzano in unità assoluta e limpida, per dispiegarsi nel canto […]. Anche la tradizione popolare e dialettale aveva un patrimonio lirico altrettanto ricco e, a suo modo, non meno illustre, che senza dubbio per millenni ha svolto tra gli indotti la stessa funzione che la poesia lirica ricopriva tra i pochi lettori di libri […]. Mezzo secolo di società (televisiva) dei consumi è bastato per fare piazza pulita di cinque millenni di bellezza e di grazia […]. Personalmente, ritengo che la poesia sia scomparsa anche perché non sappiamo più leggere i testi poetici; e non sappiamo farlo appunto perché non abbiamo più, nei loro confronti, la giusta dose di attenzione[20].

In un diorama di rovine culturali come quello così dolorosamente descritto, forse è stata data, qui, fin troppa importanza a fenomeni caduchi e insignificanti come i tesi delle canzoni di un festival che verrà presto dimenticato. Ma rileggere le parole di Proust sulla musica popolare del passato, e pensare al loro significato profondo, non può che far riflettere su certi aspetti anche minori e trascurabili di un tempo che dopotutto ci appartiene e non può fare a meno di condizionarci. Sono piccoli segnali che richiedono l’attenzione a cui ci richiama l’autore di Se una notte d’inverno. Che è più che mai, per chi riesce ancora a essere consapevole del presente, the winter of our discontent.

  1. M. Proust, Les Plaisirs et les jours [1896], trad. it. e cura di Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco, I piaceri e i giorni, premessa di Anatole France, introduzione di Mariolina Bertini, note e commento di Luzius Keller, illustrazioni originali di Madeleine Lemaire, Milano, Mondadori, 2022, pp. 178-80.
  2. F. Truffaut, La Femme d’à côté, Francia, 1981, soggetto e sceneggiatura di François Truffaut, Suzanne Schiffman e Jean Aurel, produzione Les Films du Carrosse, in italiano La signora della porta accanto; con Véronique Silver, Fanny Ardant, Gérard Depardieu, Henri Garcin, Roger Van Hool et al.
  3. Il brano di Alfa si intitola Vai! ed è scritto da A. De Filippi (in arte Alfa, rapper ventitreenne), I. B. Scott, M. A. Jackson, A. De Filippi. La fonte più autorevole per quanto riguarda la trascrizione dei brani è il settimanale «Sorrisi e Canzoni TV», che da decenni pubblica i testi dei motivi sanremesi nella loro versione ufficiale, corretta e depositata (numero 7, 6 febbraio 2024, p. 24).
  4. Ibidem.
  5. Il brano è Movie, di O. Avogadro e B. M. Lavezzi (1981).
  6. Da Pazza, di L. Bertè, A. Bonomo, L. Chiaravalli, A. Pugliese, in «Sorrisi e Canzoni TV», op. cit., p. 36.
  7. Ivi, p. 37.
  8. Da Tuta gold, di J. Ettorre, A. Mahmood, F. Catitti, J. Ettorre, A. Mahmood, ibidem. A proposito di esegesi del testo: all’ascolto «gilet pieni di zucchero» suonava come “cileni pieni di zucchero”, e molto si è disquisito circa l’enigma di questa immagine criptica, ma più che altro grottesca.
  9. Per quanto riguarda la misteriosa e controversa storia di questa canzone, cfr., tra i contributi più recenti: C. Pestelli, Bella ciao: la canzone della libertà, Torino, Add, 2016; C. Bermani, Bella ciao: storia e fortuna di una canzone dalla Resistenza italiana all’universalità delle resistenze, Novara, Interlinea, 2020; M. Flores, Bella ciao, Milano, Garzanti, 2020; R. Giacomini, Bella ciao: la storia definitiva della canzone partigiana che dalle Marche ha conquistato il mondo, Roma, Castelvecchi, 2021.
  10. Da La rabbia non ti basta, di M. L. Lazzerini, M. Mammone, E. Botta, E. Brun, in «Sorrisi e Canzoni», op. cit., p. 27.
  11. Da Un ragazzo una ragazza, di D. Petrella, An. Fiordispino, F. Catitti, D. Petrella, An. Fiordispino, Al. Fiordispino, ivi, p. 43.
  12. Ben cinque autori si sono impegnati per raggiungere l’altezza di questa composizione: Cheope, J. M. L. D’Amico, G. Fazio, S. Marletta, E. Roberts. Ivi, p. 29.
  13. La noia, di Angelina Mango, è firmata da Madame, A. Mango, D. Faini, Madame, A. Mango. Ivi, p. 25.
  14. Si possono consultare, sul passato festivaliero, alcuni volumi, fra cui S. Facci, Il Festival di Sanremo: parole e suoni raccontano la nazione, Roma, Carocci, 2011; C. M. Lo Martire, Festival: l’Italia di Sanremo, Milano, Mondadori, 2012; L. Campus, Non solo canzonette: l’Italia della ricostruzione e del miracolo attraverso il Festival di Sanremo, Firenze, Le Monnier, 2015.
  15. U. Eco, Diari minimi, Milano, Bompiani, 1963, p. 21.
  16. C. Donà, Se una notte d’inverno, Roma, WriteUp Books, 2022, p. 81.
  17. Ibidem.
  18. Ivi, p. 133.
  19. Ivi, p. 134 (si vedano, al riguardo, anche le pagine successive).
  20. Ivi, pp. 226-27. Questo richiamo finale all’attenzione non può che richiamare alla memoria le pagine penetranti che scriveva, al riguardo, Cristina Campo (cfr. Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987).

(fasc. 52, vol. II, 3 giugno 2024)

Recensione di Francesco Procopio, “I canti del Canonico” (Laruffa Editore 2023)

Author di Carmine Chiodo

A Rocco La Cava va il merito di aver reperito il manoscritto dei Canti, conservato nell’Archivio di Casa La Cava, e ancora a Rocco La Cava va il ringraziamento di Marianna La Cava (sorella di Rocco, entrambi figli del noto scrittore Mario La Cava) per aver contribuito all’esegesi del testo e per altri suoi preziosi consigli.

Dalla chiara e utile introduzione di Marianna la Cava si coglie quella che è la poetica del canonico Francesco Procopio, «nato a Bovalino in provincia di Reggio Calabria nel 1779». Vi viene illustrata assai bene la temperie culturale nella quale visse e operò il canonico dai cui versi, ben annotati e commentati, balzano fuori echi di altri autori: Tasso, per esempio; poi «rimandi all’Arcadia con un epitalamio dell’abate Pietro Metastasio»; movenze e reminiscenze appartenenti ai drammi pastorali di Giovan Battista Marino e del Guarini; come sono ancora còlti aspetti impetuosi ma talvolta tristi, «patetici», di natura «sturmeriana».

È, in seguito, messa bene a fuoco la formazione dell’abate Francesco che, «avendo a disposizione la fornita biblioteca di famiglia, […..] amplia la sua formazione culturale oltre i parametri teologici del Seminario» (Introduzione, p. 5). Egli, difatti, possedeva una vasta cultura classica, umanistica, e lo si deduce facilmente allorquando cita miti greci e latini che sono ripresi e trattati in modo creativo nei suoi versi, che richiamano alla mente «i vaporosi colori del ‘Trionfo dell’’Aurora’ di Guido Reni» (ibidem).

Come giustamente osserva Marianna La Cava, questi versi del Canonico sono «eleganti e rimandano a mondi ideali popolati da personaggi mitologici e a luoghi realistici in cui si svolge la vita quotidiana»; sono «versi raffinati e straordinari» come: «Desto, l’aligero / popol sonoro / Saluta il Nume, / Delle girevoli / Sfere, ineffabile / Gloria e decoro / [….] Giulivo a tendere / Torna le reti / il Pescatore / Nelle volubili / Region’ incognite / di Glauco, e Teti / Non è possibile / Provar l’incanto / Del dì che nasce / Senza disciogliere / Ebro di giubilo / La voce al canto / In sì sensibili / Momenti o cara / Scordo le ambasce / Che il sen mi squarciano / E lieta a vivere / L’anima impara».

Altri suoi armoniosi e scorrevoli versi sono inni alla bellezza che la natura ci regala, con frutti, fiori, momenti, ore, stagioni: «Bello è veder le fertili / Viti su’ colli aprici / Tutte disposte in ordine / E l’alme lor cervici / D’aurei racem’ involte / A’ sguardo altrui mostrar / [….] Evvi di Persia il frutice / Che ad assaggiarlo invoglia / Che di oro, e di porpora / Vanta tener la spoglia / Evvi il susin che prono / attende un rapitor / Evvi il rugoso, e lacero / Fico di ambrosia asperso / La Pera, l’odorifero / Popone, che diverso / Sapor conserva / e il dolce Granato di rubin / Allor che l’alba candida / L’estinta face alluma / Un garruletto Zefiro / I vanni suoi profuma / Nella rugiada, molce / Del dì nascente il Crin». Questi canti rispettivamente attengono a Il Mattino, Il Mezzogiorno, La Primavera, L’està; L’autunno, L’inverno; poi si leggono un Sonetto e un’Epigrafe che recita: «A Francesco Procopio Che Nella Città Di Oppido Ebbe Canonicato Cattedra fama Alla Studiosa Gioventù Maestro E Filologo Strenuissimo Spezzò Finché Visse Il Pane Della Sapienza Mancò Alle lettere Greche E Latine Il di 30 Luglio 1841 Di Anni 62 Giovambattista Fratello Questa Immagine dolentissima Fece».

Leggendo l’Introduzione all’opera, si vengono a conoscere altri aspetti e lati della personalità di questo coltissimo abate, che «fu maestro di Grammatica presso il Seminario di Oppido, in Calabria, dove già suo padre era stato maestro di umanità superiore ed eloquenza».

Francesco Procopio appartenne a un’illustre casata e si distinse negli studi umanistici e in quelli teologici, scientifici e giuridici. I suoi versi scorrono facili e immediati, e comunicano i suoi sentimenti e gli atteggiamenti, le emozioni che prova davanti agli spettacoli che di volta in volta gli offre la natura, di cui coglie certi aspetti che influiscono sul suo spirito: «Della stellifuga / Alba le sporte / Gigli e viole / Inaura, e agli esseri / La sua vivifica / Luce comporta» (da Il Mattino); «Cinta di tenebre / D’astri trapunta / Su cocchio di ebano / La notte spunta / Dal fosco margine / Occidental» (da La Notte); ed ecco La Primavera e L’està: «E in mezzo all’erba rorida / In mille spire avvolte / L’aspro torpor rimuovono / In cui giacean sepolte»; «Saprai mio ben che il fuoco / Del Crin che in Ciel fiammeggia / In paragone è poco / A quel che in me serpeggia / Saprai che il dì primiero / Che a me ti offristi, tacquero / Mie doglie, e nel pensiero / Altri desj mi nacquero».

Il canonico ha una personalità spiccata e un proprio programma di vita; ha ben compreso che «Bellezza e Gioventù sono concetti effimeri, ha scoperto che la vera consolazione proviene dalla vita contemplativa nel chiostro di un convento. Per don Francesco questo luogo ideale viene rappresentato dalla Certosa di Padula, a dispetto dei fatti che l’avevano vista teatro di grandi turbolenze con l’arrivo dei francesi, i quali nel 1806 avevano completato l’opera di spoliazione iniziata secoli prima».

In questi Canti del Canonico si gusta una dolce e musicalissima e delicata poesia, che scaturisce dall’intimo di chi l’ha composta.

(fasc. 51, 15 marzo 2024, vol. II)

• categoria: Categories Recensioni